Print Friendly, PDF & Email

jacobin

Vogliamo tutto, o del coraggio d’immaginarsi compagni

di Beniamino Della Gala

Nanni Balestrini ha scritto il grande romanzo del lungo Sessantotto italiano. Ha raccontato la forza politica e l'epica dal basso di personaggi che da singoli diventano collettivi

vogliamo tutto jacobin italia 990x361Sono passati da quando Bompiani pubblicò, a cura di Aldo Nove,La Grande Rivolta (1999), volume che raccoglieva per la prima volta i tre romanzi politici di Nanni Balestrini, composti tra gli anni Settanta e l’inizio dei Novanta: Vogliamo tutto (1971), Gli invisibili (1987), L’editore (1989). Prima grande sistematizzazione in trilogia, in un ciclo epico, delle opere del poeta milanese, ed esplicitazione di ciò che chiunque avesse letto i romanzi già aveva intuito: quello di Balestrini è stato il tentativo coerente di una grande mitopoiesi dei movimenti del Sessantotto; dapprima nel vivo delle lotte e, in seguito, con l’amaro senno di poi degli anni Ottanta (gli odiati «anni di merda»), senza perdere in nessun caso né la rabbia né la forza di combattere su quel campo minato di narrazioni per dare vita a una contro-storia.

L’esordio politico, però – Vogliamo tutto: l’epopea di Alfonso, anonimo operaio-massa, guappo meridionale che, cercando al Nord la sua fetta della torta del boom economico, scopre la fabbrica, poi un istintivo rifiuto del lavoro, la lotta e la rivolta – mantiene ancora oggi dei caratteri di eccezionalità rivoluzionaria che forse vanno attenuandosi nelle opere successive, distaccate anche cronologicamente di più di un decennio. Per essere stato composto nel vivo delle lotte, appunto, e dunque per costituire un tentativo genuino di agit-prop attraverso una letteratura tanto screditata in quegli anni; e poi, grazie alle innovazioni formali, come la tecnica del cut-up per cui l’autore, registrata la viva voce degli operai della Fiat con il magnetofono, successivamente spezzettava e remixava in forma narrativa le frasi delle registrazioni per comporre un testo scritto.

Proporre Vogliamo tutto come grande romanzo del secondo Novecento – come il grande romanzo del lungo Sessantotto italiano – ha però in sé qualcosa di problematico. Nanni Balestrini qui scardina, corrode, ribalta dall’interno il romanzo.

Anzi, non contento, ci inganna; perché costruisce quello che a prima vista sembra un semplice racconto di formazione e che in realtà è tutt’altro. Del resto, come riconosceva il mitologo Furio Jesi, studioso delle relazioni tra mito, letteratura e propaganda, limitarsi a infondere contenuti politici in delle forme borghesi significa non fare né buona letteratura né buona propaganda; e, come testimoniato tra l’altro dalla Conferenza per un romanzo con cui l’autore accompagnò le prime presentazioni pubbliche dell’opera, il suo orizzonte era una vera e propria propaganda letteraria in cui impegnare se stesso in modo totale.

È in questa contraddizione, però, che risiede un potenziale creativo per l’immaginario della contestazione. Apparentemente un romanzo di formazione, dicevamo: e di una formazione non solo esistenziale, ma strettamente politica, quasi un corso di alfabetizzazione le cui tappe sono scandite dai titoli dei capitoli del romanzo (Il lavoro, La Fiat, La lotta, Il salario, etc.) che vanno a comporre un glossario della lotta di classe. Ma, attenzione: a percorrere queste tappe non c’è un eroe che cresce e impara, e plasma la propria individualità con l’esperienza; c’è invece un singolo che compie la sua maturazione esattamente nella perdita di questa individualità – o meglio, nella scoperta della propria qualità collettiva, presente in potenza sin dall’inizio: così come voleva anche la teorizzazione dell’operaio-massa quale soggetto delle lotte in seno all’Autonomia Operaia. L’esplosione della rivolta materializzata nell’insurrezione di Corso Traiano (3 luglio 1969) con cui si chiude il libro, non è infatti altro che l’epifania mitica di una collettività in lotta per l’emancipazione che riconosce, appunto, il proprio essere collettivo.

Se, come ha riconosciuto Claudia Boscolo, l’eroe epico è principalmente «un’icona, un mito, un veicolo per un’ideologia precisa», e ha la funzione «di incarnare una causa», è allora per questa capacità di tratteggiare un personaggio collettivo che si parla di Balestrini come di un grande poeta epico del Novecento italiano. Anche più che per l’adozione della lassa, la strofa delle canzoni di gesta medievali,come unità narrativa nell’opera; anche più che per la trasfigurazione di Corso Traiano in una vera e propria Roncisvalle.

Al centro della vicenda, indubbiamente, l’Alfonso cui è dedicato il romanzo, anonimo operaio approdato dalla Campania alla Fiat di Mirafiori. Ma che genere di eroe è, Alfonso? Pur rispondendo a un paradigma epico, è evidentemente, in prima battuta, un personaggio comico, tratteggiato a partire da immagini che rimandano a un serbatoio simbolico ben preciso: quello del riso carnevalesco descritto dal critico Michail Bachtin a partire dall’opera di François Rabelais. Più che un eroe propriamente detto, dunque, un furfante/buffone/sciocco, triplice personaggio tipico del Carnevale, che sfrutta una posizione privilegiata di estraneità rispetto alla cultura dominante per vederne ed esplicitarne le storture. A queste tre figure, dice Bachtin, «sono intrinseci una peculiarità e un diritto: essere estranei in questo mondo. Essi infatti non solidarizzano con alcuna condizione di vita di questo mondo, da nessuna di esse sono soddisfatti e di tutte vedono il rovescio e la menzogna». Nella prima parte del romanzo, in effetti, Alfonso è ancora una figura individuale, e spicca sui suoi colleghi per la capacità di sfruttare questo sentimento di estraneità mettendo in atto tutti gli stratagemmi del trickster – lo spiritello scaltro, ambiguo e imbroglione comune a differenti mitologie – per sfuggire alle dinamiche dello sfruttamento che regolano la fabbrica. La finzione, il bluff, la recita, la sfrontatezza verbale (che non di rado sfocia nella rissa) abbondano nelle scene in cui l’operaio affronta i suoi superiori che lo rimproverano per il ritardo, o il medico cui cerca di estorcere una malattia fittizia.

Ma un privilegio riservato a questa maschera buffonesca è frequentare gli strati più marginali della società, poterne raccogliere in qualche modo i discorsi e riportarli, senza alcun filtro, ai livelli superiori. A Milano, e poi a Torino, grandi città in cui si trasferisce Alfonso, il protagonista si immerge, oltre che nella fabbrica, nei contesti periferici popolati dalle subalternità, dal margine del boomeconomico. James C. Scott ci ha insegnato che è proprio in simili habitat che si sviluppa una controcultura subalterna che definisce «verbale segreto»: «Gli schiavi, nella relativa sicurezza dei loro alloggi, possono pronunciare quelle parole di rabbia, vendetta, auto-stima, che normalmente devono soffocare quando sono alla presenza dei propri padroni». Questa «critica del potere mossa dietro le spalle del dominante», strategia di resistenza fatta di «voci, pettegolezzi, storie popolari, barzellette, canzoni, rituali, codici ed eufemismi», ossia di «una porzione consistente della cultura popolare dei gruppi subordinati», si contrappone ad un «verbale pubblico» che è costituito invece dall’autorappresentazione delle élites al potere.

Cosa accade allora quando il verbale segreto rompe il muro della reticenza ed erompe nel pubblico? Balestrini ce lo mostra nel momento in cui il suo operaio si fa personaggio collettivo, quando trova cioè il coraggio di dire quello che tutti i suoi colleghi pensano e nessuno si azzarda a esprimere: «guardate dico guardate che la Fiat non è mia mettetevelo bene in mente. Non l’ho voluta io non l’ho fatta io sto qua dentro per guadagnare i soldi e basta. Però se mi fate incazzare e mi rompete le scatole io vi spacco la faccia a tutti quanti». Quando, come in questo caso, si rompe il cordone sanitario che sta tra il verbale pubblico e il verbale segreto, si verificano quelli che Scott definisce «Saturnali del Potere», che possono portare, quando non intervenga una pronta repressione, ad un’escalationdell’audacia dei subalterni: come succede in effetti nella fabbrica di Vogliamo tutto, in cui la ribellione di Alfonso conduce a un’ondata di scioperi e alla rivolta.

L’essere collettivo del protagonista dunque ci apre alla comprensione di nuove strategie di resistenza allo sfruttamento. Se pronunciare ad alta voce il verbale segreto degli operai gli è consentito dall’eccezionale immunità che gli garantisce il suo statuto di furfante/buffone/sciocco, ancora una volta dobbiamo distogliere leggermente lo sguardo dalla sua individualità per comprenderne il potenziale critico. Come ha scritto Yves Citton in Mitocrazia. Storytelling e immaginario di sinistra (Alegre, 2013), infatti, «ogni Saturnale ha il proprio araldo, il cui atto di sfida e di coraggio mette in moto un processo che lo trasformerà in eroe» esattamente come avviene per Alfonso; ma la rivolta, più che dall’individuo, è provocata dal «potere del mito, inteso come una realtà collettiva costituita dalla convergenza del flusso di desideri e di credenze». Alfonso è dunque una specie di catalizzatore della rabbia degli sfruttati, dotato di un carisma tale per cui questa rabbia riesce a sfondare la barriera del verbale segreto; ma un simile potere carismatico gli è fornito unicamente dalla collettività, dal suo essere un personaggio collettivo: è cioè carismatico nella misura in cui gli altri gli attribuiscono carisma.

Il momento decisivo di Vogliamo tutto è costituito precisamente dalla presa di coscienza di questa collettività. Il passaggio chiave si trova nel settimo capitolo, intitolato I compagni, che non a caso è l’unico del libro con un titolo declinato al plurale. Quando l’affronto di Alfonso dà luogo a un’ondata di scioperi, ciò che assume più valore per la dinamica mitopoietica del romanzo è la consapevolezza acquisita dal protagonista:

E lì finalmente ebbi la soddisfazione di scoprire che le cose che pensavo io da anni da quando lavoravo le cose che credevo essere solo io a pensarle le pensavamo tutti. E che noi eravamo veramente tutti la stessa cosa. […] Questi pensieri che io facevo da molto tempo per cazzi miei finalmente vedevo che erano quello che tutti pensavano e dicevano. E le lotte che fino allora facevo per cazzi miei contro il lavoro avevo visto che erano lotte che tutti noi potevamo farle insieme e così vincerle.

Quelli che prima erano colleghi assumono il rango di compagni (parola ripetuta insistentemente come una formula magica), e così la collettività in lotta prende coscienza di se stessa:

e appena un compagno parlava […] immediatamente questo compagno che non avevo mai visto mi diventava simpatico. Diventava uno che era come se lo conoscevo da sempre. Diventava come un fratello non so come dire. Diventava un compagno. Lo scopri ecco il compagno quello che ha fatto le mie stesse cose. E l’unico modo per vedere che la pensiamo tutti allo stesso modo è di fare le stesse cose.

Il culmine di questa epifania mitica della collettività non può dunque che essere L’insurrezione narrata nel decimo e ultimo capitolo. Quello che si compie a Torino è l’atto gioioso di una decisiva presa di coscienza collettiva: «adesso la cosa che più li faceva muovere più che la rabbia era la gioia. La gioia di essere finalmente forti. Di scoprire che ste esigenze che avevano sta lotta che facevano erano le esigenze di tutti era la lotta di tutti […] Eravamo tutti come pazzi di gioia». Come da tradizione epica, la battaglia prevede capovolgimenti di fronte e di sorte, la violenza e persino l’elemento del fuoco a dominare la scena. Ma sono poi le forze della natura a incorniciare la fine dello scontro, arridendo ad Alfonso e ai suoi compagni: «era quasi l’alba c’era un grande sole rosso bellissimo che stava venendo su. Eravamo stanchissimi sfiniti. Per questa volta bastava. Scendemmo giù e ce ne tornammo a casa». Sembra una ritirata strategica, il sacrificio del contingente di Orlando che non può che preludere alla vittoria definitiva di Carlo Magno; così suggerisce il presagio naturale del sole che sorge e pare salutare il ritorno a casa dei paladini-operai, promettendo una riscossa successiva una volta per tutte.

Anche il finale suggella dunque la qualità epica di Vogliamo tutto. L’epica classica, medievale e rinascimentale, però, si può effettivamente spesso ricondurre all’espressione del verbale pubblico, nel senso scottiano di «autoritratto delle élite dominanti»: basti pensare alle dediche rivolte al Signore che si fa mecenate e alle linee narrative dei cicli epici che servono all’autore solo per raccontare la discendenza di questo Signore da un eroe antico ed esemplare per virtù, dall’Eneide alla Gerusalemme liberata. L’epica balestriniana inverte diametralmente questo rapporto: l’eroe anonimamente collettivo, invece di fornire alle élites padronali una legittimazione, si fa portavoce del verbale segreto degli sfruttati, causando il cortocircuito dei Saturnali del potere, e tramandando ai subalterni il momento mitico e fondazionale di un’Origine. Se il critico Andrea Cortellessa ha parlato, per altre opere di Balestrini, di «romanzo controstorico», qui siamo di fronte a un’epica rovesciata, un’epica dal basso.

Una narrazione, insomma, che anziché raccontarci il compimento chiuso di un’individualità ci mostra il passaggio da un io a un noi, aprendo a nuovi spazi di iniziativa politica collettiva. Non solo permettendoci, dunque, di immaginare il gesto politico, ma anche di riconoscerci parte di una collettività pronta a lottare per gli stessi bisogni e desideri; restituendo in qualche modo la prospettiva di un’azione collettiva volta a incidere sul presente, ancora vivace in quell’ultima «età eroica» che è stato il lungo Sessantotto.

Qualcosa di simile accadrà un paio di anni più tardi al protagonista del concept album Storia di un impiegato (1973) di Fabrizio De Andrè. Qui un impiegato qualunquista, sentendo la stessa rabbia delle masse in rivolta ma non riuscendo a integrarvisi, tenta una via individuale all’insurrezione, architetta un maldestro attentato che fallisce miseramente e viene arrestato. Eppure proprio in carcere, «in mezzo agli altri vestiti uguale», si compie infine l’epifania della collettività testimoniata da quel passaggio dal singolare al plurale tra la prima e l’ultima strofa di Nella mia ora di libertà, la canzone che chiude l’album: da «di respirare la stessa aria di un secondino non mi va» a «di respirare la stessa aria dei secondini non ci va», grido che dà il via all’insurrezione tra le mura della prigione. Ancora un ioche diventa un noi, a significare l’urgenza di questo fulmineo riconoscimento di sé come parte di un collettivo per le lotte ancora vive in quegli anni. E se la fabbrica di Alfonso è già vissuta come spazio concentrazionario, proprio una rivolta nel carcere, si badi bene, sarà poi al centro del successivo romanzo di Balestrini, Gli invisibili.

Di questo, forse, ci parla ancora Vogliamo tutto, a quasi cinquant’anni di distanza, nelle mutate circostanze del presente: di una necessità, tanto più urgente nelle condizioni di parcellizzazione in cui ci troviamo, edificate agevolmente durante gli «anni di merda», e il cui senso ci è forse suggerito dallo slittare dei titoli del ciclo de La Grande Rivolta dal plurale (Vogliamo tutto, Gli invisibili) al singolare (L’editore). La necessità di immaginarsi un noi, di tratteggiare personaggi collettivi, di dare vita, appunto, a un’epica dal basso; di costruire cioè comunità attorno a un racconto, come lo stesso Nanni Balestrini aveva il coraggio di fare ancora negli anni Novanta, continuando a credere a un pubblico di «beneamati lettori» pronti ad ascoltarlo:

per cui ci appelliamo a voi beneamati lettori
adesso come altre volte in tempi bui
in cui discorrere di rivolte è quasi un delitto
ascoltateci ancora una volta con indulgenza


*Beniamino Della Gala si è addottorato in Italianistica all’Università di Trieste con una tesi sulle rappresentazioni narrative delle rivolte nel Sessantotto italiano.

Add comment

Submit