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Il metodo Giacarta

Nicola Tanno intervista Vincent Bevins

Intervista a Vincent Bevins, che in un libro ricostruisce la storia dei massacri di cui si resero responsabili gli Stati uniti in Indonesia, America Latina e nel mondo. In nome dell'anticomunismo si spianava la strada al dominio del capitalismo

indonesia jacobin italia 1536x560Il genocidio indonesiano del 1965-66 resta uno dei buchi neri della memoria collettiva. A differenza di altri esecrabili crimini del Novecento, nella cultura popolare non esiste una conoscenza profonda dell’assassinio di circa un milione di militanti del Partito Comunista Indonesiano (Pki) né delle relative responsabilità degli Stati Uniti d’America. Allo stesso tempo, neanche la sinistra ha introiettato l’avvenimento nella sua memoria storica, né per denunciarlo né per trarne insegnamenti.

A differenza di altri crimini commessi in nome dell’anticomunismo, come quelli commessi in Cile e Argentina, è mancato un momento di riflessione politica sull’ascesa e la caduta del più grande partito comunista del Novecento dopo quelli sovietico e cinese. La storia del Pki viene perlopiù ignorata così come quella dell’importante ruolo dell’Indonesia nel primo ventennio del secondo dopoguerra. Sotto la guida di Sukarno, infatti, l’arcipelago asiatico fu il promotore del movimento dei paesi non allineati che si riunì a Bandung, sull’isola di Java, nel 1955 e che si proponeva di cambiare le regole della politica internazionale al di fuori dei blocchi. La fine di Sukarno e del Pki è anche un caso da manuale di come la Guerra Fredda sia stata vinta dagli Stati Uniti soprattutto attraverso il terrorismo di Stato a colpi di guerra psicologica, bombe e stermini dei militanti di sinistra.

Proprio della dimensione internazionale del genocidio indonesiano tratta il lavoro di Vincent Bevins Il Metodo Giacarta. La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro mondo (2019), che recentemente è stato tradotto da Einaudi. Mentre negli ultimi anni sono stati diversi i lavori che hanno spiegato dettagliatamente come si è arrivati al massacro e le sue conseguenze per l’Indonesia (per esempio quello di Geoffrey Robinson, già intervistato da Jacobin Italia), il testo di Bevins – ex-corrispondente del Los Angeles Times – si focalizza sulle cause e le conseguenze internazionali del massacro e su come esso abbia seguito uno schema che si è ripetuto identico in molte parti del mondo.

L’assassinio sistematico di militanti comunisti (veri o presunti) nel Terzo Mondo – dice l’autore – è stato la chiave per la vittoria statunitense della Guerra Fredda. Vincent Bevins ha risposto alle domande di Jacobin Italia.

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Dopo decenni di quasi silenzio negli ultimi anni sono stati pubblicati molti libri o film riguardanti i fatti in Indonesia del 1965-66 (penso ai due documentari di Joshua Oppenheimer). Il tuo però è uno dei primi che cerca di collocare quel genocidio nel contesto internazionale. Dunque, in primo luogo, in che modo la distruzione del Partito Comunista Indonesiano e dei suoi militanti è stato decisivo per l’esito della Guerra Fredda? Tu dici che questo fatto è ben più rilevante della sconfitta statunitense in Vietnam.

Ho provato ad adottare un metodo opposto a quello di Oppenheimer, i cui film mi hanno veramente colpito. Lui ha deciso di raccontare questa storia con uno sguardo ravvicinato sulle vicende individuali, io ho cercato di fare il contrario: far capire quanto questo episodio sia stato importante per la storia del ventesimo secolo e quanto sia legato a cose che il lettore medio forse già conosce – per esempio la guerra in Vietnam. Per rispondere alla tua domanda, all’inizio degli anni Sessanta era accettato dall’establishment statunitense che l’Indonesia fosse più importante del Vietnam. Si trattava di un paese con più abitanti, più risorse, alla guida del movimento dei paesi del Terzo Mondo. Era questo che lo rendeva diverso dagli Stati Uniti e, per certi versi, anche dal blocco socialista. Io credo che la distruzione del Partito Comunista Indonesiano, l’assassinio di circa un milione di militanti e simpatizzanti di questo partito e il conseguente passaggio dell’Indonesia dalla sinistra anticoloniale all’anticomunismo più spinto, rappresenti la più grande vittoria dell’Occidente nella Guerra Fredda. Se si guarda a essa solo come lo scontro e gli intrighi tra le due potenze non si arriverà alla stessa conclusione ma io sono partito dalla presupposto che ogni singola vita vale allo stesso modo. In tal senso, è possibile affermare che il 1965 rappresenta il punto di svolta della Guerra Fredda perché ha cambiato i destini dei popoli del Sud del Mondo. E dopo la conquista dell’Indonesia anche il ritiro dal Vietnam divenne qualcosa di accettabile.

 

Molti movimenti nazionalisti desiderosi di uscire dal colonialismo europeo guardavano con simpatia agli Usa e a essi si rivolsero per vedere realizzate le proprie aspirazioni. Il caso dei nazionalisti indonesiani è uno ma tu citi anche quello di Patrice Lumumba in Congo e finanche di Ho Chi Minh in Vietnam. Eppure le proprie aspettative rimasero deluse. Qual era il rapporto tra il movimento di Stati che si riunì a Bandung nel 1955 e gli Stati Uniti?

Adesso può sembrare difficile da credere ma quando gli Usa emersero come potenza mondiale sembrava che le vie che potessero intraprendere fossero due. La prima era quella di rimanere fedele ai valori democratici e anticoloniali che almeno a parole avevano difeso, in contrapposizione al colonialismo europeo. La seconda era quella di ripetere in chiave globale quelle politiche che avevano portato alla nascita degli Stati Uniti, ovvero l’imperialismo razzista, la conquista, l’uso della forza militare ed economica per conquistare nuovi territori. Guardando indietro è facile dire che era evidente che gli Usa avrebbero preso il secondo cammino del dominio imperiale, ma non era così ovvio in quel periodo. Non lo era per Sukarno, ma finanche Mao e altri leader del Terzo Mondo. Penso che se vogliamo riassumere in modo molto rudimentale ciò che accade nella Guerra Fredda e cosa fu il Metodo Giacarta, direi che con esse gli Stati Uniti decisero di comportarsi come gli europei, ma con un diverso insieme di tattiche per modellare i risultati a livello globale in conformità con gli interessi economici e politici statunitensi. E in tal senso direi, sulla linea di quanto affermato dallo storico Odd Arne Westad, che il senso principale della Guerra Fredda è il passaggio dal colonialismo a un altro tipo di controllo.

Devo aggiungere che, scrivendo questo libro, per me la cosa più dolorosa è stata conoscere le persone che hanno creduto nel movimento dei paesi del Terzo Mondo e sentire la loro tristezza. Se leggi le cronache di Richard Wright, che partecipò come inviato a Bandung, vedrai che quelle persone credevano veramente che stessero costruendo un futuro diverso, continuazione naturale della fine del dominio coloniale europeo. Certo, non sarebbe stato facile – vi erano molte contraddizioni nel gruppo di Bandung – ma credevano che con sforzi titanici avrebbero costruito un nuovo sistema economico davvero post-coloniale e che avrebbe collocato gli Stati del Terzo Mondo a fianco del Primo e del Secondo. E invece, usando le parole di Sukarno e Nkrumah, quello che è successo è stata la transizione da un ordine post-coloniale a neo-coloniale.

 

Con il terrorismo di stato è evidente che gli Usa si sono impegnati ad abbattere governi che non erano comunisti ma di stampo anticoloniale e desiderosi di riforme sociali. In Iran (1953), Guatemala (1954), Brasile (1964) e Cile (1973) vi era pluralismo politico e i comunisti erano forze minoritarie, eppure Washington ha agito con estrema violenza. Possiamo dire che l’attrazione verso il socialismo in paesi al di là del campo sovietico era ciò che Washington voleva evitare con questi interventi?

Questo è particolarmente difficile da digerire per gli statunitensi, perché si scontra violentemente con ciò che ci raccontiamo sulla politica estera degli Stati Uniti durante la Guerra Fredda. Ma tutto ciò lo sappiamo da file declassificati, da conversazioni dietro le quinte tra funzionari statunitensi: la minaccia più grande per l’interesse degli Stati Uniti erano i movimenti che avrebbero ispirato altri paesi del sud del mondo, molto più dei regimi socialisti. Sappiamo con certezza che ciò che preoccupava di più del Guatemala e del Cile era proprio la possibilità che riuscissero a realizzare riforme in condizioni democratiche che avrebbero inevitabilmente ispirato altri paesi dell’America Latina. Esiste un famoso memorandum in cui si dice che in nessun caso il «Golia» Usa può lasciar vincere il «David» Guatemala, questo per evitare emulazioni. E riguardo al Cile vi sono documenti interni in cui Richard Nixon dice in pratica «non possiamo permettere che abbiano successo». Puoi avere il socialismo fintanto che sembri spaventoso e autoritario ma se viene fuori che un tipo come Allende, un professore che veste elegantemente e a cui piace il vino, può fare delle riforme socialiste, che si possono avere sia democrazia che socialismo, allora sì che saranno guai, tutti vorranno fare lo stesso, tutti vorranno uscire dal progetto di egemonia capitalista guidata dagli Usa. Non a caso, nei mesi prima del golpe i sabotaggi all’economia cilena avevano proprio l’obiettivo di costringere Allende ad adottare misure restrittive da stato di polizia.

 

È interessante il ruolo dell’Urss in questa storia. Nel tuo libro di tanto in tanto appare ma sempre e solo per invitare alla calma i diversi movimenti rivoluzionari e socialisti.

Non sono un esperto del tema ma credo che sia evidente che l’Urss fosse ben cosciente della sua inferiorità militare e economica. La storia semplicistica della Guerra Fredda è di uno scontro tra due grandi potenze ma le condizioni dei due contendenti non sono mai state le stesse. La politica estera sovietica nel sud del mondo era di attenersi agli accordi stipulati durante la Seconda Guerra Mondiale, questo anche sotto Stalin. Lui stesso spinse i movimenti di sinistra o comunisti esterni al blocco sovietico all’arrendevolezza e far sì che le cose andassero diversamente da come essi volevano (pensa alla Grecia). Questo non è il fulcro del mio libro, ma deve essere compreso per poter raccontare onestamente la storia della Guerra Fredda: l’Urss che uscì dalla Seconda Guerra Mondiale era completamente decimata ed era cosciente della sua inferiorità. Sono rimasto sorpreso di vedere quanta paura avessero di provocare gli Usa. E le scissioni del movimento comunista internazionale su una linea maoista e guevarista avvennero proprio perché al di fuori del suo campo Mosca invitava sempre alla moderazione.

 

Una delle coincidenze tra quasi tutti questi colpi di stato anticomunisti è che i governi colpiti rinunciano a combattere. In Guatemala Jacobo Àrbens consegna il potere agli statunitensi, in Indonesia il Segretario del Pki, Aidit, non prepara la sua immensa base per la resistenza armata e in Cile Allende in pieno golpe invita ancora alla calma. Sai spiegarti il perché?

Non so, c’è il rischio di essere schematici. Potremmo dire che sono cresciuti e sopravvissuti movimenti armati di liberazione che erano ben organizzati, preparati militarmente e in attesa della controrivoluzione imperiale. Chi invece credeva nella natura democratica del sistema globale è stato distrutto. Allora potremmo mettere da lato il Vietnam, dove Ho Chi Minh guida un movimento di liberazione nazionale molto disciplinato, organizzato, armato, che non voleva la guerra con gli Usa ma si preparò a esso. E dall’altro possiamo collocare l’Indonesia, dove nel giro di pochi mesi sono state massacrate un milione di persone. Non puoi uccidere un milione di persone se questi se lo aspettano. E invece tutto ciò è stato possibile perché le vittime credevano davvero nel progetto di Sukarno, nell’idea che anche i militari, con tutti i loro disaccordi, fossero alleati patriottici nella costruzione di un nuovo paese. Un paragone simile si può fare tra Guatemala e Cuba. Jácobo Árbenz aveva ceduto il potere agli statunitensi perché credeva che contro di essi non si potesse far niente. Ernesto Che Guevara, che si trovava proprio in Guatemala in quel momento, la pensava diversamente. Dopo la sua rivoluzione, Cuba non era ancora chiaro cosa sarebbe diventata, ma fu chiaro da subito che nel «cortile» di Washington per sopravvivere fosse necessario essere autodifensivi e disciplinati.

 

È interessante l’uso che fai del concetto di «anticomunismo». A volte si ha difficoltà a trovare la parola giusta per identificare l’avversario storico del «comunismo», se parlare di «capitalismo», «liberismo» o semplicemente «destra». L’uso di questo termine risponde a una scelta precisa?

Avrei potuto usare un termine più familiare e gradevole, come «anti-sinistra» o «estrema destra». Ma io volevo essere molto specifico su questo punto. Nel titolo uso la parola «crociata» perché chi vi partecipò pensava di compiere una missione santa. E dico «anticomunista» perché è così che si definivano costoro. L’anticomunismo non è semplicemente il non essere comunista o il desiderare che i comunisti non governino il tuo paese. Si tratta di un insieme ideologico molto coerente con attori concreti che agivano in organizzazioni che si definivano così, come la Lega Anticomunista Internazionale. E poi osservo anche la tendenza dei commentatori liberali in lingua inglese a evitare di dire che le vittime di queste operazioni fossero proprio comuniste. Spesso, soprattutto quando si parla dell’Indonesia, si dà priorità alle storie di persone uccise per la propria etnia o ingiustamente accusate di essere comuniste, come se meritassero di meno di essere eliminate rispetto ai militanti del Pki. Erano comunisti, vennero uccisi in quanto tali e non erano meno innocenti di chi non lo era.

 

Nella seconda metà del ventesimo secolo, il Sud America e l’Asia sono stati focolai di rivolta sociale e teatri di immensi massacri anticomunisti. Tuttavia mentre oggi il Sud America è ancora il centro della costruzione di un progetto socialista, in Asia, al di là di quelli che erano Stati guidati da partito unico comunista non registriamo un movimento anticapitalista dello stesso livello. Come te lo spieghi?

Gli indonesiani che ho intervistato sono rimasti scioccati quando gli ho detto che in Brasile una persona come Dilma Rousseff, arrestata e torturata durante la dittatura, è potuta diventare presidentessa del suo paese. Tutto ciò gli appare incredibile. In Indonesia non si è compiuto nemmeno il primo passo, ovvero il riconoscimento di quanto avvenuto, per non parlare del reinserimento delle vittime nella vita politica e la legittimazione delle loro idee. Il recupero di alcune idee di sinistra in quel paese per il momento è davvero difficile. In altre parti dell’Asia, invece, credo che la sinistra sia piuttosto rilevante, come per esempio in India o nelle Filippine. Nel frattempo, in Sud America oggi ci troviamo in una situazione in cui si sta provando a tornare indietro, a smantellare i passi avanti successivi all’uscita dalle dittature.

 

Anni fa Andre Vltchek scrisse una monografia sull’Indonesia di oggi e la definì «l’arcipelago della paura». Tu come definiresti questo enorme paese di cui si parla così poco nei mezzi di informazione?

Dopo il 1965 l’Indonesia è quasi scomparsa dalle mappe. È un luogo di cui non si parla e che è davvero poco compreso. Voglio dire, quando mi ci sono trasferito, nel 2017, notai che molte persone istruite degli Stati Uniti, anche giornalisti importanti, non sapevano bene che cosa fosse l’Indonesia, e questo è davvero strano se pensi che è il quarto paese al mondo più popolato, il più grande paese a maggioranza musulmana, il più grande e importante del sud-est asiatico. C’è un livello di ignoranza davvero notevole sull’Indonesia. E questo vale anche per gli attivisti di sinistra. Alcuni abitanti familiari di vittime residenti a Bali mi hanno detto che spesso incontrano turisti occidentali con idee progressiste. Si tratta di persone che cercano di essere consumatori etici, ambientalisti, esperti di politica estera e ben informati su quello che accadde in Cambogia, Cile e Argentina. Ebbene, nessuno di loro aveva la minima idea di quello che è successo in quel posto, che il 5% della popolazione di Bali è stata trucidata nel 1965 con la partecipazione dei loro governi. È un enorme buco nero per il consumatore medio statunitense e anche per la sinistra internazionale. Che cosa sta succedendo adesso? È difficile spiegarlo in poche parole perché stanno succedendo davvero tante cose e ogni volta i giornalisti devono fare la stessa introduzione: che è un grande paese del sud-est asiatico, a maggioranza musulmana, una democrazia imperfetta, l’esercito è incredibilmente influente ecc. E poi che vi è una cultura incredibilmente vibrante, diversificata ma anche con una lingua e una cultura unificanti.

In Indonesia vi sono continue contestazioni. Si discute molto sul ruolo della religione nel paese, sul destino della democrazia. L’Indonesia, come molti altri paesi che hanno vissuto regimi capitalistici violenti e autoritari nel ventesimo secolo, ha avuto una sorta di transizione imperfetta o eccessivamente formale verso la democrazia. Vi è un sistema multipartitico, una vivace società civile, libertà di parola. Ma il sistema sociale ed economico è lo stesso installato durante la dittatura, come pure in America Latina. Quindi hai avuto una transizione formale alla democrazia ma i militari restano incredibilmente forti, in grado di usare la retorica anticomunista contro le forze politiche quando essi ne hanno voglia. L’anticomunismo è un’arma che può ancora essere tirata fuori dalla tasca per demonizzare o schiacciare l’avversario, persino contro il presidente Jokowi.

Allo stesso tempo poche persone sanno quello che il governo indonesiano ha fatto a Timor Est e quello che sta succedendo oggi a Papua Occidentale. A Timor Est è stata uccisa una percentuale di popolazione superiore a quella compiuta da Pol Pot in Cambogia. A Papua Occidentale è accaduto qualcosa di simile ma è impossibile entrarvi senza permesso dei militari. Non ho approfondito questi aspetti nel libro perché in gran parte sono accaduti dopo il periodo che ho preso in esame ma sono episodi molto gravi che meriterebbero più attenzione.

 

Il metodo Giacarta parla della Guerra Fredda, conclusa ormai trent’anni fa. Questa storia, secondo te, appartiene solamente al passato o è una minaccia ancora presente?

Non credo che questa storia sia finita. Con il passare del tempo i temi di questo libro si sono rivelati più attuali di quanto avrei voluto e l’anticomunismo è un fantasma del passato che può resuscitare in qualsiasi momento e con ancora più forza. Anche se l’egemonia degli Stati Uniti si realizza attraverso metodi differenti e se ha perso potere rispetto alla Cina, resta di gran lunga il paese più potente e non ci sono ragioni per credere che una cosa accaduta in passato non possa ripetersi di nuovo. È una sorta di credenza automatica che penso sia insostenibile. E lo posso affermare perché i cileni e gli indonesiani pensavano esattamente la stessa cosa. Molti di loro mi hanno detto che se gli avessi chiesto un anno prima della strage se fosse stata possibile, avrebbero detto di no. Ad esempio, i cileni pensavano «no, dai, siamo negli anni Settanta e non siamo mica in Guatemala o Indonesia dove i generali uccidono le persone!». Ecco, io credo che bisogna stare sempre in guardia, soprattutto perché il sistema economico globale è lo stesso di allora.


*Nicola Tanno è laureato in Scienze Politiche e in Analisi Economica delle Istituzioni Internazionali presso l’Università Sapienza di Roma. Vive e lavora da anni a Barcellona.Vincent Bevins è un giornalista californiano che ha trascorso gli ultimi anni a Giacarta. In veste di corrispondente dal Sud-est asiatico del Washington Post si è occupato in particolare degli effetti del massacro del 1965 e di politica indonesiana contemporanea. In precedenza ha lavorato come corrispondente dal Brasile per il Los Angeles Times e da Londra per il Financial Times. Ha scritto tra gli altri per il New York Times, The Atlantic, Economist, Guardian.

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