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Una figura colossale”: Dante Alighieri

di Eros Barone

Portrait de DanteUna lettura più attenta rivela l’impossibilità di distinguere, sia pure idealmente, quelle che sono le componenti fondamentali del genio di Dante: la serietà e grandiosità, incorporata in un fermo disegno strutturale, del proposito etico e, dall’altra parte, una straordinaria plasticità di invenzioni figurative e una prodigiosa fertilità di risoluzioni stilistiche e verbali.

N. Sapegno, Storia della Letteratura Italiana, vol. I, Garzanti, Milano 1965-1969, p. 76.

Ma se potessimo intravedere anche solo di spalle Dante Alighieri che s’inerpica sull’Appennino, non capiremmo della Divina Commedia qualcosa di più di quel che oggi ne sappiamo? 1

C. Garboli, Pianura proibita, Adelphi, Milano 2002, p. 133.

 

  1. L’ultimo poeta del medioevo e il primo poeta moderno”

Non esiste gesto o atteggiamento umano che Dante, nella Divina Commedia (per tacere delle altre opere), non abbia descritto, scolpito, evocato, e ciò è stato riconosciuto dagli autori più diversi, i quali non hanno mancato di rendere il loro omaggio all’autore del “poema” cui “ha posto mano e cielo e terra” 2 e all’artefice primo della lingua italiana. In tal senso, come ha scritto uno di essi, Dante è davvero “l’inevitabile”. 3 E come non ricordare che non vi è esercizio più sano per la mente e per il cuore, nonché per i sensi, della ‘lectura Dantis’? Sì, anche e soprattutto per i sensi, giacché questi organi traggono uno speciale godimento dalla lettura, ancor meglio se ad alta voce, delle terzine incatenate dell’Alighieri. Il che è comprovato, fra l’altro, dal costante successo che hanno riscosso tali letture nel corso del tempo: da Carmelo Bene, passando attraverso Roberto Benigni, sino a Vittorio Sermonti.

Una volta acquisita una sufficiente familiarità con il mondo drammatico, percorso da veementi passioni ma anche da affetti struggenti, di cui Dante è, a volta a volta, testimone, protagonista e cantore, l’icastico realismo delle visioni, intramato dallo splendido linguaggio metaforico e corroborato dall’inesausta magnanimità lessicale del poeta fiorentino, ci fa vivere, grazie alla nitida corrispondenza fra vocabolo ed oggetto in cui esso si traduce, uno dei viaggi più affascinanti e sorprendenti che un uomo dell’età moderna possa compiere.

«I versi di Dante – ha scritto il poeta russo Mandel’štam nella sua Conversazione su Dante, un saggio folgorante in cui viene proposta una lettura cristallografica della Divina Commedia – hanno preso forma e colore in base, appunto, ad un processo geologico 4 […] il poema dantesco è un solido, un corpo stereometrico di assoluto rigore, lo sviluppo compatto di un tema cristallografico.» 5 Anche questa eccezionale testimonianza critica conferma che è vano separare, in Dante, letteratura, storia, filosofia, scienza, teologia e politica, giacché esse costituiscono un blocco unico. La poesia dantesca trae ispirazione da ciascuno di tali elementi e raggiunge il suo vertice attraverso la loro armonica fusione. Applicando un paragone usato da Dante in un altro contesto, per adombrare in questo caso il nesso organico fra poesia e ragione, se ne trae che la prima è “lo più bello ramo che de la radice razionale consurga». 6

Non vi è civiltà e non vi è cultura in cui Dante non sia stato riconosciuto un sommo poeta e la sua opera un patrimonio della cultura mondiale. Basti citare la traduzione della Divina Commedia in lingua cinese e l’ammirazione dei fondatori del socialismo scientifico, Marx ed Engels, per l’Alighieri. Il primo concludeva nel 1867 la prefazione alla prima edizione del “Capitale”, citando in italiano un verso di Dante: «Segui il tuo corso, e lascia dir le genti!»; 7 il secondo, nella prefazione all’edizione italiana del Manifesto del Partito Comunista, scritta nel 1893, notava: «Il chiudersi del medioevo feudale, l’aprirsi dell’era capitalista moderna sono contrassegnati da una figura colossale; è quella di un italiano, il Dante, al tempo stesso l’ultimo poeta del medioevo e il primo poeta moderno». 8

 

  1. Che cos’è la Divina Commedia?”

Non è possibile rispondere a questa domanda se non si richiama l’attenzione su una prima difficoltà che la Divina Commedia presenta a chi intenda leggerla, giacché questa è un’opera antica ed è scritta in una lingua antica. In altri termini, è un poema che non si può leggere senza chiose. A tale proposito, basti citare una curiosità: nel XVI secolo Francesco Guicciardini, che era uomo di elevata cultura, trovava difficoltà a leggere un 116340999 85765463episodio del Paradiso che gli era stato suggerito da Niccolò Machiavelli, perché non aveva la “chiosa” essendo il testo senza note, e quindi era disorientato. Si trattava infatti di una serie di riferimenti storici e linguistici che egli, sebbene non vivesse in un tempo così lontano da quello di Dante, non era in grado di intendere senza un ausilio.

Così, questa è indubbiamente la prima difficoltà che si presenta in generale ad un lettore adulto, ma in particolare ai lettori più giovani che intendono accostarsi a Dante. Questi è infatti un autore che, nello stesso tempo, accende la fantasia dei giovani e tuttavia, in qualche misura, anche li respinge, ponendo loro dinnanzi grandi ostacoli sia concettuali che linguistici. E allora occorre riconoscere che anche gli studiosi di Dante si trovano in una situazione difficile quando debbono rispondere alla domanda: “Ma che cos’è la Divina Commedia?”. Certo, possono fornire delle definizioni scolastiche, ma poi debbono in qualche modo spiegare come si entra in questo libro, perché per accedervi esistono più porte di ingresso e non è che una valga più dell’altra: fra queste si può scegliere quella allegorica o quella poetica, oppure ancora quella teologica o quella filosofica, senza dimenticare per la sua pervasività la porta politica. Orbene, tutti questi approcci sono compresi dentro la Divina Commedia e nessuno di essi è esaustivo. Dopodiché, vi è il momento del confronto diretto con il testo, che è sempre in qualche modo emozionante e può riuscire però anche traumatico.

Ciò nondimeno, si può forse rintracciare un filo conduttore e quindi suggerire un modo per leggere Dante, che non può che essere il modo più letterale possibile, giacché in fondo che cos’è questo libro? È la storia di un viaggio. Certo, è un viaggio che si svolge non su questa terra, ma nell’aldilà, ed essendo tale ha le sue tre tappe che sono l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, con una miriade di episodi che al suo interno si svolgono e che vedono Dante come protagonista.

 

  1. Il personaggio Dante Alighieri

Sennonché la Divina Commedia, essendo anche la storia di Dante come personaggio una possibile chiave di lettura, si presta ad essere letta indagando il modo in cui la persona di Dante che compie il viaggio, via via che questo si svolge e che le esperienze che vi sono dante selva oscuracontenute lo condizionano, in qualche modo si arricchisce e si trasforma, oppure esprime, traendole dal suo Sé più profondo, delle emozioni, dei sentimenti e dei pensieri, che talvolta sono, soprattutto nell’Inferno, passioni violente. Del resto, è stato detto da chi ha proposto e applicato questa chiave di lettura che la Divina Commedia è il poema più egocentrico che mai sia stato scritto, ma è pur vero che, in fondo, il più egocentrico dei poeti è riuscito nella ossimorica impresa di scrivere una specie di romanzo realistico e teologico. In questo senso, si può giungere ad affermare, seguendo questa linea interpretativa che la più grande invenzione poetica di Dante è Dante stesso. 

Il personaggio Dante, ad esempio, considerato per il modo in cui si presenta nell’’Inferno, ha una sua fenomenologia particolare, perché parte perplesso: egli si trova nell’aldilà e proprio nel regno del Male, ed è quindi timoroso, sicché di fronte ad alcuni dannati è disposto alla massima comprensione e alla pietà, come accade nel bellissimo episodio di Francesca da Rimini ove Dante si commuove sino al punto che “cadde come corpo morto cade”, 10 e come avviene perfino nell’episodio dell’incontro con Ciacco, il quale è peraltro un personaggio fiorentino del quale quasi nulla si sa, ma che rivive con una tale intensità nella potente rappresentazione fornita da Dante, che induce quest’ultimo al pianto. 11 Quindi c’è un Dante che partecipa pietosamente alla storia dell’“eterna punizione”, laddove si tratta di peccatori, ovvero di personaggi che devono essere riprovati in quanto Dio li ha riprovati; eppure Dante prova per essi pietà.

Poi ci sono le inserzioni della cronaca fiorentina più aspra: già nel canto di Filippo Argenti vi è una scena realistica e particolarmente animata, in cui viene descritto lo scontro con un personaggio che era stato in vita molto violento, altezzoso e prepotente. Questi ha perfino uno scontro fisico con Dante, poiché cerca di rovesciare la barca su cui sono Dante e Virgilio, tanto che lo stesso Virgilio lo caccia via e lo allontana. 12 E poi via via negli ultimi canti dell’Inferno si arriva al punto che Dante sembra diventare lui stesso cattivo, ossia odia, ed è come se sentisse che in quell’ultima parte del regno infernale l’odio si è talmente concentrato in lui da spingerlo all’“alterco” con le anime dannate.

All’interno della metà di questo percorso giova allora richiamare un canto che non è tra i più famosi dell’Inferno, ma che è tuttavia molto bello, e ha alcuni momenti di grande emozione poetica. In tale canto Dante incontra tre fiorentini che erano stati da lui considerati come personaggi esemplari di Firenze nel periodo immediatamente precedente a quello in cui egli vive, ma che tuttavia stanno all’inferno e nei confronti dei quali Dante non riesce a nascondere il suo sentimento di affetto. 13 Ecco che cosa dice con una potenza realistica che è tipica del suo linguaggio:

S’i’ fossi stato dal foco coperto

gittato mi sarei tra lor di sotto,

e credo che’l dottor l’avrìa sofferto;

ma perch’io mi sarei bruciato e cotto,

vinse paura la mia buona voglia

che di loro abbracciar mi facea ghiotto. 14

E così prosegue, rivolgendosi a loro:

Di vostra terra sono, e sempre mai

l’ovra di voi e li onorati nomi

con affezion ritrassi e ascoltai. 15

Dopodiché, innalzando il tono poetico dice di se stesso:

Lascio lo fele, e vo per dolci pomi

promessi a me per lo verace duca;

ma infino al centro pria convien ch’i’ tomi. 16

Dante dice insomma che prima di uscire dall’inferno egli deve toccarne il fondo, cioè il punto più basso in cui si trova Lucifero. E il lettore è colpito da questo intermezzo degli ultimi canti posto tra la violenza e la pietà, in cui il ricordo di Firenze intenerisce l’anima del poeta e l’incontro con questi tre peccatori, che si trovano lì evidentemente per peccati inespiabili, eccita il sentimento di Dante e lo induce a parlare la lingua dell’amicizia e della solidarietà.

guiddodelducaNel Purgatorio la fenomenologia del personaggio è meno viva di quanto non sia nell’Inferno. Nella seconda Cantica si svolge infatti una sorta di progressiva purificazione, che però non è tanto di Dante quanto delle anime che sono collocate nei diversi gironi, ove Dante di volta in volta parla con le anime che sono in attesa di essere chiamate al cospetto di Dio. C’è un passo nel canto XIV, girone dove si purificano dal loro peccato gli invidiosi, in cui viene riportato il discorso pronunciato da uno di questi personaggi, che si chiama Guido del Duca. L’episodio è molto bello perché in esso si esprime questo contrasto di motivi: il rimpianto per una civiltà perduta, l’esacerbato stato d’animo di Dante nei confronti di un mondo che degenera nella inciviltà e il senso di disperazione civile e umana che assale Dante di fronte all’Italia del suo tempo, nel momento in cui egli ascolta il discorso di Guido del Duca. Si legga allora dal verso in cui questo personaggio si rivolge direttamente a Dante:

però sappi ch’io son Guido del Duca.

Fu il sangue mio d’invidia sì riarso,

che se veduto avesse uom farsi lieto,

visto m’avresti di livore sparso. 17

[…] Non ti maravigliar s’io piango, Tosco,

quando rimembro con Guido da Prata

Ugolin d’Azzo, che vivette nosco,

Federigo Tignoso e sua brigata,

la casa Traversara e li Anastagi

(e l’una gente e l’altra è diretata),

le donne e’ cavalier, li affanni e li agi

che ne’nvogliava amore e cortesia

là dove i cuor son fatti sì malvagi.

O Brettinoro, ché non fuggi via,

poi che gita se n’è la tua famiglia

e molta gente per non esser ria?

Ben fa Bagnacaval, che non rifliglia;

e mal fa Castrocaro, e peggio Conio,

che di figliar tai conti più s’impiglia.

Ben faranno i Pagan, da che’l demonio

lor sen girà; ma non però che puro

già mai rimagna d’essi testimonio.

O Ugolin de’ Fantolin, sicuro

è il nome tuo, da che più non s’aspetta

chi far lo possa, tralignando, oscuro.

Ma va via, Tosco, omai; ch’or mi diletta

troppo di pianger più che di parlare,

sì m’ha nostra ragion la mente stretta. 18

In questo passo, così come in altri, emerge la conflittualità che sta dentro l’animo di Dante, la pietà, il senso di solidarietà, in fondo l’amicizia che prova verso questo personaggio, il quale è un peccatore e sconta in quel girone i lunghi anni che gli serviranno per essere chiamato in cielo.

 

  1. Dante reazionario”?

In effetti, il rimpianto delle cose antiche e il senso di partecipazione ad esse costituiscono un altro momento della personalità di Dante. Si è anche detto che Dante è un reazionario, 19 un ammiratore della Firenze antica, come risulta dall’elogio che fa pronunziare a Cacciaguida:

Fiorenza dentro dalla cerchia antica,

ond’ella toglie ancora e terza e nona,

si stava in pace, sobria e pudica.

Non avea catenella, non corona,

non gonne contigiate, non cintura

che fosse a veder più che la persona.

Non faceva, nascendo, ancor paura

la figlia al padre; ché ’l tempo e la dote

non fuggìen quinci e quindi la misura.

Non avea case di famiglia vote;

non v’era giunto ancor Sardanapalo,

a mostrar ciò che in camera si pote. 20

E però per comprendere in modo adeguato, senza forzature amplificanti ma anche senza limitazioni riduttive, questo aspetto della Divina Commedia occorre tenere conto, per un 1418760847 danteverso, della natura composita ed enciclopedica dell’opera e, per un altro verso, della serietà e della continuità dell’impegno morale e polemico che anima Dante e che investe tutte le tonalità del sentimento di questo ‘personaggio’ costituendo il comun denominatore, a seconda dei momenti e degli episodi sotteso oppure soverchiante, di una tematica che si propone di abbracciare tutta la realtà fisica e metafisica, l’uno e il molteplice, l’individuo e Dio.

Questo è il carattere fondamentale del genio di Dante, ma anche l’impronta schiettamente medievale del suo libro: 21 due connotazioni che spiegano, ad esempio, la sua distanza da quella generazione successiva i cui esponenti più emblematici saranno il Boccaccio e il Petrarca, laddove per il primo Dante sarà l’oggetto di un’ammirazione incondizionata e per il secondo un modello arcaico, fermo restando che né l’uno né l’altro arriveranno a cogliere la vastità e la pienezza del suo assunto dottrinale e del suo rigore poetico.

Qui si apre, d’altronde, il discorso sul pensiero politico di Dante: un tema complesso che non è soltanto consegnato alla Divina Commedia, ma anche al Convivio, alla Monarchia e alle Epistole. In realtà, la concezione filosofica e religiosa in cui si inscrive la Divina Commedia è un blocco monolitico da cui solo per astrazione può essere isolato questo o quel frammento, questo o quell’aspetto. Ciò spiega l’effetto anodino o, quanto meno, dimidiato che produce la lettura del “poema sacro” in chiave riduttivamente ‘laica’ da parte di un Hegel, di un De Sanctis, di un Auerbach, e di quant’altri ad essa si sono richiamati: il limite cognitivo di siffatta chiave di lettura consiste in ciò che questi pur grandi interpreti separano arbitrariamente il ‘non terrestre’ dal ‘terrestre’, mentre tra queste due dimensioni esiste una compenetrazione dialettica, che quindi non è mai fusione o identità. Questo può condurre a riconoscere – e l’affermazione è forse meno paradossale di quanto possa apparire – che il cattolicesimo di cui Dante è stato il poeta era quello di un realismo cristiano prefigurante quello marxiano. 22

 

  1. Una sfida per la mente e per i sensi: il Paradiso

La terza cantica, il Paradiso, è veramente inesauribile. Qui il discorso può essere avviato a 355143 poster lpartire dal XXXIII canto in cui è contenuta l’invocazione alla Vergine e dal quale meritano di essere estratte due terzine che rappresentano il culmine poetico di questo ultimo canto della Divina Commedia. Qui Dante espone il punto poeticamente e teologicamente più difficile per lui. Orbene, Dante, uomo vivo, ha visto Dio ed è rimasto abbagliato, benché la fede affermi che solo le anime, che non hanno il corpo, possono contemplarlo con una vista ininterrotta. Inoltre, il ricordo della mirabile visione estatica si è attenuato ed offuscato. Ed ecco che Dante spiega ciò che è accaduto dentro di lui, ricorrendo a due immagini, una psicologica e una naturale:

Qual è colui che somniando vede,

che dopo il sogno la passione impressa

rimane, e l’altro alla mente non riede,

cotal son io, che quasi tutta cessa

mia visione, ed ancor mi distilla

nel core il dolce che nacque da essa.

Così la neve al sol si disigilla;

così al vento nelle foglie levi

si perdea la sentenza di Sibilla. 23

Pertanto, come il poeta afferma nei primi sei versi, l’immagine è svanita, ma qualcosa è rimasto dentro la sua anima, come una goccia di rugiada, una “stilla”. Poi, negli ultimi tre versi segue il suggestivo paragone naturalistico.

 

  1. Una storia con tantissime storie

In definitiva, come si è detto in precedenza, uno dei modi più semplici di leggere la Divina Commedia è di considerarla per quello che è materialmente, cioè un viaggio: un viaggio nell’aldilà compiuto da un uomo vivo, con un inizio, una tappa intermedia e una fine che culmina nella visione di Dio. E però dentro questa storia vi sono tantissime storie, così come dentro l’edificio a cui possiamo paragonare la Commedia vi sono tantissimi luoghi, ciascuno dei quali è caratterizzato da aspetti diversi.

Ad esempio, la lettura della Divina Commedia come opera teologica risulta legittimata dalla prima esegesi dantesca, dunque già dalla Lettera a Cangrande, in cui si afferma che la Commedia è ‘opus theologicum’, talché la ‘fictio’ letteraria è solo il veicolo della verità dal momento che nel poema si parla sostanzialmente di Dio. Anche il paragone che talora si fa tra la Divina Commedia e il Faust di Goethe è un paragone in gran parte improprio, poiché nel secondo poema ci sono tantissime cose e, naturalmente, la filosofia che l’autore aveva elaborato vivendo e studiando, ma non ci sono l’estrema varietà e l’articolazione complessa che caratterizzano la Commedia. In questo senso, hanno avuto ragione quegli studiosi che hanno scartato l’idea di scrivere una sintesi, un libro unitario su Dante.

Ripensando, ad esempio, al dantismo quanto mai agguerrito della prima metà del secolo scorso e in particolare a quei dantisti, alcuni dei quali hanno lavorato anche nella seconda metà del Novecento, occorre sottolineare sia che costoro – Michele Barbi, Ernesto Giacomo Parodi, Bruno Nardi - appartengono tutti ad una stagione molto precisa e straordinariamente produttiva del dantismo, ma anche, d’altra parte, che nella loro bibliografia mancano un libro d’insieme e un’interpretazione unitaria del poema dantesco. Lo stesso Nardi che in un saggio omonimo risalente ai primi anni Quaranta del secolo scorso coniò la formula del “Dante profeta” non pretese che essa bastasse ad esaurirne la tematica. 24

 

  1. Un’esperienza preziosa per le nuove generazioni

In realtà, siccome nell’edificio della Divina Commedia si entra da molte porte, è da ritenere che uno studioso il quale abbia il senso della grandezza schiacciante di questo df6ca044 a34e 11ea 8193 03ffea7ed6dbpoema deve compiere, innanzitutto, un atto di modestia critica e filologica, e cominciare ad affrontarlo punto per punto. Se poi, nel corso di una lettura di questo tipo, comincerà ad intravedere il delinearsi di un significato unitario, ebbene questo sarà il risultato di un’analisi ‘in fieri’, non di una sintesi interpretativa precostituita.

Così, se dovessi dire ad un giovane perché bisogna leggere Dante, credo che farei appello ad un’esperienza personale riferendogli l’enorme impressione che ricevetti quando cominciai a leggerlo nel primo anno del liceo classico, dapprima per dovere scolastico e poi per mio diletto. Ritengo, infatti, che bisogna leggere Dante, che bisogna leggerlo molto attentamente e che i professori debbano insegnare ai loro studenti la modestia, perché Dante è difficile e, in certi casi, molto difficile da capire: e non soltanto nel Paradiso ma anche nell’Inferno, cantica più facile secondo la ‘communis opinio’ ma fino a un certo punto.

In tal modo, leggendolo, e leggendolo con una certa continuità, non a frammenti e sulla base di brani isolati, come oggi purtroppo si fa, i giovani possono avere un’esperienza di qualche cosa che sta dentro di loro e che Dante certamente consente di far emergere. Questa potrebbe essere, ancora oggi, la ragione pedagogica per cui è giusto leggere Dante. Dante può quindi rimanere una delle esperienze fondamentali per la formazione della personalità. 25 Una cosa è certa: Dante rimane un’esperienza fondamentale per chiunque l’abbia letto sul serio.

Del resto, come ho già sottolineato, la grandezza dell’opera di Dante è tale che risulta assai arduo distinguere in essa la poesia dalla filosofia, dalla morale, dalla teologia e dalla riflessione sul linguaggio. È questa la ragione per cui un corretto intendimento della poesia di Dante resterà inesorabilmente precluso a chi non si sforzerà di penetrare i segreti del suo laboratorio linguistico e teoretico, che sono racchiusi nelle opere di carattere dottrinale, dal De vulgari eloquentia al Convivio. 26 In questo senso, non è paradossale affermare che, per comprendere appieno l’opera di Dante, sarà necessaria una rinascita (se non dello spirito della Scolastica medievale) del razionalismo e del realismo, tra di loro indissolubilmente congiunti: sennonché la problematicità di una tale rinascita è ciò che oggi, per un verso, rende l’Alighieri così affascinante e, per un altro verso, così inattuale.

 

  1. La concezione della lingua

La conoscenza delle opere di argomento dottrinale non è solo una premessa condizionante per accostarsi in modo non dilettantesco e meramente impressionistico alla lettura della Divina Commedia, ma ha un valore intrinseco che nasce dalla constatazione del carattere veramente grandioso della concezione della lingua elaborata dal ‘sommo poeta’. Ed è in nome di questa concezione di una lingua ‘aulica’, ‘illustre’ ‘curiale’ e ‘cardinale’ che Dante lancia i suoi potenti sarcasmi - oggi, con una lingua sempre più imbastardita, più che mai abrasivi - «a perpetuale infamia e depressione delli malvagi uomini d’Italia che commendano lo volgare altrui, e lo proprio dispregiano» oppure degli «abominevoli cattivi d’Italia che hanno a vile questo prezioso volgare, lo quale se è vile in alcuna cosa, non è se non in quanto egli suona nella bocca meretrice di questi adulteri».

L’interesse di Dante per la lingua non ha mai una motivazione soltanto tecnica e convenzionale, ma trae sempre origine da ragioni di ordine conoscitivo e morale. Pertanto, egli ricerca instancabilmente la prima radice del significato delle parole, la cui purezza e trasparenza sono spesso rese irriconoscibili dalla tirannia dell’uso. Attraverso il vero significato di un vocabolo, il poeta mira a definire concetti, virtù, sentimenti e costumi, a correggere abusi e spropositi del linguaggio che si ripercuotono su tutti gli altri piani dell’esistenza umana. Non meraviglia, allora, che la sua prima e più appassionata polemica contro il secolo corrotto e corruttore concernesse questioni di lingua e di poesia. 27

D’altronde, lo stesso stile poetico di Dante, così ricco di svariati sapori e di risorse sorprendenti, rivela lo straordinario impasto da cui nacque: quello formato da due lingue, la latina e l’italiana, ancora confuse e mescolate l’una con l’altra nel momento di separarsi. L’attuale ‘revival’ dantesco tradisce forse l’oscura inquietudine che gli spiriti più avvertiti provano a causa della degradazione intellettuale e morale che affligge i nostri tempi e, in particolare, il nostro paese, ma indica anche la consapevolezza che questo disagio profondo può essere vinto e superato solo in forza di una fedeltà creativa a Dante e alla migliore tradizione della nostra letteratura e della nostra cultura, il cui nucleo costitutivo è riassunto nel nitido binomio: senso della ragione e senso della realtà.


Note
1 Il tema biografico e odeporico richiamato da Garboli (1999) riecheggia un motivo già presente nella interpretazione di Mandel’štam (1933), il quale così scrive nel secondo capitoletto della sua Conversazione su Dante: «A me, sul serio, vien fatto di domandarmi quante suole di pelle bovina, quanti sandali abbia consumato, l’Alighieri, nel corso della sua attività poetica, battendo i sentieri da capre dell’Italia. L’Inferno e ancor più il Purgatorio, celebrano la camminata umana, la misura e il ritmo dei passi, il piede e la sua forma. Del passo, congiunto alla respirazione e saturo di pensiero, Dante fa un criterio prosodico. Egli designa l’andare e venire ricorrendo a un gran numero di espressioni multiformi e affascinanti (Conversazione cit., pp. 50-51).
2 Paradiso, c. XXV, vv. 2-3.
3 Cfr. I. Kadaré, Dante, l’inevitabile, Fandango, Isola del Liri (FR) 2008.
4 O. Mandel’štam, Conversazione su Dante, Il Melangolo, Genova 1994, pp. 65-66. L’introduzione premessa alla “conversazione” non si discosta, per il tono e il contenuto, da un volgare libello anticomunista, ma il saggio di Mandel’štam è talmente originale e pregevole da far passare in seconda linea il fatto che questo poeta, essendo politicamente uno sprovveduto, fu strumentalizzato facilmente dai nemici del socialismo.
5 Ivi, p. 70.
6 Dante, Convivio, Trattato Quarto, cap. VIII, 1. Ho mutuato da questo passo del Convivio, applicandolo al nesso fra poesia e ragione, un paragone di cui Dante si serve per illustrare un luogo del Commento all’Etica nicomachea di Aristotele (I, 1, n. 1), concernente la virtù della prudenza. Come è noto, S. Tommaso d’Aquino è per Dante l’autore filosofico e teologico di riferimento. Il poeta così lo presenta nel panegirico che di lui tesse, insieme con quello di S. Francesco d’Assisi, nel canto XI del Paradiso: «…per sapienza in terra fue / di cherubica luce uno splendore» (ivi, vv. 38-39). Il Commento in questione fa parte della serie di commenti dedicati alle opere maggiori di Aristotele, composti da S. Tommaso nel decennio 1259-1269.
7 K. Marx, Il Capitale, Libro primo (a cura di Delio Cantimori), Editori Riuniti, Roma 1967, p. 35. La citazione di Dante è scritta da Marx in lingua italiana. Per la verità, l’originale dantesco suona nelle parole di Virgilio: «Vien dietro a me, e lascia dir le genti» (Purgatorio, c. V, v. 13). Si tratta di un monito a non perdere di vista la propria meta, che Virgilio rivolge a Dante. Non vi è dubbio che Marx lo abbia adattato alla propria situazione biografica e alla propria opera scientifica, modificando il primo emistichio con quel “Segui il tuo corso” che sostituisce il corretto “Vien dietro a me” e, nondimeno, riuscendo a mantenere perfettamente l’unità metrica dell’endecasillabo.
8 F. Engels, Prefazione all’edizione italiana del 1893, in K. Marx-F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, a cura di Emma Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino 1962, p. 319.
9 Si veda per questo spunto interpretativo il libro di A. Giuliani, Le droghe di Marsiglia, Adelphi, Milano 1977, p. 180, dove viene proposto un metodo di lettura che certamente non sarebbe stato apprezzato da Guicciardini, ma che in compenso ha il pregio di separare l’approccio diretto al testo, sgravato dalla mediazione spesso schiacciante del commento, da un ausilio a sé stante individuato nel Dizionario della Divina Commedia di Siebzehner-Vivanti, reperibile in edizione economica nella Universale Feltrinelli. Questo manuale riporta in ordine alfabetico tutte le parole e i lemmi del poema, e non si limita a fornire chiarimenti lessicali, ma tiene conto del lavoro interpretativo accumulato nei secoli. La grande utilità di questa preziosa opera di Siebzehner-Vivanti risiede quindi nel fatto che ognuno può trarne, quando vuole, il proprio commento, ossia lo consulterà quando deciderà lui, andrà a cercarvi le cose che non sa, che non ricorda o delle quali dubita. Per la lettura diretta del testo dantesco si può, inoltre, ricorrere al leggibilissimo volume senza note con il testo della Divina Commedia, curato da Giorgio Petrocchi per l’Einaudi. Infine, è molto pratica l’edizioncina tascabile della Hoepli (quella in sottilissima carta velina).
10 Così Dante descrive l’epilogo emotivo del drammatico incontro con Francesca e Paolo: «Mentre che l’uno spirto questo disse, / l’altro piangea, sì che di pietade / io venni men così com’io morisse; / e caddi come corpo morto cade» (Inferno, c. V, vv. 139-143).
11 Inferno, c. VI, vv. 37-99.
12 «Allora stese al legno ambo le mani; / per che ’l maestro accorto lo sospinse, / dicendo: “Via costà con li altri cani!"» (Ivi, canto VIII, vv. 40-42).
13 Inferno, c. XVI, vv. 19-45. Si tratta di tre uomini di corte, Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci, cui Dante affida la responsabilità di pronunciare un giudizio di riprovazione e condanna nei confronti della Firenze del suo tempo.
14 Ibidem, vv. 46-51.
15 Ibidem, vv. 59-60.
16 Ibidem, vv. 61-63.
17 Purgatorio, c. XIV, vv. 81-84.
18 Ibidem, vv. 103-126.
19 E. Sanguineti, Dante reazionario, Editori Riuniti, Roma 1992.
20 Paradiso, c. XV, vv. 97-108.
21 Tale impronta è resa assai evidente da un esempio scabroso. Pochi dannati sono colpiti da una pena più feroce di quella che tocca a Maometto nella nona bolgia (Inferno, c. XXVIII, vv. 22-36): il corpo del profeta è rappresentato come una botte sfasciata (lui, che ha posto il divieto alla consumazione di alcolici); le interiora ne fuoriescono in modo spaventoso; e le parti anatomiche sono quelle che presiedono alle funzioni più infami e vengono additate con le parole più sconce. Il meno che si possa dire è che non è un Dante ‘politicamente corretto’ (ammesso e non concesso che un simile requisito abbia un senso dal punto di vista storico). Non desta quindi meraviglia che questi versi abbiano meritato alla Commedia la censura in alcuni paesi islamici, dove il canto è cassato dalle traduzioni o la circolazione del poema è addirittura proibita (come è accaduto in Pakistan). Si potrebbe pensare a offesa più grave per una cultura religiosa che, pur riconoscendo nel Profeta un uomo, ne fa il più degno di venerazione? Del resto, che cosa direbbero le associazioni cattoliche, se in Iran o in Egitto circolassero caricature grottesche di Francesco d’Assisi o parodie blasfeme della Vergine Maria?
22 Cfr. per questa suggestiva ipotesi ermeneutica F. Fortini e P. Jachia, Fortini: leggere e scrivere, Marco Nardi Editore, Firenze 1993.
23 Paradiso, c. XXXIII, vv. 58-66.
24 B. Nardi, Dante e la cultura medievale, Laterza, Roma-Bari 1990.
25 Scriveva Niccolò Tommaseo, grande lessicografo e scrittore (1802-1874): «Leggere Dante è dovere, rileggerlo è un bisogno: sentirlo è presagio di grandezza» (Il secolo di Dante in Commento alla Divina Commedia, 1837). Retorica? Ma in certi casi la retorica è solo un modo più o meno efficace per adornare e trasmettere la verità.
26 Dante Alighieri, Tutte le opere, Sansoni, Firenze 1965. Si tratta di un comodo strumento che consente di avvicinarsi all’opera dantesca secondo una visione unitaria ed integrata dell’intera opera. Il volume vide la luce in occasione del settimo centenario della nascita del poeta ed è ancor oggi facilmente reperibile sia nelle biblioteche pubbliche che in Rete.
27 «A perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d’Italia che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano, dico che la loro mossa viene da cinque abominevoli cagioni. La prima è cechitade di discrezione; la seconda, maliziata escusazione; la terza, cupidità di vanagloria; la quarta, argomento d’invidia; la quinta e ultima, viltà d’animo, cioè pusillanimità. E ciascuna di queste retadi ha sì grande setta, che pochi sono quelli che siano da esse liberi.» Così scrive Dante nel Convivio (Trattato Primo, cap. 11, 1-2) e diversi aspetti, non solo socio-linguistici ma anche etico-civili, richiamati dal “sommo poeta” fanno riflettere e secondo il mio sommesso giudizio, pur avendo “sapor di forte agrume”, vanno tenuti ben presenti nella congiuntura storica che stiamo vivendo. Resta fondamentale un tema, da cui non si può impunemente prescindere: la necessità di una politica linguistica in cui lo sforzo di appropriarsi ciò che è estraneo sia bilanciato dalla capacità di non estraniarsi da ciò che è proprio. «Oltre di questo, io voglio che tu consideri come le lingue non possono esser semplici, ma conviene che sieno miste con l’altre lingue. Ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha accattati da altri nell’uso suo, ed è sì potente che i vocaboli accattati non la disordinano, ma ella disordina loro; perché quello ch’ella reca da altri, lo tira a sé in modo che par suo.» Lo stesso concetto ribadisce, sulle orme dell’Alighieri, Niccolò Machiavelli nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, da cui è tratta la citazione che precede (il testo completo è reperibile sulla Rete al seguente indirizzo: https://www.liberliber.it/mediateca/libri/m/machiavelli/discorso_o_dialogo_intorno_alla_nostra_lingua/pdf/discor_p.pdf). Machiavelli qui si riferisce alla lingua italiana quando era una lingua egemone. Oggi la lingua egemone è l’inglese e l’italiano è diventato una lingua debole. Così debole da accogliere passivamente i termini delle altre lingue senza avere più la capacità di tradurli nel proprio lessico e in tal modo di farli suoi. Basti un esempio: USA anziché SU (senza contare di questi tempi l’onnipresente ‘lockdown’ che, a quanto pare, ha un suono più melodioso e accattivante dei suoi corrispettivi italiani, quali “blocco” o “isolamento”), Quando l’italiano era ancora una lingua, se non “potente”, autonoma, Paris fu tradotta in Parigi e New York in Nuova York. In quello che era il “bel paese là dove ’l sì sona” (Inferno, c. XXXIII, v. 80) e che è divenuto da gran tempo ‘Okaylandia’, Nuova York è andata persa, mentre è rimasta New York.

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Pantaléone
Monday, 25 January 2021 17:56
« Oh ! plèbe plus mal créée que tout le reste… »
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Giovanni
Monday, 04 January 2021 17:50
È estremamente interessante l'osservazione sul realismo dantesco che, in certo senso, "prefigura" quello marxiano. Nei miei studi su Monarchia ed Epistole avevo avuto la medesima impressione: il sogno di un impero finalmente universale, sotto la guida di un imperatore che attraverso i "philosophica documenta" conduca tutti alla felicità terrena, è differente ma inscindibile, direi un rispecchiamento, del perfetto governo divino dell'universo che nell'altra vita condurrà alla felicità eterna. In questo a me appariva come momento di "riemersione carsica" del sogno più antico dell'umanità, che poi prenderà corpo anche nell'escatologia "realista" di Bloch e altri autori marxisti.
Non ho ancora trovato il modo di approfondire adeguatamente il ragionamento, ma direi che senza dubbio Dante era tutt'altro che reazionario! Solo chi non comprenda a fondo il senso del suo attaccamento all'impero (della cui "feudalità" a Dante non importava minimamente) può sostenere qualcosa del genere.
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