Fai una donazione

Questo sito è autofinanziato. L'aumento dei costi ci costringe a chiedere un piccolo aiuto ai lettori. CHI NON HA O NON VUOLE USARE UNA CARTA DI CREDITO può comunque cliccare su "donate" e nella pagina successiva è presente (in alto) l'IBAN per un bonifico diretto________________________________

Amount
Print Friendly, PDF & Email

sinistra

Che cos’è il ‘classico’?

Storicità di un concetto e persistenza di un valore

di Eros Barone

laocoonte.jpegL’itinerario che seguirò in questo articolo è essenzialmente storico e l’intenzione che mi anima è quella di sbozzare una prima risposta alla domanda che ho posto nel titolo: “Che cos’è il ‘classico’?”. È muovendo da alcuni essenziali prolegomeni di carattere storico e teoretico che mi propongo di individuare il significato del ‘classico’ e di definire quale sia il suo valore oggi.

Anche se nel nostro presente può sembrare un fantasma o un fossile, nel corso dell’età moderna e poi di quella contemporanea il valore storico del classico è stato grandissimo. Sinonimo di eccellente e di perfetto, ma anche di costante e sempre valido, il termine di ‘classico’, anche nelle accezioni moderne, conserva tuttavia l’idea, che è aristotelica, della “medietà” 1 – idea mutuata poi dal ‘modus’ oraziano. Sono qui evidenti gli effetti dell’umanesimo: parallelismo e specularità reciproca tra norme stilistiche, norme etiche e modelli di educazione per le classi dirigenti.

Così, il canone degli “studi classici”, codificato nell’età antica e riproposto dall’umanesimo rinascimentale, ha contraddistinto un lungo arco storico che comprende buona parte del XX secolo e si dirama sino ai nostri giorni. 2 Ed è pur vero che i secoli e le culture hanno assunto ora questa ora quella parte dell’eredità del mondo antico, spesso in conflitto fra loro. Nella storia del termine si esprime pertanto, a livello simbolico, lo stretto rapporto fra le arti e la letteratura, da una parte, e l’insegnamento, dall’altra, laddove quest’ultimo va inteso, in tutto il suo spessore storico, come condizione e trasmissione di potere.

In questo senso, è molto significativo che nelle Noctes Atticae Aulo Gellio, un erudito del II secolo d.C., distingua lo ‘scriptor classicus’, destinato a esser letto dal ceto dei massimi contribuenti fiscali (la classe per antonomasia), dallo ‘scriptor proletarius’, che si rivolge al più basso ceto dei consumatori. Nell’età giustinianea ‘classicus’ è già lo studente e tale è l’opera che a scuola, nelle classi, viene letta e commentata quale modello.

Solo nella tarda età umanistica si afferma, nella storia del termine, il doppio significato di “autore dell’eredità greco-latina” (l’“antico”, degno di ossequio e di imitazione) e di “autore comunque eccellente e riconosciuto”, benché questo secondo significato resti subordinato e metaforico per quasi tre secoli (dal XVI al XIX).

Il canone, peraltro, impone la rigorosa imitazione formale dei modelli greco-romani e genera quindi multipli e ricorrenti classicismi (si pensi al manierismo, al barocco, al neoclassicismo e simili).

Sennonché nel corso del cinquantennio 1780-1830, ossia nel corso della grande polemica europea fra “classici” e “romantici”, il rapporto fra i due significati s’inverte: il classico come autore eponimo, quindi eccellente e riconosciuto nel canone di una qualsiasi lingua, cultura, società, afferma il suo primato rispetto al classico inteso come modello aureo del mondo antico, che viene decostruito dalla filologia, dalla linguistica e dalla storiografia con lo studio delle culture greco-arcaiche e di quella del tardo impero.

La Germania della seconda metà del ’700 è il luogo culturale e il lasso di tempo in cui fioriscono Goethe, Schiller, Winckelmann (si pensi alla celebre dittologia con cui quest’ultimo ha definito il ‘classico’: “Nobile semplicità e quieta grandezza”). Sempre in Germania fiorisce la rivista «Athenäeum» dei fratelli Schlegel, dove viene pubblicata l’importante dissertazione di Friedrich Schlegel Sul valore dello studio dei Greci e dei Romani. In questo lasso di tempo e in questo luogo culturale si compie dunque il passaggio dalla contrapposizione storica fra cultura antica e moderna a quella assoluta fra ciò che è poesia e ciò che poesia non è. Insomma, la via è tutta aperta all’accezione allargata di ‘classico’, ormai equivalente a quella di ‘valore assoluto’, estetico ed etico.

Spetterà ad Hegel tracciare un primo bilancio della storia di questo “momento dello Spirito”, che è appunto il ‘classico’. Nella sua Estetica (1817-1829) il massimo pensatore dell’idealismo tedesco considera l’arte classica come un momento dialettico situato fra quello simbolico dell’Oriente e dell’Egitto, e quello romantico della civiltà cristiana. L’arte classica, “adeguazione di contenuto e forma in unità”, fondata sulla “libera indipendenza dell’insieme”, ha per oggetto il corpo umano e come espressione dominante la scultura. Qui emerge, come tratto distintivo del ‘classico’, il ‘metron’, cioè il prodotto del ‘logos’ stesso, la misura volta a dare ordine (‘nomos’, ‘taxis’) non solo all’arte ma alla stessa realtà sociale.

Infine, con la nascita della città moderna e del proletariato industriale il valore di ‘classico’ si modifica, assumendo il colore e il sapore del “classicismo” di riporto degli ultimi due decenni dell’800, che vive sino agli anni Trenta del ’900 e che si esprime sia negli scrittori e nei poeti maggiori sia negli epigoni. La persistenza del riferimento alla cultura greco-romana è testimoniata dalla rielaborazione dei miti greci (si pensi a Pascoli, D’Annunzio, Gide, Joyce, Stravinskij), miti che prestano la loro simbologia persino alle scoperte di Freud.

Ma vi è di più, poiché la persistenza di tale riferimento emerge all’improvviso dove meno ce l’aspettiamo. Basti un esempio: subito dopo le stragi dell’11 settembre 2001 a New York e a Washington, il primo commento del mullah Mohammed Omar, capo dei talebani afghani, paragonava l’America a Polifemo, “un gigante accecato da un nemico a cui non sa dare un nome”, un gigante accecato da un Nessuno: un arcinemico della cultura occidentale si presentava al mondo come un lettore dell’Odissea, e attribuiva agli autori degli attentati l’astuzia di Ulisse. 3

A questo punto, spero che diventi visibile, se non evidente, il nesso fra la domanda “che cos’è ‘classico’?”, da cui ho preso le mosse, e il grande tema della difesa e del rilancio del liceo classico. La parabola storica del ‘classico’, dal cui ritmo alterno scaturisce il campo metaforico del ‘classico’, ci impone infatti di scegliere fra due usi del ‘classico’ (e qui il concetto di ‘classico’ e la sua espressione scolastica coincidono): l’uso che irrigidisce il ‘classico’ come un immobile sistema di valori e l’uso che vi cerca la complessità dell’esperienza. Vediamo le conseguenze di tali usi nei ‘curricula’ scolastici.

È opportuno rilevare che il primo di essi (che è poi il più frequente) rischia di favorire il continuo regresso degli studi classici nei percorsi formativi. Una siffatta ipostatizzazione del ‘classico’ richiama alla memoria il gustoso aneddoto, riferito dai suoi allievi, in cui il filosofo Antonio Labriola paragonava le idee platoniche ad altrettanti “caciocavalle appise”, vale a dire entità di un ideale mondo iperuranio che si riproducono per partenogenesi: questa rischia di essere la sorte degli studi classici qualora prevalessero la nozione e la pratica del ‘classico’ come immobile sistema di valori. Il secondo uso del ‘classico – quello che vi cerca la complessità dell’esperienza storica – richiede invece di convertire il ‘classico’ da postulato in progetto, rimettendo al centro del dibattito il possibile significato e il possibile futuro del ‘classico’ nella scuola, nell’università e nella cultura.

Orbene – come suggerisce Salvatore Settis nel suo bel saggio sul Futuro del ‘classico’ (2004) - all’immagine, per così dire, ‘egiziaca’ del ‘classico’ come qualcosa di perpetuamente identico a se stesso (e a noi), proprietà esclusiva dell’Occidente, va opposta un’alternativa, che è quella prospettata da Claude Lévi-Strauss in uno scritto del 1956 intitolato Les trois humanismes. L’antropologo francese vede infatti nella riscoperta dell’antichità ‘classica’ compiuta dal Rinascimento “una prima forma di etnologia” fondata sul riconoscimento che nessuna civiltà può pensare se stessa, se non dispone di altre società come termine di comparazione. Da questa premessa è scaturita una rivoluzione culturale di enorme portata, giacché allo studio degli Antichi (un “altrove” più nel tempo che nello spazio) seguì, per naturale evoluzione, quello delle civiltà extraeuropee (un “altrove” più nello spazio che nel tempo). Una rivoluzione culturale di enorme portata giacché introdusse “la tecnica dello straniamento” come esercizio intellettuale. Dei tre umanesimi di Lévi-Strauss, il primo ebbe dunque per oggetto di studio (e quindi dello straniamento) l’antichità greco-romana; il secondo le grandi civiltà orientali, dall’India alla Cina e al Giappone; il terzo le culture un tempo dette “primitive”.

In questa sintesi suggestiva, Lévi-Strauss propone di assumere il confronto con gli Antichi come una forma di antropologia latente. Il suo modello interpretativo s’impernia sul Rinascimento dell’antichità, e dunque involge il tema perenne del ‘classico’ che muore e risorge. Si presenta allora come una nuova versione, declinata in senso antropologico, della diagnosi sulla ricorrente rinascita del ‘classico’ come forma ritmica della storia culturale europea. 4

Concludo: siamo nel 1948, a Genova, in piazza Bandiera, tra gli edifici sventrati dalle bombe. Il poeta Giorgio Caproni incrocia una statua miracolosamente intatta. L’opera di Francesco Baratta raffigura Enea con il padre sulle spalle e il figlio Ascanio per mano. È una rivelazione, e immagino il poeta trattenere il fiato, colpito da una visione che, nella sua pregnanza simbolica, rappresenta, attraverso Anchise, il peso e il valore della “tradizione classica e, attraverso Ascanio, la necessità vitale di salvaguardare e di proiettare tale tradizione verso il futuro. In questo nostro presente così irto di pericoli e di insidie, Enea non può essere un io, ma dev’essere un noi: ecco il significato profondo di quella folgorazione estetica e noetica. Ce lo suggerisce È lo stesso Caproni a suggerircelo in forma di monito e di ricordo. Anni dopo, il poeta livornese che amava Genova definirà quella statua “quanto di più commovente io abbia visto sulla terra” e parlerà di “quel tempo”, così affine al nostro, “in cui l’uomo è veramente solo sopra la terra con sulle spalle il peso di una tradizione ch’egli tenta di sostenere mentre quella non lo sostiene più, e con per mano una speranza ancor troppo piccola e vacillante per potercisi appoggiare e che tuttavia egli deve portare a salvamento”. 5


Note
1 La ‘mesotes’ è intermedia dal punto di vista metretico, ma è apicale dal punto di vista axiologico. Tale è, ad esempio, il coraggio rispetto alla temerarietà e alla viltà o la liberalità rispetto alla prodigalità e all’avarizia.
2 Ecco perché discutere questo canone significa inevitabilmente anche regolare i conti, sul piano storiografico, con un secolo tutt’altro che “breve” (per citare, antifrasticamente, il titolo italiano del famoso libro di Erich Hobsbawm sul Novecento). Quel secolo che lo storico britannico riteneva concluso nel 1991 sembra invece protendersi, per vari e importanti aspetti (economici, politici e bellici), fino ai nostri giorni e oltre.
3 Oggi lo stesso paragone potrebbe essere applicato, ‘mutatis mutandis’, al conflitto israelo-palestinese. 
4 Cfr. Ernst Howald, Die Kultur der Antike, 1948.
5 L’articolo di Caproni, intitolato Noi, Enea, apparve nella «Fiera Letteraria» del luglio 1949.
Pin It

Add comment

Submit