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COP26 e i militari a Glasgow

di Elena Camino

SCV15001 015 1536x1229La guerra incrementa l’effetto serra

Molti gruppi di attivisti e associazioni impegnate nella difesa dell’ambiente, della pace e dei diritti umani avevano alimentato le aspettative pubbliche su un tema centrale – ma complesso e sottostimato – della ‘lotta’ al cambiamento climatico: il ruolo e le responsabilità degli apparati militari nelle trasformazioni in atto sul nostro pianeta. I profughi fuggono dai teatri di guerra per non essere feriti o uccisi. Ma non solo. È chiaro che la guerra fa male direttamente anche ai sistemi naturali, che sono la principale fonte di sostentamento per tutti i viventi – compresi gli umani. Bombardare, minare, inquinare terreni agricoli, mari, falde, boschi riduce la produttività agricola, produce carestie e fame; obbliga intere popolazioni ad abbandonare i luoghi in cui vivevano e a migrare in cerca di luoghi in cui continuare a sopravvivere. Dunque, la violenza diretta contro le persone e la distruzione delle fonti di sussistenza sono gli aspetti più evidenti degli effetti negativi della guerra sull’ambiente e sulle comunità. L’uso delle armi contribuisce all’effetto serra sia nel ridurre la produzione di ossigeno di aree coltivate e boschi, sia nell’aumentare le emissioni di CO2 prodotte da incendi, bombardamenti, distruzioni di impianti industriali ecc. Inoltre ogni guerra scatena nuovi conflitti e provoca migrazioni, in una spirale perversa.

 

Anche preparare la guerra produce CO2

Un secondo aspetto, meno ovvio e – soprattutto – a lungo censurato, è l’insieme dei danni socio-ambientali che il sistema militare in generale causa (indipendentemente dalle azioni di guerra) con tutte le sue strutture e funzioni: dalla produzione di armamenti agli aspetti logistici (costruzione di strade, caserme, mezzi di trasporto), dai centri di formazione e addestramento alle strutture di ricerca, alla costruzione e mantenimento di basi militari e poligoni di esercitazioni. È un mondo nel mondo, con milioni di persone su tutto il pianeta impegnate al servizio della distruzione e della morte.

Il peso ambientale dell’apparato militare a livello globale non era stato preso in considerazione nei summit precedenti: neppure a Parigi, nel 2015, nonostante le proteste di pacifisti e ambientalisti, quando era stato reso esplicito il contributo del mondo militare quantomeno alla produzione di CO2.

Ma in vista dell’appuntamento di Glasgow, anche grazie alla crescente consapevolezza del pubblico sulle dimensioni e sulle responsabilità dell’apparato militare nella transizione ambientale globale in atto, ci si aspettava non solo che venissero resi pubblici i dati relativi alla produzione militare di CO2 (il “bootprint”, cioè l’impronta ecologica dello ‘scarpone’ militare), ma che si prendessero decisioni importanti per ridurre significativamente le emissioni di carbonio del sistema militare. Questo traguardo non è stato raggiunto, anche se alcune associazioni e istituzioni di ricerca hanno potuto far sentire la loro voce, e molti gruppi di attivisti stanno imparando a ‘unire i puntini’. Non si tratta più di scendere in piazza per difendere l’ambiente oppure per invocare la pace: si tratta dello stesso problema! Un modello di sviluppo violento, incurante dei limiti biofisici del pianeta e dei diritti umani, sta causando sofferenze e devastazioni ambientali irreversibili.

 

I dati cominciano a emergere

Il 9 Novembre 2021 il giornalista Stuart Spray pubblica sulla rivista online “The Ferret” (una cooperativa giornalistica indipendente) un primo commento critico sugli esiti del summit di Glasgow. In particolare sottolinea che ben 35 Paesi sono stati accusati di aver rifiutato di ammettere molti dei danni ambientali che causano con le loro attività militari. Un’analisi resa pubblica proprio in occasione del summit da parte di un gruppo di ricerca internazionale, il CEOBS (Conflict and Environment Observatory), denuncia che molti Paesi hanno dato informazioni molto sottostimate delle loro emissioni di carbonio, o che addirittura non hanno fornito dati. Il CEOBS è stato istituito nel 2018, e riceve finanziamenti dai governi di Norvegia e Finlandia. Il suo obiettivo è ridurre i danni alle persone e all’ambiente causati da conflitti armati e da attività militari. Il direttore del CEOBS, Doug Weir, intervistato dal giornalista di ‘The Ferret’, sottolinea la necessità di avere dati affidabili e confrontabili sulle emissioni militari dei vari Paesi, come dato di partenza per poter progettare e verificare le riduzioni. I ricercatori del CEOBS hanno esaminato 40 Paesi che nel 2020 hanno sostenuto le maggiori spese militari globali, per un totale di 1.270 miliardi di dollari: nella lista ci sono USA, Russia, UK, Francia, Giappone, Italia, Australia e Canada. Nel calcolare l’impronta di carbonio delle forze armate sono state prese in esame anche le attrezzature utilizzate nelle esercitazioni, nei pattugliamenti e nelle azioni di combattimento, insieme alla gestione delle basi militari e dei rifornimenti come cibo e carburante.

 

Come si calcolano le emissioni dei militari

I dati sull’impatto ambientale degli apparati militari – anche quando vengono comunicati ufficialmente dai rispettivi governi – sono spesso controversi o inaffidabili. Per esempio, il ministro inglese della difesa ha comunicato che la produzione di gas con effetto serra del settore da lui diretto è pari a 0,9 milioni di tonnellate all’anno. Ma secondo una ricerca svolta dall’Associazione Scientists for Global Responsibility (SGR) il dato è molto parziale e sale a 11 milioni di tonnellate se si includono le catene di approvvigionamento tra UK e l’estero, altre attività a carico del Ministero della Difesa, e le emissioni delle industrie di armi del Regno Unito. Stuart Parkinson, direttore dell’Associazione SGR, fa notare che ‘questa discrepanza equivale a non contare sei milioni di auto (o a metterle in un’altra categoria), e a non considerare le emissioni prodotte da impatti diretti della guerra, come incendi di depositi di carburanti, deforestazioni, cure mediche ai feriti, o ricostruzioni dopo i conflitti’. Parkinson sottolinea che il comparto militare dovrebbe essere soggetto alle stesse regole dei settori civili: se il Ministero della Difesa non dichiara tutte le sue emissioni, c’è il rischio che fallisca l’obiettivo del governo inglese di conseguire il traguardo di emissioni zero entro il 2050.

 

Il cambiamento climatico è il prossimo motivo di guerra

Gruppi di studiosi e attivisti contro il cambiamento climatico vorrebbero che i militari riducessero le emissioni di gas serra ridimensionando le loro attività. Ma Nick Buxton, ricercatore del Transnational Institute (un’Associazione impegnata a fornire alla società civile informazioni rigorose e utili per costruire un mondo più democratico ed equo), sostiene che le forze armate stanno rispondendo alla crisi climatica facendo proprio il contrario, incrementando cioè le loro attività, e quindi il loro ‘bootprint’ – il peso ambientale. “Il Pentagono e altri analisti militari affermano che si stanno moltiplicando movimenti di massa di popolazioni in conflitto, in nuove aree e territori. – osserva Nick Buxton – Quindi si stanno davvero preparando in questo momento, considerando che il cambiamento climatico sarà il prossimo motivo di guerra”.

Buxton richiama l’attenzione sul fatto che quasi tutte le strategie predisposte per rafforzare la sicurezza nazionale in Occidente presentano i migranti come una minaccia. Eppure i migranti sono sempre più costretti ad abbandonare le loro case in conseguenza a disastri climatici, di cui sono vittime. Secondo una relazione pubblicata a ottobre 2021 dal Transnational Institute, i Paesi più ricchi, che sono anche responsabili delle maggiori produzioni di gas-serra, tra il 2013 e il 2018 hanno speso 33,1 miliardi di dollari per armare i loro confini: più del doppio di quanto hanno speso (14,4 miliardi di dollari) per finanziare iniziative volte ad aiutare i Paesi poveri a mitigare gli effetti del cambiamento climatico.

 

La difesa

Non c’è da stupirsi se i governi dei paesi ricchi si comportano così. Leggende la dichiarazione dei ‘compiti’ svolti dal Ministero della Difesa inglese, accessibile sul suo stesso sito, si scopre che cosa fa questo Ministero: “Lavoriamo per un Regno Unito sicuro e prospero, con portata e influenza globali. Proteggeremo la nostra gente, i territori, i valori e gli interessi in patria e all’estero, attraverso forti forze armate e in collaborazione con gli alleati, per garantire la nostra sicurezza, sostenere i nostri interessi nazionali e salvaguardare la nostra prosperità”. Analoghi compiti sono assunti da numerosi altri Paesi, europei e non solo. Quali sono le implicazioni umane di questa moderna strategia di difesa, sempre più tecnologicamente raffinata, costosa, e ambientalmente devastante? Lo raccontava il giornalista Antonio Mazzeo in una relazione presentata al seminario “Guerre, Migrazioni e Diritti nel Mediterraneo” del 2020. “Quella scatenata contro i migranti e le migrazioni è una guerra per la “difesa” delle frontiere, moderna e globale. E ha sempre più bisogno di sistemi di intelligence e annientamento rapidi ed indolori (per chi li usa), iperautomatizzati per narcotizzare le coscienze e la democrazia degli Stati belligeranti, deresponsabilizzare i carnefici e occultare i corpi e le storie individuali e collettive delle vittime. I droni in mano all’Unione europea, alle sue flotte aeronavali e alle agenzie di “controllo” dei confini terrestri e marittimi, sono l’ultimo atto del progressivo e inarrestabile processo di trasformazione del continente in un’inespugnabile città-fortezza del neoliberismo, degli egoismi, delle ingiustizie e delle disuguaglianze. Non bastava l’orgia di cannoniere e cannoni, fili spinati, videocamere elettroniche, pattuglie superarmate e cani lupo addestrati a mordere e ad odiare. Sono necessari sensori in grado di captare dall’alto, silenziosamente, l’ultimo respiro di chi affoga disperato in mare, di immortalare il volto straziato della madre che invoca il figlio inghiottito dalle onde.

Dunque i Paesi ricchi costruiscono ‘frontiere climatiche’ – sempre più energivore e ambientalmente insostenibili – per tener lontane da sé le conseguenze delle crisi climatiche di cui sono direttamente responsabili.

 

I droni kamikaze: un problema etico

A Glasgow sono andati in scena due mondi paralleli. Dentro, muniti di lasciapassare, i consulenti e i decisori. Fuori, nelle piazze, molto più numerose ma senza potere, le diverse anime delle società umane. Mentre continuano a svolgersi convegni e riunioni dove ‘esperti’ di ogni genere sono impegnati a dimostrare la sostenibilità ambientale di scelte energetiche, di attività produttive e di comportamenti sociali ancorati al passato (nucleare ‘green’, auto individuale, voli low cost, alimentazione carnea, innovazione digitale …) un primo passo da fare nell’immediato – efficace e comprensibile – potrebbe essere quello di aderire all’appello lanciato da Amnesty International e dalla Campagna Stop Killer Robots di cui fanno parte oltre 180 organizzazioni di 66 stati, affinché vengano adottate norme internazionali per vietare i sistemi d’arma autonomi, molti dei quali sono già in fase di avanzato sviluppo, come i dispositivi di riconoscimento facciale, i sensori di movimento e la possibilità di lanciare attacchi contro obiettivi determinati senza alcun significativo controllo umano. Anche l’Italia è interessata all’acquisto di questi ‘gioielli’ dell’innovazione tecnologica: era stato fissato per lunedì 15 novembre il termine massimo per ottenere il parere da parte delle Commissioni difesa di Camera e Senato sull’acquisizione di velivoli senza pilota di ridotte dimensioni, gli Hero-30 israeliani, cioè piccoli velivoli a pilotaggio remoto, armati con una testata esplosiva, kamikaze che al posto di telecamere e visori imbarcano bombe ed esplosivi. Avvistato l’obiettivo da colpire, distruggere e uccidere, i droni si lanciano in picchiata e si fanno esplodere al momento dell’impatto. Il costo complessivo del programma è stimato in 3,878 milioni di euro in cinque anni.

Lo Stato Maggiore della Difesa ha infatti espresso la necessità, urgente, di dotare le Forze Speciali Tier1 dispiegate in contesti operativi di strumenti che consentano loro di proteggersi quando la neutralizzazione della minaccia nemica comporta un “certo rischio fisico”. Questi piccoli aggeggi possono essere telecomandati anche a decine di chilometri di distanza, abbattendosi poi contro l’obiettivo dopo averlo seguito e monitorato dall’alto. Sono molto precisi e per questo letali, offrendo un’ampia garanzia di successo. Nessun laser, nessun esercito, nessun GPS, nessun elicottero. Il drone kamikaze uccide in solitaria, senza che anima viva si accorga di niente. Sul sito del Ministero della Difesa è possibile leggere la varietà di usi previsti.

 

… e ambientale

Ma cosa c’entrano i droni con i problemi ambientali? Ebbene, mentre continua il dibattito sugli aspetti etici e strategici dell’uso dei droni kamikaze o munizioni erranti qualcuno ha provato a calcolarne il carico ambientale. Per esempio, “Hero-30”, sviluppato dalla società israeliana UVision, è costituito da un tubo che all’interno contiene un drone azionato e interamente comandato da un solo uomo. La versione originale ha un peso 3 kg circa con un range operativo che varia dai 5 ai 40 km, con una autonomia di volo di 30 minuti e azionato da un motore elettrico posteriore. L’uso di questi droni richiede ovviamente una rete informatica di supporto e controllo a livello internazionale; inoltre è un oggetto ‘kamikaze’, quindi progettato secondo lo schema ‘usa e getta’. Le sue raffinate componenti si distruggono all’impatto con il bersaglio. La complessità di costruzione e utilizzo di questi oggetti richiede corsi di formazione e addestramento di parecchi operatori. Possiamo immaginare anche quanta attenzione sia stata dedicata alla ricerca preliminare e ai test in campo, su terreni dedicati.

Sarebbe interessante se qualche esperto dell’Università e del Politecnico – avendo a disposizione i dati dei produttori per altri tipi di studio – coinvolgesse tesisti e dottorandi anche nel calcolo delle emissioni di gas serra prodotte dall’insieme di persone, materiali, energia, strutture, test sperimentali, combustibile ecc. necessari per la messa a punto di uno di questi oggetti. Si potrebbe rendere obbligatorio per i produttori fornire la valutazione di impatto ambientale (VIA) di questi gioielli tecnologici, insieme alle caratteristiche tecniche. Si tratta di produzioni strategiche che non saranno mai messe in discussione da nessun tipo di valutazione, ambientale, sanitaria o climatica, ma servirebbe per farsi un’idea più chiara di quanto è terribile la guerra anche nei confronti dell’ambiente.

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