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L’Anti-New Deal dell’Europa

Antonio Lettieri

Pesanti manovre di tagli persino in Germania dove sarebbe stato necessario e opportuno il contrario. La crisi viene utilizzata come un’occasione straordinaria per smantellare i sistemi di tutela sociale, deregolare ulteriormente il mercato del lavoro, attaccare i sistemi pensionistici pubblici

La scure dei tagli di bilancio si sta abbattendo su tutti i paesi dell’Unione europea. Non si tratta solo dei paesi del sud che si affacciano sul Mediterraneo, tradizionalmente considerati lassisti. Dopo la vittoria dei conservatori, il nuovo premier britannico David Cameron non ha tardato ad annunciare tagli che, secondo le sue affermazioni, peseranno per molti anni sul popolo inglese.  Ma, fra tutti, il taglio che ha suscitato maggiore scalpore non solo in Europa ma anche al di là dell’Atlantico è stato quello di 85 miliardi di euro entro il 2014 annunciato dalla cancelliera tedesca Angela Merkel.

Le ragioni di questo stupore sono di  due ordini. Il primo è che la Germania (insieme con l’Italia) proviene dalla più pesante caduta del reddito, circa il 5 per cento, fra i grandi paesi occidentali; da questo punto di vista, ci si poteva attendere una manovra puntata sulla crescita. Il secondo è che - stando ai dati più recenti della Banca centrale tedesca – il disavanzo di bilancio del 2010 sarà pari al cinque per cento, la metà di quello britannico e americano.

La somma di questi fattori faceva supporre ai commentatori economici internazionali una linea di politica economica, razionalmente plausibile, ispirata alla ripresa della domanda interna, in termini di investimenti pubblici e di consumi. Ma le cose sono andate in senso contrario.

La politica restrittiva della Germania, il motore decisivo della crescita dell’eurozona, si presenta in aperto contrasto con quella americana. Nel 2009,  Obama ha varato un pacchetto di rilancio dell’economia di oltre 700 miliardi di dollari – in aggiunta ai 700 che l’amministrazione Bush con Hank Paulson al Tesoro, aveva già varato per il salvataggio delle banche. Nei mesi scorsi, Obma ha sottoposto un’ulteriore pacchetto di “stimolo” alla crescita di duecento miliardi di dollari, poi ridotti a causa dell’opposizione repubblicana.

L’ala liberal del Partito democratico ed economisti di punta come Paul Krugman considerano le manovre di bilancio del presidente insufficienti in un quadro nel quale la disoccupazione continua a oscillare poco al di sotto del dieci per cento. Vorrebbero, in sostanza, una politica diretta alla crescita più audace. Il loro argomento “keynesiano” o, se si vuole di buon senso, è che solo una ripresa sostenuta della crescita può ridurre, in tempi ragionevoli, il peso del disavanzo (e del debito pubblico ) in relazione al prodotto interno lordo. In ogni caso, rimane il fatto che gli Stati Uniti si avviano a realizzare una crescita decente del prodotto interno lordo nel 2010, mentre la crescita continuerà ad agonizzare nell’eurozona.

La domanda che ci si pone a questo punto è semplice quanto intrigante. Perché le autorità di Bruxelles, sotto la pressione della Germania, stanno operando una politica di terrorismo finanziario che forza le politiche di bilancio in una direzione deflazionistica, che prolungherà per molti anni una situazione di quasi-stagnazione (e in molti paesi di aperta recessione) con pesanti conseguenze sull’economia reale e sull’occupazione?

La prima risposta potrebbe essere che siamo di fronte a una politica semplicemente sbagliata e autolesionista che, in futuro, gli storici non esiteranno a definire insensata, come è accaduto nei primi anni Trenta, sotto la regia del presidente americano Herbert Hoover che, ancora nel 1932, alla vigilia dell’avvento di Franklin Roosevelt, considerava lo squilibrio della finanza pubblica il maggiore problema americano.

Ma anche questa, benché per alcuni aspetti fondata, è una spiegazione che non coglie nel segno. Non si tratta di semplici errori. La politica economica in atto nell’eurozona non è cieca di fronte all’obiettivo della crescita e dell’occupazione. Segue un percorso diverso. La crisi è considerata un’opportunità da sfruttare per realizzare le “riforme di struttura” rimaste incompiute. Il caso spagnolo è emblematico.

Il governo spagnolo aveva annunciato un drastico taglio del disavanzo di cinque punti percentuali, per avviare il risanamento dei conti pubblici seguito alla recessione innescata dallo scoppio della bolla immobiliare. Una dura cura da cavallo che imponeva sacrifici e frenava la crescita. Ma alle autorità finanziarie comunitarie di Bruxelles non è bastato. Hanno  chiesto un ulteriore taglio di 15 miliardi di dollari al quale il governo spagnolo, sotto la minaccia incombente dei mercati finanziari che avevano già messo in ginocchio la Grecia, si è sottomesso, con una manovra di taglio del 5 per cento degli stipendi dei dipendenti pubblici e delle pensioni, che ha portato sull’orlo delle dimissioni il governo Zapatero salvatosi per in solo voto.

Ma nemmeno questo è bastato. E’ diventato evidente che, al di là delle questioni finanziarie, le autorità comunitarie volevano la riforma del mercato del lavoro considerato troppo rigido a causa del costo dei licenziamenti. Dinanzi a questa richiesta, e sotto la pressione dei mercati finanziari, il governo Zapatero ha elaborato sotto forma di decreto-legge una drastica riforma del mercato del lavoro che ha portato alla rottura con i sindacati, pure disponibili ad accettare un piano di austerità.

La riforma presentata dal governo spagnolo tocca tutti i punti della regolazione del lavoro. Ma al suo centro spicca, in forme malcelate, il cuore della questione: un contratto a tempo indeterminato, dopo un periodo di due anni di lavori temporanei con la stessa impresa – quello che in Italia viene proposto come “contratto unico” – all’interno del quale si attua una sostanziale liberalizzazione dei licenziamento, potendo le imprese addurre come “giustificazione” una gamma di motivi di carattere economico, tecnico e organizzativo praticamente illimitata.

Il caso spagnolo è un esempio trasparente delle “riforme strutturali” predicate nell’eurozona come terapia anti-crisi. Le manovre finanziarie di carattere deflazionistico non sono puramente dirette al rientro del disavanzo, altrimenti bisognerebbe distinguere fra i livelli di disavanzo, che variano da un paese all’altro, e i tempi di rientro a seconda della loro consistenza. Riassumendo l’orientamento prevalente a Bruxelles, Herman Van Rompuy, presidente dell’Unione europea, ha dichiarato al Financial Times: “I leaders europei hanno ora capito che per andare avanti è necessario realizzare politiche impopolari ma necessarie  come l’apertura dei mercati del lavoro e l’innalzamento dell’età pensionistica”.

In altri termini, la politica di deflazione, in sé irragionevole nel mezzo di quella che è stata considerata la più grave crisi dopo la Grande depressione, deve essere consapevolmente utilizzata come un’occasione straordinaria per smantellare i sistemi di tutela sociale, deregolare ulteriormente il mercato del lavoro, attaccare i sistemi pensionistici pubblici.

La manovra finanziaria del governo Berlusconi si colloca in questo quadro. Non è solo priva di misure in direzione di una ripesa della crescita e di lotta alla disoccupazione. Il blocco delle retribuzioni nel pubblico impiego segna un nuovo passaggio verso la disarticolazione della contrattazione collettiva nazionale. Il de-finanziamento di Regioni e Comuni contribuisce ad attaccare le forme di welfare molto rilevanti garantite dai servizi pubblici (sanità, istruzione, trasporti pubblici e via dicendo). La grottesca questione dell’allungamento dell’età pensionabile per le donne nel pubblico impiego inserisce un ulteriore elemento di rottura nella vecchia riforma delle pensioni. All’equivoca richiesta della Corte di giustizia e della Commissione europea si poteva rispondere rilanciando il criterio della flessibilità dell’età pensionabile senza differenze di genere, recuperando il criterio più innovativo e razionale della riforma del 1995. Si è invece profittato della confusione e dell’incerta risposta del Pd e di una parte del sindacato per introdurre un nuovo pezzo di “controriforma”.

La grande crisi degli anni Trenta diede luogo con il New Deal alla più grande riforma sociale della storia americana e a un passaggio storico nella civiltà dell’intero Occidente. Alla crisi attuale, l’Europa cerca di rispondere con una politica neo-conservatrice, un’Anti-New Deal.

I mercati finanziari sono sempre di più l’alibi per una politica che ha il suo fulcro in parte nella politica tedesca, ma più generalmente nelle politiche neoconservatrici dei governi di destra che dominano la scena europea. Politiche che rischiano di risolversi nella disintegrazione dell’euro e, nel migliore dei casi, nella marginalizzazione dell’Unione europea nelle nuove mappe della globalizzazione.

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