“Una figura colossale”: Dante Alighieri
di Eros Barone
Una lettura più attenta rivela l’impossibilità di distinguere, sia pure idealmente, quelle che sono le componenti fondamentali del genio di Dante: la serietà e grandiosità, incorporata in un fermo disegno strutturale, del proposito etico e, dall’altra parte, una straordinaria plasticità di invenzioni figurative e una prodigiosa fertilità di risoluzioni stilistiche e verbali.
N. Sapegno, Storia della Letteratura Italiana, vol. I, Garzanti, Milano 1965-1969, p. 76.
Ma se potessimo intravedere anche solo di spalle Dante Alighieri che s’inerpica sull’Appennino, non capiremmo della Divina Commedia qualcosa di più di quel che oggi ne sappiamo? 1
C. Garboli, Pianura proibita, Adelphi, Milano 2002, p. 133.
-
“L’ultimo poeta del medioevo e il primo poeta moderno”
Non esiste gesto o atteggiamento umano che Dante, nella Divina Commedia (per tacere delle altre opere), non abbia descritto, scolpito, evocato, e ciò è stato riconosciuto dagli autori più diversi, i quali non hanno mancato di rendere il loro omaggio all’autore del “poema” cui “ha posto mano e cielo e terra” 2 e all’artefice primo della lingua italiana. In tal senso, come ha scritto uno di essi, Dante è davvero “l’inevitabile”. 3 E come non ricordare che non vi è esercizio più sano per la mente e per il cuore, nonché per i sensi, della ‘lectura Dantis’? Sì, anche e soprattutto per i sensi, giacché questi organi traggono uno speciale godimento dalla lettura, ancor meglio se ad alta voce, delle terzine incatenate dell’Alighieri. Il che è comprovato, fra l’altro, dal costante successo che hanno riscosso tali letture nel corso del tempo: da Carmelo Bene, passando attraverso Roberto Benigni, sino a Vittorio Sermonti.
Una volta acquisita una sufficiente familiarità con il mondo drammatico, percorso da veementi passioni ma anche da affetti struggenti, di cui Dante è, a volta a volta, testimone, protagonista e cantore, l’icastico realismo delle visioni, intramato dallo splendido linguaggio metaforico e corroborato dall’inesausta magnanimità lessicale del poeta fiorentino, ci fa vivere, grazie alla nitida corrispondenza fra vocabolo ed oggetto in cui esso si traduce, uno dei viaggi più affascinanti e sorprendenti che un uomo dell’età moderna possa compiere.
«I versi di Dante – ha scritto il poeta russo Mandel’štam nella sua Conversazione su Dante, un saggio folgorante in cui viene proposta una lettura cristallografica della Divina Commedia – hanno preso forma e colore in base, appunto, ad un processo geologico 4 […] il poema dantesco è un solido, un corpo stereometrico di assoluto rigore, lo sviluppo compatto di un tema cristallografico.» 5 Anche questa eccezionale testimonianza critica conferma che è vano separare, in Dante, letteratura, storia, filosofia, scienza, teologia e politica, giacché esse costituiscono un blocco unico. La poesia dantesca trae ispirazione da ciascuno di tali elementi e raggiunge il suo vertice attraverso la loro armonica fusione. Applicando un paragone usato da Dante in un altro contesto, per adombrare in questo caso il nesso organico fra poesia e ragione, se ne trae che la prima è “lo più bello ramo che de la radice razionale consurga». 6
Non vi è civiltà e non vi è cultura in cui Dante non sia stato riconosciuto un sommo poeta e la sua opera un patrimonio della cultura mondiale. Basti citare la traduzione della Divina Commedia in lingua cinese e l’ammirazione dei fondatori del socialismo scientifico, Marx ed Engels, per l’Alighieri. Il primo concludeva nel 1867 la prefazione alla prima edizione del “Capitale”, citando in italiano un verso di Dante: «Segui il tuo corso, e lascia dir le genti!»; 7 il secondo, nella prefazione all’edizione italiana del Manifesto del Partito Comunista, scritta nel 1893, notava: «Il chiudersi del medioevo feudale, l’aprirsi dell’era capitalista moderna sono contrassegnati da una figura colossale; è quella di un italiano, il Dante, al tempo stesso l’ultimo poeta del medioevo e il primo poeta moderno». 8
-
“Che cos’è la Divina Commedia?”
Non è possibile rispondere a questa domanda se non si richiama l’attenzione su una prima difficoltà che la Divina Commedia presenta a chi intenda leggerla, giacché questa è un’opera antica ed è scritta in una lingua antica. In altri termini, è un poema che non si può leggere senza chiose. A tale proposito, basti citare una curiosità: nel XVI secolo Francesco Guicciardini, che era uomo di elevata cultura, trovava difficoltà a leggere un episodio del Paradiso che gli era stato suggerito da Niccolò Machiavelli, perché non aveva la “chiosa” essendo il testo senza note, e quindi era disorientato. Si trattava infatti di una serie di riferimenti storici e linguistici che egli, sebbene non vivesse in un tempo così lontano da quello di Dante, non era in grado di intendere senza un ausilio.
Così, questa è indubbiamente la prima difficoltà che si presenta in generale ad un lettore adulto, ma in particolare ai lettori più giovani che intendono accostarsi a Dante. Questi è infatti un autore che, nello stesso tempo, accende la fantasia dei giovani e tuttavia, in qualche misura, anche li respinge, ponendo loro dinnanzi grandi ostacoli sia concettuali che linguistici. E allora occorre riconoscere che anche gli studiosi di Dante si trovano in una situazione difficile quando debbono rispondere alla domanda: “Ma che cos’è la Divina Commedia?”. Certo, possono fornire delle definizioni scolastiche, ma poi debbono in qualche modo spiegare come si entra in questo libro, perché per accedervi esistono più porte di ingresso e non è che una valga più dell’altra: fra queste si può scegliere quella allegorica o quella poetica, oppure ancora quella teologica o quella filosofica, senza dimenticare per la sua pervasività la porta politica. Orbene, tutti questi approcci sono compresi dentro la Divina Commedia e nessuno di essi è esaustivo. Dopodiché, vi è il momento del confronto diretto con il testo, che è sempre in qualche modo emozionante e può riuscire però anche traumatico.
Ciò nondimeno, si può forse rintracciare un filo conduttore e quindi suggerire un modo per leggere Dante, che non può che essere il modo più letterale possibile, giacché in fondo che cos’è questo libro? È la storia di un viaggio. Certo, è un viaggio che si svolge non su questa terra, ma nell’aldilà, ed essendo tale ha le sue tre tappe che sono l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, con una miriade di episodi che al suo interno si svolgono e che vedono Dante come protagonista.
-
Il personaggio Dante Alighieri
Sennonché la Divina Commedia, essendo anche la storia di Dante come personaggio una possibile chiave di lettura, si presta ad essere letta indagando il modo in cui la persona di Dante che compie il viaggio, via via che questo si svolge e che le esperienze che vi sono contenute lo condizionano, in qualche modo si arricchisce e si trasforma, oppure esprime, traendole dal suo Sé più profondo, delle emozioni, dei sentimenti e dei pensieri, che talvolta sono, soprattutto nell’Inferno, passioni violente. Del resto, è stato detto da chi ha proposto e applicato questa chiave di lettura che la Divina Commedia è il poema più egocentrico che mai sia stato scritto, ma è pur vero che, in fondo, il più egocentrico dei poeti è riuscito nella ossimorica impresa di scrivere una specie di romanzo realistico e teologico. In questo senso, si può giungere ad affermare, seguendo questa linea interpretativa che la più grande invenzione poetica di Dante è Dante stesso.
Il personaggio Dante, ad esempio, considerato per il modo in cui si presenta nell’’Inferno, ha una sua fenomenologia particolare, perché parte perplesso: egli si trova nell’aldilà e proprio nel regno del Male, ed è quindi timoroso, sicché di fronte ad alcuni dannati è disposto alla massima comprensione e alla pietà, come accade nel bellissimo episodio di Francesca da Rimini ove Dante si commuove sino al punto che “cadde come corpo morto cade”, 10 e come avviene perfino nell’episodio dell’incontro con Ciacco, il quale è peraltro un personaggio fiorentino del quale quasi nulla si sa, ma che rivive con una tale intensità nella potente rappresentazione fornita da Dante, che induce quest’ultimo al pianto. 11 Quindi c’è un Dante che partecipa pietosamente alla storia dell’“eterna punizione”, laddove si tratta di peccatori, ovvero di personaggi che devono essere riprovati in quanto Dio li ha riprovati; eppure Dante prova per essi pietà.
Poi ci sono le inserzioni della cronaca fiorentina più aspra: già nel canto di Filippo Argenti vi è una scena realistica e particolarmente animata, in cui viene descritto lo scontro con un personaggio che era stato in vita molto violento, altezzoso e prepotente. Questi ha perfino uno scontro fisico con Dante, poiché cerca di rovesciare la barca su cui sono Dante e Virgilio, tanto che lo stesso Virgilio lo caccia via e lo allontana. 12 E poi via via negli ultimi canti dell’Inferno si arriva al punto che Dante sembra diventare lui stesso cattivo, ossia odia, ed è come se sentisse che in quell’ultima parte del regno infernale l’odio si è talmente concentrato in lui da spingerlo all’“alterco” con le anime dannate.
All’interno della metà di questo percorso giova allora richiamare un canto che non è tra i più famosi dell’Inferno, ma che è tuttavia molto bello, e ha alcuni momenti di grande emozione poetica. In tale canto Dante incontra tre fiorentini che erano stati da lui considerati come personaggi esemplari di Firenze nel periodo immediatamente precedente a quello in cui egli vive, ma che tuttavia stanno all’inferno e nei confronti dei quali Dante non riesce a nascondere il suo sentimento di affetto. 13 Ecco che cosa dice con una potenza realistica che è tipica del suo linguaggio:
S’i’ fossi stato dal foco coperto
gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che’l dottor l’avrìa sofferto;
ma perch’io mi sarei bruciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto. 14
E così prosegue, rivolgendosi a loro:
Di vostra terra sono, e sempre mai
l’ovra di voi e li onorati nomi
con affezion ritrassi e ascoltai. 15
Dopodiché, innalzando il tono poetico dice di se stesso:
Lascio lo fele, e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma infino al centro pria convien ch’i’ tomi. 16
Dante dice insomma che prima di uscire dall’inferno egli deve toccarne il fondo, cioè il punto più basso in cui si trova Lucifero. E il lettore è colpito da questo intermezzo degli ultimi canti posto tra la violenza e la pietà, in cui il ricordo di Firenze intenerisce l’anima del poeta e l’incontro con questi tre peccatori, che si trovano lì evidentemente per peccati inespiabili, eccita il sentimento di Dante e lo induce a parlare la lingua dell’amicizia e della solidarietà.
Nel Purgatorio la fenomenologia del personaggio è meno viva di quanto non sia nell’Inferno. Nella seconda Cantica si svolge infatti una sorta di progressiva purificazione, che però non è tanto di Dante quanto delle anime che sono collocate nei diversi gironi, ove Dante di volta in volta parla con le anime che sono in attesa di essere chiamate al cospetto di Dio. C’è un passo nel canto XIV, girone dove si purificano dal loro peccato gli invidiosi, in cui viene riportato il discorso pronunciato da uno di questi personaggi, che si chiama Guido del Duca. L’episodio è molto bello perché in esso si esprime questo contrasto di motivi: il rimpianto per una civiltà perduta, l’esacerbato stato d’animo di Dante nei confronti di un mondo che degenera nella inciviltà e il senso di disperazione civile e umana che assale Dante di fronte all’Italia del suo tempo, nel momento in cui egli ascolta il discorso di Guido del Duca. Si legga allora dal verso in cui questo personaggio si rivolge direttamente a Dante:
… però sappi ch’io son Guido del Duca.
Fu il sangue mio d’invidia sì riarso,
che se veduto avesse uom farsi lieto,
visto m’avresti di livore sparso. 17
[…] Non ti maravigliar s’io piango, Tosco,
quando rimembro con Guido da Prata
Ugolin d’Azzo, che vivette nosco,
Federigo Tignoso e sua brigata,
la casa Traversara e li Anastagi
(e l’una gente e l’altra è diretata),
le donne e’ cavalier, li affanni e li agi
che ne’nvogliava amore e cortesia
là dove i cuor son fatti sì malvagi.
O Brettinoro, ché non fuggi via,
poi che gita se n’è la tua famiglia
e molta gente per non esser ria?
Ben fa Bagnacaval, che non rifliglia;
e mal fa Castrocaro, e peggio Conio,
che di figliar tai conti più s’impiglia.
Ben faranno i Pagan, da che’l demonio
lor sen girà; ma non però che puro
già mai rimagna d’essi testimonio.
O Ugolin de’ Fantolin, sicuro
è il nome tuo, da che più non s’aspetta
chi far lo possa, tralignando, oscuro.
Ma va via, Tosco, omai; ch’or mi diletta
troppo di pianger più che di parlare,
sì m’ha nostra ragion la mente stretta. 18
In questo passo, così come in altri, emerge la conflittualità che sta dentro l’animo di Dante, la pietà, il senso di solidarietà, in fondo l’amicizia che prova verso questo personaggio, il quale è un peccatore e sconta in quel girone i lunghi anni che gli serviranno per essere chiamato in cielo.
-
“Dante reazionario”?
In effetti, il rimpianto delle cose antiche e il senso di partecipazione ad esse costituiscono un altro momento della personalità di Dante. Si è anche detto che Dante è un reazionario, 19 un ammiratore della Firenze antica, come risulta dall’elogio che fa pronunziare a Cacciaguida:
Fiorenza dentro dalla cerchia antica,
ond’ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica.
Non avea catenella, non corona,
non gonne contigiate, non cintura
che fosse a veder più che la persona.
Non faceva, nascendo, ancor paura
la figlia al padre; ché ’l tempo e la dote
non fuggìen quinci e quindi la misura.
Non avea case di famiglia vote;
non v’era giunto ancor Sardanapalo,
a mostrar ciò che in camera si pote. 20
E però per comprendere in modo adeguato, senza forzature amplificanti ma anche senza limitazioni riduttive, questo aspetto della Divina Commedia occorre tenere conto, per un verso, della natura composita ed enciclopedica dell’opera e, per un altro verso, della serietà e della continuità dell’impegno morale e polemico che anima Dante e che investe tutte le tonalità del sentimento di questo ‘personaggio’ costituendo il comun denominatore, a seconda dei momenti e degli episodi sotteso oppure soverchiante, di una tematica che si propone di abbracciare tutta la realtà fisica e metafisica, l’uno e il molteplice, l’individuo e Dio.
Questo è il carattere fondamentale del genio di Dante, ma anche l’impronta schiettamente medievale del suo libro: 21 due connotazioni che spiegano, ad esempio, la sua distanza da quella generazione successiva i cui esponenti più emblematici saranno il Boccaccio e il Petrarca, laddove per il primo Dante sarà l’oggetto di un’ammirazione incondizionata e per il secondo un modello arcaico, fermo restando che né l’uno né l’altro arriveranno a cogliere la vastità e la pienezza del suo assunto dottrinale e del suo rigore poetico.
Qui si apre, d’altronde, il discorso sul pensiero politico di Dante: un tema complesso che non è soltanto consegnato alla Divina Commedia, ma anche al Convivio, alla Monarchia e alle Epistole. In realtà, la concezione filosofica e religiosa in cui si inscrive la Divina Commedia è un blocco monolitico da cui solo per astrazione può essere isolato questo o quel frammento, questo o quell’aspetto. Ciò spiega l’effetto anodino o, quanto meno, dimidiato che produce la lettura del “poema sacro” in chiave riduttivamente ‘laica’ da parte di un Hegel, di un De Sanctis, di un Auerbach, e di quant’altri ad essa si sono richiamati: il limite cognitivo di siffatta chiave di lettura consiste in ciò che questi pur grandi interpreti separano arbitrariamente il ‘non terrestre’ dal ‘terrestre’, mentre tra queste due dimensioni esiste una compenetrazione dialettica, che quindi non è mai fusione o identità. Questo può condurre a riconoscere – e l’affermazione è forse meno paradossale di quanto possa apparire – che il cattolicesimo di cui Dante è stato il poeta era quello di un realismo cristiano prefigurante quello marxiano. 22
-
Una sfida per la mente e per i sensi: il Paradiso
La terza cantica, il Paradiso, è veramente inesauribile. Qui il discorso può essere avviato a partire dal XXXIII canto in cui è contenuta l’invocazione alla Vergine e dal quale meritano di essere estratte due terzine che rappresentano il culmine poetico di questo ultimo canto della Divina Commedia. Qui Dante espone il punto poeticamente e teologicamente più difficile per lui. Orbene, Dante, uomo vivo, ha visto Dio ed è rimasto abbagliato, benché la fede affermi che solo le anime, che non hanno il corpo, possono contemplarlo con una vista ininterrotta. Inoltre, il ricordo della mirabile visione estatica si è attenuato ed offuscato. Ed ecco che Dante spiega ciò che è accaduto dentro di lui, ricorrendo a due immagini, una psicologica e una naturale:
Qual è colui che somniando vede,
che dopo il sogno la passione impressa
rimane, e l’altro alla mente non riede,
cotal son io, che quasi tutta cessa
mia visione, ed ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento nelle foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla. 23
Pertanto, come il poeta afferma nei primi sei versi, l’immagine è svanita, ma qualcosa è rimasto dentro la sua anima, come una goccia di rugiada, una “stilla”. Poi, negli ultimi tre versi segue il suggestivo paragone naturalistico.
-
Una storia con tantissime storie
In definitiva, come si è detto in precedenza, uno dei modi più semplici di leggere la Divina Commedia è di considerarla per quello che è materialmente, cioè un viaggio: un viaggio nell’aldilà compiuto da un uomo vivo, con un inizio, una tappa intermedia e una fine che culmina nella visione di Dio. E però dentro questa storia vi sono tantissime storie, così come dentro l’edificio a cui possiamo paragonare la Commedia vi sono tantissimi luoghi, ciascuno dei quali è caratterizzato da aspetti diversi.
Ad esempio, la lettura della Divina Commedia come opera teologica risulta legittimata dalla prima esegesi dantesca, dunque già dalla Lettera a Cangrande, in cui si afferma che la Commedia è ‘opus theologicum’, talché la ‘fictio’ letteraria è solo il veicolo della verità dal momento che nel poema si parla sostanzialmente di Dio. Anche il paragone che talora si fa tra la Divina Commedia e il Faust di Goethe è un paragone in gran parte improprio, poiché nel secondo poema ci sono tantissime cose e, naturalmente, la filosofia che l’autore aveva elaborato vivendo e studiando, ma non ci sono l’estrema varietà e l’articolazione complessa che caratterizzano la Commedia. In questo senso, hanno avuto ragione quegli studiosi che hanno scartato l’idea di scrivere una sintesi, un libro unitario su Dante.
Ripensando, ad esempio, al dantismo quanto mai agguerrito della prima metà del secolo scorso e in particolare a quei dantisti, alcuni dei quali hanno lavorato anche nella seconda metà del Novecento, occorre sottolineare sia che costoro – Michele Barbi, Ernesto Giacomo Parodi, Bruno Nardi - appartengono tutti ad una stagione molto precisa e straordinariamente produttiva del dantismo, ma anche, d’altra parte, che nella loro bibliografia mancano un libro d’insieme e un’interpretazione unitaria del poema dantesco. Lo stesso Nardi che in un saggio omonimo risalente ai primi anni Quaranta del secolo scorso coniò la formula del “Dante profeta” non pretese che essa bastasse ad esaurirne la tematica. 24
-
Un’esperienza preziosa per le nuove generazioni
In realtà, siccome nell’edificio della Divina Commedia si entra da molte porte, è da ritenere che uno studioso il quale abbia il senso della grandezza schiacciante di questo poema deve compiere, innanzitutto, un atto di modestia critica e filologica, e cominciare ad affrontarlo punto per punto. Se poi, nel corso di una lettura di questo tipo, comincerà ad intravedere il delinearsi di un significato unitario, ebbene questo sarà il risultato di un’analisi ‘in fieri’, non di una sintesi interpretativa precostituita.
Così, se dovessi dire ad un giovane perché bisogna leggere Dante, credo che farei appello ad un’esperienza personale riferendogli l’enorme impressione che ricevetti quando cominciai a leggerlo nel primo anno del liceo classico, dapprima per dovere scolastico e poi per mio diletto. Ritengo, infatti, che bisogna leggere Dante, che bisogna leggerlo molto attentamente e che i professori debbano insegnare ai loro studenti la modestia, perché Dante è difficile e, in certi casi, molto difficile da capire: e non soltanto nel Paradiso ma anche nell’Inferno, cantica più facile secondo la ‘communis opinio’ ma fino a un certo punto.
In tal modo, leggendolo, e leggendolo con una certa continuità, non a frammenti e sulla base di brani isolati, come oggi purtroppo si fa, i giovani possono avere un’esperienza di qualche cosa che sta dentro di loro e che Dante certamente consente di far emergere. Questa potrebbe essere, ancora oggi, la ragione pedagogica per cui è giusto leggere Dante. Dante può quindi rimanere una delle esperienze fondamentali per la formazione della personalità. 25 Una cosa è certa: Dante rimane un’esperienza fondamentale per chiunque l’abbia letto sul serio.
Del resto, come ho già sottolineato, la grandezza dell’opera di Dante è tale che risulta assai arduo distinguere in essa la poesia dalla filosofia, dalla morale, dalla teologia e dalla riflessione sul linguaggio. È questa la ragione per cui un corretto intendimento della poesia di Dante resterà inesorabilmente precluso a chi non si sforzerà di penetrare i segreti del suo laboratorio linguistico e teoretico, che sono racchiusi nelle opere di carattere dottrinale, dal De vulgari eloquentia al Convivio. 26 In questo senso, non è paradossale affermare che, per comprendere appieno l’opera di Dante, sarà necessaria una rinascita (se non dello spirito della Scolastica medievale) del razionalismo e del realismo, tra di loro indissolubilmente congiunti: sennonché la problematicità di una tale rinascita è ciò che oggi, per un verso, rende l’Alighieri così affascinante e, per un altro verso, così inattuale.
-
La concezione della lingua
La conoscenza delle opere di argomento dottrinale non è solo una premessa condizionante per accostarsi in modo non dilettantesco e meramente impressionistico alla lettura della Divina Commedia, ma ha un valore intrinseco che nasce dalla constatazione del carattere veramente grandioso della concezione della lingua elaborata dal ‘sommo poeta’. Ed è in nome di questa concezione di una lingua ‘aulica’, ‘illustre’ ‘curiale’ e ‘cardinale’ che Dante lancia i suoi potenti sarcasmi - oggi, con una lingua sempre più imbastardita, più che mai abrasivi - «a perpetuale infamia e depressione delli malvagi uomini d’Italia che commendano lo volgare altrui, e lo proprio dispregiano» oppure degli «abominevoli cattivi d’Italia che hanno a vile questo prezioso volgare, lo quale se è vile in alcuna cosa, non è se non in quanto egli suona nella bocca meretrice di questi adulteri».
L’interesse di Dante per la lingua non ha mai una motivazione soltanto tecnica e convenzionale, ma trae sempre origine da ragioni di ordine conoscitivo e morale. Pertanto, egli ricerca instancabilmente la prima radice del significato delle parole, la cui purezza e trasparenza sono spesso rese irriconoscibili dalla tirannia dell’uso. Attraverso il vero significato di un vocabolo, il poeta mira a definire concetti, virtù, sentimenti e costumi, a correggere abusi e spropositi del linguaggio che si ripercuotono su tutti gli altri piani dell’esistenza umana. Non meraviglia, allora, che la sua prima e più appassionata polemica contro il secolo corrotto e corruttore concernesse questioni di lingua e di poesia. 27
D’altronde, lo stesso stile poetico di Dante, così ricco di svariati sapori e di risorse sorprendenti, rivela lo straordinario impasto da cui nacque: quello formato da due lingue, la latina e l’italiana, ancora confuse e mescolate l’una con l’altra nel momento di separarsi. L’attuale ‘revival’ dantesco tradisce forse l’oscura inquietudine che gli spiriti più avvertiti provano a causa della degradazione intellettuale e morale che affligge i nostri tempi e, in particolare, il nostro paese, ma indica anche la consapevolezza che questo disagio profondo può essere vinto e superato solo in forza di una fedeltà creativa a Dante e alla migliore tradizione della nostra letteratura e della nostra cultura, il cui nucleo costitutivo è riassunto nel nitido binomio: senso della ragione e senso della realtà.
Comments
Non ho ancora trovato il modo di approfondire adeguatamente il ragionamento, ma direi che senza dubbio Dante era tutt'altro che reazionario! Solo chi non comprenda a fondo il senso del suo attaccamento all'impero (della cui "feudalità" a Dante non importava minimamente) può sostenere qualcosa del genere.