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moneta e credito

L’ultimo metrò

Recensione di Lorenzo Esposito*

Bellofiore R. e Garibaldo F. (2022), L’ultimo metrò. L’Europa tra crisi economica e crisi sanitaria, Milano: Mimesis, pp. 264, ISBN: 9788857590486

postmodernismo reggia di caserta 1 1024x793Questo recente testo di Bellofiore e Garibaldo affronta il tema di grande attualità. Si tratta di un insieme di saggi, alcuni scritti nel fuoco degli eventi, con taglio e obiettivo differente ma che trovano una loro ragione unitaria nella valutazione dello stato dell’arte del progetto di unificazione europea. Dopo le successive ondate della crisi del 2008, della pandemia e oggi della guerra, è evidente che il progetto sia in grande sofferenza. Tuttavia è importante l’opera di scavo analitico, proposta dal libro, perché le evidenti difficoltà del progetto europeo non siano esaminate in modo superficiale, determinando proposte politiche talmente deboli da risultare, seppure involontariamente, funzionali alla conservazione dello status quo.

Il primo e più ampio capitolo comincia con una sintesi ragionata delle interpretazioni che di questa dinamica hanno dato alcuni degli economisti eterodossi più interessanti degli ultimi tempi. Si parte con Halevi, che legge il percorso di sviluppo dell’Unione in chiave di composizione della produzione tedesca. In particolare, la chiave di volta dello sviluppo tedesco è stato il settore dei beni capitali, soprattutto delle macchine che producono altre macchine, che è meno sensibile alla concorrenza di prezzo e molto dipendente dal progresso tecnico. L’agenda politica del paese è così da sempre dominata da aziende di grandi dimensioni, con forti capacità innovative e di proiezione internazionale, quello che Hilferding aveva definito il capitalismo organizzato. Tuttavia, a differenza di quanto pensavano i teorici socialdemocratici del tempo, questa configurazione non è necessariamente più stabile di quella concorrenziale classica, va anzi difesa dalle tendenze stagnazioniste di cui parlarono nel dopoguerra Steindl, Sweezy e altri.

La Germania Ovest trasse un particolare vantaggio dai primi anni del processo di unificazione europea anche perché la Gran Bretagna e la Francia continuavano a inseguire sogni di mantenimento dei propri possedimenti coloniali, spingendo gli Stati Uniti, per i quali la crescita europea era un imprescindibile obiettivo geo-politico, a fare perno proprio sulla Germania. Ad ogni modo il boom economico aiutò tutti i paesi della Comunità, impegnati in cicli di investimenti pubblici infrastrutturali, in un rapporto di crescente inter-relazione con l’economia tedesca.

Il merito delle opere di Halevi citate, nel ricostruire la fase che dal miracolo economico porta alla crisi degli anni ’70, è mostrare come le premesse della fase di crisi fossero radicate nel modello di sviluppo europeo e particolarmente italiano: bassi salari, spinta alle esportazioni, supplenza dello stato nel campo degli investimenti e nella ricerca di base. Non appena le condizioni del miracolo cominciarono a vacillare, a partire da costi bassi delle materie prime (oil shock) e del lavoro (autunno caldo), l’imprenditoria italiana fu incapace di orientarsi verso un altro modello di sviluppo: rimase aggrappata a quello del miracolo economico, prolungando la crisi sostanzialmente sino al placarsi della dinamica dei costi (contro-shock petrolifero, svolta dell’Eur). Eppure, sottolinea Halevi, fu la crescita dei salari a sostenere i consumi in quegli anni. La situazione di recupero degli anni ’80 significò che l’industria italiana fece poco per evolvere, anche perché i guadagni non mancarono grazie allo stato, in un abbraccio simbiotico tra aziende private e mala gestione pubblica in quello che de Cecco chiamò “keynesismo delinquenziale”. Nemmeno poteva risolvere questa arretratezza l’effervescenza dei distretti industriali che, come Minsky sostenne già negli anni ’80, prosperavano all’interno di un sistema complessivamente sano e robusto, ma privati di prodotti a basso costo offerti dalle aziende pubbliche e di mercati protetti, erano destinati a sfaldarsi come infatti avvenne. Il nuovo decennio si aprì all’insegna del Trattato di Maastricht, prodotto della tecnocrazia socialista francese e dell’ordoliberalismo tedesco, che pose le basi per un impianto istituzionale strutturalmente avverso alla redistribuzione del reddito e alle ragioni del mondo del lavoro. Con la caduta del blocco sovietico, alla Germania unita furono riconsegnate le chiavi del cortile di casa, proprio negli anni in cui la globalizzazione andava riarticolando le catene produttive a livello mondiale. Sebbene Berlino abbia tratto un grande vantaggio dal doppio binario Unione Europea-catene produttive mondiali, agli autori sembra giustamente unilaterale l’idea di Halevi che la Germania direbbe addio all’Europa in cambio di un accordo con la Cina. Con la guerra poi, è una ipotesi che possiamo accantonare: nella nuova epoca, le supply chain saranno riconfigurate sulla base di esigenze geo-politiche più che dell’efficienza produttiva, ed è ovvio che la Germania non potrà che prendere posto, obtorto collo, nel blocco occidentale. Il merito principale degli scritti di Halevi sta nel sottolineare che la costruzione europea non vacilla ed entra in crisi per il suo “liberismo”, ma per scelte di fondo molto più radicate e profonde. Riprendendo la lezione della General Theory, Halevi chiarisce come tali scelte non possano essere superate solo con una politica monetaria più espansiva (nel nostro caso le politiche di quantitative easing della BCE).

L’attenzione si sposta quindi sul recente testo di Celi e altri (Una Unione divisiva. Una prospettiva centro-periferia della crisi europea), i cui autori osservano giustamente che non va attribuita troppa enfasi al trionfo teorico dell’estremismo monetarista della macroeconomia delle aspettative razionali, perché la prassi della politica economica è sempre stata molto più elastica delle conclusioni degli economisti. In particolare, il richiamo alla stabilità/efficienza dei mercati è solo un proclama, mentre l’intervento pubblico rimane essenziale per garantire le condizioni di profittabilità del settore privato. In una situazione in cui la crisi è ricondotta alle stranezze dei mercati finanziari, uno dei meriti del libro è indagare concretamente l’articolazione che hanno preso le catene produttive europee, come hanno influito, asimmetricamente, sullo sviluppo dei paesi del centro e della periferia, un’interdipendenza produttiva che viene negata dalle politiche economiche dell’UE che schiacciano la periferia e tagliano gli investimenti pubblici. Per anni, il calo dell’inflazione e dei tassi ha fatto apparire l’euro come un successo, certificato proprio dal boom dei mercati finanziari e in particolare di quelli dei paesi periferici, ma con la crisi del 2007-2009 è apparso chiaro che le strutture produttive dei paesi membri andavano divergendo. La scelta politica dell’establishment franco-tedesco fu di scaricare queste fratture sui paesi deboli dell’Unione, mentre alla BCE di Draghi fu demandato il compito di inondare il sistema finanziario di liquidità per impedire l’implosione dell’Eurozona. In tutto questo, il contenimento dei salari ha aiutato la profittabilità delle aziende ma a scapito della crescita complessiva. Il libro si conclude mostrando le applicazioni e gli esiti concreti dell’Industria 4.0, propagandata come una specie di manna tecnologica, ma che si tramuta in aumento dei ritmi di lavoro e della fragilità complessiva delle catene produttive, come gli ultimi anni hanno mostrato bene. Del resto, proprio a questi scopi servivano le riforme Hartz in Germania o il Jobs Act italiano. Emerge la contraddizione di fondo di una Germania che vorrebbe un’Unione simile a lei, non accettando l’ovvio esito del dilemma del prigioniero che se tutti i paesi europei si trasformassero in formidabili macchine per esportare, si moltiplicherebbero i concorrenti mentre calerebbero i mercati in cui esportare.

Il terzo volume trattato, quello di Saraceno, affronta questi argomenti a emergenza pandemica esplosa. La critica che viene fatta a questo autore è che imposta l’analisi come se ci fosse qualcosa di perduto da recuperare, un “riprendiamoci l’Europa” che vagheggia di un’età dell’oro che non c’è mai stata. Un tema importante sollevato dal libro è questo: quanta possibilità di scelta c’era nelle decisioni che hanno condotto alla crisi? Se da un lato c’è il rischio di proporre un’analisi del tutto soggettivista, facendo dipendere la crisi dagli umori di questo o quel politico, dall’altro si può cadere in un oggettivismo quasi metafisico in cui non poteva che andare com’è andata qualunque strada si prendesse. Gli autori giustamente osservano: “la fede negli aggiustamenti dei mercati, che rende qualsiasi politica alternativa inaccettabile e da rigettare. È un punto a cui Saraceno tiene in modo particolare”. Così Draghi nel 2012 ebbe la capacità di rovesciare questa narrazione, certo perché era negli interessi dell’Eurozona, ma quegli stessi interessi, con un altro vertice della BCE, avrebbero comunque condotto alla fine dell’euro. Da ciò a ritenere che sarebbe possibile un altro euro ce ne corre. Non si tratta di ridurre l’impostazione della BCE a “liberista” (qualunque cosa voglia dire), ma comprendere le esigenze del grande capitale europeo nella furiosa battaglia per la conquista dei mercati a livello mondiale. In questo senso, analizzare le ragioni della crisi dell’euro nell’ottica della macroeconomia imperfezionista, come fa Saraceno, è giudicata una scelta analitica debole. Parlando di pandemia Saraceno coglie invece bene la discontinuità nella politica monetaria soprattutto in termini di mutualizzazione del debito. Come rendere questa svolta positiva e permanente? Nessuno lo sa e lo stesso Saraceno si mostra pessimista osservando che le forze “sovraniste” stanno vincendo.

In sintesi i tre testi presentati ci raccontano dell’insostenibilità delle politiche neomercantiliste. Il punto è: quali proposte di policy sviluppate con quali strumenti analitici possono far avanzare seriamente il progetto europeo? Sul piano analitico, Bellofiore e Garibaldo si domandano quanto di interessante si possa dire usando pur intelligentemente le teorie mainstream. La risposta è: poco. Sono “risposte deboli”. Possono venire risposte più convincenti da autori quali Kalecki o Caffè, pur tenendo conto dei diversi contesti in cui svilupparono il loro percorso di analisi.

Il secondo capitolo vuole essere un’interpretazione del crollo del neoliberismo attraverso la lente del libro di Tooze (Lo schianto: 2008-2018. Come un decennio di crisi economica ha cambiato il mondo). Si osserva, a ragione, che della ormai ampissima letteratura su tali eventi, questo testo è “di gran lunga il migliore”. Il libro si articola su due dimensioni. La prima è una rigorosa ricostruzione storica dello svolgersi dei fatti, con una chiave analitica interessante e originale. Riprendendo i noti economisti della BRI Borio e Shin, Tooze nega che la crisi sia dovuta ai cosiddetti global imbalances (gli squilibri commerciali tra paesi) e la connette invece al tema del credito. La finanza ha guidato le dinamiche dell’economia mondiale ed è stato il crollo di alcuni mercati finanziari a generare l’effetto domino. Aspetti quali la carenza di domanda effettiva (che in termini classici si definirebbe sottoconsumo) e di sovra- investimento (in termini classico-marxisti di calo del saggio di profitto) sono da comprendersi alla luce del tema finanziario. La seconda dimensione è quella della policy. Tooze critica l’immobilismo della BCE e le incertezze della politica fiscale dell’Unione Europea, soprattutto analizzando il caso della Grecia, schiacciata dalla troika ma anche dall’assenza di una strategia efficace da parte del governo di sinistra di Atene. Ci si potrebbe domandare, anche alla luce dei testi citati sopra: l’architettura istituzionale dell’Eurozona ha favorito l’immobilismo della BCE? È una risposta corretta ma parziale: la BCE di Draghi ha preso iniziative prima ignorate. Bellofiore e Garibaldo osservano in conclusione che, al di là delle singole analisi, l’aspetto più importante di questo testo è l’importanza che vi ha la dimensione storica, totalmente negletta dalla teoria economica standard.

Nel terzo capitolo gli autori si concentrano sulla crisi dell’Europa a seguito delle vicende del 2007-2008. Sottolineano che nel capitalismo iper-globalizzato seguito alla guerra fredda, produzione e finanza sono legate a doppio filo, e il fatto che la crescita della domanda effettiva avvenga a debito fa sì che siano i mercati finanziari a guidare le danze. Cresce dunque il peso della finanza ma nascono anche catene produttive continentali e mondiali. L’Europa ha inteso difendere la propria competitività attraverso i bassi salari e la deregolamentazione del mercato del lavoro, ritenuti utili per mantenere la bassa inflazione, ma anche con l’unificazione dei mercati finanziari europei e lo sviluppo, proprio attraverso le catene produttive mondiali, di una enorme capacità produttiva che ora va impiegata per evitare il ristagno dei fatturati e dei profitti. L’importanza delle catene produttive si è dimostrata in modo drammatico con le vicende della pandemia e della guerra, ma anche, osservano gli autori, in vicende meno drammatiche come la Brexit, che ha evidenziato come, al di là dei proclami politici, non è possibile liberarsi facilmente dalla dipendenza da queste supply chain. Questa ragnatela produttiva è associata a una non meno complessa ragnatela di rapporti finanziari che prima della crisi non era compresa. Così si spiega il paradosso per cui la bolla dei subprime ha affondato soprattutto banche europee. Si tratta di una spia delle inadeguatezze delle istituzioni europee a intervenire sulla crisi. Prima del 2008 l’impossibilità dell’euro di intervenire su queste carenze strutturali era nascosta dalla convergenza dei mercati finanziari degli stati membri. Dopo la crisi si riduce il tutto agli sbilanci tra paesi, quelli che si evidenziano con i saldi divergenti di Target2, che invece sono la spia di problemi più profondi. In quegli anni, la crisi dell’euro condusse a un dibattito su possibili alternative, una diversa moneta per l’Europa. Si citano, in proposito, la proposta di monnaie commune fatta da Suzanne De Brunhoff e Jacques Mazier e altri progetti di bancor dei giorni nostri. Si tratta di proposte che presuppongono però la subordinazione della finanza alla politica, ad esempio attraverso controlli sui movimenti di capitale, una situazione per ora utopica. Data la situazione delle strutture produttive mondiali, è opinione degli autori che fosse inutile all’epoca discutere di uscita “da sinistra” dall’euro e che non a caso questo fosse uno slogan agitato soprattutto dalla destra populista. Senza un diverso rapporto tra finanza e governo, uscire dall’euro sarebbe equivalso semplicemente a svalutare, qualcosa che di per sé non avrebbe risolto i problemi strutturali dei paesi mediterranei. Del resto anche il crollo dello SME, spesso citato in positivo dai fautori dell’uscita, fu accompagnato da politiche nefaste per i lavoratori, basti pensare alla famosa finanziaria Amato. Né paiono risolutive soluzioni come l’euro a doppia velocità o l’euro mediterraneo, che non potrebbero ridurre la centralità industriale tedesca, o la subordinazione del tessuto produttivo dei paesi europei più deboli alle catene produttive globali. La soluzione è la spesa pubblica: “l’unico possibile motore dell’evoluzione capitalistica non può che essere la spesa pubblica: una spesa pubblica in disavanzo, e che sia di entità così consistente da spingere temporaneamente verso l’alto il rapporto debito/PIL”. La pandemia apre questo scenario? Ci sono segnali in questo senso, anche a livello intellettuale, si pensi alla discussione aperta dallo “stato innovatore” à la Mazzucato. Ci vorrebbe un nuovo new deal, possibilmente radicale, anche se non è facile intravederne le condizioni politiche. Con Napoleoni gli autori ricordano che un compromesso serve a saldare un’idea radicale di fondo a piani concreti, e senza questo legame siamo nel regno delle chiacchiere.

Il rapido quarto capitolo concerne gli effetti della pandemia sulla situazione europea già prima delineata. Il punto di partenza è che sotto il profilo sociale ed economico, il virus non è qualcosa di estraneo: “la crisi sanitaria non è uno shock esogeno: è al contrario del tutto interna alla forma sociale capitalistica di produzione, circolazione e consumo”. La pandemia esprime qualcosa di più profondo: le scelte di politica economica di un ventennio. Come nel caso del “whatever it takes”, a Draghi va dato atto di aver capito la nuova situazione quando, in un famoso articolo sul Financial Times del 25 marzo 2020, spiegò che non era più la fase dei tagli ma dell’espansione del debito pubblico e dell’intervento statale nell’economia. La sua metafora (è come se fossimo in un’economia di guerra) con il senno di poi si è rivelata sin troppo realistica. L’intervento senza precedenti di governi e banche centrali è riuscito a tamponare, è il caso di dire, il crollo economico, mettendo l’economia europea in grado di rimbalzare con forza nel 2021. La svolta è stata notevole. La discussione sulla mutualizzazione del debito era rimasta vana per anni, tanto che ancora in un’intervista alla Reuters del 23 marzo 2020, il ministro dell’economia tedesco Altmaier l’aveva definito un “dibattito fantasma”, ma il Covid- 19 ha costretto a un cambiamento di rotta di cui il PNRR è il risultato più eclatante. Grazie a un virus, oggi tutti accettano l’esistenza di un deficit “buono”. Nell’analizzare come la pandemia ha inciso sulle debolezze dell’UE, gli autori sottolineano giustamente che l’errore è credere che vi sia una normalità a cui tornare, come se la crisi del 2008, del 2011-2012, la pandemia, e possiamo ora aggiungere la guerra, fossero spiacevoli episodi da dimenticare. La prospettiva va rovesciata: il percorso di sviluppo del progetto europeo va pensato in questo “legame interno tra la crisi sociale e la crisi ecologica”. Torna alla mente il Keynes molto economista e molto politico, che negli anni dopo il primo conflitto mondiale cercò disperatamente di far aprire gli occhi ai leader europei sul fatto che il mondo era entrato in una nuova era, e che guardarlo con gli occhi del passato, dal gold standard ai rapporti tradizionali tra le potenze europee, avrebbe comportato una catastrofe, come infatti di lì a qualche anno avvenne, con la crisi del ’29 e la vittoria del nazismo che aprì le porte alla seconda guerra mondiale. Al di là del mondo di fantasia abitato dagli economisti ortodossi, “il comando politico della composizione della produzione è una caratteristica normale e permanente del capitalismo del XX secolo e oltre”. Il tema non è dunque se debba esserci un ruolo per l’intervento pubblico, che non è mai cessato nemmeno negli anni d’oro della vulgata thatcheriana, ma come vanno impiegate queste risorse, che è una discussione politica fatta passare per tecnica.

Il quinto e ultimo capitolo del libro mette appunto a fuoco la discussione su come utilizzare le risorse pubbliche in particolare del PNRR, per intervenire nelle trasformazioni dell’industria e del lavoro. Il punto di partenza è favorevole, poiché la risposta europea alla crisi “ha rappresentato uno stimolo senza precedenti sia dal punto di vista quantitativo sia dal punto di vista qualitativo”; incoraggiante è anche il trasferimento asimmetrico delle risorse, volto a porre almeno parzialmente rimedio alle divaricazioni nello sviluppo che l’Europa aveva accumulato, già prima della pandemia. Rimane il fatto che la governance europea non è mutata, ed è semplicistico, quando si osserva che “in Europa la svolta incontra ostacoli”, dare la colpa alla Bundesbank. Gli stessi autori fanno osservare che la Germania ha sospeso il vincolo costituzionale del pareggio di bilancio, un primo step per tornare dall’ordoliberalismo allo stato imprenditore. Tuttavia, evidenziano come “questa metamorfosi non apre le porte a forme di coordinamento europeo nel campo industriale, dato che il punto centrale del piano è quello di rafforzare la propria quota nazionale nella creazione del valore”. Nonostante la mutualizzazione del debito e il PNRR dunque, l’Europa non si è unita, e la Germania mostra semmai un’urgenza quasi frenetica di rimodellare i propri assetti produttivi per rispondere alla sfida degli altri grandi attori economici e l’Europa appare solo una trincea dentro cui ripararsi prima di rispondere al fuoco nemico. A conferma del rinnovato interventismo economico, dal canto suo Biden ha lanciato un mega-piano infrastrutturale (attorno al 10% del PIL) con effetti significativi sul disavanzo federale, che ha raggiunto quasi il 15% del PIL nel 2020, livelli inimmaginabili nel mondo di Maastricht. Peraltro, a un anno di distanza gli effetti inflazionistici di questo piano sono abbastanza evidenti. Il capitolo si chiude analizzando come, considerata la situazione dell’industria italiana, povera di investimenti sulla qualità e sull’innovazione, è prevedibile che le risorse europee finiranno per rivelarsi un massiccio trasferimento di risorse dal settore pubblico all’impresa privata sostanzialmente a fondo perduto. Stando così le cose, il declino produttivo italiano, ben espresso dall’agonia del settore automotive, non potrà che continuare.

Il volume è poi completato da due appendici. La prima tratta del governo tecnico 2011­2013, una meteora che pure, all’epoca, fece pensare, anche nel campo progressista, che si sarebbe aperta una qualche stagione riformatrice con la sponda della BCE di Draghi. La successiva débàcle elettorale di Monti fa sì che oggi quel governo sia ricordato solo per la Riforma Fornero. La seconda appendice analizza gli stessi anni ma dall’angolo visuale proprio dell’allora presidente della BCE. L’occasione è un discorso di Draghi in ricordo del suo maestro Federico Caffè. Il filo logico della prolusione (che è in fondo quella che nel 2022 si chiamerebbe la sua “agenda”) è piuttosto scontato: sottomissione dei sindacati per contenere l’inflazione, riforme di struttura, prudenza fiscale. Draghi potrebbe sembrare più avanzato quando spiega che non basta liberalizzare il mercato del lavoro perché ci sono distorsioni anche in altri mercati: “Bisogna rivolgersi anche ai mercati dei prodotti e dei servizi, e liberalizzare quando è necessario”, ma in realtà questa è la giustificazione delle privatizzazioni, della sostituzione della pensione pubblica con i fondi pensione, della sanità pubblica con quella privata ecc., non ha davvero molto di avanzato. Quando si tratta di articolare un percorso di reale cambiamento in Europa, il discorso di Draghi diventa alquanto vago e si sostiene la necessità di un “coraggioso salto di immaginazione politica”, che nel concreto dovrebbe portare a “una progressiva cessione di sovranità dal livello nazionale al livello comunitario”. In realtà, proprio per evitare tutto ciò il Regno Unito è uscito dall’UE. Alla fine il coraggioso “whatever it takes” non riuscì ad andare oltre i mercati finanziari per farsi progetto politico. Vi è da dire che Bellofiore e Garibaldo non trattano di quello che fu l’ultimo grande progetto di respiro comunitario della BCE di Draghi: l’Unione Bancaria. L’idea di concentrare la vigilanza bancaria presso la BCE per rompere il legame tra stati e banche in termini di debito pubblico e connessioni politiche, favorendo anche l’aumento delle dimensioni dei principali operatori europei, è stato un successo di Draghi. Immaginato proprio nel 2012, andò in porto già nel 2014, un tempo record per il normale lentissimo incedere dell’Eurozona. Nei fatti, fu quello l’unico significativo cambiamento istituzionale che Draghi riuscì a imporre all’Europa. Ciò che invece gli autori evidenziano molto bene è che la finanza europea ha investito troppo sull’euro per rinunciarvi, fosse anche per una crisi pur drammatica come quella del 2011-2012. In questo senso, i fautori di un’uscita dalla moneta comune, da destra o sinistra, dall’alto o dal basso, che propongono piani di fantasiosi accordi tra gentiluomini per l’uscita dell’Italia dall’Eurozona sono decisamente fuori strada. I mercati finanziari non hanno nessuna intenzione di pagare il conto salato che dovrebbero affrontare in caso di uscita dell’Italia dall’euro. Solo una sconfitta schiacciante dei referenti politici del sistema finanziario potrebbe aprire la strada alla fine dell’euro, qualcosa che per ora non si avverte. Comunque sia, nemmeno uscire dall’euro garantirebbe il recupero della sovranità, spiegano giustamente gli autori. Basta guardare al Regno Unito, che non è mai stato nell’euro e ha una politica economica indistinguibile dall’Eurozona. Da questo gli autori traggono una critica a coloro che “paiono intrappolati in un discorso economico che si accontenta della denuncia, o della riproposizione di un vecchio formulario radicale fuori tempo massimo, dentro un discorso sociale e politico che non ha mai voluto davvero uscire dal confine ideale degli Stati-nazione”. Il paradosso è che per molti anni il pensiero critico verso la globalizzazione sembrava orientato proprio verso una negazione della dimensione nazionale (si pensi all’“impero” di Toni Negri). Negli anni successivi, si è fatta strada un’interpretazione in senso opposto, in cui sembra che l’unica salvezza di fronte alla tempesta della deglobalizzazione sia difendere la sovranità nazionale, monetaria e politica, il che porta spesso a impressionanti vicinanze con la destra sovranista, ad esempio in tema di immigrazione.

Da tutto ciò gli autori desumono una “lezione di marxismo, sia pure in salsa ordoliberale” da parte di Draghi. La definizione ci pare malposta e sarebbe probabilmente più interessante riferire le argomentazioni di Draghi proprio al pensiero di Federico Caffè, che riusciva a coniugare un pensiero radicale a proposte concrete. In questo senso, le scelte dell’allora presidente della BCE mostrarono il coraggio e l’inventiva del suo maestro.

In definitiva, il testo di Bellofiore e Garibaldo ha il merito di fare i conti con l’impasse del progetto europeo seguendone le faglie molto più in profondità di un semplice richiamo a questo o quell’episodio, e di provare a delineare un percorso concettuale alternativo a quello che ha dominato la scena da Maastricht in poi. Con l’irrompere della guerra nel cuore dell’Europa, questa analisi si fa ancora più rilevante. L’Unione Europea rischia di svanire come soggetto politico, di fronte alla nuova guerra fredda, che dal lato occidentale vede la Nato protagonista, dunque le armi e gli eserciti, cose di cui le istituzioni comunitarie, a loro merito, si sono sempre occupate poco. C’è un grande bisogno, in questa fase, di pensare criticamente il passato per progettare intelligentemente il futuro.


* Banca d’Italia, Sede di Milano e Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Dipartimento di Politica Economica
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Le opinioni espresse dall’autore sono personali e non impegnano l’Istituto di appartenenza.

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