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effimera

Il sintomo-Antropocene

di Emanuele Leonardi e Alessandro Barbero

Jason W. Moore: Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell'era della crisi planetaria, Ombre Corte, 2017

MOORE

L’uomo del XX secolo si è emancipato dalla natura come quello del XVIII dalla storia. Storia e natura ci sono diventate altrettanto estranee, nel senso che l’essenza dell’uomo non può più essere compresa con le loro categorie.D’altronde, l’umanità che per il XVIII secolo non era, in termini kantiani, più che un ideale regolativo, è oggi diventata un fatto inevitabile. [Nel]la nuova situazione […] l’umanità ha effettivamente assunto il ruolo precedentemente attribuito alla natura o alla storia. Hannah Arendt (2004: 413)

 

Il libro che avete tra le mani rappresenta uno degli interventi più significativi all’interno del dibattito sul concetto di Antropocene, coniato dal microbiologo Eugene Stoermer negli anni Ottanta del XX secolo e reso celebre dal Nobel per la chimica Paul Crutzen a partire dal 2000 (Crutzen e Stoermer 2000). Ultimamente il termine è divenuto una sorta di moda, una parola accattivante, in particolare nell’ambito delle scienze sociali – come dimostra il lancio di tre influenti riviste internazionali esclusivamente dedicate: Anthropocene, The Anthropocene Review ed Elementa. Anche il mondo della stampa generalista ha reagito con entusiasmo: Guardian, New York Times ed Economist hanno frequentemente trattato del tema, rimbalzato di tanto in tanto anche in Italia sulle pagine di manifesto, Repubblica e Corriere della sera.

 

L’effetto complessivo è quello di una profonda polisemia della nozione di Antropocene, che da un lato produce confusione e malintesi mentre dall’altro allarga lo spettro analitico e mette in evidenza la posta in gioco tutta politica che sottende l’interazione e lo scontro tra le posizioni in campo. Più che un accadimento, dunque, l’Antropocene ci sembra un sintomo del sociale contemporaneo, dei suoi conflitti e della sua violenza: una condizione che, secondo la prospettiva sintomatologica proposta da Paolo Vignola (2013), necessita sia di una critica radicale che di una pratica di cura collettiva per essere agita consapevolmente e trasformata. In particolare, esso è un sintomo della crisi delle scienze sociali, o meglio del modo in cui esse hanno messo a tema il rapporto moderno – cioè internamente mediato – tra natura e società. In particolare, come ha efficacemente mostrato Pierre Charbonnier (2015), “il fatto che i moderni si percepiscano come esseri viventi che sulla natura si organizzano in società non è questione scontata, innocente; su di essa s’innestano saperi riflessivi il cui scopo è precisamente quello di renderla visibile, ed eventualmente di oltrepassarla”. L’Antropocene segnala precisamente che tale oltrepassamento è ormai in atto, il che implica la crisi delle due principali linee di riflessione sulla forma moderna del rapporto natura-società – quella centrata sul materialismo dei limiti (Georgescu-Roegen 2003) e quella basata sul costruttivismo dei rischi (Beck 2000). Che la via d’uscita da questa impasse teorica stia nel superamento di una pluridecennale, reciproca indifferenza tra queste correnti di pensiero oppure nell’emergere di un inedito approccio onto-epistemologico, non è (ancora) dato sapere. Ciò che invece si può affermare con certezza fin da ora è che “l’Antropocene può diventare una razionalità storico-sociologica solo nella misura in cui assume il rapporto natura-società come perno del proprio asse gravitazionale, cioè come chiave per l’analisi del presente” (Charbonnier 2015). Con un’ulteriore avvertenza: la nuova epoca geologica mette in moto un curioso paradosso di cui non sarà facile liberarsi. Infatti, accettare l’ipotesi dell’Antropocene significa confermare per via catastrofica l’idea cartesiana degli uomini come “signori e possessori della natura” (Descartes 1969: 175), dell’homo sapiens come picco evolutivo e la pletora di dualismi gerarchicamente strutturati che l’hanno sostenuta (cultura-natura, umano-animale, organico-inorganico, ecc.). Infatti, proprio nel momento in cui l’eccezionalismo umano prende coscienza della propria potenza geologica e celebra così la sua più schiacciante vittoria, l’esigenza di smantellarlo si pone come questione di vita o di morte per la sopravvivenza del sistema-Terra (Larrère 2016). Si compie dunque quello che Miguel Benasayag e Gérard Schmit descrivono come “cambiamento di segno del futuro” (2005: 18), il passaggio cioè dal futuro-promessa al futuro-minaccia.

Su questo sfondo, scopo delle pagine che seguono è ripercorrere a grandi linee lo sviluppo del dibattito sull’Antropocene, delle sue problematiche fondamentali, in modo da fornire al lettore elementi di contesto a nostro avviso utili alla comprensione delle tesi di Jason W. Moore. In Italia, quantomeno fino al momento in cui scriviamo – dicembre 2016 – l’eco di questa discussione di carattere compiutamente globale risulta davvero flebile[1]. Con la significativa eccezione del collettivo di ricerca militante Effimera[2], infatti, né l’accademia nostrana né la scena della cultura alternativa hanno dedicato attenzione al tema. Pare tuttavia che la situazione sia sul punto di cambiare: nel 2017, oltre a questo libro, è prevista l’uscita di numeri speciali di riviste importanti dedicati all’Antropocene. Tra le altre: La Deleuziana, Culture della sostenibilità, Kaiak e Azimuth.

 

Il problema della definizione: che cos’è l’Antropocene?

Da una prospettiva geologica il concetto di Antropocene (combinazione dei termini greci anthropos [umano] e cene [nuovo]) rimanda alla scala planetaria delle influenze antropiche su composizione e funzioni del sistema-Terra e delle forme di vita che lo abitano. La proposta di Crutzen e Stoermer si basava su considerazioni principalmente ecologiche quali l’estinzione accelerata di un gran numero di specie, la progressiva riduzione della disponibilità di combustibili fossili e l’incremento delle emissioni di gas a effetto serra, tra cui anidride carbonica e metano. Benché recente in quanto forza geologica, infatti, è ormai acclarato che l’attività antropica sia causa diretta di questi fenomeni e abbia quindi influenzato in profondità le trasformazioni dell’ambiente su scala globale (Steffen et al, 2011). Magnitudine e durata dell’impatto umano – si stima per esempio che pozzi e perforazioni saranno chiaramente visibili a ipotetici geologi tra un milione di anni – sembrerebbero dunque suggerire che il tempo presente non debba essere incluso nell’Olocene (epoca geologica che, iniziata all’incirca 12.000 anni fa, al momento lo contiene) bensì necessiti di una formalizzazione ad hoc, in grado di metterne in evidenza la specificità. Di qui la proposta dell’Antropocene.

Va detto che l’idea di una nuova epoca non è priva di fondamento: determinanti nella classificazione geologica delle scale temporali sono, infatti, le trasformazioni globali dello stato della Terra – dovute a cause disparate che vanno dall’impatto dei meteoriti al movimento dei continenti fino a eruzioni vulcaniche di eccezionale portata. Ora, essendo che non sussistono dubbi sul fatto che l’attività umana sia oggi tanto globale quanto causa prima dei cambiamenti ambientali, ne deriverebbe che una nuova epoca sia cominciata. Va tuttavia notato come l’esistenza o meno dell’Antropocene non sia questione meramente scientifica ma implichi al contrario una serie di considerazioni di natura etica e politica. Lo stesso Crutzen si è detto convinto che l’‘umanità’ debba accettare l’enorme responsibilità derivante dal proprio potere tecnologico e porsi come guardiana della Terra (Crutzen e Schwägerl 2011), magari indicando nella geo-ingegneria[3] la soluzione al problema del riscaldamento globale (Crutzen 2006). Ci pare evidente, quindi, che Antropocene non sia solo il nome di una nuova epoca geologica, ma anche quello di un inedito regime di governance dell’ambiente globale. Occorre dunque prestare attenzione critica al rischio che il concetto venga fagocitato nel vortice post-politico della tecnocrazia globale (Swyngedouw 2013a), all’interno del quale il disaccordo – talvolta l’aperto conflitto – su come affrontare i pericoli ecologici non viene posto come fondativo ma semmai derubricato a questione procedurale, un aspetto tra i tanti della pratica del buon governo (tecnico).

Come suggerisce opportunamente Stefania Barca, per poterne cogliere il nucleo euristico e potenzialmente liberatorio il concetto di Antropocene deve essere politicizzato: che si mantenga il termine destabilizzandone la presunta scientificità o che ne si proponga l’abbandono – Moore in questo testo avanza l’ipotesi del Capitalocene[4], ma come vedremo altre concettualizzazioni sono state proposte – ciò che importa è che non venga sottovalutata l’ambiguità della tesi secondo la quale l’‘umanità’ dovrebbe assumersi la responsabilità del degrado ecologico. Infatti,

[i]l disastro che ci circonda non può essere attribuito all’umanità in quanto tale dal momento che la sua grande maggioranza non ha giocato alcun ruolo storico nell’aumento delle emissioni di gas a effetto serra, anzi: si tratta proprio della parte che sta pagando e con ogni probabilità continuerà a pagare più di tutti i danni del cambiamento climatico. Su questo punto non si può arretrare: il riscaldamento globale è la manifestazione più evidente della diseguaglianza sociale ed economica su scala globale (Barca 2016a).

Mantenendo ferma tale politicizzazione, ci soffermiamo ora brevemente su due elementi del dibattito sull’Antropocene che a nostro avviso ne chiariscono altrettante poste in gioco. In primo luogo, è importante sottolineare che la proposta di far seguire all’Olocene una nuova epoca contraddistinta dall’attività antropica come decisiva forza geologica non è né in procinto di essere approvata nell’immediato né tantomeno circondata da unanime consenso. Lo diciamo innanzitutto perché i media mainstream che si sono occupati di Antropocene l’hanno descritto come realtà in essere[5], dato ormai acquisito, mentre all’interno della comunità dei geologi i confronti continuano più serrati che mai. Da un lato sia la International Commission on Stratigraphy che la International Union of Geological Sciences hanno finora rifiutato di riconoscere il termine come categoria valida per la suddivisione del tempo geologico. Dall’altro, nell’agosto 2016 il Working Group on the Anthropocene – dopo sette anni di lavori – ha ufficialmente raccomandato un tale riconoscimento ai suddetti organi burocratici (con voto ad ampia maggioranza ma senza unanimità). In buona sostanza gli scienziati del gruppo presieduto da Jan Zalasiewicz propongono di considerare l’Antropocene come una serie, l’equivalente stratigrafico di un’epoca, tanto quanto l’Olocene o il Pleistocene che l’hanno preceduto. Il golden spike [chiodo d’oro][6] individuato come punto originario sarebbe da collocarsi nella cosiddetta grande accelerazione, cioè a partire dagli ultimi sussulti della seconda guerra mondiale, quando le bombe atomiche vennero sganciate e la dipendenza da carbone e petrolio contagiò l’intero pianeta (sebbene con intensità molto variabili). Insomma, è certamente possibile che nei prossimi anni l’Antropocene divenga una convenzione accettata dalla comunità dei geologi; tuttavia enfatizzare queste dispute scientifiche rimane importante poiché ad esse si affiancano e spesso si sovrappongono fino a confondersi tensioni di natura squisitamente politica. Tale commistione mette in crisi la rappresentazione classica di un unico sapere scientifico che si occuperebbe di fatti incontrovertibili, da un lato, e di una pluralità di interpretazioni etiche riguardanti il comportamento umano e sostanzialmente legate agli interessi degli attori sociali, dall’altro. Questa rappresentazione è particolarmente inadeguata qualora si voglia cogliere il rapporto contemporaneo tra fatti e valori, che sempre più spesso si compenetrano piuttosto che situarsi a livelli ontologici separati e gerarchicamente orientati. In ultima istanza, è ragionevole affermare che la comunità dei geologi sia concorde sul fatto che una gran quantità di dati incontrovertibili segnali che oggi l’attività antropica influenza gli equilibri biosferici come mai in passato, e che questa capacità trasformativa lasci tracce geologicamente significative. Tutto il resto – la terminologia in primo luogo, ma anche la datazione, la scelta del golden spike (o dei ‘chiodi d’oro’: nulla vieta che l’Antropocene emerga gradualmente, attraverso più passaggi), l’individuazione di evidenze ad esso/i correlate – è oggetto di un dibattito la cui soluzione passa necessariamente per i canali del confronto (anche) politico (Barry e Maslin 2016).

Il secondo elemento che vale la pena prendere in consoderazione è il rapporto costitutivo che lega il dibattito sull’Antropocene al tema del cambiamento climatico. Tutte le posizioni in campo, infatti, condividono il presupposto che il riscaldamento globale rappresenti non solo l’evento cruciale degli ultimi decenni, ma anche il punto d’ingresso decisivo per l’interpretazione del presente. Benché, infatti, l’Antropocene abbracci uno spettro fenomenologico molto ampio, il centro nevralgico della sua struttura concettuale è fornito dal cambiamento climatico. Parlare dell’uno implica che l’altro sia in grado di catalizzare una valida sintesi empirica e normativa dello stato contemporaneo del mondo. Si tratta di una notazione significativa, perché un aspetto frequente delle discussioni sul cambiamento climatico riguarda la supposta incapacità umana di comprenderne natura, sviluppi e pericolosità – si pensi per esempio ai residui di negazionismo, all’incertezza delle simulazioni a lungo termine oppure all’incalcolabilità dei danni potenziali. Da questa prospettiva, Timothy Morton legge il riscaldamento globale come paradigma di una nuova forma dell’essere che definisce iper-oggettualità: essa è definita dall’impossibilità di essere compresa a partire da una posizione di esteriorità epistemologica. Il soggetto conoscente non ‘guarda’ gli iper-oggetti, è piuttosto ‘ospitato’ in essi, ad essi forzosamente legato, da essi ‘circondato’: è da questa perturbante internità che ci sforziamo di comprenderli. Morton definisce gli iper-oggetti viscosi ed è molto preciso nello specificare che “tale viscosità è il prodotto diretto del proliferare di informazioni. Quanto più sappiamo a proposito degli iper-oggetti, tanto più ci rendiamo conto che non potremo mai veramente conoscerli. Eppure, per quanto ci sforziamo di allontanarli, non possiamo separarci da loro” (2013: 180). Abbiamo sempre più bisogno della scienza climatica per combattere il riscaldamento globale, e tuttavia l’eccesso informativo rischia di ridurci all’impotenza.

Dipesh Chakrabarty coglie il punto con lucida amarezza:

[i]l cambiamento climatico, pensato attraverso il lavoro dei climatologi, ci mostra l’effetto delle nostre azioni come specie. Specie potrebbe essere il nome o il simbolo per una nuova ed emergente storia universale che appare nel momento del pericolo costituito dal cambiamento climatico. Ma non potremo mai comprendere questo universale. Non si tratta infatti di un universale hegeliano che sorge dialetticamente dal movimento storico. Il cambiamento climatico ci pone una domanda sulla collettività umana, mirando ad una figura dell’universale che eccede la nostra capacità di esperire il mondo. Sembra piuttosto un universale che emerge da un condiviso senso di catastrofe. Potremmo chiamarlo provvisoriamente ‘storia universale negativa’ (Checkrabarty 2009: 222)[7].

Viene da chiedersi se la ‘storia universale negativa’ sia l’unica forma di politicizzazione capace di opporsi alla tecnocrazia ecologica della green economy o del carbon trading (Leonardi 2012a; 2017 [in corso di pubblicazione]). Crediamo di no, per questo proponiamo una prospettiva sitomatologica per affrontare il problema: in essa diagnosi e prognosi tendono a confondersi, così come il momento analitico e quello prescrittivo. Criticare e prendersi cura diventano elementi inscindibili di una strategia di politicizzazione alternativa. Potrà sembrare contro-intuitivo, ma il cambiamento climatico riguarda meno la quantità di gas a effetto serra emessi in atmosfera che non la particolare organizzazione del nesso natura-valore che contraddistingue il capitalismo contemporaneo (Felli 2016). La rassegnazione è dunque un esito possibile, ma certo non necessario, del riscaldamento globale; Naomi Klein (2015), per esempio, ne ha mostrato efficacemente il potenziale rivoluzionario; Andrew Ross ha invece messo in evidenza l’emergere di nuovo spazio per la convergenza delle lotte (ecologiche e sindacali):

[è] molto probabile che l’impatto delle politiche di austerity creerà problemi all’asse lavoratori-ambientalisti (del resto, tali politiche sono finalizzate a ciò), ma è anche indubbio, ormai, il grande potenziale di una sincronizzazione dei movimenti per la giustizia sociale, economica e ambientale. Tale potenziale ha ricevuto una notevole spinta propulsiva dalla crisi climatica. A dire il vero, se la crisi climatica non fosse esistita sarebbe forse stato necessario inventarla di modo che tale sincronizzazione potesse infine prendere corpo (Ross 2011: 37).

 

Il problema dell’origine: quando comincia l’Antropocene?

Dovrebbe risultare chiaro da quanto affermato in precedenza che la scelta del punto d’origine dell’Antropocene non riguarda soltanto la riflessione geologica in senso stretto, ma anche il dibattito politico. Ogni mito di fondazione (Giannuzzi 2016), infatti, esprime un’interpretazione situata e non-neutrale dell’interazione tra specie umana, ambiente globale e modo di produzione capitalistico. Di seguito riportiamo alcune delle proposte maggiormente discusse in letteratura, sottolineando però fin d’ora che la nostra lista non è affatto esaustiva.

Una prima opzione è quella caldeggiata da Timothy Morton (2016), il quale ritiene di poter datare l’origine dell’Antropocene all’epoca della diffusione delle prime pratiche agricole (nello specifico presso la Mezzaluna Fertile). L’idea di fondo non riguarda tanto il salto di qualità negli impatti umani sulla biosfera – Morton stesso riconosce che la scoperta del fuoco ne ebbe di rilevantissimi. L’elemento centrale della riflessione è posto invece su ciò che l’autore definisce agrilogistica, cioè su un attitudine pratico-epistemologica volta all’imposizione di un ordine umano alla natura esterna. Va notato che tale approccio avrebbe successivamente informato di sé ogni innovazione tecnologica e produttiva:

[l’] algoritmo originatosi nell’agricoltura della Mezzaluna Fertile si componeva di un certo numero di sotto-variabili: l’eliminazione di contraddizioni e anomalie, l’innalzamento di confini tra umano e non-umano, la massimizzazione dell’esistenza a scapito d’ogni altra considerazione, inclusa ogni qualità dell’esistenza stessa. Ora che l’agrilogistica copre quasi interamente la superficie terrestre possiamo vederne gli effetti come in una reazione di polimerizzazione: ebbene, sono catastrofici (Morton 2014: 259).

Morton prosegue sostenendo che l’agrilogistica è un fenomeno legato all’inconscio sociale e che quindi non si tratta né di tornare ad un passato pre-agricolo, né di razionalizzare una fuoriuscita dalla catastrofe ecologica. Egli propone perciò una sorta di psicoanalisi dell’Antropocene – “il primo concetto realmente anti-antropocentrico” (Ivi, 261) – e di praticare un rapporto col mondo incentrato sulla contemplazione e sulla ricerca di una possibile coesistenza tra le varie entità ospitate dagli iper-oggetti. Al di là delle varie critiche (più che giustificate) che si possono indirizzare a questa opzione, a noi interessa mostrare come essa si focalizzi solo sul rapporto tra specie umana e ambiente, mentre nessuna attenzione viene dedicata al capitalismo, concepito al più come un accidente tecnico nella marcia agrilogistica verso la catastrofe antropocenica.

Una posizione alternativa è quella avanzata da Simon Lewis e Mark Maslin (2015), secondo la quale la data d’inizio dell’Antropocene dovrebbe coincidere con l’Orbis spike [dal termine latino per “mondo”], cioè con la drastica riduzione della concentrazione di anidride carbonica in atmosfera (con minimo storico registrato nell’anno 1610) dovuta al cosiddetto Columbian Exchange (Crosby 1972). Con questo termine s’intende lo scambio e il miscuglio profondo di organismi vegetali e animali – ma anche di oggetti e idee – tra l’emisfero orientale e quello occidentale. Si tratta senza dubbio di un fenomeno ecologico di fondamentale importanza che prende il nome da Cristoforo Colombo, il cui primo viaggio verso le Americhe nel 1492 inaugurò l’era dei contatti su vasta scala tra Vecchio e Nuovo mondo. Dal punto di vista biologico, l’esito più rilevante di questo scambio è stata la globalizzazione del cibo: mais e patate si diffusero dalle America a Europa, Asia e Africa, grano e canna da zucchero fecero invece il percorso inverso. Stessa cosa per quanto riguarda l’importazione da parte del Nuovo mondo di animali domestici – cavalli, vacche, capre e maiali. Il risultato finale fu una radicale riorganizzazione della vita sulla Terra, senza precedenti da un punto di vista geologico. Il risvolto tragico di questo processo fu la decimazione della popolazione nativa delle Americhe: Lewis e Maslin stimano che sia passata, a causa di malattie, guerre, riduzioni in schiavitù e carestie – tutte portate dagli Europei – da circa 60 milioni nel 1492 a circa 6 milioni nel 1650. Le conseguenze immediate di questo genocidio – quasi scomparsa dell’agricoltura e semi-cessazione nell’uso del fuoco – comportarono la rigenerazione di circa 50 milioni di ettari di foreste, savane boscose e praterie, che a loro volte produssero un enorme assorbimento di anidride carbonica attraverso piante e suoli, quindi un impressionante abbassamento delle emissioni in atmosfera.

Suggeriamo di chiamare questo calo della concentrazione di anidride carbonica ‘Orbis spike’, e ‘ipotesi Orbis’ le modifiche susseguenti al 1610 che danno inizio all’Antropocene, perché dopo il 1492 gli esseri umani furono tutti connessi e il commercio divenne globale fino al punto che importanti scienziati sociali si riferiscono a questo periodo come quello che da cui origina il moderno ‘sistema-mondo’ (Lewis e Maslin 2015: 175).

Questa opzione presenta il vantaggio di mettere a tema in modo diretto l’interazione tra specie umana, ambiente globale e modo di produzione capitalistico, mostrandosi precisa dal punto di vista stratigrafico e attenta da quella storico-politico. Un possibile difetto starebbe nell’incapacità di mettere in luce la specificità quali-quantitativa rappresentata dalle rivoluzioni industriali del XVIII e XIX secolo.

Si tratta della questione che la terza alternativa della nostra breve rassegna ritiene fondamentale. Essa è stata proposta dallo stesso Paul Crutzen (2002) e consiste nel far coincidere l’origine dell’Antropocene e l’emergere della rivoluzione industriale in Inghilterra. Più precisamente, l’idea è quella di utilizzare come simbolo l’invenzione, da parte di James Watt, della macchina a vapore tra il 1763 e il 1775. Essa consentì infatti per la prima volta la trasformazione di energia chimica in energia meccanica, processo che rese a sua volta possibile la sostituzione del lavoro vivo di donne e uomini con il lavoro morto dei macchinari, e favorì quindi lo sviluppo dell’industria. In generale, l’ipotesi mantiene una sua validità dal momento che, da un punto di vista squisitamente tecnico, la macchina a vapore ha effettivamente dischiuso il potenziale dei combustili fossili, i quali hanno certamente modificato in profondità la relazione tra specie umana e ambiente globale. Tuttavia la gran parte della letteratura sull’Antropocene interpreta questa fondamentale innovazione tecnologica non come cristallizzazione di inediti rapporti sociali di produzione, bensì come il culmine di un cammino evolutivo cominciato con la manipolazione del fuoco – “un potente strumento monopolistico, inaccessibile alle altre specie, che ci ha decisamente incamminato lungo il sentiero che porta all’Antropocene” (Steffen et al, 2007: 614). Per questo motivo Andreas Malm e Alf Hornborg hanno ottime ragioni per sottolineare che la transizione ai combustibili fossili nell’Inghilterra del XIX secolo, senza dubbio il fattore scatenante del cambiamento climatico antropogenico, fu un processo globale, ingiusto e ineguale fin dal principio. Le opportunità d’investimento nella tecnologia del vapore richiedevano, per essere risultare effettivamente redditizie, una serie di condizioni di possibilità: estese porzioni di territorio largamente sottopopolate nel Nuovo mondo, la schiavitù degli afro-americani, lo sfruttamento del lavoro in Inghilterra, la domanda di cotone a basso prezzo sul mercato mondiale. In questo contesto,

[l]e macchine a vapore non furono adottate da qualche rappresentante naturale della specie umana: considerata la natura dell’ordine sociale, esse avrebbero potuto essere utilizzate solo dai proprietari dei mezzi di produzione. Piccola minoranza anche in Inghilterra, questa classe rappresentava una frazione infinitesimale della popolazione di homo sapiens nel XIX secolo […] I capitalisti in un angolo del mondo occidentale investirono nel vapore e posero la prima pietra dell’economia fossile: in nessun momento la specie votò questo passaggio, né coi piedi né con le schede elettorali, e neppure marciò all’unisono o esercitò un qualche tipo di autorità condivisa sul proprio destino e su quello del sistema-Terra (Malm e Hornborg 2014: 2-3).

Un’ultima opzione è quella che enfatizza il ruolo della cosiddetta grande accelerazione, e come abbiamo visto in precedenza è quella considerata più ragionevole dalla maggioranza dei membri dell’Anthropocene Working Group. Essa registra il “cambio di marcia dell’impresa umana dopo la seconda guerra mondiale” (Steffen et al, 2011: 849). Tale, drastico incremento dell’impatto umano sulla biosfera si presenta in forme altamente differenziate (per non citarne che alcune: frequenza di catastrofi naturali, artificializzazione dei suoli, riduzione della biodiversità) e, secondo Will Steffen e colleghi, sarebbe connesso a tre fattori concomitanti: intensificazione dei processi d’industrializzazione durante il periodo fordista (con elevati tassi di crescita economica, divenuta ormai un imperativo sociale auto-propulsivo); tendenziale urbanizzazione del pianeta; diffusione di nuove tecnologie basate sulla disponibilità di energia a buon mercato. La tesi della grande accelerazione coglie certamente alcuni dati di realtà incontrovertibili; rischia però, focalizzandosi sugli effetti del degrado ecologico, di trascurare l’analisi delle cause, rendendo quindi più ardua la ricerca di soluzioni politiche al problema.

Questa considerazione è uno dei punti di partenza del ragionamento di Jason W. Moore, di cui in questa sede ci limitiamo a segnalare tre elementi cruciali che il lettore potrà approfondire nelle pagine a seguire[8]. In primo luogo, le cause storico-sociali del degrado ecologico vanno cercate nel regime di accumulazione emerso dalle temperie del lungo XVI secolo descritto da Fernand Braudel. È in quella fase che si formano i rapporti sociali di produzione che costituiranno le condizioni di possibilità per l’emergere dell’economia fossile:

Collocare le origini del mondo moderno nell’ascesa della civiltà capitalista a partire dal 1450, con le sue audaci strategie di conquista globale, mercificazione infinita e razionalizzazione implacabile, significa invece dare la priorità ai rapporti di potere, sapere e capitale che hanno prodotto – e ora stanno distruggendo – il mondo moderno come l’abbiamo conosciuto. Spegnere una centrale a carbone e può rallentare il riscaldamento globale per un giorno; interrompere i rapporti che costituiscono la centrale a carbone può fermarla per sempre (infra, p. 42).

In secondo luogo, il sociologo americano parte dal presupposto che l’idea di una natura esterna ai processi di valorizzazione non sia che un effetto ottico, un puntello ideologico del primo capitalismo. Essa affonda le proprie radici in un duplice riduzionismo: ora l’ambiente visto come risorsa infinita e gratuita – all’inizio del processo economico; ora l’ambiente percepito come discarica per rifiuti altrettanto infinita e gratuita – alla sua conclusione. La riflessione di Moore opera una critica appassionata e feroce di questo dualismo: il concetto di ecologia-mondo prevede infatti un approccio relazionale e rimanda a una commistione originaria tra dinamiche sociali ed elementi naturali che compongono il modo di produzione capitalistico nel suo divenire storico, nella sua tendenza a farsi mercato mondiale: “il capitalismo come totalità non ha un regime ecologico bensì è un modo di organizzare la natura nella sua dimensione storica più fondamentale” (infra, p. 57).

In terzo luogo, Moore conferisce all’espressione produzione della natura un significato inedito. Essa va infatti intesa nel duplice senso del genitivo: da un lato come esito di un processo di messa in forma del ‘naturale’ che lo fissa nel registro della res extensa e dell’appropriazione; dall’altro come parte attiva che costringe il rapporto di capitale a rimodellarsi lungo il proprio profilo. In Moore mette in luce la dimensione ecologica della teoria del valore-lavoro in Karl Marx. Se da un lato l’emergere del capitalismo non sarebbe stato possibile senza sostituire la produttività del lavoro a quella della terra come elemento centrale della produzione di plusvalore, dall’altro “il lavoro sociale astratto può essere accumulato soltanto attraverso un vasto repertorio di recinzioni [enclosures] imperialistiche e di appropriazione dei ‘beni gratuiti’ della natura al servizio della produzione di merci” (infra, p. 45). Per capire lo sfruttamento capitalistico, dunque, all’analisi del lavoro sociale astratto va affiancata quella della natura sociale astratta.

Per queste ragioni la creazione di valore non si dà sulla natura, ma attraverso di essa – cioè dentro i rapporti socio-naturali che emergono dall’articolazione variabile di capitale, potere e ambiente. Non ci troveremmo dunque nell’Antropocene, bensì nel Capitalocene[9]. Al di là delle pur importanti questioni terminologiche, prima di concludere questa sezione vorremmo segnalare una possibile linea di ricerca futura – nulla più che una suggestione, al momento: proprio come alcuni geologi stanno riflettendo su una datazione stratificata, in grado di dar conto di una possibile origine diacronica dell’Antropocene, così una prospettiva storico-sociale potrebbe svolgersi su più piani analitici. A quello prettamente economico concernente la teoria del valore – ottimamente costruito da Moore sulle orme di Marx[10] – potrebbe aggiungersene uno (bio)politico riguardante il concetto di natura nel liberalismo classico così come indagato da Michel Foucault nei corsi al Collège de France tra il 1976 e il 1979. Dopotutto fu lo stesso Foucault a mostrare il duplice carattere dell’economia politica nella seconda metà del XVIII secolo: scienza del valore, certo, ma anche scienza del governo, e in particolare critica ‘naturalistica’ del potere sovrano[11].

 

Come evadere dall’Antropocene?

Che si propenda per Antropocene, Capitalocene oppure per un’altra soluzione terminologica, ci pare comunque fuor di dubbio che lo stato di salute del pianeta non sia dei migliori e che l’esigenza di affrontare il degrado ecologico non possa essere ulteriormente rimandata. Scrive Agnès Sinaï al proposito:

L’Antropocene, in quanto periodo caratterizzato da un dispendio energetico senza precedenti, sarà solamente una tappa che andrà ben presto declinata al futuro anteriore. Il grande fallimento è cominciato e il suo emblema è Fukushima. La domanda che rimane è quella della sua eredità: fino a che punto le società umane saranno in grado di dispiegare strategie di resilienza di fronte alle tre grandi eredità dell’Antropocene: cambiamento climatico, radioattività diffusa, artificializzazione del mondo? (Sinaï 2016: 208).

Di fronte a queste sfide non è raro imbattersi in reazioni teconocratiche, convinte della funzione salvifica dei mercati e/o delle innovazioni, depresse, generalmente ispirate alla Gelassenheit heideggeriana, oppure apocalittiche, versioni più o meno raffinate del vecchio adagio “si salvi chi può”. Benissimo ha fatto, dunque, Mariaenrica Giannuzzi a raggruppare alcune filosofie non tristi del cambiamento climatico, cioè tentativi di sganciare l’Antropocene dalla sua aura di necessità naturale per riportarlo nell’alveo delle scelte politiche. Nel suo elenco troviamo, oltre al Capitalocene di Moore, la storia critica dell’anidride carbonica di Jean-Baptiste Fressoz e Christophe Bonneuil (2013), il femminismo postumano di Rosi Braidotti (2014), la potenzialità mitopoietica delle cosmologie amerindie discussa da Déborah Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro (2014).

Nella lista di Giannuzzi trova spazio anche un libro molto particolare, Molecular Red di McKenzie Wark (2015), a partire dal quale vorremmo indicare una pista di ricerca che ci sembra particolarmente utile per ragionare sulla fuoriuscita dall’Antropocene. Il testo narra del Carbon Liberation Front – una sorta di Internazionale delle emissioni – e di piccole sacche di resistenza disseminate nel tempo (anni Trenta e anni Ottanta del XX secolo) e nello spazio (URSS e California). Ciò che davvero conta, tuttavia, è che si tratti di “un libro scritto per la teoria dell’Antropocene”, non dunque “un libro che fa teoria, ma una pratica comunicativa che raccoglie voci provenienti da un contesto di sconfitte del movimento operaio ma non per questo rifugiate in distopiche apocalissi” (Giannuzzi 2015). Dal nostro punto di vista la mossa interessante di Wark è quella di assumere l’Antropocene non come una retorica da rigettare ma come un terreno di lotta su cui costruire una nuova “prospettiva del lavoro sui compiti storici del nostro tempo” (2015: xx). Un sintomo sociale da riconoscere per poterne re-indirizzare le potenzialità. Perciò, più che “interrogare l’Antropocene […] conviene prenderlo per ciò che è: un argutissimo trucco [brilliant hack][12]; esso introduce il punto di vista del lavoro – nel senso più ampio possibile – nella geologia” (Ivi, 223).

Un buon modo per pensare la specificità del lavoro nel presente antropocenico è domandarsi come vediamo la nuova era geologica, cioè da quale regime di visibilità sia governata: su cosa si basa l’insieme delle norme che regolano la rappresentazione degli iper-oggetti? A noi pare ragionevole ipotizzare che sia il General Intellect (Marx 2012), divenuto astrazione reale del lavoro e principio organizzativo della produzione contemporanea (Vercellone 2006), a porre le condizioni di possibilità per vedere il cambiamento climatico. In altre parole, il regime di visibilità che ci consente di realizzare che abitiamo l’Antropocene s’innesta sul capitalismo cognitivo, cioè sullo sfruttamento generalizzato del lavoro-conoscenza. Questo è il sintomo. Ed è particolarmente grave perché a dispetto delle potenzialità esso non riduce per nulla gli impatti ambientali: come sostiene Carlo Vercellone, “[l]ungi dall’emanciparsi dalla logica produttivista del capitalismo industriale, il capitalismo cognitivo la sussume, la riproduce, e la estende, determinando una rottura drammatica degli equilibri necessari alla riproduzione dell’ecosistema” (Vercellone 2017 [in corso di pubblicazione]).

Non è un caso del resto che, benché noto fin dal XIX secolo, il cambiamento climatico sia diventato un problema pubblico, una questione politicamente visibile solo a partire dagli anni Ottanta del Novecento, cioè nel momento in cui la razionalità neoliberale ha permesso di scorgere una strategia di sviluppo per il capitale dentro ad una “crisi di riproduzione” (Gorz 2015) creata dal capitale stesso. Da allora – da quando le élites globali possono affermare che il riscaldamento globale è un fallimento del mercato (in quanto incapace di internalizzare i costi ambientali) che può tuttavia essere risolto solo da un’ulteriore ondata di mercatizzazione (carbon trading e mercificazione della natura) – l’Antropocene può finalmente diventare l’orizzonte dell’accumulazione ‘sostenibile’.

Si tratta di una mutazione epistemica di primaria importanza – incapsulata nelle formule capitalismo cognitivo e green economy – che tuttavia non può stupire se si considera il ruolo fondamentale svolto dalla computazione digitale nel produrre dati e simulazioni riguardanti il riscaldamento globale. Come ha mostrato lo storico Paul Edwards (2010), nessuno vive un’esperienza atmosferico-planetaria senza il supporto della scienza climatica. Affinché si possa stabilire un nesso tra un evento meteorologico – non importa quanto estremo – e il riscaldamento globale, si richiede invariabilmente una mobilitazione su larga scala del General Intellect nelle sue diverse forme (cioè le varie fabbriche del sapere: università, think-tanks, contro-argomentazioni da parte dei movimenti sociali, ecc.). Come è ovvio, una tale dipendenza dal sapere non riduce in nulla la concreta materialità dei mutamenti climatici, né per quanto riguarda l’individuazione delle loro multiple cause, né in riferimento al portato distruttivo dei loro eterogenei effetti. Rimane tuttavia il fatto che, con le parole di Matteo Pasquinelli, “la percezione politica dell’Antropocene è possibile solo grazie ad una rete globale (apparentemente neutra) di sensori, data centers, super computers e istituzioni scientifiche” (2014b)[13].

Ne deriva che un passo importante nell’elaborazione di una strategia di evasione dall’Antropocene sia quello di riflettere più in profondità sul concetto di lavoro nell’epoca della sua rilevanza geologica. Moore stesso, nella Conclusione scritta appositamente per questa edizione italiana, parla di lavoro/energia per indicare la necessità di superare l’opposizione lavoro-natura nel Capitalocene, il quale “mostra il deterioramento della natura come espressione specifica dell’organizzazione capitalistica del lavoro” (infra, p. 141)[14]. Questo tipo di lavoro – quello preso in carico dalla teoria energetica del valore-lavoro, che nel tempo avrebbe assunto forma industrial-fordista e si sarebbe incastonato in una cornice istituzionale quantitativa come quella del salario (Chicchi et al, 2016) – è senza dubbio responsabile del degrado ecologico. Ciò dipende dal fatto che in tale rapporto tra natura e lavoro la prima funge da limite non contabilizzato sia all’inizio del processo (materie prime della produzione) sia alla fine del processo (smaltimento dei rifiuti della produzione). Insomma, in questo modello la natura sociale astratta è certamente internalizzata (appare sia come componente gratuita dell’input che come recipiente, altrettanto gratuito, per scarti dell’output), ma solo per definire i limiti del lavoro sociale astratto propriamente produttivo, limiti che non la coinvolgono nell’attività trasformativa vera e propria (Leonardi 2012b).

Ben diversa è però la situazione nel momento in cui il lavoro-conoscenza diventa fattore primario della produzione e fa emergere, accanto alla propria dimensione di danno ambientale, un potenziale ecologicamente positivo legato alla cura dei beni comuni socio-naturali. L’analisi di questa forma di lavoro/energia – che non è quella discussa da Moore, più legata alla teoria del valore ‘tradizionale’ – ci pare oggi un compito politico di primaria importanza, il cui sviluppo travalica decisamente lo spazio di questa Introduzione. Ci limitiamo dunque a indicare un elemento che ci sembra importante problematizzare: il rapporto tra lavoro ed entropia[15] nel capitalismo cognitivo, cioè nell’Antropocene visibile e da cui è perciò possibile evadere politicamente.

Il tema dell’entropia è stato introdotto nel pensiero economico negli anni Settanta da Nicholas Georgescu-Roegen (2003), il quale ha sostenuto che qualsiasi processo che produce merci materiali diminuisce, nel futuro, la disponibilità di energia e quindi la possibilità di produrre altre merci materiali. Inoltre, nel corso del processo economico anche la materia si degrada, cioè diminuisce tendenzialmente la sua possibilità di essere utilizzata di nuovo: una volta disperse nell’ambiente le materie prime precedentemente concentrate in giacimenti nel sottosuolo, queste possono essere re-impiegate nel ciclo economico solo in misura ridotta e a prezzo di un alto dispendio di energia. Come accennato in precedenza, il lavoro salariato di matrice industrial-fordista, in quanto fortemente entropico, conferma questa analisi: risulta dunque evidente l’auspicabilità sociale una sua diminuzione. Come il movimento per la Decrescita ha più volte sottolineato, una riduzione del metabolismo sociale a livello globale è un requisito necessario per allontanare lo spettro della catastrofe ecologica (Deriu 2016).

Tale riduzione, tuttavia, non copre che una piccola parte della riflessione sul rapporto natura-lavoro nell’Antropocene. L’emergere del lavoro-conoscenza come centrale, infatti, schiude la possibilità di pensare e organizzare una forma di lavoro neghentropico[16], inserito in una teoria informazionale del valore-lavoro e che ancora attende di trovare una sua architettura istituzionale qualitativa (al di là, quindi, del rapporto salariale). Esso non può compensare il danno ecologico che ci ha trasportati nell’Antropocene; può però indicare alcune linee d’intervento politico per abitarlo diversamente – fuori dal mercato e dal feticismo tecnologico – e infine evaderne. Sul lavoro neghentropico dovrebbe basarsi a nostro avviso ciò che Nina Power ha definito “de-capitalizzazione” [decapitalism] (2015), vale a dire una strategia di lotta che aggredisca il capitalismo contemporaneo senza accettare l’aut-aut tra ottimismo accelerazionista e auto-restrizione decrescitista[17]. Essendo fondamentalmente legato al General Intellect, il lavoro neghentropico non può che installarsi su di un paradigma tecno-economico di stampo digitale: solo da quella prospettiva diviene possibile politicizzare la sostenibilità in modo tale che una conoscenza sociale non mercificata possa porsi al servizio della protezione ambientale. Di nuovo, non si tratta di pensare che le ICT in quanto tali possano ‘risolvere’ la questione ecologica: allo stato attuale delle cose i loro requisiti energetici non sono compatibili con un pianeta in salute. Resta tuttavia possibile costruire rapporti di produzione che privilegino lo sviluppo autonomo del lavoro neghentropico rispetto agli imperativi dell’accumulazione capitalistica: tali rapporti dovranno diventare il terreno su cui edificare un modo di produzione sempre più basato su reti peer-to-peer legate a beni comuni e sostenibilità ambientale.

Si tratta con ogni evidenza di un programma di ricerca e azione politica ancora in fase embrionale[18]. Riportiamo perciò, in conclusione, due suggestioni che speriamo di poter approfondire in futuro. La prima riprende l’approccio farmacologico di Bernard Stiegler, il quale legge l’Antropocene non solo come apice della società iper-industriale e della proletarizzazione tecnologica ma, allo stesso tempo, come condizione di possibilità per il suo stesso superamento, cioè per un ri-direzionamento dell’entropia verso la produzione di “valore neghentropico” (2015: 20). Si tratta, per dirla con Sara Baranzoni e Paolo Vignola (2016), di biforcare alla radice, cioè d’individuare “l’ipotetico punto di rottura dove da un’epoca catastrofica e totalmente entropica si può passare a un epoca fondata sull’inversione di questa tendenza”. Questa prospettiva ci interessa soprattutto perché estende il concetto di proletarizzazione all’ambito della conoscenza sociale, mostrando come il futuro – anche ecologico – del pianeta risieda nella riappropriazione da parte di lavoratori e consumatori delle varie forme di sapere che gli sono state sottratte nel capitalismo cognitivo (Baranzoni e Vignola 2015). Oltre al sintomo-Antropocene, ecco emergere i primi segni di una possibile terapia politica.

La seconda suggestione rimanda alla necessità, segnalata con particolare accuratezza da Matteo Pasquinelli, di integrare la teoria energetica del valore-lavoro, fondamentale per comprendere il capitalismo fossile (Malm 2016), con la teoria informazionale del valore-lavoro, senza la quale sarebbe impossibile cogliere la specificità del capitalismo cognitivo. Tale integrazione è urgente poiché, in sua assenza, la forbice che separa le lotte sull’informazione (dal movimento hacker al precariato digitale, da Anonymous al mediattivismo post-Snowden) e le lotte sull’energia (dai movimenti anti-nucleari alla giustizia ambientale e climatica, dall’ecologia urbana alle lotte dei nativi per la sovranità alimentare e territoriale) è destinata ad allargarsi. “Per usare un concetto classico dell’operaismo: una nuova composizione politica di energia e informazione deve essere elaborata contro la composizione tecnica che le ha biforcate fin dall’era industriale” (Pasquinelli 2017).

Non potremmo concordare di più. Ci preme solo sottolineare che, a dire il vero, non si comincia da zero: già nel 1977 André Gorz, di cui ricorre quest’anno il decennale della morte, mostrava in Ecologia e libertà come l’eco-socialismo avesse bisogno simultaneamente di una re-invenzione radicale del lavoro, di una ri-localizzazione della produzione e di una ri-appropriazione autonoma della tecnologia[19]. Si tratta quindi, per ricordare il rivoluzionario francese nel modo migliore, di proseguire qui e ora la sua ricerca su nuovi terreni, di trovare nuove pratiche di conflitto per aprire il passaggio verso civiltà del tempo liberato. Tenendo sempre bene a mente che “l’autonomia sociale è la prima forma di resistenza all’entropia economica” (Pasquinelli 2011: 7).


Note
[1]     Oltre a Crutzen (2005), rimasto sostanzialmente inascoltato, l’unico libro importante tradotto in italiano è quello di Elizabeth Kolbert (2014), vincitore del Premio Pulitzer.
[2]     Si veda effimera.org, e in particolare la sezione “Ecologia politica” (http://effimera.org/tag/ecologia-politica/) il cui punto di partenza coincide, per quanto ne sappiamo, con la prima riflessione filosofica sull’Antropocene in lingua italiana (Giannuzzi 2015).
[3]     Per geo-ingegneria, o più specificamente ingegneria climatica, s’intende l’applicazione di tecniche artificiali di intervento umano sull’ambiente fisico (atmosfera, idrosfera, litosfera, ecc.) volte a contrastare il riscaldamento globale antropogenico. Un riferimento ormai classico sono le tecniche di ingegneria planetaria per catturare e ridurre la presenza di anidride carbonica in atmosfera.
[4]     Per una discussione del concetto in lingua italiana si veda Barbero (2015).
[5]     Si veda per esempio La Repubblica del 30 Agosto 2016: “Troppo forte la traccia dell’uomo. Benvenuti nell’era dell’Antropocene. Il Congresso internazionale di geologia dichiara ufficialmente la fine dell’Olocene. Un passaggio già enunciato da diversi ricercatori” [http://www.repubblica.it/ambiente/2016/08/30/news/Antropocene_era-146873380/].
[6]     Con golden spike s’intende il segnale geologico che funge da confine tra due distinti intervalli temporali.
[7]     L’ottima traduzione qui riportata, firmata da Tommaso Guariento e Michela Gulia, è apparsa su Il lavoro culturale, 13/1/2016 [http://www.lavoroculturale.org/dipesh-chakrabarty-clima/].
[8]     Per un’ottima introduzione al pensiero di Moore in lingua italiana si veda Avallone (2015).
[9]     Il concetto di Capitalocene è stato coniato e sviluppato in modo indipendente da Andreas Malm, Donna Haraway e Jason Moore (Moore 2016b). Ci pare opportuno sottolineare che ulteriori alternative al termine Antropocene sono state proposte. Tra le più interessanti: Anthropo-obscene (Parikka 2015); Wasteocene (Armiero 2016); Cthulucene (Haraway 2016); Growthocene (Chertkovskaya e Paulsonn 2016). Richiamiamo inoltre l’attenzione sulla proposta polemica dell’economista ambientale Kate Raworth (2014), il cui Manthropocene intendeva denunciare la sproporzione della rappresentanza di genere all’interno dell’Anthropocene Working Group.
[10]   Si vedano inoltre Goldstein (2015) e Barca (2010), quest’ultimo con specifico riferimento alla Valle del Liri tra il 1796 e il 1916.
[11]   Sarebbe inoltre estremamente interessante analizzare la svolta ‘anti-naturalistica’ del neoliberalismo – sempre nella lettura foucauldiana – sullo sfondo dell’Antropocene come “ingresso irreversibile in un’‘epoca post-naturale’”, secondo l’evocativa formula di Bruno Latour (2014: 37).
[12]   Con il termine hack s’intende l’uso originale di un sistema pre-esistente.
[13]   Questo tema rientra nella dimensione algoritmica del capitalismo contemporaneo. Per un approfondimento si veda Pasquinelli (2014a).
[14]   Va comunque segnalato che Moore riprende qui gli esiti più importanti della critica femminista all’economia politica e alla storia del capitalismo. Per un approfondimento si vedano Federici (2014), Merchant (1988) e Mies (1986).]
[15]   Nel contesto della termodinamica classica l’entropia è una funzione di stato di un sistema termodinamico che, quantificando l’indisponibilità di un sistema a produrre lavoro, viene introdotta insieme al secondo principio della termodinamica [l’entropia di un sistema isolato lontano dall’equilibrio termico tende a salire nel tempo, finché l’equilibrio non è raggiunto]. In base a questa definizione si può dire che quando un sistema passa da uno stato di equilibrio ordinato a uno disordinato la sua entropia aumenta.
[16]   La neghentropia è l’opposto dell’entropia: mostrando la relativa validità di quest’ultima rispetto a sistemi chiusi, essa si afferma come processo di reintegrazione dell’ordine. I due fenomeni non esistono in forma pura, bensì emergono da un’originaria interazione. Per esempio, nel caso del metabolismo degli organismi viventi, vi è da un lato il catabolismo, cioè il consumo e la distruzione di tessuti organici da parte dell’organismo, e dall’altro l’anabolismo, cioè la ricostituzione di questi tessuti attraverso l’assunzione di varie forme di energia.
[17]   A dire il vero sono già in atto prove di avvicinamento – o per lo meno di dialogo – tra Decrescita e Accelerazionismo. Per esempio, Aaron Vasintjan scrive: “Se da un lato la Decrescita non possiede un’analisi dei regimi socio-tecnici contemporanei – e non sa dunque come affrontarli – dall’altro l’Accelerazionismo sottostima grandemente l’incremento metabolico imposto da tali regimi. Nulla vieta però di cominciare a comunicare a dispetto dei rispettivi branding ideologici: c’è tanto da imparare per entrambi” (2015).
[18]   Tuttavia, alcune recenti elaborazioni sia nel campo della Decrescita (D’Alisa et al 2015) che della produzione Peer-to-Peer basata sui beni comuni (Bollier 2015) fanno ben sperare.
[19]   A questo proposito occorre segnalare gli importanti lavori di Tiziana Villani (2013) e Ubaldo Fadini (2015) che, connettendo la ricerca gorziana alle analisi ecosofiche di Félix Guattari, hanno mostrato come la ri-singolarizzazione delle soggettività, le trasformazioni del sociale e la reinvenzione continua dell’ambiente siano condizioni necessarie per una messa in discussione delle forme dominanti di valorizzazione delle attività umane.

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