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lafionda

Uniti nel genocidio: guerra, finanza e intelligenza artificiale in Israele

di Matteo Bortolon

1701431067819 AP.jpg“Niente accade per caso. Quando una bambina di 3 anni viene uccisa in una casa a Gaza, è perché qualcuno nell’esercito ha deciso che non era un grosso problema ucciderla […]. Non siamo Hamas. Questi non sono razzi casuali, tutto è intenzionale. Sappiamo esattamente quanti danni collaterali ci sono in ogni casa”.

Tale agghiacciante testimonianza compare nell’inchiesta di una pubblicazione progressista israeliana costruita con colloqui con sette ex e attuali membri della intelligence israeliana. Quello che è più rilevante non è tanto il fatto che le vittime civili siano perfettamente prevedibili da parte di dell’esercito, ma il come può fare delle stime precise e le modalità con cui determina tali bersagli. E la risposta a entrambe le domande è: l’intelligenza artificiale.

In una inedita congiunzione, l’elemento militare, le aziende high-tech e alcuni enti finanziari speculativi hanno collaborato per raggiungere l’attuale massacro da parte dello Stato ebraico.

È noto come Israele abbia raggiunto una posizione ragguardevole nell’ambito della ricerca tecnologica. La zona chiamata Silicon Wadi, sede delle maggiori aziende del settore, è considerato seconda solo alla sua controparte in California; il paese vede il maggior numero di aziende tecnologiche start-up e di società quotate al NASDAQ (borsa di aziende di profilo tecnologico) al mondo, in proporzione alla sua ridotta popolazione. Dopo un famoso articolo di Wired scoppiò il caso, con la celebrazione del libro del 2009 Start-up Nation: the Story of Israel’s Economic Miracle. In esso i due autori, con una aneddotica esaltatrice di imprenditorialità di successo nel campo della ricerca tecnologica, riconducevano tale sviluppo al servizio militare e all’essere una nazione di immigrati (condizione che stimolerebbe l’inventiva e il rischio).

L’uso dell’aneddoto e la visione assai positiva del paese (gli autori sono un ex funzionario degli Usa attivo in Iraq presso la malfamata Autorità Provvisoria della Coalizione, l’organo coloniale che per alcuni anni governò il paese, e un ex redattore di un giornale israeliano) riflettono una certa percezione di Israele come paese ultra-occidentale: individualista, amante del rischio e visionario. Non saranno i soli.

Altri autori citano, più concretamente, un progetto governativo degli anni Novanta detto “Business incubator” (incubatore di imprese) destinato a indirizzare le competenze di circa 750mila ingegneri, scienziati e medici allora arrivati dall’ex URSS (che più che una soggettivistica “propensione al rischio” recavano la forza di una formazione professionale di prim’ordine conseguita dallo stato sovietico), sostenuto da crediti agevolati di Stato. In ogni caso era una accorta politica industriale (importante il ruolo della Israel Innovation Autority – una divisione del ministero dell’Economia). Un campo fondamentale del settore tecnologico è l’intelligenza artificiale. Come nota una pubblicazione danese, “Israele ospita una rete strettamente interconnessa di ricerca eccellente, talento tecnologico, un fiorente ecosistema di start-up, capitale di rischio, fondi, incubatori e un governo di sostegno attivamente impegnati nel campo dell’intelligenza artificiale”.

Arriviamo così al terzo elemento, dopo il militare e le aziende tecnologiche: il capitale di rischio, venture capitalism (VC), specializzato nell’investire in settori emergenti e molto promettenti. Israele è diventata una Mecca di questo tipo di soggetti finanziari: si stimano attivi nel paese 276 fondi di questo genere (un’altra fonte specializzata riporta invece il numero di 601, aggiungendo che nel loro portafogli deterrebbero partecipazioni di 977mila aziende). Sul totale mondiale del finanziamento per intelligenza artificiale di questo genere Israele rappresenta il 3% del totale mondiale secondo una ricerca OECD. Sembra poco, ma da sola fa come il Regno Unito (3%) e quasi quanto l’intera Ue (4%), una percentuale assolutamente esorbitante rispetto all’esiguità della popolazione.

Altrettanto importante è che il VC in Israele investe in intelligenza artificiale in misura superiore e crescente rispetto alle altre nazioni:

(La % è riferita al totale degli investimenti nei paesi, che potrà essere di dimensioni diverse; il grafico non dice che Israele riesce a investire il doppio dei soldi rispetto agli Usa).

Insomma, sebbene si sia rilevato con preoccupazione un rallentamento del suo vigore negli ultimi due anni, ci troviamo di fronte a un ecosistema che collega aziende, finanziatori e ruolo dello Stato in maniera impressionante. Il termine “ecosistema” è ricorrente nella letteratura dedicata al settore: allude alla struttura reticolare dei rapporti fra i soggetti che si dedicano alla raccolta di fondi, a convogliarli e a usarli per la ricerca. Ma dove entra in gioco il suo impiego nello sterminio?

Il Jerusalem Post ha documentato come già dal 2017 vi fosse l’idea di una collaborazione fra l’esercito israeliano e le start-up, ma il processo ha avuto dei ritardi. Più recentemente è stato sviluppato il programma Innofense. A quanto ne sappiamo si è svolto in tal modo: il DDR&D (Direzione della Difesa, della Ricerca e dello Sviluppo, organo congiunto del ministero della Difesa e dell’Esercito) si è rivolto a delle piattaforme con un largo indirizzario di giovani imprese per trovare opportunità di sviluppo come SOSA e IHLS (società costituita nel 2012 che nell’elenco del suo comitato di consulenti annovera solo militari!), rendendo note le proprie esigenze. Molte hanno risposto.

Rilevante, ad esempio, è il ruolo ricoperto da Founder’s Fund e Andreessen Horowitz (due società statunitensi) che hanno avviato un intero gruppo di start-up dedite ad armi guidate dall’intelligenza artificiale. In generale, la ricerca dedicata alla AI e alle sue applicazioni è il frutto di una partnership fra questi settori, per cui si verifica un travaso fra le acquisizioni tecniche verso l’impiego bellico.

Ma ci sono anche legami stretti, pure di carattere personale. Toka, una start-up di difesa informatica, è stata lanciata nel 2018 sotto gli auspici dell’ex primo ministro israeliano Ehud Barak (1999-2001), che ha ricoperto anche l’incarico di ministro della Difesa nel 2008-2013 (durante l’operazione Piombo Fuso). In una intervista del 2015 ha ammesso di aver guadagnato oltre un milione di dollari all’anno, anche facendo consulenze per degli hedge fund (i fondi più spregiudicati nella ricerca di profitto meramente finanziario che esistano). Fra i dirigenti di Toka vi era anche Yaron Rosen, generale di brigata in pensione. E chi ha finanziato l’operazione? Andreessen Horowitz, e Dell Technologies Capital (anch’essa californiana). Questo succedeva nel 2018. Negli ultimi cinque anni gli investimenti in alta tecnologia con consistenti applicazioni belliche sono diventate febbrili. Secondo la fonte specialista PitchBook nel 2023 il capitale di rischio avrebbe riversato sul settore ben 3,3 miliardi di dollari (stima fatta l’inizio di ottobre scorso, quindi assai largamente per difetto).

Contrariamente all’immagine di relativa neutralità del settore finanziario univocamente rivolto al profitto, l’insieme delle società di capitale di rischio ha manifestato un appoggio convinto ed esplicito per Israele. A inizio ottobre, dopo l’attacco di Hamas, circa 450 di esse hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta a suo favore, grondante di ipocrisia:

Israele è stato un partner duraturo dell’ecosistema globale dell’innovazione, promuovendo progressi tecnologici rivoluzionari e l’innovazione delle startup. Il contributo della nazione al mondo in termini di tecnologia, ricerca e imprenditorialità è inestimabile e nutriamo profondo rispetto per il suo incrollabile impegno verso il progresso. […] Nello spirito di pace e unità, incoraggiamo la comunità imprenditoriale globale a sostenere e impegnarsi con startup, imprenditori e investitori israeliani mentre attraversano questi tempi difficili. Crediamo in un futuro più luminoso e prospero per la regione. Continueremo a consentire agli imprenditori e alle startup di talento in Israele e all’estero di continuare il loro lavoro vitale nel plasmare un futuro migliore per tutti.

Curiosamente, quel singolare mondo del capitalismo di rischio guarda con occhi particolarmente benevoli Israele, echeggiando la visione di esso come realtà individualista e imprenditoriale ideale. Un testo scritto da un suo rappresentante, l’indo-statunitense Balaji S. Srinivasan (diventato nel 2013 socio di Andreessen Horowitz), The Network State, azzarda l’utopia di un insieme di persone che si costruiscono online come comunità e intensificano i propri legami fino a costruire un vero e proprio Stato da essi governato. Israele viene ampiamente citato come l’ispirazione migliore. Al di là dell’idea in sé (solo la mera enumerazione dei problemi basta a rinunziare a esaminarla seriamente), colpisce la percezione dello Stato ebraico, completamente depurata dalla ingiustizia e oppressione cui è sempre stato associabile. Presumibilmente i nuovi leoni del capitalismo finanziario vedrebbero lo sterminio dei nativi per il nuovo tecnostato come un incidente di percorso trascurabile.

Anche le start-up sono pesantemente schierate. Diverse imprese tecnologiche hanno parte del loro personale che a ottobre scorso è stato richiamato al servizio militare, ovviamente nelle funzioni contigue alla loro expertise. Lior Simon, a capo di una delle più importanti imprese del settore, ha dichiarato che molti dirigenti e dipendenti di essa – sia all’interno del portafoglio della sua azienda che oltre – fanno parte delle unità di intelligence d’élite di Israele e delle unità di combattimento e sono stati chiamati dopo il 7 ottobre.

La guerra per lo Stato ebraico appare sempre più come un conflitto basato sulla tecnologia. Nel 2021 una operazione contro i palestinesi è stata battezzata come “la prima guerra della AI”. “Per la prima volta, l’intelligenza artificiale è stata una componente chiave e un moltiplicatore di potenza nel combattere il nemico”, ha detto un alto ufficiale dei servizi segreti dell’IDF, riportato dal Jerusalem Post.

I sistema basati su AI – che recano, in modo nauseante, nomi come “Vangelo” – servono all’esercito per determinare i bersagli, selezionandoli nel database disponibile. Dato che i militanti di Hamas sono ovunque a Gaza, si potrebbe pensare che l’uso di questi sistemi serva ad attacchi chirurgici. Ed invece è il contrario: funziona per amplificare gli attacchi a interi palazzi dove si troverebbe un singolo attivista. Le testimonianze riportano che non solo per quasi il 90% i morti sono civili disarmati (di cui la netta maggioranza donne e bambini), ma talvolta non si riscontra l’eliminazione di nessun uomo di Hamas. La macchina moltiplica il numero di bersagli: mentre nel passato si determinavano 50 obiettivi all’anno, il sistema attualmente ne elabora 100 al giorno. Al giorno. È evidente che anche rispetto agli attacchi su Gaza del 2008 e del 2014 i protocolli dell’IDF si sono modificati permettendo massacri di civili che precedentemente gli ufficiali non avrebbero permesso.

L’inchiesta di +972 riporta anche che l’effettivo successo di tali attacchi sproporzionati è limitato. Dopo due settimane di guerra, con già migliaia di civili lasciati sul terreno, il braccio militare di Hamas non sembrava essere stato molto colpito, se non per una singola uccisione di un ufficiale di rango. Altre testimonianze riportano il fatto che Hamas cerca di impedire l’evacuazione dei civili, perché le uccisioni illegali di Israele le conferisce legittimità. E la cosa non sembra essere cambiata di molto, dato che l’ex vice consigliere israeliano per la sicurezza nazionale ha ammesso al Washington Post (del 5 febbraio) che il ruolo del movimento islamista nel governo di Gaza è intatto. Gli attacchi sembrano piuttosto congruenti, aggiunge l’inchiesta, alla dottrina Dahiya:

Secondo tale dottrina – sviluppata dall’ex capo di stato maggiore dell’IDF Gadi Eizenkot, che ora è membro della Knesset e parte dell’attuale gabinetto di guerra – in una guerra contro gruppi di guerriglia come Hamas o Hezbollah, Israele deve usare una forza sproporzionata e schiacciante mentre prende di mira infrastrutture civili e governative al fine di stabilire un deterrente e costringere la popolazione civile a fare pressione sui gruppi affinché pongano fine ai loro attacchi.

Il problema è che tale strategia corrisponde alla definizione giuridica elaborata dal diritto Usa, “l’uso illegale della forza e della violenza contro persone o proprietà per intimidire o costringere un governo, la popolazione civile, o qualsiasi segmento di essa, a sostegno di obiettivi politici o sociali”, per designare il terrorismo.

Anche escludendo la dimensione etico-morale, la riprovazione della maggioranza schiacciante dell’opinione pubblica mondiale – i difensori a oltranza di Israele paiono costretti ad acrobatiche arrampicate sugli specchi, e sono regolarmente coperti di insulti – che spinge alcuni governi a misure di censura più dure contro Tel Aviv sembra essere un logoramento irreversibile della risorsa strategica che alcuni chiamano soft power. Quindi questo terrorismo di Stato ipertecnologico non pare giustificabile nemmeno sul piano della più spregiudicata realpolitik.

In un articolo comparso su una rivista giuridica, due autori richiamano i tre meccanismi individuati dallo studioso H. Kellmann sulle atrocità di massa: la “autorizzazione”, la “routinizzazione” e la “disumanizzazione. Col primo la decisione viene demandata all’autorità dei capi, e l’esecutore tende a deresponsabilizzarsi. Col secondo la ripetitività delle procedure impedisce che si percepisca i propri atti come una decisione, ignorandone le implicazioni etiche. Con la terza si spogliano le vittime del loro essere un soggetto morale. A quanto pare il governo di Israele del 2024 ha portato assai avanti tali meccanismi con un sistema di targeting basato sulla intelligenza artificiale. Del resto a ottobre scorso l’attuale ministro della Difesa aveva detto: “Stiamo lottando contro animali e ci regoleremo di conseguenza”: la più avanzata tecnologia coniugata col regresso morale.

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