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marx xxi

La questione dell'immigrazione

di Alessandro Pascale

immigrazione silhouette“Una delle particolarità dell'imperialismo, collegata all'accennata cerchia di fenomeni, è la diminuzione dell'emigrazione dai paesi imperialisti e l'aumento dell'immigrazione in essi di individui provenienti da paesi più arretrati, con salari inferiori.” (Vladimir Lenin, da “L'Imperialismo, fase suprema del Capitalismo”)

La necessità di un approfondimento storico-politico

Quello che segue è un tentativo di ragionare sulla questione migratoria. Non si pretende di essere esaustivi ma di affrontare nel merito un tema su cui le sinistre hanno finora mostrato un'incapacità diffusa nella propria elaborazione e proposta politica.

Per un maggiore, necessario, approfondimento si rimanda all'opera “In Difesa del Socialismo Reale” (disponibile su www.intellettualecollettivo.it), ed in particolar modo alla parte storica riguardante “Le cause profonde del sottosviluppo africano” (vol. II, pp. 335-423), all'analisi della contemporaneità in “Le tecniche imperialiste per l'egemonia culturale (vol. II, pp. 1214-1345) e alle conclusioni (vol. II, pp. 1352-1362). Soprattutto in queste ultime pagine si trova un collegamento tra il dramma della fame del mondo, l'evoluzione delle diseguaglianze mondiali, la questione ambientale e un primo approccio sulla questione migratoria inquadrata nella sua globalità.

In quell'occasione ho mancato di articolare ulteriormente la questione, ritenendola risolta dall'evidenza dal quadro delineato fino a quel momento. Il carattere politico preminente che ha assunto la questione in Italia (e non solo) necessita però ulteriori riflessioni e articolazioni, che non pretendono di essere esaustive ma che intendono entrare nel vivo di un tema che è purtroppo diventato, grazie alla forza dei media e alla scaltrezza politica del reazionario Ministro dell'Interno Salvini, prioritario per la gran parte dell'opinione pubblica. Articolerò quindi la questione in cinque punti.

 

1. Imperialismo o cooperazione?

Si dice che non si può fare nulla di concreto sulla questione migratoria se non accogliere i migranti che giungono dal mare, nonostante questi viaggino su tratte organizzate dalle mafie che arricchiscono un assurdo traffico fondato sulla merce umana, spesso minorile. Non è vero. Occorrerebbe un programma complessivo di cooperazione diplomatica ed economica (la nota retorica mai realizzata dell'“aiutiamoli a casa loro”), teso ad esempio a favorire l'incremento di scambi commerciali e la fornitura di infrastrutture, capitali e tecnologia ai Paesi del “terzo mondo”, per uno sviluppo forte e indipendente, in regime paritario e bilaterale, rinunciando agli interessi imperialistici. Tra le priorità di rinnovate relazioni cooperative devono senza dubbio esserci l’istruzione e lo sviluppo culturale e tecnologico. Occorre, infatti, che i popoli d’Africa, d’Asia, Europa Orientale e Sudamerica conoscano le tragiche condizioni delle tratte migratorie e le pessime garanzie sociali ottenute dalla maggior parte dei migranti giunti in Europa Occidentale e possano lottare per ottenere le condizioni materiali e immateriali per restare in patria, organizzarsi e migliorare il proprio Paese.

I paesi socialisti portavano avanti progetti di cooperazione in base ai quali venivano formati e istruiti a nuove tipologie di lavoro industriale studenti e apprendisti africani, che poi tornavano nei propri Paesi per far funzionare i moderni macchinari e trasferire il know-how appreso tra i compatrioti. Tutto questo non può però avvenire senza mettere radicalmente in discussione il sistema imperialista attuale, grazie al quale una manciata di banche e finanziarie occidentali può ad esempio permettersi di speculare sul prezzo del grano scatenando carestie e miseria. Né tanto meno è conciliabile con le politiche interventiste e guerrafondaie della NATO o con le politiche di WTO, FMI, BM, con i tributi alla Francia, con l'azione di ENI in Angola, con il furto di petrolio in Libia, ecc.

Torna utile qui prendere ad esempio il ruolo progressivo della Cina, che svolge un'effettiva azione di cooperazione economica in tutto il continente africano, laddove gli europei portano miseria, morte e devastazione. I “democratici” che hanno organizzano presidi contro Orban sono gli stessi che nel dicembre 2017, a parlamento sciolto, approvavano l'invio di 500 militari italiani in Niger, paese ricchissimo di uranio. Non solo sono quindi totalmente poco credibili e ipocriti, ma essi costituiscono parte del problema, non certo della soluzione, la quale in definitiva si può riassumere così: occorre abbandonare le politiche imperialiste a favore di una cooperazione economica internazionale pacifica.

 

2. L'utopia della libera circolazione internazionale

La libera circolazione internazionale di persone non può essere, in tempi di imperialismo, un diritto universale sostanziale. La circolazione di persone da e verso i paesi socialisti è sempre stata regolata e controllata, in primo luogo per necessarie ragioni di sicurezza interna, in secondo luogo per impedire la compravendita dei propri intellettuali e tecnici da parte dei Paesi capitalistici.

È quel che accade oggi in Italia, dove migliaia di giovani laureati fuggono da un Paese che non offre prospettive per andare all'estero, impoverendo così notevolmente il livello culturale nostrano. Con la differenza notevole che nei Paesi socialisti l'istruzione era gratuita e il lavoro garantito per tutti, mentre in questo caso l'inettitudine della borghesia italiana e del suo ceto politico è tale da preferire spendere decine di miliardi di euro ogni anno sugli interessi del debito pubblico, invece di investire risorse per creare posti di lavoro e risolvere i problemi della disoccupazione e della precarietà. L'Italia: potenza imperialista ma al contempo semi-colonia sottomessa alla finanza internazionale e ai diktat di Washington e Bruxelles.

Nella nostra società si pretende la libera circolazione di persone in parallelo a quella libera circolazione internazionale di merci che ha contraddistinto la globalizzazione imperialista degli ultimi 50 anni. Occorre denunciare che queste sono oggi, stante l'attuale struttura economica, delle rivendicazioni borghesi. La libertà borghese consente la competizione internazionale tra una merce avariata, prodotta magari con il sangue di un bambino, e una merce di qualità prodotta in un'azienda garante dei più avanzati sistemi di protezione sociale. Il gioco è palesemente truccato e favorisce uno sviluppo diseguale fondato sulla competizione al ribasso delle classi lavoratrici delle diverse nazioni, come ben noto. La libera circolazione di merci va quindi regolata e limitata secondo nuove norme internazionali, o tutt'al più tramite accordi bilaterali tra i vari Paesi. Una tale svolta sarebbe un grande vantaggio per i lavoratori di tutto il mondo e un danno per i consumatori occidentali soltanto se questi rinunciano alle rivendicazioni economiche e sindacali di classe. Gli unici a scontare il dazio devono e possono essere i capitalisti.

Se poi adottiamo un'ottica globale, e non eurocentrica, pochissimi sono oggi interessati alla libera circolazione degli esseri umani. La libertà di viaggiare per i vari paesi del mondo si chiama turismo ed è un vezzo, oltre che una possibilità, soprattutto degli occidentali (i borghesi quando e come vogliono, i proletari soltanto quando riescono e possono); è cosa ben diversa dalla volontà o dalla necessità di emigrare che colpisce i popoli del “terzo mondo”, spinti dal bisogno e dalla necessità, oppure dalla volontà di arricchirsi ad ogni costo dopo una vita di miserie, ossia il cosiddetto “sogno americano” del “self-made man”. Le frontiere aperte e l'abolizione dei confini sono un'utopia che potrà e dovrà concretizzarsi solo quando verrà distrutto l'imperialismo e lo sviluppo diseguale; solo quando la cooperazione economica internazionale avrà prevalso sulle leggi della competizione capitalistica, costruendo un nuovo mondo pacifico e necessariamente socialista, non ci saranno più ragioni di emigrare per ragioni economiche e ci si potrà permettere il lusso di parlare della libertà inclusiva e universale di viaggiare ovunque si voglia. Fino a quel momento è inevitabile che permangano controlli e limitazioni. Controllare i flussi migratori è l'unica maniera per consentire di organizzare in maniera dignitosa un'accoglienza e un'integrazione adeguate, garantendo così anzitutto la sicurezza dei migranti e dei propri stessi cittadini. Se la borghesia nazionale utilizza il controllo delle frontiere per i propri fini e la creazione di un esercito industriale di riserva (quando le chiude, sfruttando l’immigrazione irregolare, quando le apre, sfruttando l’immissione di manodopera a basso costo), bisogna tuttavia riconoscere che la classe operaia può pretendere di utilizzare questo strumento per attuare una pianificazione economica consapevole delle forze produttive e in grado di garantire la piena occupazione, i diritti universali e la pace.

L’abolizione dei confini sarà all’ordine del giorno nel mondo comunista.

 

3. Un'analisi di classe sull'esercito di riserva

“Da alcuni anni ormai, come è stato osservato (Zincone, 2001), le imprese hanno assunto una posizione più esplicita e proattiva sul fronte delle politiche migratorie. Pur evitando di entrare in contrasto aperto con il governo in occasione della promulgazione della legge Bossi-Fini, hanno in vario modo sollecitato una maggiore apertura della politica degli ingressi e un alleggerimento dei vincoli a carico delle imprese che intendono reclutare lavoratori all’estero. In alcuni settori, segnatamente l’agricoltura e l’industria alberghiera, gli interventi sulla definizione delle quote annuali di lavoratori stagionali autorizzati, sono ogni anno particolarmente pressanti. Indicazioni analoghe arrivano anche da altri paesi europei, in cui le associazioni imprenditoriali da tempo sollecitano governi riluttanti ad ampliare le possibilità di immigrazione per lavoro.” (Maurizio Ambrosini) [1].

Confindustria e i suoi omologhi europei dunque hanno storicamente spinto per allentare i vincoli posti al controllo dell'immigrazione. La manodopera straniera è per loro evidentemente qualcosa di positivo perché comporta minori costi. Che ci sia la volontà imprenditoriale di avere un esercito industriale di riserva è quindi fuor di dubbio. I padroni stanno dunque favorendo e avallando “un'invasione”?

Leggiamo alcuni dati: “fra il 2014 e il 2017, cioè nei quattro anni in cui è stato più attivo il flusso dal Nord Africa, sono arrivate via mare in Italia circa 623 mila persone. Sono numeri mai sostenuti di recente da nessun paese europeo, esclusa la Grecia (che fra 2015 e 2016 ha accolto un milione di persone arrivate via mare per percorrere la cosiddetta “rotta balcanica”). Fra il 2014 e il 2015, comunque, pochi dei migranti che arrivavano in Italia via mare si fermavano qui: spesso avevano parenti altrove in Europa oppure si sentivano più a loro agio in un paese dove erano in grado di parlare almeno una lingua, come Francia o Regno Unito. Teoricamente il regolamento di Dublino, il trattato europeo che regola le procedure d’asilo, impone che ciascuna richiesta di protezione internazionale sia gestita dal paese europeo dove ha messo piede per primo il nuovo arrivato. Dal 2016 quasi tutti i paesi europei hanno aumentato i controlli alle proprie frontiere e scaricato l’onere dell’accoglienza su Italia e Grecia; e dato che ogni migrante che arriva fa richiesta di protezione internazionale – altrimenti sarebbe rispedito indietro, per le leggi nazionali – i due paesi si sono trovati a occuparsi di decine di migliaia di persone. […] Fra 2016 e 2017 l’Italia è stata la principale destinazione per i migranti che arrivavano via mare, che poi hanno grosse difficoltà a spostarsi altrove per via della chiusura delle frontiere. Il risultato è che il sistema italiano di accoglienza sta facendo molta fatica a gestire i migranti arrivati a partire dall’estate del 2016. La gestione del flusso è stata resa ancora più difficoltosa da problemi nazionali e internazionali.”

Quali sono le condizioni dei richiedenti asilo? “In Italia una domanda di protezione internazionale viene risolta in due-tre anni, durante i quali il richiedente asilo viene ospitato nei centri di vario tipo (a meno che trovi lavoro, ma parliamo di casi molto rari). I centri più diffusi sono i cosiddetti Centri di Accoglienza Straordinaria, detti CAS; vengono aperti in autonomia dalle prefetture, a seconda dell’esigenza del momento, e affidati solitamente a una cooperativa locale che si impegna a occuparsi delle esigenze di base degli ospiti e soprattutto a trovare un posto dove farli dormire. Sono i famosi “alberghi” di cui si parla spesso, i cui proprietari accettano anche solo per arrotondare. I CAS sono considerati uno strumento efficace per gestire flussi straordinari di persone, ma sono inadatti per un flusso costante di persone, e a lungo termine nessuno ci guadagna davvero. I comuni si ritrovano a fare i conti con una struttura che è stata aperta senza il loro appoggio, e che magari ha scombussolato la vita di un piccolo paese di periferia; i migranti rimangono parcheggiati per mesi o anni – in attesa che venga esaminata la loro richiesta di asilo – in posti che non hanno fra gli obiettivi fare integrazione ma solo fornire loro un tetto e un pasto.” [2]

La conclusione dell'autore risponde alla nostra domanda iniziale. Non si può parlare di “invasione”: “alla fine del 2017 le persone che godono di una forma di protezione internazionale sono circa 147 mila, mentre quelle ancora in attesa e ospitate nelle strutture di accoglienza possiamo stimarle in circa 180 mila (dato tratto da un recente rapporto della Fondazione Migrantes). A questi dobbiamo aggiungere i circa 600 mila stranieri che vivono irregolarmente sul territorio italiano; sono persone a cui è scaduto il permesso di soggiorno, o a cui è stata respinta la richiesta di asilo, e che continuano a vivere in Italia. Sembrano numeri enormi, ma vanno messi in prospettiva. L’Italia ha 60,5 milioni di abitanti, più o meno. Gli stranieri regolari sono poco più di 5 milioni, cioè l’8 per cento. Il dato si abbassa se calcoliamo solo quelli nati fuori dall’Europa: cioè circa 4 milioni, il 6,7 per cento della popolazione totale. Sono numeri molto più contenuti rispetto alla media dell’Europa occidentale, e che suggeriscono una realtà molto diversa da una “invasione”: gli stranieri di origine extra-europea compongono il 9,9 per cento della popolazione austriaca, l’8,5 per cento di quella francese, l’11,6 per cento di quella svedese, e così via.” [3]

Si può obiettare, come fanno le destre “illiberali”, che tali percentuali siano comunque inaccettabili, rischiando di compromettere l’identità nazionale o regionale. Eppure le difficoltà nella creazione di un’identità collettiva non sono dovute all’immigrazione ma la precedono, come spiegano gli studi sui giovani immigrati di prima e seconda generazione: “solo il 54% dei figli di immigrati in Italia si sente integrato, al contrario di paesi come Olanda e Spagna, dove si sente integrato nella comunità il 70% dei 15 enni immigrati. Numeri completamente ribaltati invece in Francia, dove solo il 29% dei giovani non nativi può dire di sentirsi davvero integrato a scuola. Sempre in Italia, il 60% dei 15 enni immigrati si dice soddisfatto della propria vita nel complesso (anche qui siamo in coda rispetto all’Europa).” [4]

È in questa scarsa integrazione che cresce e si diffondono la paura e il timore irrazionali per la diversità sotto ogni aspetto: sociale, etnico, linguistico, religioso e in ultima analisi culturale. La xenofobia, più radicata nei settori meno istruiti e proletari, che soffrono da vicino la concorrenza nei mestieri più umili, rischia di trasformarsi in intolleranza e razzismo, identificando erroneamente il nemico di classe nel proletario dalla pelle diversa, piuttosto che nel proprio padrone. Quello stesso padrone che è ben lieto delle “missioni di pace” italiane all'estero e che ha sostenuto attivamente le politiche classiste riguardanti il mondo del lavoro degli ultimi 40 anni. Così i partiti delle destre trovano consenso interclassista tanto fra i proletari quanto tra i borghesi, sostenendo la falsa idea che si possano governare i flussi migratori senza distruggere le attuali pratiche imperialiste in cui siamo impegnati da protagonisti o subalterni.

Scaviamo ulteriormente con altri dati le statistiche demografiche più recenti per capire il quadro della società italiana: “al 1° gennaio 2018 si stima che la popolazione ammonti a 60 milioni 494 mila residenti, quasi 100 mila in meno sull'anno precedente (-1,6 per mille). Nel 2017 si conteggiano 464 mila nascite, nuovo minimo storico e il 2% in meno rispetto al 2016, quando se ne ebbero 473 mila. I decessi sono 647 mila, 31 mila in più del 2016 (+5,1%). In rapporto al numero di residenti, nel 2017 sono deceduti 10,7 individui ogni mille abitanti, contro i 10,1 del 2016. Il saldo naturale nel 2017 è negativo (-183 mila) e registra un minimo storico. Il saldo migratorio con l'estero, positivo per 184 mila unità, registra un consistente incremento sull'anno precedente, quando risultò pari a +144 mila. Aumentano le immigrazioni, pari a 337 mila (+12%) mentre diminuiscono le emigrazioni, 153 mila (-2,6%). Le iscrizioni dall'estero di individui di nazionalità straniera sono 292 mila (+10,9% sul 2016) mentre i rientri in patria di italiani sono 45 mila (+19,9%). Solo 40 mila emigrazioni per l'estero, sulle complessive 153 mila, coinvolgono cittadini stranieri (-5% sul 2016) contro 112 mila cancellazioni di cittadini italiani, in leggera diminuzione (-1,8%).” [5]

Il quadro ci dice che la popolazione aumenta, di poco, a causa delle immigrazioni, altrimenti verrebbe a mancare ogni anno una considerevole quantità di forza-lavoro a disposizione per le esigenze economiche. L'esercito industriale di riserva continua ad essere una costante nella storia unitaria del nostro Paese, caratterizzata da un prosieguo ininterrotto di regimi borghesi fondati sulla salvaguardia dei rapporti di produzione capitalistici: il tasso di disoccupazione nel giugno 2018 si attesta al 10,9%, pari a 2 milioni e 866 mila. A pagare di più sono soprattutto i più giovani (under 25), il cui tasso di disoccupazione è al 32,6%, inferiore in Europa solo alla Spagna (34,1%). [6]

Dunque gli immigrati rubano il lavoro agli italiani? Leggiamo alcuni dati recenti dell'ISTAT riportati da Vladimiro Polchi: “dal 2008 al 2016 la presenza dei lavoratori stranieri si è fatta sempre più evidente, da 1,7 milioni si è passati a 2,4 milioni (+41%). Nello stesso periodo, il loro peso sul totale degli occupati è cresciuto dal 7,3% al 10,5%.” Aggiunge poi che “gi immigrati restano però occupati prevalentemente in lavori di media e bassa qualifica. Oltre un terzo degli stranieri (35,6%) esercita infatti professioni non qualificate, il 29,3% ricopre funzioni da operaio specializzato e solo il 6,7% è un professionista qualificato.” [7]

Di quali tipologie di lavori si parla? “Il loro fortino è protetto dalle mura di casa: tra i domestici gli immigrati sono infatti ben il 74%. Non solo. Tra i venditori ambulanti, gli stranieri superano gli italiani e il loro peso cresce di anno in anno anche tra pescatori, pastori e boscaioli (sono il 40%). E gli italiani? "Si sono spostati verso professioni più qualificate, liberando le fasce produttive più basse". Un esempio: nei campi i migranti fanno i braccianti, ma quasi il 90% degli agricoltori specializzati è italiano. […] il 74% dei collaboratori domestici è infatti straniero, così come il 56% delle badanti e il 51% dei venditori ambulanti. E ancora: il 39,8% dei pescatori, pastori e boscaioli è d'origine immigrata, così come il 30% dei manovali edili e braccianti agricoli. […] Nell'edilizia, i lavoratori stranieri sono 240 mila, con un'incidenza del 17%, ma fanno professioni ben precise: sono il 30% degli operai edili e dei manovali, mentre sono loro quasi precluse professioni come ingegneri o architetti (dove gli italiani detengono il monopolio). E ancora: in agricoltura il 29% dei braccianti agricoli e il 39% dei pastori e pescatori è straniero. Gli agricoltori e gli operai specializzati sono invece nell'87% dei casi italiani. Quanto ai servizi alle persone, i migranti hanno il monopolio dei lavori domestici e dei servizi di cura, la loro presenza è invece irrilevante nei lavori di estetista. Insomma, stando ai ricercatori della Fondazione Moressa, "la crescente scolarizzazione della popolazione italiana e la maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro ci hanno spinti verso professioni a più alta specializzazione. I dati Istat sul mercato del lavoro dimostrano che l'occupazione immigrata e quella autoctona in Italia sono parzialmente concorrenti e prevalentemente complementari".”

Ciò a cui si sta assistendo ormai da anni è un enorme cambiamento socio-demografico nel quale il proletariato di questo Paese sta diventando sempre più “internazionale”.

Carlo Formenti a tal riguardo si è espresso sulla mancanza di studi scientifici che confermino il nesso tra immigrazione ed esercito industriale di riserva; ha polemizzato con chi afferma che nessuno sia stato “in grado di citare studi e ricerche che confermino che l’immigrazione è un problema per i proletari italiani”, rispondendo così: “visto che la questione non è nuova e la teoria marxista se ne occupa da un secolo e mezzo, le cito io alcuni “classici” che potrebbe consultare in merito agli effetti di dumping sociale prodotti dai flussi migratori: da Marx a Samir Amin passando per Arrighi, Wallerstein, Gunder Frank, Frantz Fanon per citarne alcuni.” [8]

È vero quindi: l'immigrazione è un problema sociale, non solo per i proletari italiani, ma per gli stessi proletari immigrati. Se da un lato, infatti, è precedente all’immigrazione di massa la perdita di potere delle classi lavoratrici in Italia, dall’altro è evidente che l’importazione su larga scala di masse spoliticizzate e desindacalizzate aumenta lo scontro di classe a vantaggio della borghesia.

L'agente sociale potenzialmente più rivoluzionario è, come sempre, il proletariato, ossia quella classe di lavoratori e lavoratrici che vende la propria forza-lavoro in un rapporto salariato ad un capitalista. Un'azione di sindacalizzazione e di educazione politica con l'intero proletariato, immigrato e italiano, è una delle vie per tornare a mettere in discussione seriamente l’attuale rapporto di classe Capitale-Lavoro. La necessità primaria è ribadire che il capitalismo nella sua fase imperialista schiavizza subdolamente e violentemente la gran parte dei popoli del mondo e che per scongiurarne gli effetti più disastrosi i lavoratori devono assumere la direzione politica ed economica del proprio Paese.

Sebbene la scienza politica e il diritto distinguano i migranti in rifugiati, profughi e immigrati economici, questa classificazione formalistica è di natura borghese e funzionale a nascondere la sostanza del fenomeno, perché la causa dell'immigrazione di massa è sempre, direttamente o indirettamente, l'imperialismo: povertà, guerra, oppressione, fame, impossibilità di fronteggiare carestie e cataclismi, imposizione delle multinazionali, corruzione, repressione politica e antisindacale, ecc… sono tutte calamità che colpiscono il Terzo Mondo perché così vuole il capitalismo occidentale per conseguire e conservare la propria supremazia. Tutti gli esseri umani ambiscono naturalmente a condizioni di vita migliori e più giuste, che i rapporti di produzione capitalistici però non possono garantire, e così è il capitalismo imperialista a fomentare le migrazioni di massa.

La borghesia di ogni Paese, in forme legali o illegali, da un lato è la creatrice del fenomeno migratorio, dall'altro ne trae vantaggi economici e politici. La borghesia è dunque strutturalmente incapace e impossibilitata a risolverne gli aspetti più problematici, come la deriva di “barconi” al largo del Mediterraneo.

Il fenomeno non si può superare chiudendo i porti o lasciando morire esseri umani in mare, come vorrebbe fare la cinica e calcolata propaganda leghista. È tipico del capitalismo tentare di risolvere un problema sociale con provvedimenti di ordine pubblico, innescando reazioni a catena e intensificando il conflitto di classe. Bisogna invece riconoscere che l'imponente fenomeno migratorio che caratterizza oggi l'intero pianeta è uno strumento di potere della borghesia e dell'imperialismo. Questa denuncia va diffusa sia tra i proletari italiani che tra quelli stranieri. Ciò non si traduce nella guerra agli immigrati, ma nella lotta all'imperialismo, vera causa del dramma sociale di milioni di esseri umani. La centralità della questione antimperialista viene spesso ignorata dalla sinistra e da molti comunisti che invece accolgono ingenuamente e acriticamente la tesi dell'accoglienza indiscriminata. Rinunciare ad inquadrare il problema secondo un’analisi di classe non è la strada per la ricomposizione del blocco sociale e per il potere proletario, internazionalista e socialista. I comunisti devono offrire prospettive di lotta, utili sia ai proletari italiani che a quelli immigrati.

 

4. Per un'azione concreta dei comunisti

Il migrante, non essendo cresciuto nel totalitarismo “liberale” che ha assopito la coscienza di classe del lavoratore italiano, dispone di condizioni soggettive più adatte ad accogliere l'opzione di una militanza politica rivoluzionaria. Però, se si vuole collegare la sua emancipazione con quella del proletario italiano, in un'adeguata ottica internazionalista, bisogna insistere sull'acquisizione teorica della centralità della questione antimperialista, capace di offrirgli un quadro mentale adeguato sia sui nemici internazionali che su quelli nazionali. I marxisti non possono poi dimenticarsi di praticare un'azione pedagogica sulla questione di genere, fronte imprescindibile della lotta di classe. Le donne italiane subiscono da secoli il patriarcato legittimato giuridicamente e ideologicamente dalle strutture della Chiesa Cattolica. Non bisogna risparmiare agli immigrati un'educazione laica e una critica delle religioni, su cui il marxismo ha offerto gli studi più avanzati. L'idea della parità tra uomo e donna deve affermarsi senza reticenze, per consentire alle lavoratrici immigrate di partecipare attivamente alla lotta di emancipazione dal capitalismo. Il rispetto per le culture di provenienza degli immigrati non può comportare la rinuncia a difendere le conquiste del proletariato occidentale.

Finora a portare un sostegno concreto e di massa a immigrati e migranti sono state le organizzazioni religiose e le ONG internazionali. La solidarietà cristiana e l'amore universale sono aspetti che hanno fatto parte spesso della storia del movimento operaio, ma che sono stati avversati duramente dal socialismo scientifico, fin dalle battaglie fatte da Marx ed Engels negli anni '40 contro i socialisti utopistici alla Weitling. La lotta di classe richiede decisamente una teoria più adeguata e meno “idealista”. I comunisti non possono esimersi dal cercare di trovare soluzioni di intervento, da concordare e individuare con le organizzazioni comuniste internazionali. A tal fine è indispensabile la collaborazione sia con i Partiti Comunisti dei Paesi di provenienza dei flussi migratori sia con i Partiti Comunisti dei Paesi di approdo.

Quel che di certo non si potrà più fare è limitarsi a sostenere un’accoglienza che si concretizza o nel disinteresse successivo all'avvenuto sbarco del migrante, lasciato spesso alla mercé del caporalato e delle mafie, o nell'impossibilità concreta di organizzare politicamente le migliaia di disperati, provenienti da ambienti sottoproletari di scarsa politicizzazione, che giungono nel nostro Paese.

Le politiche di assistenza, mutualismo e solidarietà delle organizzazioni progressiste e di sinistra sono insufficienti rispetto all’entità del fenomeno e deboli sul piano della lotta di classe. Diverso è il ruolo dei sindacati, che devono organizzare la lotta dei lavoratori immigrati e migranti come ulteriore elemento della lotta di classe e per cementare la solidarietà di classe internazionalista del proletariato italiano e straniero. I comunisti però non possono confondere lotta politica e lotta economica e limitarsi all’una o all’altra.

La ricerca di un radicamento nel proletariato “straniero” impone la ricerca di nuovi strumenti. Noi dobbiamo trasmettere agli immigrati il patrimonio di idee e di esperienza del proletariato italiano e del movimento comunista internazionale, con il duplice scopo di unire lavoratori stranieri e italiani nella lotta di classe nel nostro Paese e di accrescere la coscienza di classe tanto in Italia quanto nei Paesi di provenienza degli immigrati.

Dobbiamo rifiutare il modo di pensare della classe dominante, ossia in termini di italiani e stranieri. Non bisogna mai dimenticare che ci sono proletari italiani, proletari immigrati, borghesi italiani e borghesi immigrati. Il responsabile Immigrazione della Lega è Toni Iwobi, nigeriano di origine, che è diventato nel marzo 2018 il primo senatore nero della storia della Repubblica. Questo immigrato non è un alleato del proletariato, ma della borghesia. E come tale va trattato, senza per questo cedere a forme di razzismo.

Ci sono immigrati che delinquono: come si può non cogliere che l'associazione delinquente-immigrato sia un richiamo ai moralisti borghesi del XIX secolo, che descrivevano i poveri, il proletariato in massa, come una plebe di malviventi? È la società fondata sulla divisione in classi che crea criminalità. I criminali “di strada” sono sempre più diffusi nelle classi proletarie, le quali sono molto più multietniche di una volta. Caso differente è per i criminali finanziari o politici, dei quali la totalità resta quasi senza eccezioni italiana. I comunisti devono condannare la criminalità urbana a prescindere dalla nazionalità dei colpevoli, in quanto risposta individualista ed egoista ai problemi della società.

 

5. L'identificazione del nemico e i veri rischi di fascismo

Tutto ciò non deve mai far dimenticare la capacità pervasiva dell'attuale totalitarismo “liberale” di costruire un allarmismo politico infondato e ingiustificato nei numeri. Non si può parlare di “invasione” né ci si può ridurre a fare la guerra agli immigrati. Il nemico è il padrone, non l'immigrato. Ciononostante la questione politica dell'immigrazione esiste e va affrontata, per quanto spinoso e scomodo sia il tema in questione, dato che è possibile che possa aggravarsi negli anni a venire a causa delle dinamiche imperialiste, a vantaggio della spregiudicata retorica delle forze razziste e xenofobe.

A causa della connivenza dei “liberali” e dei “socialdemocratici” e della debolezza dei comunisti, queste forze rischiano, e ci sono già a tal riguardo segnali preoccupanti, di sfondare completamente con i propri messaggi nella società, favorendo l'avvento di soluzioni sempre più violente, barbare e repressive. Mai, nemmeno per un attimo, occorre dimenticare che il nemico è costituito dalla classe padronale, dalla borghesia, dal sistema capitalistico nel suo complesso e dalla sua conformazione attuale, la fase dell'imperialismo caratterizzata dal potere straripante delle multinazionali occidentali e dei corrispettivi agenti governativi al loro servizio, che ne tutelano gli interessi a discapito della classe lavoratrice mondiale. Ogni misura repressiva contro gli immigrati è una prova generale di repressione contro il proletariato italiano.

Il fascismo, già tornato sul continente europeo in Ucraina, potrebbe certamente diffondersi nuovamente nel resto d'Europa, sfruttando strumentalmente il nesso tra la questione sociale e quella migratoria. Chi ha consapevolezza storica e coscienza politica sa che il fascismo non è altro che lo strumento con cui le classi dominanti si risolvono a gestire processi sociali diventati incontrollabili, al fine di poter sottomettere meglio la classe lavoratrice e gli sfruttati.

La sempre più evidente crisi dell'Impero Statunitense e la possibile frantumazione dell'Unione Europea, con i conseguenti rischi di guerra e di instabilità sistemica, non rendono surreale il ricorso ad un simile scenario, il quale però è ancora lungi dall'essere definito. Esiste ancora un ampio spazio di manovra per i comunisti che sapranno organizzarsi validamente, nonostante il ritardo accumulato sia sconfortante. Questo però è un altro discorso, per il quale insisto nel rimandare alle conclusioni di “In Difesa del Socialismo Reale” (Vol. II, pp. 1346-1373).


Note
[1] M. Ambrosini (a cura di), “L’integrazione degli immigrati nel sistema economico lombardo”, “CIRIEC (Centro italiano di ricerche e d’informazione sull’economia pubblica, sociale e cooperativa)”, Ricerca per conto dell’Assolombarda, Milano 2004, p. 49, disponibile su http://www.assolombarda.it/fs/200412213555_31.pdf.
[2] L. Misculin, “I dati sui migranti in Italia, una volta per tutte”, “Il Post”, 12 giugno 2018, disponibile su https://www.ilpost.it/2018/06/12/dati-italia-immigrazione/.
[3] Ibidem.
[4] C. Da Rold, “Adolescenti stranieri a scuola: in Italia sono pochi e poco integrati”, “Il Sole 24 Ore”, 22 marzo 2018, disponibile su http://www.infodata.ilsole24ore.com/2018/03/22/adolescenti-stranieri-scuola-italia-poco-integrati/.
[5] ISTAT, “Indicatori demografici”, 8 febbraio 2018, disponibile su http://www4.istat.it/it/archivio/208951.
[6] F. Bini, “Istat, a giugno torna a salire la disoccupazione. Record dei contratti a termine”, “La Repubblica.it”, 31 luglio 2018, disponibile su http://www.repubblica.it/economia/2018/07/31/news/istat_a_giugno_torna_a_salire_la_disoccupazione-203040708/.
[7] V. Polchi, “Ecco perché i migranti non ci rubano il lavoro”, “La Repubblica.it”, 12 ottobre 2017, disponibile su https://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2017/10/12/news/ecco_perche_i_migranti_non_ci_rubano_il_lavoro-178082848/.
[8] C. Formenti, “Sinistra e Sovranismo. Le fake news del 'Manifesto'”, “Micromega”, 11 settembre 2018, disponibile su http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=25720.

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