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Un sovranismo democratico per un nuovo europeismo

di Alessandro Somma

populismo conflitto sociale sovranismoUn scontro tra europeisti e sovranisti, i primi raccolti attorno a Macron e i secondi guidati da Orbán e Salvini. È questa l’immagine più utilizzata per rappresentare lo scontro in atto, confezionata ad arte per nascondere la sostanziale convergenza di europeisti e sovranisti, fautori i primi di un neoliberalismo cosmopolita e i secondi di un neoliberalismo nazionale. E per impedire di riconoscere che il vero confronto è quello tra i fautori di un ritorno agli Stati per alimentare una guerra per la conquista dei mercati, e chi vuole invece ripristinare la dimensione statale per impiegarla in una guerra ai mercati: terreno sul quale si gioca il rilancio della sinistra.

È dunque un rilancio che passa da un diverso sovranismo. Non quello incentrato su valori premoderni buoni solo a reprimere i conflitti causati dalla modernità capitalistica, bensì quello democratico: volto a ripristinare la sovranità popolare in quanto fondamento della democrazia economica, oltre che della democrazia politica.

 

Il momento Polanyi

La società, rilevava Polanyi nel corso degli anni Quaranta, è naturalmente portata a difendersi dal mercato autoregolato, a opporre al movimento verso “l’allargamento del sistema di mercato” un “opposto movimento protezionistico”. Si assiste così a un “doppio movimento”, il primo volto ad affermare “il principio del liberalismo economico”, e il secondo quello “della protezione sociale”. Quest’ultimo movimento, verso la ripoliticizzazione e risocializzazione del mercato, può avvenire nel rispetto dell’ordine politico democratico, come è successo con il New Deal statunitense, ma anche attraverso il suo affossamento, come si è verificato nel Ventennio fascista[1].

L’epoca attuale è indubbiamente caratterizzata dal rigetto del mercato autoregolato e dal processo di denazionalizzazione che ha accompagnato la sua affermazione. Lo è naturalmente, dal momento che il neoliberalismo si fonda sul cosmopolitismo, come si ricava da quanto auspicato da von Hayek decenni or sono. Quest’ultimo voleva creare una federazione interstatale e delegarle la costruzione e lo sviluppo dell’ordine economico. Avrebbe rappresentato un vincolo esterno con cui rende agli Stati “chiaramente impossibile influenzare i prezzi dei diversi prodotti”, e dunque ostacolare l’edificazione e lo sviluppo di un mercato autoregolato: tanto che “sarà difficile produrre persino le discipline concernenti i limiti al lavoro dei fanciulli o all’orario di lavoro”[2].

Anche il rigetto del mercato a cui assistiamo ora non sta avvenendo nel rispetto della democrazia. Lo schema seguito è quello del nazionalismo economico: si sta profilando una lotta tra Stati per la conquista dei mercati, unita allo sviluppo di un sistema di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti. Ci sarebbe invece bisogno di una lotta degli Stati contro i mercati, che tuttavia non prende corpo anche per un erroneo convincimento diffuso a sinistra: che il contrasto del cosmopolitismo implichi un ripudio dell’internazionalismo.

Eppure i due termini non sono affatto coincidenti. Se infatti il cosmopolitismo combatte la dimensione nazionale per promuovere la libera circolazione dei fattori produttivi e con essa il mercato autoregolato, l’internazionalismo valorizza la dimensione nazionale.

Questi concetti sono stati esposti in modo esemplare durante il dibattito parlamentare dedicato all’adesione italiana al Consiglio d’Europa. Allora Lelio Basso ebbe a stigmatizzare il comportamento della borghesia, storicamente espressiva di una “coscienza nazionale”, che aveva abbandonato il “vecchio esasperato nazionalismo” e assunto come sua bandiera il “cosmopolitismo”. E che lo aveva fatto per motivi non certo nobili: voleva resistere alla “pressione di classi che hanno acquistato la coscienza dei propri diritti e che, non potendoli soddisfare nel quadro delle antiquate strutture, minacciano di farle saltare”. Di qui la conclusione che l’emancipazione delle classi subalterne passa dalla loro capacità di togliere “alla nazione il carattere di espressione esclusiva della classe dominate”, ma non anche di abbandonarla come terreno di lotta politica. E ciò equivale a dire che il proletariato deve acquisire “contemporaneamente la coscienza di classe e la coscienza nazionale, ponendo le basi per un vero internazionalismo, per una federazione di popoli liberi”[3].

Nella sinistra storica queste tesi resistono sino alla dissoluzione del Blocco socialista. La ratifica del Trattato di Maastricht è l’occasione per formalizzare il cambio di rotta e affermare che la precedente impostazione era figlia della Guerra fredda. Questa aveva impedito di riconoscere come “l’idea di Europa” fosse “implicita non solo nelle origini internazionaliste, ma anche nella coscienza dell’antifascismo e della Resistenza” [4]: una ricostruzione molto approssimativa e con il senno di poi, da cui trae conferma la sensazione che l’europeismo di oggi costituisca il rimpiazzo, davvero poco meditato sebbene rassicurante come solo sanno essere i dogmi, dell’internazionalismo di ieri, e più in generale della crisi delle idealità ereditate dal passato[5].

Anche per questo si stenta a riconoscere che siamo immersi nel momento Polanyi[6], che occorre pertanto prendere atto del moto verso il recupero della dimensione nazionale, accettarlo in quanto inevitabile reazione della società contro la tirannia dei mercati. E operare affinché tutto ciò si combini con la riaffermazione delle ragioni di una sinistra internazionalista, in quanto tale non anche cosmopolita: le ragioni della sovranità popolare e a monte, nella misura necessaria e sufficiente affinché questa possa esprimersi, della sovranità statale. È l’unico modo per opporre al rinato conflitto tra Stati per la conquista dei mercati una lotta degli Stati contro l’invadenza dei mercati.

 

Sovranità popolare

Le costituzioni moderne si occupano tutte di sovranità nello Stato, o sovranità popolare, distinguendola dalla sovranità dello Stato o statale: la prima rilevante per i rapporti interni, tra governanti e governati, e la seconda per i rapporti esterni, tra Stati. Per molto tempo ha ciò nonostante resistito il dogma ottocentesco della esclusiva sovranità statale, per cui la sovranità popolare costituiva una mera formula politica, priva di valore giuridico. Le cose cambiano solo nel corso degli anni Cinquanta, quando si afferma la distinzione tra Stato-governo e Stato-società, e si precisa che il primo costituisce un’entità al servizio del secondo: è dunque il popolo il titolare della sovranità anche in senso giuridico, mentre l’apparato statale si limita ad attuare gli intendimenti maturati entro la comunità dei governati.

In altre parole, quando la Costituzione afferma che “la sovranità appartiene al popolo” (art. 1), intende dire che “il popolo resta titolare della potestà di governo, costituente e costituita, dell’una e dell’altra conservando altresì l’esercizio”, mentre lo Stato semplicemente “sostituisce il popolo nel solo esercizio di una parte di tale potestà”[7]. Tanto che, se lo Stato-governo non rispetta la volontà popolare, lo Stato-società ben può esercitare il diritto di resistenza, implicito nel caso non vi sia un’espressa previsione costituzionale in tal senso: come si è sostenuto all’epoca del governo Tambroni per legittimare lo sciopero politico, allora ancora punito dal Codice penale[8].

Alla contrapposizione di governanti e governati occorre però aggiungere quelle tra componenti del popolo in conflitto con riferimento a specifici interessi, come quelli riconducibili al ruolo ricoperto entro il sistema produttivo: gli interessi di classe. La sovranità popolare è cioè radicata in una comunità comprendente entità distinte e contrapposte, come i partiti e le formazioni sorte o emerse dalla loro crisi, tutte investite del diritto di concorrere alla formazione dell’indirizzo politico ben oltre il momento elettorale. E ciò equivale a dire che l’esercizio della sovranità popolare implica forme di rappresentanza dei cittadini destinate a correggere l’ambiguità di fondo della democrazia borghese, incapace di fornire gli strumenti indispensabili a realizzare una “partecipazione continua”[9].

E non è tutto. Siccome l’esito della contrapposizione tra componenti del popolo dipende dalla loro forza sociale, l’esercizio della sovranità richiede l’uguaglianza sostanziale dei cittadini, collegata cioè a un ruolo attivo dei pubblici poteri, chiamati a rimuovere gli ostacoli alla realizzazione della parità. E ciò equivale a dire che l’esercizio della sovranità presuppone, oltre alla libertà e all’uguaglianza, anche la solidarietà: fuori dal mercato, da esprimere con gli strumenti dello Stato sociale, ma anche nel mercato, dove la debolezza sociale deve essere bilanciata dalla forza giuridica. Anche per questo l’esercizio della sovranità popolare passa dalla valorizzazione del lavoro in quanto fonte di uguaglianza e libertà, e dunque dallo sviluppo della democrazia economica. Passa cioè dalla partecipazione diffusa alla vita economica attraverso la programmazione realizzata a livello parlamentare, ma anche con il coinvolgimento dei lavoratori, e non solo di essi, nelle scelte aziendali.

Se così stanno le cose, l’affermazione del principio della sovranità popolare richiede che siano assicurati i diritti della tradizione liberale, ovvero i diritti di libertà: alla libera manifestazione del pensiero, alla libertà personale, alla libertà di associazione, alla libertà di movimento, alla libertà di religione, e così via. È però altrettanto indispensabile la garanzia dei diritti sociali, ovvero la promozione, tra gli altri, del diritto alla salute con la garanzia di “cure gratuite agli indigenti” (art. 32), del diritto all’istruzione inferiore gratuita e superiore assicurata a chi è “privo di mezzi” (art. 34), del diritto al mantenimento e all’assistenza sociale per chi è “inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”, e del diritto a mezzi adeguati alle esigenze di vita per i lavoratori colpiti da infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria (art. 38).

Tutti i diritti richiamati sono strettamente legati alla sovranità popolare, se non altro in quanto dalla loro previsione essa emerge come vicenda non solamente unitaria: l’esercizio dei diritti sociali, esattamente come dei diritti di libertà, costituisce “espressione permanente di sovranità popolare”, fondamento per la trasformazione del cittadino in “sovrano di se stesso”[10].

 

Sovranità limitata

Lo Stato moderno nasce come Stato assoluto, del quale il popolo rappresenta semplicemente un elemento costitutivo, essendo l’esercizio della sua sovranità ridotto a una mera funzione: quella concernente l’elezione del parlamento, a cui si riconoscono poteri in quanto organo statale. Le cose cambiano solo in parte con l’affermazione dello Stato di diritto, che mira a istituire un governo degli uomini in luogo del governo delle leggi, e quindi a porre primi condizionamenti all’esercizio della sovranità: non ancora riconosciuta al popolo, ma se non altro limitata a suo favore.

Lo Stato di diritto non rappresenta però un argine contro gli arbitri delle maggioranze contingenti. Questo è l’obiettivo dello Stato costituzionale, nel quale occorrono maggioranze qualificate per modificare le regole relative all’esercizio della sovranità, che oltretutto ha nel frattempo cessato di essere solo statale: la sovranità popolare è tale anche dal punto di vista giuridico e non solo meramente politico. Lo Stato costituzionale arricchisce il catalogo delle limitazioni concernenti l’esercizio della sovranità popolare, efficacemente vincolata a realizzare la parità sostanziale fuori e dentro il mercato, anche e soprattutto per confermare che il suo fondamento risiede nella promozione dell’uguaglianza.

Con lo Stato costituzionale i diritti fondamentali diventano inviolabili. E compongono la cornice entro cui si sviluppa il pluralismo cui rinvia il riconoscimento che il popolo comprende centri di interessi in contrasto tra loro[11], tutti chiamati a concorrere all’esercizio della sovranità popolare. Anche per questo lo Stato costituzionale è tale in quanto identifica la cornice entro cui iscrivere il conflitto democratico: “il pluralismo non degenera in anarchia normativa a condizione che, malgrado la divisione sulle strategie particolari dei gruppi sociali, vi sia una convergenza generale su alcuni aspetti strutturali della convivenza politica e sociale, che si possono così mettere fuori discussione e consacrare in un testo non disponibile da parte degli occasionali signori della legge”[12].

Non vi è pertanto motivo di sostenere che la sovranità popolare si risolva in una sorta di dittatura della maggioranza. Questo sosteneva al principio del Novecento chi voleva denigrare la democrazia per aprire la strada all’involuzione fascista, ma è in fin dei conti quanto affermano coloro i quali considerano il neoliberalismo incompatibile con la democrazia.

Semmai è di dittatura del mercato che occorre parlare: quella indotta dal neoliberalismo che promuove lo scioglimento dell’individuo nell’ordine proprietario, e la funzionalizzazione delle sue condotte al mantenimento del principio di concorrenza. A dimostrazione di come la normalità capitalistica possieda una forza attrattiva tale da impedire la costruzione di un capitalismo dal volto umano: esito inevitabile se la sovranità popolare non viene riconosciuta e alimentata come forza emancipatoria da opporre all’ordine proprietario e al principio di concorrenza.

 

Sovranità condizionata

Che la sovranità nello Stato presupponga la sovranità dello Stato, era ben presente ai Costituenti, i quali ammisero limitazioni di quest’ultima solo per promuovere un ordine politico incentrato sulla pace e sulla giustizia fra le nazioni, e solo in condizioni di parità con gli altri Stati. Di qui la previsione costituzionale per cui l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni” (art. 11). Il tutto per legittimare l’adesione all’Onu[13], il cui statuto così sintetizza i fini dell’organizzazione: “mantenere la pace e la sicurezza internazionale”, nonché “sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-decisione dei popoli” (art. 1).

Erano circoscritte anche le limitazioni della sovranità relativa al funzionamento dell’ordine economico, che a livello internazionale si volle incentrare sulla libera circolazione delle merci, ma non anche dei capitali: era questo il senso del compromesso raggiunto a Bretton Woods, sostenuto anche in quanto fondamento del compromesso keynesiano. Se infatti i capitali circolano liberamente, i governi sono costretti a competere per attirarli comprimendo i salari e la pressione fiscale sulle imprese, e questo contrastava con la volontà di edificare un ordine economico internazionale incentrato sull’economia reale. Il tutto esplicitato durante la conferenza di Bretton Woods, e soprattutto nello statuto del Fondo monetario internazionale[14], dove si legge tutt’ora che “gli Stati membri possono esercitare gli opportuni controlli per regolamentare i movimenti di capitali” (art. 6).

Ma non è tutto: l’intento di promuovere la prosperità richiede talvolta di controllare anche la circolazione delle merci, di ricorrervi come strumento di politiche anticicliche direttamente votate a produrre la piena occupazione. È lo stesso Keynes a mettere in luce questo aspetto in un contributo significativamente intitolato “autosufficienza nazionale”, nel quale si dichiara il definito tramonto dell’internazionalismo economico di matrice ottocentesca: possono circolare “le idee, la conoscenza, la scienza… ma lasciamo che le merci siano prodotte in casa quando è ragionevole e possibile in modo conveniente, e specialmente che la finanza sia soprattutto nazionale”[15].

La costruzione europea ha rappresentato e rappresenta il principale dispositivo utilizzato per rovesciare il compromesso keynesiano e a monte per scardinare la disciplina costituzionale della sovranità[16]: per condizionarla al rispetto dell’ortodossia neoliberale.

L’Europa unita non promuove infatti la pace e la giustizia, né tantomeno rispetta la parità tra Stati: alimentato la circolazione di tutti i fattori produttivi per rovesciare il compromesso di Bretton Woods. Lo ricaviamo in modo esemplare considerando le riflessioni di Guido Carli, Ministro del tesoro che rappresentò l’Italia nei negoziati per la definizione dei contenuti del Trattato di Maastricht. Il banchiere era consapevole che il Trattato avrebbe condotto ad “allargare all’Europa la Costituzione monetaria della Repubblica federale di Germania”. E lo apprezzava proprio per questo, perché avrebbe implicato “la concezione dello Stato minimo” e dunque un “mutamento di carattere costituzionale”, per cui si sarebbero ristrette le libertà politiche e riformate quelle economiche: realizzando in particolare “una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari ed aumenti quelle dei governi”, e un ripensamento complessivo delle “leggi con le quali si è realizzato in Italia il cosiddetto Stato sociale”[17].

Proprio questo assetto viene presidiato dal principio della superiorità del diritto europeo sul diritto nazionale. Un principio che a ben vedere non ha un fondamento costituzionale: se come abbiamo detto la partecipazione italiana all’Europa unita non è coperta dalla Costituzione (art. 11), essa si fonda unicamente sugli atti di recepimento dei Trattati, ovvero su leggi ordinarie, il che è “semplicemente illegale”[18].

Ma non è questo, evidentemente, l’orientamento dell’Unione europea, secondo cui il diritto europeo prevale persino sul diritto costituzionale nazionale (Corte di giustizia Cee, Sent. 17 dicembre 1970, 11/70). La Corte costituzionale afferma che ci sono limiti a questo principio: per la precisione “controlimiti all’ingresso delle norme dell’Unione europea”. Questi sono però attivabili solo se sono chiamati in causa precetti “irrinunciabili… per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale” (sent. 22 ottobre 2014 n. 238): ad esempio quelli relativi alla forma repubblicana, intangibile per espressa previsione (art. 139). A queste condizioni la riaffermazione della sovranità non si potrà invocare per contrastare la pervasività dell’ortodossia neoliberale. I controlimiti sono cioè “riserve di sovranità” solo “potenziali”, buone solo per legittimare la costruzione europea nei confronti del popolo sovrano: per fungere da “oppiacei”[19].

Questo vale però per l’Italia, ma non per altri Paesi europei più vigili rispetto alle conseguenze di una cessione di sovranità statale al livello sovranazionale. Primo fra tutti la Germania, la cui Corte costituzionale afferma che il parlamento tedesco “in quanto rappresentante del popolo” deve mantenere “un influsso costitutivo sullo sviluppo politico della Germania”. Anche e soprattutto per assolvere al “dovere dello Stato di garantire un giusto ordine sociale”, ovvero per “creare le condizioni minime per un’esistenza dignitosa dei suoi cittadini” (sent. 30 giugno 2009, 2 BvE 2/08).

Il tutto mentre la Legge fondamentale tedesca è stata modificata per chiarire che la Germania aderisce all’Unione economica e monetaria solo nella misura in cui questa si fonda sull’ortodossia neoliberale (art. 88). Con il risultato che l’Unione si potrà modificare solo cambiando la Legge fondamentale tedesca, a riprova di come essa sia oramai radicalmente immodificabile.

 

Sovranismo democratico

Da tempo si discute di un nuovo costituzionalismo, capace di promuovere e tutelare i diritti fondamentali in assenza dello Stato[20]. È un’opzione suggestiva ma criticabile da diversi punti di vista, innanzi tutto perché prefigura un progetto emancipatorio privo di dimensione politica, con ciò condannato all’inefficacia[21]. Inoltre alimenta l’idea secondo cui, in tempi di globalizzazione, i poteri statuali sono volatili: idea fuorviante in quanto trascura il loro fondamentale contributo al funzionamento del mercato autoregolato. Il nuovo costituzionalismo impedisce cioè di riconoscere la centralità di una lotta per riorientare l’azione dei poteri statuali, e a monte la necessità di recuperare la dimensione nazionale in quanto arena democratica entro cui il conflitto redistributivo si sviluppa in modo equilibrato, e il suo esito viene tradotto in pratica politica. È questo il senso del sovranismo democratico.

La liberazione dal vincolo esterno è insomma indispensabile alla ripoliticizzazione del mercato, per la quale la democrazia deve però svilupparsi in forme ulteriori rispetto a quelle contemplate dalla tradizione borghese. Deve cioè affermarsi in quanto espressione di sovranismo politico, da intendersi però come condizione per consentire lo sviluppo del sovranismo sociale, strumento attraverso cui dar seguito all’esito del conflitto redistributivo. È questo il fondamento del compromesso keynesiano, alimentato dalle mediazioni tra capitale e lavoro in qualche modo presidiate dallo Stato, anche ricorrendo al sistema della sicurezza sociale come forma di salario differito, e più in generale come componente di una politica di piena occupazione[22]. Tutto l’opposto di quanto preteso invece dall’ortodossia neoliberale, che al confronto tra centri di potere economico riequilibrato secondo lo schema della parità sostanziale oppone la polverizzazione di quel potere, funzionale a ridurre i comportamenti degli operatori del mercato a reazioni automatiche ai suoi stimoli, per sterilizzare così il conflitto sociale.

Il vincolo esterno da combattere non è solo quello derivante dalla cessione di sovranità in materia di politica monetaria e a monte di politica fiscale e di bilancio, la prima prevista esplicitamente nei Trattati e la seconda in qualche modo coartata attraverso il meccanismo della governance[23]. Occorre anche contrastare il mercato unico ripristinando i controlli sulla circolazione dei fattori produttivi: soprattutto dei capitali, pena l’insostenibilità del compromesso keynesiano. La circolazione delle imprese e dei lavoratori deve essere limitata in quanto alla base di pratiche odiose di dumping salariale e sociale.

Rispetto alla circolazione dei capitali e dei lavoratori, quella delle merci necessita di minori controlli, che sono tuttavia fondamentali per porre rimedio agli squilibri della bilancia dei pagamenti. La situazione sarebbe in parte diversa, ove nell’Eurozona fossero rispettate le regole relative al buon funzionamento di un’area monetaria ottimale, e in particolare quella per cui i Paesi in surplus devono sostenere la domanda dei loro cittadini e contribuire così, attraverso l’importazione, a riequilibrare la bilancia dei pagamenti dei Paesi in deficit. Accade invece l’opposto, giacché la Germania supera da troppo tempo e in modo esorbitante il limite, peraltro molto generoso, ammesso dalle regole: un surplus delle partire correnti entro una media del 6% del prodotto interno lordo calcolato nel triennio[24].

Il ripristino dei controlli sulla circolazione dei fattori produttivi consente di tutelare l’identità nazionale intesa quale modalità condivisa da una “comunità solidale che stabilisce come distribuire la ricchezza prodotta”[25], ovvero come promuovere la democrazia economica nel rispetto dei principi di uguaglianza, libertà e solidarietà. Nulla a che vedere con il riferimento a ontologie premoderne[26], buone solo ad alimentare il conflitto tra Stati per la conquista dei mercati e a ricomporre il conflitto redistributivo provocato dalla modernità capitalistica.

 

Un nuovo europeismo

Il sovranismo democratico non ha alternative: l’Europa unita in quanto dispositivo neoliberale è irriformabile ed è pertanto illusorio pensare di democratizzarla, magari nell’ambito di un ampliamento dell’Unione economica e monetaria. Occorre al contrario rinazionalizzare le politiche economiche, presupposto irrinunciabile per riattivare la sovranità popolare e il conflitto sociale quali fondamenti della democrazia economica. E ciò significa recuperare innanzi tutto la sovranità monetaria: non solo per riequilibrare i differenziali di competitività, ma anche perché l’Eurozona in quanto area monetaria non ottimale è inesorabilmente destinata a beneficiare il centro della costruzione europea e a danneggiare la sua periferia.

Peraltro l’enfasi sulla sovranità monetaria può essere fuorviante. In fondo sono le politiche monetarie a plasmare il rapporto tra economia e società, sicché il mero ritorno della moneta nazionale potrebbe creare l’illusione infondata che esso comporti di per sé un recupero del compromesso keynesiano. Mentre è evidente che le politiche realizzate con il ritorno della Lira ben potrebbero essere le stesse di quelle realizzate con l’Euro, soprattutto se le prime sono realizzate dalla stessa classe dirigente a cui si devono le seconde. Di qui l’importanza del conflitto sociale in quanto vicenda capace di riattivare la sovranità popolare e produrre, oltre al ricambio della classe dirigente, un ampliamento delle decisioni affidate alla partecipazione democratica, e dunque sottratte all’impero degli automatismi concepiti dall’ortodossia neoliberale.

Si badi però che il sovranismo democratico non mira alla chiusura nazionalista. Al contrario è il presupposto per rilanciare una diversa forma di europeismo, incentrato sulla democrazia economica oltre che politica, in quanto tale strumento di emancipazione sociale e individuale.

La stessa costruzione europea, sorta nei Trenta gloriosi, è stata inizialmente concepita in modo tale da lasciare spazio a qualche forma di resistenza alle istanze del mercato: i Trattati menzionano la piena occupazione accanto al controllo dell’inflazione come finalità delle politiche economiche, che dunque avrebbero potuto alimentare il compromesso keynesiano. Proprio per rovesciarlo si sono definite politiche economiche ossessionate dalla stabilità dei prezzi, per poi imporre politiche fiscali e di bilancio incentrate sul controllo del deficit e del debito. Il recupero della sovranità popolare ben potrebbe consentire di riavvolgere il nastro di questa storia e alimentare un “patriottismo costituzionale”[27]: potrebbe riportare in auge politiche nazionali di piena occupazione da porre alla base di una diversa costruzione europea, entro cui sviluppare politiche aperte al sostegno della domanda e dunque alla redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso.

Detto questo, riflettere sul sovranismo democratico è indispensabile a prescindere dai sentimenti suscitati dal ritorno dei confini: i processi di rinazionalizzazione sono inevitabili in quanto reazione alla pervasività del mercato autoregolato. Non riconoscerlo nel nome di un europeismo ideologico e scollato dalla realtà non eviterà l’involuzione e infine il crollo dell’Europa unita, ma semplicemente, quando questo avverrà, consentirà al sovranismo identitario di affermarsi incontrastato.


(l'articolo anticipa e sintetizza i temi del volume di Alessandro Somma "Sovranismi. Stato popolo e conflitto sociale" in uscita per DeriveApprodi)

NOTE
[1] K. Polanyi, La grande trasformazione (1944), Torino, 1974.
[2] F. von Hayek, The Economic Conditions of Interstate Federalism, in 5 New Commonwealth Quarterly, 1939, p. 131 ss.
[3] AC 13 luglio 1949, 10292 ss.
[4] Così Caludio Petruccioli, in AC 28 ottobre 1992, 5251 ss.
[5] A. D’Attorre, Sovranità non è una parola maledetta (14 giugno 2018), https://www.italianieuropei.it/it/italianieuropei-3-2018/item/4049-sovranità-non-è-una-parola-maledetta.html.
[6] S. Cesaratto, Polanyi moment (22 settembre 2017), http://sollevazione.blogspot.com/2016/09/polany-moment-quale-strategia-di.html.
[7] V. Crisafulli, La sovranità popolare nella Costituzione italiana (1954), in Id., Stato, Popolo, Governo, Milano, 1985, p. 91 ss.
[8] G. Amato, I fatti di luglio, il diritto alla resistenza e l’incriminazione dello sciopero politico, in Democrazia e diritto, 1961, p. 124 ss.
[9] L. Carlassare, La sovranità del popolo nel pluralismo della democrazia liberale, in Id. (a cura di), La sovranità popolare nel pensiero di Esposito, Crisafulli, Paladin, Padova, 2004, p. 7.
[10] T.E. Frosini, Sovranità popolare e costituzionalismo, Milano, 1997, p. 214.
[11] E. Cheli, Intorno ai fondamenti dello Stato costituzionale, in Quaderni costituzionali, 2006, p. 263.
[12] G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, p. 48.
[13] G. Bascheri, L. Bianchi d’Espinosa e C. Giannattasio, La Costituzione italiana, Firenze, 1949, p. 41.
[14] H. Morgenthau, Closing Address to the Conference, in International Monetary Fund and International Bank for Reconstruction and Development, Washington, 1944, p. iv.
[15] J.M. Keynes, National Self-Sufficiency, in 22 Yale Review, 1933, p. 755 ss.
[16] V. Giacché, Costituzione italiana contro Trattati europei, Reggio Emilia, 2015.
[17] G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana (1993), Roma e Bari, 1996, p. 432 ss.
[18] G. Itzcovich, Teorie e ideologie del diritto comunitario, Torino, 2006, p. 422.
[19] A. Guazzarotti, Sovranità e integrazione europea, in Rivista AIC, 2017, 3, p. 7.
[20] Ad es. L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno, Roma e Bari, 1997, p. 39 ss.
[21] G. Preterossi, Residui, persistenze, illusioni: il fallimento politico del globalismo, in Scienza e politica, 2017, p. 106.
[22] W. Streeck, Tempo guadagnato (2012), Milano, 2013, p. 133.
[23] Cfr. A. Somma, Maastricht, l’Europa della moneta e la cultura ordoliberale, in A. Barba et al., Rottamare Maastricht, Roma, 2016, p. 70 ss.
[24] S. Cesaratto, Chi non rispetta le regole?, Reggio Emilia, 2018.
[25] C. Formenti, Quelle sinistre che odiano il popolo (29 gennaio 2018), http://temi.repubblica.it/micromega-online/quelle-sinistre-che-odiano-il-popolo-contro-lideologia-del-politicamente-corretto.
[26] C. Galli, Sulla sinistra rossobruna (29 giugno 2018), https://ragionipolitiche.wordpress.com/2018/06/29/sulla-sinistra-rossobruna.
[27] S. Fassina, La bussola del patriottismo costituzionale per ricostruire la sinistra, in Id. (a cura di), Controvento, Reggio Emilia, 2017, p. 1 ss.

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