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sinistra

Una disputa italo-tedesca su Dante

di Eros Barone

dante alighieri 638x425In questo anno giubilare le acque stagnanti della cultura italiana sono state smosse da un lungo e interessante articolo del quotidiano tedesco «Frankfurter Rundschau» dedicato a Dante Alighieri e alla lingua italiana. Dare conto della disputa che ne è nata può essere opportuno per più motivi: verificare come viene considerato il “sommo poeta” in base all’ottica critica di un qualificato giornalista di un importante paese europeo; osservare come reagiscono gli esponenti ufficiali della cultura italiana a questo tipo di ottica; trarne elementi utili per un approfondimento multilaterale della poesia e della personalità di Dante, quale specchio in cui si riflette una vicenda plurisecolare che mette in gioco l’identità storica di un paese, l’Italia, che è caratterizzato dal complesso e conflittuale binomio: “nazione antica, Stato giovane”.

Ma leggiamo alcuni stralci dell’articolo che ha innescato la disputa: “Il 14 settembre 1321 il fiorentino Dante Alighieri morì in esilio a Ravenna, quindi perché un articolo su Dante oggi? L’anno scorso, il 25 marzo è stato introdotto come Dante Day1 in Italia. Il più grande poeta italiano deve essere commemorato in questa data ogni anno. Perché il 25 marzo? In questo giorno, un Venerdì Santo dell'anno 1300, si dice che abbia iniziato il suo viaggio attraverso l'inferno, il purgatorio e il paradiso. Dante ama giocare con i numeri. La sua grande poesia, la Divina Commedia, inizia con le parole: ‘Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai in una selva oscura che la diritta via era smarrita’. Poiché una data di nascita non è stata registrata, si è concluso presto da queste informazioni che Dante era nato nel 1265.

È stata tramandata una data di battesimo, un Sabato Santo, il 26 marzo”. […] “L'Italia lo loda come uno di coloro che hanno portato la lingua nazionale ai vertici della grande letteratura. In un certo senso, ha creato un linguaggio per il suo lavoro”, scrive l’autore dell’articolo, Arno Widmann. “Questa lingua è diventata quella dei suoi lettori e poi quella italiana”, la sua opera un testo usato sui banchi di scuola, in “edizioni costellate di note che non solo spiegavano le singole parole, ma aiutavano anche i lettori moderni a orientarsi attraverso la sintassi di Dante. Ma era italiano, non latino”. 2

Nell'articolo vi è poi un riferimento ai modelli cui Dante - e non solo lui - fu debitore, in particolare alla poesia dei trovatori provenzali: “In Italia, con uno sguardo ai modelli provenzali, i testi nella lingua madre erano inizialmente poesie d'amore. Come i trovatori, anche i poeti italiani cantavano donne di fantasia o vere, le ponevano in paradiso e le coprivano di metafore”. Nota giustamente il Widmann: "Si tende a trascurare un'importante differenza: i trovatori erano cantanti pop, dei cui capolavori è sopravvissuto solo il testo, ma Dante mirava a ottenere lo stesso effetto - senza musica. Si è sempre sentito in competizione. Era interessato a superarli. L'impossibile era il suo elemento”. Assieme alla poesia provenzale viene poi citato un altro modello: “Nella tradizione musulmana c'è il racconto del viaggio di Maometto in paradiso”. E l'arabista spagnolo Miguel Asìn Palacios pubblicò un ampio studio nel 1919 in cui sosteneva che Dante conosceva e usava il vecchio testo arabo”. Aggiunge quindi l’autore dell’articolo: “Ma si farebbe un'ingiustizia a Dante se si sottovalutassero le sue ambizioni competitive. Così come ha fatto sembrare vecchia la poesia provenzale, avrebbe anche potuto sognare di superare l'ascensione musulmana con quella cristiana”.

L’articolo si conclude con un problematico parallelo tra Dante e Shakespeare: “Ma un altro confronto è consentito nell'odierno Dante Day”. Il poeta cattolico T. S. Eliot pubblicò un piccolo trattato su Dante nel 1929. […] In esso, prima spiega che Dante è di facile lettura. È già abbastanza sorprendente. Ma ha ragione. Almeno il modo in cui legge. Mette Shakespeare al suo fianco e confronta le singole metafore con molta attenzione”. “Ma uno sguardo a Shakespeare mostra dove stanno le nostre difficoltà con Dante. L'amoralità di Shakespeare, il suo ritratto di ciò che è - tutto questo, anche l'immaginazione del poeta! -, ci sembrano anni luce più moderni del tentativo di Dante di avere un'opinione su tutto, di trascinare tutto davanti al tribunale della sua moralità. L'intera gigantesca opera è lì solo per consentire al poeta di anticipare il Giudizio Universale, di compiere l'opera di Dio e di mettere il buono da una parte e il cattivo dall'altra”.

Vediamo ora quali posizioni hanno assunto gli esponenti delle due culture, quella italiana e quella tedesca, che sono intervenuti in una disputa al centro della quale vi è il rapporto tra Dante, inteso sia come uomo che come artista, e la sua opera. Il nostro ministro della cultura, una sorta di inamovibile faraone che ha fatto di questo ministero, da diversi anni, la sua personale sinecura, non ha compiuto un grande sforzo per articolare una risposta e si è tratto d’impaccio ricorrendo ad una fin troppo comoda svalutazione dell’articolo in parola, che è consistita nel citare il noto verso del terzo canto dell’“Inferno”: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”.

“L'articolo del giornale tedesco ha un'impostazione infantile, pertanto lascerei cadere la questione senza commenti”, ha sentenziato l'accademico della Crusca Luca Serianni, uno dei maggiori studiosi della lingua italiana, vicepresidente della “Società Dante Alighieri” con un passato di consulente del governo Conte-Di Maio-Salvini per la politica scolastica, il quale con la tipica “boria dei dotti” di vichiana memoria ha anche aggiunto, tra l’altro contraddicendosi: “In certi casi, 'il tacere è bello', per citare Dante. Sarebbe bello sentire che cosa ne pensano alla ‘Deutsche Dante-Gesellschaft’, prestigioso centro di studi danteschi di Monaco di Baviera”.

Particolarmente battagliero e, per alcuni aspetti, incisivo è stato il giudizio espresso dal presidente dell'Accademia della Crusca, il linguista Claudio Marazzini: “Mi sembra che Arno Widmann, per amor di polemica, con le sue argomentazioni, si dia persino la zappa sui piedi. Addirittura dimentica il contributo teorico di Dante: il De vulgari eloquentia è il più straordinario libro di linguistica di tutta l'Europa romanza; un libro, appunto, tutto dedicato al volgare italiano”. “Dante ha segnato una svolta decisiva nella storia della letteratura italiana e mondiale”, ricorda Marazzini, il quale così prosegue: “Non entrerò nella disputa sul valore della visione dantesca o sull'eventuale ego eccessivo dell'Alighieri, perché la critica moderna ha smesso di classificare la letteratura in base alla simpatia ideologica che il sistema filosofico degli autori suscita nei critici. Lasciamo dunque cadere ogni scala di merito pretestuosamente fondata su pregiudizi da Santa Inquisizione”.

Drasticamente liquidatoria e animata da un acceso spirito, per così dire, corporativo, la posizione assunta da Enrico Malato, professore emerito di letteratura italiana dell'Università Federico II di Napoli: “Si tratta di sciocchezze, di affermazioni gratuite e senza fondamento storico. La lingua italiana non esisteva quando Dante ha cominciato a scrivere. Lui scriveva in volgare fiorentino e lo ha così raffinato che poi è diventata la lingua della letteratura italiana di ogni regione e quindi nel corso dei secoli adottata come lingua dell'intera penisola. Il prestigio della Divina Commedia ha imposto la propria lingua a tutta l'Italia”. “La maggior parte delle lingue europee si sono imposte per conquista del potere, l'italiano di Dante si è imposto per il prestigio di un'opera letteraria ed è stato il primo caso in Europa”, ha aggiunto questo studioso.

“‘Mein lieber «Frankfurter Rundschau»’, Ravenna ha presentato e acquisito nel proprio patrimonio librario oltre 60 traduzioni della Divina Commedia, tra cui prestigiosissime versioni in tedesco. Domani, in segno di fratellanza e amicizia fra i popoli nel nome di Dante, la ‘Lettura perpetua della Commedia’, che si svolge ogni sera presso la Tomba del Poeta, sarà fatta anche in lingua tedesca da un lettore dell'associazione italo-tedesca che leggerà il canto XXVI del Paradiso nella traduzione di Thomas Vormbaum. Un omaggio ai tanti amici tedeschi che apprezzano Dante e che immagino siano rimasti sconvolti e feriti dalle parole irrispettose e prive di fondamento che avete scritto in questa giornata e in questo anno dal così forte valore simbolico. La prima società dantesca al mondo nacque proprio in Germania a Berlino e questo è il segno dell'amore per Dante del popolo tedesco che ben conosciamo”, scrive in un messaggio indirizzato al quotidiano tedesco ed oscillante tra pia indignazione ed orgogliosa rivendicazione, Michele de Pascale, sindaco di Ravenna, la città in cui, come tutti sanno, Dante Alighieri è morto e che custodisce la sua tomba.

In 'difesa' del «Frankfurter Rundschau», riportando la disputa ai suoi termini effettivi e riscattandola dall’equivoca suggestione di primazie nazionali, è intervenuto invece il corrispondente dall'Italia della «Frankfurter Allgemeine Zeitung» ed ex presidente della stampa estera in Italia, Tobias Piller: “Non ho letto da nessuna parte né arrivista né plagiatore. Mi sembra un articolo che inquadra Dante nel suo tempo e ne spiega la grandezza ai tedeschi”.

Che dire in margine a questa disputa su Dante? In realtà, una lettura più attenta e, per così dire, sinottica dell’opera dantesca rivela l’impossibilità di distinguere, sia pure idealmente, quelle che sono le componenti fondamentali del genio di Dante: la serietà e grandiosità, incorporata in un fermo disegno strutturale, del proposito etico-politico e, dall’altra parte, una straordinaria plasticità di invenzioni figurative e una prodigiosa fertilità di risoluzioni stilistiche e verbali. Sennonché, una volta acquisita una sufficiente familiarità con il mondo drammatico, percorso da veementi passioni ma anche da affetti struggenti, di cui Dante è, a volta a volta, testimone, protagonista e cantore, l’icastico realismo delle visioni, intramato dallo splendido linguaggio metaforico e corroborato dall’inesausta magnanimità lessicale del poeta fiorentino, ci fa vivere, grazie alla nitida corrispondenza fra vocabolo ed oggetto in cui esso si traduce, uno dei viaggi più affascinanti e sorprendenti che un uomo dell’età moderna possa compiere. E invero non vi è civiltà e non vi è cultura in cui Dante non sia stato riconosciuto un sommo poeta e la sua opera un patrimonio della cultura mondiale. Basti citare la traduzione della Divina Commedia in lingua cinese e l’ammirazione dei fondatori del socialismo scientifico, Marx ed Engels, per l’Alighieri, citato frequentemente dal primo e definito dal secondo “una figura colossale…al tempo stesso l’ultimo poeta del medioevo e il primo poeta moderno”.

Per quanto concerne la critica di egocentrismo formulata dal Widmann a causa del rilievo, a suo dire esorbitante, che assume nel poema il personaggio Dante, è da osservare invece che tale rilievo ha una modernità impressionante. Infatti, il modo in cui il personaggio autobiografico si presenta nell’Inferno ha una sua fenomenologia particolare, perché Dante parte perplesso: egli si trova nell’aldilà e proprio nel regno del Male, ed è quindi timoroso ed esitante, benché di fronte ad alcuni dannati sia disposto, in nome dell’“amor ch’a nullo amato amar perdona”, alla massima comprensione e alla pietà, come accade nel bellissimo episodio di Francesca da Rimini ove Dante si commuove sino al punto che “cadde come corpo morto cade”, e come avviene perfino nell’episodio dell’incontro con Ciacco, il quale è peraltro un personaggio fiorentino del quale quasi nulla si sa, ma che rivive con una tale intensità nella struggente rievocazione fornita da Dante, che induce quest’ultimo al pianto.

Quindi c’è un Dante che partecipa pietosamente alla storia dell’“eterna punizione”, laddove si tratta di peccatori, ovvero di personaggi che devono essere riprovati in quanto Dio li ha riprovati; eppure Dante prova per essi pietà. Poi ci sono le inserzioni della cronaca fiorentina più aspra: già nel canto di Filippo Argenti vi è una scena realistica e particolarmente animata, in cui viene descritto lo scontro con un personaggio che era stato in vita molto violento, altezzoso e prepotente. Questi ha perfino uno scontro fisico con Dante, poiché cerca di rovesciare la barca su cui sono Dante e Virgilio, tanto che lo stesso Virgilio lo caccia via e lo allontana. E poi, a mano a mano che negli ultimi canti dell’Inferno, si arriva sino al punto che Dante sembra diventare lui stesso cattivo, ossia odia: ed è come se sentisse che in quell’ultima parte del regno infernale l’odio si è talmente concentrato in lui da spingerlo all’“alterco” con le anime dannate. Orbene, è sufficiente indicare questo mirabile rovesciamento dialettico per dissolvere il nebbiogeno parallelo tra Dante e Shakespeare istituito dal Widmann, il quale, non essendo in grado di coniugare la coerenza etica, morale e politica di Dante con l’esperienza lacerante del Male e con la terribile attrazione che esso può esercitare, non comprende che qui non sono da contrapporre semplicisticamente il Male e il Bene, poiché nella mente ad un tempo razionale e realistica di Dante la cognizione del loro insanabile contrasto convive con l’esatta identificazione delle radici aggrovigliate e delle fonti impure, per dirla con Bertolt Brecht, da cui nascono le relative passioni. E anche questo dramma dialettico, di cui l’uomo è insieme autore, vittima e creatura, fa parte di quella che è stata giustamente definita come la grandezza schiacciante di Dante. 3

Pertanto, la Divina Commedia, essendo la storia di Dante come ‘personaggio’ una possibile chiave di lettura, si presta ad essere letta indagando il modo in cui la ‘persona’ di Dante che compie il viaggio, via via che questo si svolge e che le esperienze che vi sono contenute lo condizionano, in qualche modo si arricchisce e si trasforma, oppure esprime, traendole dal suo Sé più profondo, delle emozioni, dei sentimenti e dei pensieri, che talvolta sono, soprattutto nell’Inferno, passioni violente. Del resto, è stato detto da chi ha proposto e applicato questa chiave di lettura che la Divina Commedia è il poema più egocentrico che mai sia stato scritto, ma è pur vero che, in fondo, il più egocentrico dei poeti è riuscito nella ossimorica impresa di scrivere una specie di romanzo realistico e teologico. In questo senso, si può giungere ad affermare, seguendo proprio la linea interpretativa proposta dal Widmann e rovesciandone il segno algebrico, che la più grande invenzione poetica di Dante è Dante stesso.

La disputa che si è qui cercato di riassumere dimostra in conclusione che
Dante rimane un’esperienza fondamentale per chiunque l’abbia letto sul serio e che la grandezza dell’opera di Dante è tale che risulta assai arduo distinguere in essa la poesia dalla filosofia, dalla morale, dalla teologia e dalla riflessione sul linguaggio. È questa la ragione per cui un corretto intendimento della poesia di Dante resterà inesorabilmente precluso a chi non si sforzerà di penetrare i segreti del suo laboratorio linguistico e teoretico, che sono racchiusi nelle opere di carattere dottrinale, dal De vulgari eloquentia al Convivio. In questo senso, non è paradossale affermare che, per comprendere appieno l’opera di Dante, sarà necessaria una rinascita (se non dello spirito della Scolastica medievale) del razionalismo e del realismo, tra di loro indissolubilmente congiunti: sennonché la problematicità di una tale rinascita è ciò che oggi, per un verso, rende l’Alighieri così affascinante e, per un altro verso, così inattuale.

Lo stesso stile poetico di Dante, così ricco di svariati sapori e di risorse sorprendenti, rivela lo straordinario impasto da cui nacque: quello formato da due lingue, la latina e l’italiana, ancora confuse e mescolate l’una con l’altra nel momento di separarsi. L’attuale ‘revival’ dantesco tradisce forse l’oscura inquietudine che gli spiriti più coscienti provano a causa della degradazione politica, intellettuale e morale che affligge i nostri tempi e, in particolare, il nostro paese, ma indica anche la consapevolezza che questo disagio profondo può essere vinto e superato solo in forza di una fedeltà creativa a Dante e alla migliore tradizione della nostra letteratura e della nostra cultura, il cui nucleo costitutivo è riassunto nella luminosa endiadi: senso della ragione e senso della realtà.


Note
1 L’espressione, omologo linguistico della transessualità che imperversa da tempo nel nostro paese (sia detto con il debito rispetto verso questo genere promiscuo), è stata giustamente sostituita, ad opera dei mezzi di comunicazione più avvertiti e più rispettosi dell’indole della lingua italiana, con il corretto composto “Dantedì”.
2 Le informazioni di cui mi sono servito per ricostruire la disputa in questione sono tratte da un articolo dell’agenzia giornalistica Adnkronos.
3 La definizione è stata adoperata da Gennaro Sasso, acutissimo filosofo e insigne esegeta di autori quali Dante, Machiavelli, Croce e Gentile.

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Paolo Selmi
Saturday, 03 April 2021 23:17
Grazie mille Eros,

recuperato il testo di Eco e, da una veloce ricerca testuale appare, guarda un po', Dante.

Dante come caso tipico di ricchezza, ampiezza semantica di un testo che costringe il traduttore a fare SCELTE di cui si assume la piena RESPONSABILITA'.

C’è una celebre terzina dalla Divina Commedia (Inferno, I, 103-105) che dice, parlando del mitico Veltro:

Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapienza, amore e virtute,
e sua nazïon sarà tra feltro e feltro.

Tutti sanno quanti fiumi d’inchiostro l’ultimo endecasillabo ha fatto versare. Se s’intende per feltro del panno umile, Dante vuol dire che il Veltro sarà d’umili natali, se feltro viene scritto per due volte in maiuscolo, Feltro e Feltro, allora si accetta l’idea che il Veltro dovrà venire da una zona compresa tra Feltre (nel Veneto) e il Montefeltro. E vi è infine chi come me che, per privatissime ragioni affettive, condivide l’ipotesi che il Veltro fosse Uguccione della Faggiola, e che la Faggiola, teste Albertino Mussato, sia quella nel contado di Rimini e non la Faggiola toscana di Casteldeci, per cui tutto diventerebbe trasparente, dato che la Faggiola si trova di fronte al villaggio di Monte Cerignone, proprio al confine tra il vecchio e il nuovo Montefeltro (tra due Feltri).

Non si può tradurre Dante, in qualsiasi lingua, prima di aver preso una decisione interpretativa circa il testo italiano.

Dorothy Sayers avverte in nota alla sua traduzione che feltro potrebbe non essere preso in senso geografico, nel qual caso la traduzione più ovvia sarebbe: In cloth of frieze his people shall be found, dove frieze significa "coarse cloth", "felt", "robe of poverty". Però si limita a suggerirlo in nota. La sua traduzione di fatto recita His birthplace between Feltro and Feltro found. Peraltro Sayers segue la classica traduzione di Longfellow, che appunto recita:. Twixt Feltro and Feltro shall his nation be.

Jacqueline Risset, per la sua traduzione francese, avverte che ci troviamo di fonte a un enigma, e suggerisce l’alternativa tra "entre feutre et feutre (...) donc, dans l’humilité" e "entre Feltre et Montefeltro". Però nella traduzione opta per et sa nation sera entre feltre et feltre, soluzione che per il lettore francese esclude una delle due letture possibili, come avviene con la traduzione inglese.

È interessante vedere come la traduzione di Claude Perrus faccia la scelta opposta: et il naîtra entre un feutre et un feutre. Il risultato non cambia, il traduttore ha scelto solo una delle letture possibili.

Di fronte a una oggettiva impossibilità di riprodurre in altra lingua l’ambiguità del testo dantesco, i traduttori hanno fatto una scelta di cui evidentemente si assumono la responsabilità. Ma hanno scelto come tradurre solo dopo aver tentato una interpretazione del testo originale, decidendo poi di eliminare l’enigma. Una interpretazione ha preceduto la traduzione. Come diceva Gadamer, la
traduzione presuppone sempre un dialogo ermeneutico.


Grandezza dantesca...
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Eros Barone
Saturday, 03 April 2021 14:09
So bene che è ormai un ricordo del mio passato di studente liceale, che ha mancato regolarmente di un solo anno tutte le riforme scolastiche che si sono succedute dal 1962 in poi, l’apprendimento a memoria di interi canti del "poema cui pose mano e cielo e terra". E ancor più lontani sono i tempi in cui capitava di imbattersi in un cameriere o in un artigiano che, all’impronta, erano capaci di declamare interi canti della “Divina Commedia”. E, risalenti a quella notte dei tempi che è il nostro Ottocento, sono le ‘performance’ di gagliardi uomini di lettere, puristi e cruscanti come Raffaele Fornaciari, che eran soliti, appena levàtisi di buon mattino, recitare a voce spiegata un canto del poema dantesco. Eppure, non c’è esercizio più sano per la mente e per il cuore, nonché per i sensi, della ‘lectura Dantis’. Sì, anche e soprattutto per i sensi, giacché questi organi traggono uno speciale godimento dalla lettura, ancor meglio se ad alta voce, delle terzine dell’Alighieri. Ho preso ad amare la “Divina Commedia”, di cui son solito portarmi appresso l’edizioncina tascabile della Hoepli (quella in sottilissima carta velina), sin dai tempi in cui il professor Biggi, docente d’italiano e latino del liceo classico "Andrea D'Oria" di Genova (uno di quei personaggi della cinematografia scolastica il cui ricordo, come accade anche nella rievocazione di Paolo, lascia un segno indelebile nella memoria degli allievi), mi rimproverava di cercare il socialismo anche nell’Alighieri. Io non ho smesso di cercare e, se non ho trovato il socialismo, ho però percepito con indubitabile chiarezza sia gli echi profondi che l’eresia gioachimita fa risuonare nella sensibilità politico-religiosa del "sommo poeta", sia un realismo cristiano prefigurante quello marxiano. Dante ritorna sempre, insomma, e a noi spetta il festeggiarlo, animati dall'amore per una parola piena, illuminata a giorno, in cui avvertiamo che, con una forza mai più raggiunta, le ragioni della poesia si coniugano alla poesia della ragione. E questo vale anche per le innumerevoli traduzioni del poema dantesco nelle lingue di tutto il mondo, seconde soltanto, così pare, a quelle della Bibbia, laddove il tradurre oscilla come l'ago di una bussola tra una costellazione di significati che, a partire dal "trasportare", comprende tanto il "tramandare" quanto il "tradire" (dopodiché, sul problema non solo linguistico ma anche epistemologico della traduzione è da vedere il saggio di Umberto Eco, "Dire quasi la stessa cosa – Esperienze di traduzione", Bompiani, Milano 2003). Ho fra le mani il volume, in cui ho fatto raccogliere e rilegare le tre cantiche della “Divina Commedia” commentata da Natalino Sapegno, che mi servirono da libro di testo al liceo, e la verità della massima di Niccolò Tommaseo, che trascrissi con la matita sul foglio di risguardo, mi raggiunge, ancora una volta, dolce come una carezza e bruciante come uno schiaffo: “Leggere Dante è dovere, rileggerlo bisogno, sentirlo presagio di grandezza”.
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Paolo Selmi
Friday, 02 April 2021 10:48
Vogliamogli bene, Eros, a questi stranieri che leggono Dante, magari solo in traduzione, e poi sparano giudizi a raffica... il più delle volte caricati a salve.

Io sono una capra totale in tutte e sette le lingue "vive" che frequento, più le due "morte" in cui mi imbatto e in certi periodi più spesso di alcune "vive" (e anche qui... differenza fra lingue "vive" e lingue "morte", lasciam perdere). E' stata una mia scelta... nel senso che preferisco arrabattarmi e continuare ad ampliare l'arrabattamento piuttosto che concentrarmi teutonicamente su una e portarla a livello QUASI di madrelingua.

Perché dico "quasi"? e qui si ricollega alla tua analisi. Perché per quanto possa andare a vivere in un Paese straniero, magari sposarmi con una del posto, farci figli (quindi vivere in seconda persona anche la sfera infantile), arriverei a CAPIRE sicuramente molto, quasi tutto, ma non PROVEREI le stesse cose. PROVARE è una cosa e CAPIRE è un'altra. E io ho puntato a CAPIRE il più possibile delle diverse culture in cui mi imbatto, e la lingua è fondamentale, eccetera eccetera.

Con questo non voglio dire che TRADURRE sia IMPOSSIBILE. Tutt'altro. "L'impossibile non esiste", declamava la povera Paola Cagnoni nelle sue lezioni di letteratura giapponese quando scriveva sulla lavagna uno Haiku e diceva: "traducete". Il che equivaleva a rendere in un'altra lingua "non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade" senza scadere nella banalità...

Ma TRADURRE implica COMPIERE SCELTE, ovvero CREARE a propria volta, ASSUMENDOSI RESPONSABILITA' ENORMI E PRECISE. Il traduttor dei traduttor d'Omero CREAVA. Non conosco il greco, mannaggia allo scientifico, quindi non so dire se creava TRADENDO dove e quanto, o se era riuscito nel MIRACOLO di CREARE restituendo al 100% TUTTO, riga dopo riga e pagina dopo pagina. Ma creava divinamente bene, meglio di altre traduzioni che mi hanno garantito essere di prima mano e che mi hanno lasciato del tutto indifferente.

Premesso questo Dante, anche nella peggiore traduzione, non lascia indifferenti. IN TUTTO IL MONDO. Tutta l'ex-URSS, come mi confermavano i miei amici di quelle parti, ma anche Giappone, dove i giapponesi fecero un passo ulteriore e si sbizzarrirono riportando - alla loro maniera! - le suggestioni dantesche nei loro manga. Peraltro col rischio che la versione distorta fumettistica divenga ben più popolare dell'originale tradotto "fedelmente" (aridaje! diciamo, in maniera "meno creativa").

Come Tol'stoj. O Dostoevskij. Che te li puoi leggere anche in italiano e prendere lo stesso il tuo bello sganassone e ruminare e ruminare poche righe, poche pagine ancora a distanza di anni dalla prima lettura. Dante quindi che parla all'ESSERE UMANO di tutto il mondo, che riconosce e si riconosce in vicende, situazioni, simpatizza, ama e odia.

Specialmente nell'Inferno. E anche qui... cosa c'è di più moderno, riletto oggi, in pieno ventunesimo secolo, degli antieroi danteschi? Che sembra quasi dirti... ce li ho messi "perché dovevo"?

La mia prof di lettere delle medie, professoressa Fagnani, una vita alle Ponti e dalle Ponti sulla sua mitica bianchina con le ruote storte che me la ricordo ancora, oltre a farci imparare a memoria i "classici" (Pascoli, Carducci, Manzoni, Leopardi, ecc.) ci faceva imparare a memoria i "passi scelti"... tipo, "questo lo dovete sapere a memoria!". Punto.

E ci aveva fatto imparare:
«Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza»

Ora, ci sarebbe anche da dire sui giochi di parole INTRADUCIBILI che ci vennero durante le canoniche dieci volte che lo ripetemmo in classe ("perché non mi fido che a casa lo ripetete!" e faceva bene a non fidarsi!): mi ricordo ancora lei che diceva "semenza" e noi che ripetevamo "scemenza", ovviamente, e "canoscenza" che aveva risollevato l'orgoglio pugliese e non solo con tutte le declinazioni possibili e immaginabili di "canùscere" che era tornato per un giorno italiano vero e "prof non me lo può segnare errore!". E varrebbe la pena di TORNARCI, non tanto per la teppa che eravamo, ma per il discorso di prima: ovvero che NESSUNO, nemmeno il miglior filologo romanzo tedesco che ha fatto del Dolce stil novo la propria ragione di vita, riuscirebbe a entrare in quella sfera che noi profanavamo continuamente.

Ma ancora oggi vale per me la domanda che mi feci allora, dopo le crasse risate e le note e i "fuori dalla porta" che fioccarono per calmare gli animi, e vale penso per tutto il mondo che si imbatte, ANCHE NELLA PEGGIORE TRADUZIONE, in questo passo: "ma se un uomo così grande come Ulisse è finito all'inferno, tutto sommato è giusto finirci, come i suoi marinai..." (e non tiriamo in ballo "Itaca" di Lucio Dalla, che infatti è stata tradotta solo dall'italiano... in italiano!)

Scappo che le sigarette son diventate tre e cominciano a chiedersi dove sia finito.

Ciao
Paolo
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