Print Friendly, PDF & Email

ist onoratodamen

Metropoli e rapporto uomo-ambiente nella transizione al comunismo

di Mario Lupoli

Nella teoria e nella prospettiva attuale della transizione dal capitalismo contemporaneo al comunismo possibile, è essenziale oggi riprendere criticamente la riflessione attorno a quelle coordinate produttivistiche, tecno-idolatriche e antropocentriche che hanno caratterizzato ampia parte della teorica comunista tra fine Ottocento e Novecento. L’esigenza che emerge oggi è muoversi in orizzonti nuovi che più radicalmente affrontino la necessaria coniugazione di umano e naturale. L’articolo che segue vuole essere uno spunto per avviare un confronto su questi temi, ed è a sua volta il primo prodotto di un dibattito in corso

gardenedenNella sua riflessione sulla transizione dal capitalismo al comunismo, Trotsky[1] affronta la questione di una riprogettazione di massa di uno spazio di vita integrato umano-naturale sulla terra.

Trotsky prospetta infatti un coinvolgimento di massa – e non solo di architetti e ingegneri - nella progettazione di città-giardino, in una dinamica sociale che tende all’estinzione della divisione del lavoro.

Significativamente è in gioco la ricomposizione dell’uomo, che il capitalismo scinde al massimo grado (a livello individuale e di specie) fino a svuotarlo completamente della stessa capacità di dotare di senso la propria vita, le proprie relazioni e la propria prassi.

Questa ricomposizione si coniuga in un orizzonte nel quale la partecipazione crescente – anche alla riprogettazione urbanistica e quindi degli spazi e dei tempi di vita – consiste, da una parte, nell’esito del passaggio dal modo di produzione capitalistico alla società comunista, che, appunto, supera la divisione sociale del lavoro, l’alienazione e il feticismo delle merci, fenomeni tra loro fortemente correlati e co-determinati; dall’altra si identifica nella condizione e, insieme, nel progressivo radicale ampiamento della democrazia consiliare, fino a determinarne la perdita dei caratteri politici, giacché la scomparsa delle classi sociali renderà superflua la politica (ovvero, comunque sia, qualunque forma di potere, nelle sue varie articolazioni e configurazioni, di una classe su un’altra). Una volta persi tali caratteri, sarà necessaria esclusivamente una funzione amministrativa delle forme di coordinamento dell’associazione di liberi individui del comunismo. I due aspetti insieme lasciano scorgere che cosa possa implicare in termini di coinvolgimento di donne e uomini, a livello locale e internazionale, una riprogettazione degli spazi di vita.

«L’uomo – pensa Trotsky – farà un nuovo inventario delle montagne e dei fiumi e correggerà seriamente, e più volte, la natura. Alla fine rifarà la terra, se non a propria immagine e somiglianza, a proprio gusto. E non abbiamo alcuna ragione per credere che questo gusto sarà cattivo»[2].

Pur precisando, in ogni caso, che «naturalmente, non si vuol dire che tutto il globo terrestre sarà suddiviso in tanti quadratini e che le foreste si trasformeranno in parchi e orti. Resteranno boscaglie e foreste, urogalli e tigri, ma là dove l’uomo vorrà che ci siano. E l’uomo farà tutto ciò così bene che la tigre non si accorgerà neppure della macchina e non proverà tedio, ma vivrà come è vissuta nei tempi primitivi. La macchina non si contrappone alla terra. La macchina è lo strumento dell’uomo moderno in tutti i campi della vita»[3].

Si rende evidente come, nel suo tentativo di concepire aspetti di funzionamento di una società socialista, a un grado di sviluppo sufficiente per mettere mano a questioni di così ampia portata, emergano caratteristiche (alcune delle quali tutte borghesi) proprie della sua epoca: bisogni, mezzi, obiettivi, che in buona misura sono frutto di quel momento storico. È normale che ciò accada. Già Marx e Engels misero in guardia i loro seguaci dall’impulso inevitabile di voler elargire consigli sul da farsi agli uomini e alle donne della futura società comunista. È infatti impossibile, sottolinearono più volte, prefigurare in modo compiuto una organizzazione sociale che tanto radicalmente supera le norme di quella in cui noi ancora ci troviamo a vivere e operare.

Tuttavia, non è utopistico, sulla base delle contraddizioni e delle tendenze operanti nella società attuale, scorgere linee di possibilità e necessità da affrontare, almeno come problemi da porre e soluzioni che di massima possono essere assunte sin da ora.

L’uomo, per Trotsky dunque «imparerà a spostare i fiumi e le montagne e ad edificare palazzi del popolo sulla cima del Monte Bianco e sul fondo dell’Oceano Atlantico, saprà naturalmente conferire al proprio modo di vita ricchezza, colore, tensione e insieme il dinamismo più alto»[4].

Questa prospettiva si trova per molti versi all’interno di un orizzonte manipolatorio tipico del capitalismo. Non a caso, Trotsky rivendica come socialista ed emancipativa la sostituzione della religione con la scienza, mancando, però, di problematizzare quest’ultima, quasi fosse un nuovo feticcio del quale non si assume necessaria una critica di classe.

Non è stata estranea al marxismo l’idea di una scienza neutra che andasse semplicemente spostata di mano (borghese) in mano (proletaria), come se le sue forme, i suoi presupposti e le sue implicazioni non corrispondessero, per quanto non meccanicisticamente, alla società nel cui seno nasce, si modifica e agisce.

Gli stalinisti in URSS d’altronde, così come democratici e repubblicani negli USA, provarono a realizzare capitalisticamente e su larga scala queste opere, con l’inversione del corso di fiumi, distruzione di montagne, e così via, producendo spesso sciagure monumentali.

Il pensiero di Trotsky in questo passaggio riflette un forte «utopismo ingegneristico»[5]; tuttavia c'è da osservare che, in una forma pur da prendere con le pinze e da storicizzare, rappresenta un tentativo di esprimere l'esigenza di una strada che conducesse «al punto di intersezione tra umanizzazione e naturalizzazione del pianeta. Oltre le parzialità tanto dell’umanismo quanto dell’ambientalismo»[6]. E quest’esigenza resta quanto mai essenziale per ripartire oggi, con una prefigurazione della transizione.

 

Uno spazio non antropocentrico?

Nel 2016 fu occasione di riflessione l’apertura della controversa mostra - ricerca Milano Animal City (MAC), che poneva la questione di ripensare la metropoli all’interno di una prospettiva non antropocentrica ma multispecista. La posta in gioco non era solo questione di spazi da condividere, ma anche di tempi da coordinare. L’intuizione blochiana[7] della compresenza di diverse temporalità, con una multiforme articolazione di non-contemporaneità che convivono in e con il contemporaneo, può offrire l’occasione di una assunzione problematica del ripensare comunisticamente il mondo oltre l’umanismo e il naturalismo, curvandola in direzione di una radicalizzazione che non consideri il solo mondo umano come ambito di riflessione.

Quali sono i tempi possibili di una spazialità comune che si ponga al di là della dicotomia natura-cultura, uomo-animale-piante, organico-inorganico?

Se l’orizzonte del contemporaneo e del non contemporaneo ha senso unicamente all’interno delle categorie della storia, è pensabile la sua estensione a specie che una storia propria, nel senso umano e culturale, non possono avere? La problematicità della questione è data soprattutto dall’umano stesso: sono gli uomini che con la loro prassi sociale coinvolgono tutti i viventi e i loro ambienti-mondo all’interno delle proprie storie socio-culturali.

Essendo una prassi sociale onnipervasiva, quella umana, non è, sin da ora, più considerabile esistente un dualismo cultura – natura con margini di resistenza di quest’ultima sulla prima. La sperimentazione della mostra MAC, se ha avuto un pregio, è stato l’esser spiazzante: ha spinto a ripensare la metropoli con un punto di vista extra-umano, ma, così facendo, non mettiamo in essere una farsa tutta umana? Il punto è, difatti, che l’atto del pensare (e ripensare) è in sé umano. L’oggetto di questo pensiero è la metropoli, uno spazio antropico che, se si apre agli altri animali, li ingloba o in una subordinazione oggettivante o in una convivenza programmata necessariamente dagli altri (gli umani). Che cosa significa, allora, assumere il punto di vista animale? È possibile o è solo una suggestione dell’arroganza umana?

Il punto di vista trotskiano sostiene questa riflessione critica. È un punto di vista radicalmente antropico: saranno gli uomini liberamente associati, sostiene, a poter rendere sempre più artificiale la natura, ma secondo un piano consapevole. Se l’organizzazione sociale vigente oggi traduce artificiale con reificato, morto, l’idea di Trotsky è che una società futura libera, con individui autotrasformati nella loro prassi emancipativa, potrà dare un nuovo significato al termine artificiale.

Una realtà (dove le distinzioni città-campagna-natura scompaiono) più artificiale, in questa prospettiva, è quella che riceve l’impatto più significativo da parte della cosciente azione trasformatrice degli uomini, la cui direzione può essere migliorativa. Trotsky ipotizza che la qualità dell’intervento dell’uomo futuro sarà tale da non rendere nemmeno avvertibile alla tigre la compresenza spazio-temporale di macchine, e non riuscirà a distinguere un ambiente altamente antropizzato da uno totalmente privo di presenza umana.

Una prospettiva che esemplifica l’idea che sia possibile fare, non della sola metropoli, ma del mondo nella sua globalità uno spazio di convivenza, dove i tempi e le esigenze sono interpretate da umani, liberi però dalle categorie della reificazione e del dominio, specifiche della società attuale.

La raffigurazione prospettica di Trotsky riflette un’idea di incremento produttivistico illimitato, che all'epoca si associava spesso alla liberazione delle forze produttive dai vincoli dei rapporti sociali capitalistici. La libertà umana ne era una conseguenza necessaria. Proprio Trotsky però, allo stesso tempo, ha ragionato su che cos'altro ci può essere. E lo fece nel dialogo con scienziati, artisti, addirittura liberali, con esiti talvolta non all’altezza, ma seppe porre alcune questioni che oggi acquisiscono un’urgenza nuova.

La convergenza fra il pensiero di Trotsky e il futurismo, del resto, è su una comune matrice sostanzialmente positivista, che colloca l'uomo al vertice e non all'interno dei processi della natura. Questa ansia di dominazione si traduce nelle immagini, che poi confluiranno tal quali nello stalinismo, che figurano una totale sottomissione della natura alla volontà dell'uomo.

Mentre la prospettiva di Trotsky è quella costruttivistica, non a caso probabilmente Bordiga si distingue invece per l’enfasi polemica sulla distruzione:

«Noi non abbiamo il compito di costruire, ma quello di distruggere, di abbattere determinati ostacoli! Non solo il capitalismo ha da tempo costruito quanto a noi basta ed avanza come base “tecnica”, ossia come dotazione di forze produttive, sicché il grande problema storico non è - nell’area bianca - di crescere il potenziale lavorativo, ma di spezzare le forme sociali di ingombro alla buona distribuzione ed organizzazione delle forze ed energie utili, vietandone lo sfruttamento e il dilapidamento; ma lo stesso capitalismo ha troppo costruito e vive nella antitesi storica: distruggere, o saltare»[8].

Il programma diventa allora piuttosto «ossigeno comunista contro fogna capitalista. Spazio contro cemento»[9].

 

Verso una teoria della transizione oltre umanismo e naturalismo

Per noi contemporanei è più semplice, rispetto ai rivoluzionari che ci hanno preceduto, vedere i limiti di queste riflessioni perché viviamo nell'epoca della ipostatizzazione della tecnica; agli inizi del Novecento era comprensibile l’illusione diffusa di aver trovato la chiave del mutamento dialettico quantità - qualità nella applicazione della tecnica ad ogni campo. In ogni caso c'era, di fondo, una debolezza, all’interno delle stesse avanguardie, relativa alla comprensione del pensiero di Marx, troppo profondamente segnata dal radicamento nella sua versione socialdemocratico-tedesca.

La prima tesi su Feuerbach torna più attuale che mai. Tra i socialdemocratici e, in buona misura, nella stessa Terza Internazionale, si era diffuso di fatto un materialismo “vecchio”, nel quale «l'oggetto (Gegenstand, ciò che sta di fronte), il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma dell'obietto (Objekt, ciò che è proiettato fuori dal soggetto) o dell'intuizione; ma non come attività umana sensibile, come prassi, non soggettivamente».

Esterna agli uomini appare ormai la stessa scienza che, nelle macchine, si presenta come scienza altrui, come si sottolinea nel Frammento sulle macchine di Marx.

La divisione del lavoro si esaspera e la scienza che poteva coinvolgere le abilità manuali dell'operaio si scinde dal proletario; non sorprende oggi il generale disinteresse verso le questioni scientifiche e teoretiche, talvolta vissute con vera e propria intolleranza oltre che con estraneità.

D’altro canto Marx evidenzia che «l'articolazione quantitativa dell'organismo sociale di produzione, che rappresenta le sue membra subjecta nel sistema della divisione del lavoro, non è meno spontaneamente casuale che la sua articolazione qualitativa. Perciò i nostri possessori di merci scoprono che la stessa divisione del lavoro che li rende produttori privati autonomi, rende indipendenti da essi il processo di produzione sociale e i loro rapporti nel suo ambito; che l'indipendenza reciproca delle persone si completa in un sistema di dipendenza materiale onnilaterale delle stesse»[10].

Intolleranza si diceva: come ebbe a notare Bauman, «l'uniformità nutre il conformismo, e l'altra faccia del conformismo è l'intolleranza»[11], uniformità che viene verosimilmente generata come maschera delle scissioni e contraddizioni profonde, la maschera del “popolo” per esempio, il correlativo dell’ideologia democratica (individui tutti uguali e tutti diversi), l'occultamento delle classi sociali ecc..

Uniformità che nasce anche dall'effettivo processo di omologazione che scaturisce dall'impatto sulle coscienze singole del carattere sempre più astratto della forza lavoro venduta dai proletari, dal consumismo di massa, dalle ideologie democratiche, tecno-digitali ecc.. Uniformità che costruisce identità con la produzione del fantasma dell'altro. Uniformità del diritto che cozza costantemente con una realtà non uniformabile.

Un aspetto, questo, che offre possibilità di chiarimento rispetto alle vicende idoelogico-culturali. Le forme di trasmissione ideologica attraverso le parrocchie del Novecento, inclusa la scuola, scricchiola sempre più rumorosamente. Emergono altre forme che di con-formazione ideologica, basti pensare alle modalità di produzione e radicamento di visioni del mondo borghesi, di modi stessi del pensare, oggi imperanti: basti rimandare al pensiero-merce (G. Paolucci[12]), alla relazione tra forma merce e forma pensiero (A. Sohn-Rethel[13]), alla saturazione dell’orizzonte del pensabile nell’ordine del capitalismo[14] (M. Fisher).

Ciononostante dalle contraddizioni stesse del capitalismo emergono le forze, le necessità e le possibilità di una rivoluzione che superi quest’ordine sociale. Il movimento rivoluzionario oggi più che mai, proprio perché sono più pressanti e cogenti le determinanti ideologiche del capitalismo, generate ogni momento come elemento necessario della prassi sociale, ha bisogno di una teoria rivoluzionaria che si opponga alla falsa rappresentazione del reale. Una teoria e un’avanguardia comunista che assumano come necessari oggi anche ripensamenti dei passi della transizione, più consapevoli e radicali del passato, e in ciò anche più fedeli alla consegna di metodo che i fondatori del movimento rivoluzionario moderno hanno lasciato alle nuove generazioni.


Note
[1] Lev Trotsky, Letteratura e rivoluzione, Torino 1974, pp. 220 ss.
[2] Ivi, p. 222
[3] Ivi, p. 223
[4] Ivi, p. 224
[5] Mario Lupoli, Per una teoria della società futura oltre l’ambientalismo e l’umanismo, «Animot», 7/2017, Safarà Editore
[6] Ibidem
[7] Ernst Bloch, Eredità del nostro tempo, Milano 1992
[8] A. Bordiga, Politica e "costruzione", «Prometeo», serie II, n. 3-4, 1952
[9] A. Bordiga, Spazio contro cemento, «Il programma comunista», n.1, 1953
[10] Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Utet, Torino 2009, pp.190-191
[11] Zygmunt Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 55
[12] Giorgio Paolucci, Crisi e ripresa della lotta di classe, «Prometeo», n. 6, serie VI, Milano, dicembre 2002
[13] Alfred Soh-Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale, Feltrinelli, Milano 1976
[14] Mark Fisher, Realismo capitalista, Produzioni Nero, Roma 2018

Add comment

Submit