Print Friendly, PDF & Email

cumpanis

Scacchiere europeo

Nuovi giochi e vecchie facce nello scacchiere europeo

di Spread It

Spread It, Collettivo di propaganda, informazione e discussione politica. Con questo articolo il Collettivo inizia la sua collaborazione a "Cumpanis"

IMMAGINE PRIMO PEZZO SEZIONE UE ASIA EURASIAIl giorno 25 i lettori della cronaca internazionale vengono investiti da una notizia, che, dati i toni usati da quasi tutta la stampa occidentale, sembra incredibile.

Un gruppo di imprenditori italiani, rappresentanti della Camera di Commercio Italia-Russia e del Comitato imprenditoriale italo-russo si incontra in video conferenza con Putin, ufficialmente per discutere dei rispettivi rapporti (1).

Notizia che spiazza il lettore medio, abituato a percepire tutto ciò che ha a che fare con l’occidente capitalista come baluardo del bene e della libertà, pronto, con la civiltà che esprime, a scagliarsi contro le autocrazie dispotiche dell’Est, contro i poteri personali che incrementano le distopie.

Notizia che spiazza gli ignari e defraudati lettori, ma che imbarazza anche il governo, guidato attualmente da uno dei campioni dell’atlantismo.

Un governo che si affretta ad avvisare gli Ad delle partecipate di cui fa parte, e che erano presenti all’incontro (ENI ecc.), di disertare il meeting e rientrare all’ovile.

Ma il meeting continua, nella mattinata del 26, segno che le cose da dirsi, insieme al presidente della Federazione Russa, hanno una certa importanza.

Questo appena riassunto, è un esempio di quanto le questioni aperte dall’espansionismo ad Est della NATO (in questa particolare contingenza) abbiano una complessità di fondo che non può essere ignorata.

Esistono due questioni, nell’attuale contingenza politica continentale, che sottendono alla situazione di stallo venutasi a creare tra gli Stati Uniti e la Federazione Russa.

La prima ha a che fare con la copertura militare del continente, non tanto riguardo le infrastrutture militari classiche, ambito in cui si sfogano gli appetiti dei vari complessi militari industriali in competizione fra loro nel business classico di questi periodi, quanto relativa alle armi nucleari e al posizionamento delle stesse in Europa.

Questa questione nasce in piena guerra fredda e ha uno dei punti di criticità maggiori nel momento in cui si dissolve l’Unione Sovietica e la nuova realtà statuale russa si trova a dover discutere con l’alleanza Nord Atlantica riguardo il suddetto posizionamento di armi tattiche di medio lungo raggio.

Contemporaneamente, infatti, la NATO dilaga verso Est, disattendendo gli accordi verbali presi nei primi anni ‘90 e iniziando di fatto una contesa che tra strappi e accelerazioni, è contraddistinta, da quegli anni ad oggi, dai tentativi della diplomazia russa di trovare un accordo chiaro sulla proliferazione e soprattutto regole chiare e formalizzate riguardo lo spostamento delle armi e delle strutture adibite al lancio.

Rimanendo legato a questo argomento, ma buttandoci più propriamente sull’attualità questa questione viene scorporata in due accordi.

Un primo intendimento viene firmato dai membri fissi del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che dichiarano di voler dare continuità all’accordo firmato nel ’68 ed entrato in vigore nel ’70 tra Casa Bianca e Cremlino riguardo la non proliferazione (2).

Altra questione è invece quella del posizionamento/spostamento in sé delle infrastrutture e delle testate nucleari a medio raggio, evidenziata dal protocollo che Mosca ha presentato pubblicamente agli Stati Uniti qualche tempo fa (3).

Se sulla prima questione si è arrivati alla firma di una generica intesa da parte dei cinque stati membri fissi del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la seconda questione invece rimane al centro di un acceso dibattito, poiché più esplicitamente legata al rispetto delle leggi internazionali, vero pomo della discordia delle attuali tensioni globali.

Ma accanto a questa questione squisitamente militare giace una questione energetica di grandissima importanza.

Per spiegarla nella maniera più opportuna, però, dobbiamo prendere la rincorsa e fare un piccolo ma fondamentale excursus geografico.

Le forniture di gas che inondano l’Europa arrivano storicamente da almeno due direttrici che semplifichiamo in questa sede per non entrare in spiegazioni particolari (che allargherebbero il quadro ad altri interessi regionali).

La prima è quella relativa al corridoio est che passa per i paesi dell’Europa orientale.

La seconda è quella che partendo dal cuore dell’Asia arriva in Europa in una posizione più meridionale, lambendo e attraversando il bacino orientale del Mediterraneo.

Dato l’attuale assetto dei rapporti di forza internazionali, uniti ai relativi corridoi commerciali che si sviluppano innervandosi quasi parallelamente ai corridoi energetici prima menzionati, l’Europa occidentale in particolar modo si trova in mezzo ad un escalation diplomatica che stressa le forniture energetiche importanti a prescindere per il funzionamento dei sistemi produttivi, soprattutto se nei programmi implementati dall’Occidente risulta centrale la riconversione green sbandierata dalla propaganda capitalistica.

Questa situazione pone un problema di tenuta nell’alleanza atlantica, che si intreccia con la rimodulazione dei rapporti di forza dati dalla insularizzazione degli Stati Uniti.

I desiderata strategici di Washington per questa questione vedrebbero bene un’Europa sempre più a tenuta stagna verso Mosca e un’implementazione delle forniture di gas nei corridoi più meridionali con in aggiunta lo spostamento di consistenti quantità di gas grazie al traffico marittimo statunitense che attraverso il canale di Panama e gli impianti estrattivi situati nella costa Est degli Stati Uniti, attraversano l’Atlantico in direzione Nord Europa.

Di fronte a questa situazione si ripropone a livello sistemico un vecchio adagio della teoria marxista riguardo la governance delle attuali consorterie di potere capitalistico integrate nel Patto Atlantico.

Infatti, nella borghesia occidentale, arrivati a questo punto, si tratta di gestire fondamentalmente lo scontro che si apre tra finanza e industria*, che nella teoria delle crisi rientra nel quadro di arginamento della caduta tendenziale del saggio del profitto**, in questo caso riferentesi alla distruzione di capitale fisso.

In questo quadro i mal di pancia che arrivano dalle associazioni di categoria di tutto il continente (se pur temperati ovviamente dalla differente posizione nelle catene del valore e nella gerarchia tra territori) hanno proprio a che fare con la paura della fetta medio piccola e a bassa innovazione tecnologica del tessuto industriale europeo di rimanere maciullati da questa dinamica.

Di fronte a questa situazione l’alta borghesia transnazionale si trova a dover garantire le arterie energetiche per scongiurare l’inflazione e integrare progressivamente questa rimodulazione dei sistemi produttivi.

Il fatto che i gruppi di pressione dell’alta borghesia europea siano ampiamente integrati con Wall Street giocherà comunque un ruolo enorme in questo patto per l’Europa.

Questo da tenere presente insieme alla posizione di Francia, Germania e Italia rispetto ai desiderata energetico commerciali.

Una partita sicuramente non semplice ma che fa capire quanto gli atlantisti abbiano ancora indubbiamente frecce al loro arco, Africa in primis (almeno sicuramente per due dei tre territori cuore dell’Europa).

Questa situazione si ripresenta nell’incedere che abbiamo visto riguardo la contingenza odierna relativa alla situazione ucraina.

Obbiettivo di Washington, dichiarato ancor prima che la presidenza Biden prendesse posto alla Casa Bianca, ha anche fare con la costruzione del North Stream II, che taglierebbe i paesi dell’Est Europa per arrivare direttamente in Germania via Mar Baltico.

In questa situazione i paesi del gruppo di Visegrád più l’Ucraina insieme a Washington, puntano a premere diplomaticamente sul Cremlino per non perdere le tariffe di passaggio e scongiurare un più organico allaccio tra risorse russe e impianti produttivi tedeschi, vecchia costante nelle strategie delle potenze insulari.

Abbiamo accennato volutamente alle pressioni diplomatiche e non alla guerra aperta perché, data la nostra analisi calibrata sugli atteggiamenti diplomatici di Washington, questa non sembra spingere per un conflitto armato dispiegato nella zona.

Le proporzioni numeriche dei contingenti militari che Washington ha minacciato di muovere più il loro dislocamento terrestre sull’ipotetica linea frontaliera situata ad est della Germania non suggeriscono reali velleità di scontro aperto, quanto più una volontà alla pressione “as usual”, atteggiamento storico ormai degli Stati Uniti nella zona e che probabilmente si inserisce nel quadro di una risposta diplomatica ai funzionari della federazione russa, impegnati da mesi a far notare come l’atteggiamento classico della Casa Bianca, totalmente indifferente alle regole del diritto internazionale non funzioni più nei vari dossier aperti.

Di fronte a questo atteggiamento a stelle e strisce gli interessi più propriamente europei sono molto variegati.

Innanzitutto partiamo dai fattori di rischio, che risiedono principalmente nei paesi dell’est entrati nell’orbita europea aventi, come maggiore interesse, quello di staccarsi progressivamente dai rapporti col Cremlino (con l’esclusione dell’Ungheria che qualche mese fa ha chiuso accordi riguardo la fornitura energetica con Mosca) e le milizie ucraine neonaziste, storicamente un fattore di forte instabilità in questo teatro, poiché meno controllabili da parte del governo centrale di Kiev.

Un governo quello di Kiev che negli ultimi giorni ha mandato segnali contraddittori.

Da un lato le boutade da esaltato di Zelenski che ha dichiarato che l’Ucraina sarebbe pronta, da sola, a respingere ogni minaccia esterna.

Dall’altro le dichiarazioni successive del ministero degli esteri ucraino, che afferma l’inesistenza di un pericolo di un’invasione russa, ma lascia la porta aperta a questa eventualità nel futuro, evidenziando la possibilità per ucraini ed occidentali di continuare prossimamente le pressioni.

Ma l’Europa occidentale come risponde a questa situazione?

Beh diciamo che, in questa tornata, lo stress sistemico avvertito dall’Europa occidentale, si fa sentire e fa tendere il comportamento complessivo di questi potentati verso una resistenza variatamente passiva ai desiderata dei padroni d’oltreoceano.

Partiamo dalla Francia, chiusa in un riservato silenzio.

Macron non si mostra aggressivo nei riguardi di Mosca, punta insieme alla Germania sul formato Normandia e si dice sempre aperto al confronto.

Anche quando la Francia, per via della sua adesione alla NATO e in virtù del suo rinnovato appetito imperialista, deve spostarsi nello scacchiere dell’Est, il suo posizionamento rimane alquanto periferico.

Si posiziona, infatti, in Romania, tagliata fuori dal confine ucraino terrestre dalla Moldavia e che affaccia sul Mar Nero ma distante dal Mar d’Azov che è l’unico a poter dare copertura alle repubbliche separatiste.

Per quanto riguarda la Germania, poiché più direttamente coinvolta, non può mantenere un silenzio come quello francese: i segnali che arrivano da Berlino raccontano di un tentativo costante di impedire una escalation, se pur sempre all’interno del quadro strategico statunitense.

Quasi comica, nel contesto NATO, l’affermazione sfuggita all’ammiraglio della marina tedesca (ricordiamo en passant, impegnata attualmente nel pattugliamento del mar Cinese Meridionale), riguardo la legittimità delle richieste russe.

Indicative anche certe voci che arrivano dallo spettro politico tedesco, voci che hanno tentato di depoliticizzare il North Stream II.

Rilevante ai fini di questa impostazione tedesca anche l’atteggiamento del nuovo cancelliere Scholz facente parte di una coalizione a spiccate tinte atlantiche, che in più battute ha avuto modo di dichiarare:

– l’attuale assenza, nei tavoli di discussione con Mosca, della questione assimilazione del territorio ucraino nella NATO;

– l’indisponibilità di Berlino ad inviare armi al governo Ucraino;

– la disponibilità tedesca di sbloccare un piano di aiuti per l’Ucraina del valore di 1,2 miliardi.

Se uniamo a queste dichiarazioni quelle dell’attuale ministro degli esteri tedesco Annalena Baerbock (4), che si dice pronta a ratificare pesanti sanzioni a Mosca che fanno riferimento anche alla messa in funzionamento del North Stream II (bloccato attualmente attraverso cavilli formali dalla parte tedesca), si nota un atteggiamento ambivalente da parte dei tedeschi, figlio anche delle differenti posizioni all’interno del neonato governo di coalizione, che da un lato vogliono rimanere saldamente a fianco di Washington, dall’altro devono governare una situazione potenzialmente molto critica rispetto all’assetto produttivo interno.

Per quanto riguarda il nostro paese, immerso ora nella questione elezione del Presidente della Repubblica, che, inutile dirlo, acquista un peso enorme di fronte a questo quadro, ritorniamo all’inizio di questo veloce articolo per evidenziare uno stress che, se pur in forme differenti a seconda delle differenziazioni di potere all’interno dell’Unione, sottolinea problemi di governance di non poco conto.

Draghi sa che il suo ruolo a capo dello stivale si inserisce in un sistema di bilanciamento dei pesi continentali, favorito storicamente dalla Casa Bianca, dove contemporaneamente l’ex presidente della BCE deve favorire le posizioni statunitensi in seno alla Unione, rafforzando l’atlantismo come candidamente dichiarato nel suo discorso di insediamento al governo e controllare politicamente le spinte di insofferenza che arrivano dal mondo industriale, messo in crisi da questa contingenza.

Putin, che coglie l’opportunità di ammansire la situazione attraverso indirette sponde europee, fa notare che il volume dei commerci Italia-Russia è ad un livello quantitativo non eludibile per questo genere di discussioni internazionali.

Draghi insieme agli atlantisti di casa nostra dovrà quindi garantire, via Washington, le forniture e i corridoi commerciali alle imprese più propriamente collegate ai processi produttivi, in una situazione che vede un pressing diplomatico statunitense in crescita.

Pressing diplomatico statunitense, non guerra aperta, che non converrebbe a nessuno e che vedrebbe Washington abbastanza isolata in un conflitto dispiegato alle porte dell’Europa, dove sarebbe costretta a rimettere i “boots on the ground” appena dopo l’uscita dall’Afghanistan e in più con i mal di pancia di buona parte dell’Europa occidentale.

Purtroppo però, a gettare tinte fosche sulla vicenda, rimane il caso che in questo genere di situazioni rischia di innescare accelerazioni che molti non vorrebbero: il fatto che, per questa operazione di “regime change”, che si è protratta per troppo tempo, gli occidentali tutti abbiano spinto compagini neonaziste, nel complesso difficilmente controllabili, rappresenta un fattore di rischio enorme per una situazione che rimane esplosiva, soprattutto in virtù del fatto che Mosca si trova in una situazione obbligata.

Un’altra prova di quanto la stampa e i vertici atlantici stiano giocando criminalmente grazie ad una propaganda che tende comunque ad esacerbare gli animi.

Di fronte a questo quadro, troviamo sempre più necessario un confronto ampio tra le forze comuniste e di classe, come ribadito sabato 22 gennaio a Roma dall’appello “Ora l’unità”, per formare una forza strutturata che sia in grado di riproporre al centro della lotta politica la prospettiva comunista, per l’indipendenza del nostro paese dalle grinfie della NATO e della UE e per contribuire alla liberazione dei popoli oppressi di tutto il mondo.


Note
(1)https://www.google.com/amp/s/www.ansa.it/amp/sito/notizie/mondo/2022/01/26/putin-italia-tra-i-nostri-principali-partner-economici-_3db184ce-6b1f-451a-beae-5211c9991607.html
(2) https://www.google.com/amp/s/www.ilgiorno.it/mondo/accordo-evitare-guerra-nucleare-potenze-usa-cina-framcia-regno-unito-1.7208693/amp
(3) https://it.sputniknews.com/20220109/russia-non-cedera-a-pressioni-e-non-fara-concessioni-avverte-viceministro-prima-di-colloqui-ginevra-14540217.html
(4) https://www.google.com/amp/s/www.ansa.it/amp/sito/notizie/mondo/2022/01/27/baerbock-le-sanzioni-a-mosca-toccherebbero-anche-il-gasdotto-nord-stream2_517dd4c1-6b52-414e-be2f-df1312834e76.html

* Il confine fra queste due realtà non è netto, anzi è abbastanza fluido, nel senso che i gruppi industriali più grandi, che sono già integrati nel processo di autovalorizzazione del capitale attraverso la finanza, sono ancora detentori di buona parte delle filiere (ad esempio Stellantis).
** Questa questione è a dire il vero ancora controversa e oggetto di studio. La questione è che in realtà, da un punto di vista empirico, la caduta del saggio tendenziale del profitto si presenta anche nelle fasi di accumulazioni del capitale in posizione espansiva, non solo in quella recessiva. Il problema, probabilmente, ma qui mi addentro in “ipotesi di lavoro”, sta nella prospettiva dinamica del funzionamento capitalistico che nel suo movimento, indipendentemente dal “verso”, produce continue discrepanze tra i settori, un qualcosa che produce una diversificazione nella scelta delle operazioni per fermare la caduta tendenziale del saggio, al netto della finanziarizzazione e della sua copertura/truffa rispetto all’imposizione aritmetica del saggio medio.

Add comment

Submit