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L'Unione Europea tra Rivoluzione Passiva e questione meridionale

Note a partire da Gramsci

di Diego Fusaro

“L’umanità europea si è allontanata dal telos che le è innato. È caduta in una colpevole degenerazione poiché, pur essendo già divenuta consapevole di questo telos (avendo mangiato dell’albero della conoscenza), non lo ha portato alla più piena coscienza né ha insistito nel tentativo di realizzarlo come proprio senso vitale pratico, ma gli è diventata infedele”. (E. Husserl, L’idea di Europa)

Domenikos Theotokopolos El Greco ELG0131. Premessa

Scopo del presente saggio è rileggere l’odierna Unione Europea e il suo processo di integrazione dei popoli attraverso il prisma interpretativo di tre categorie dei gramsciani Quaderni del carcere, in particolare a) la “rivoluzione passiva”, b) la “quistione meridionale”, e c) il “cesarismo”.

Tuttavia, prima di affrontare i plessi teorici appena annunciati, occorre svolgere alcune considerazioni preliminari, onde evitare fuorviamenti interpretativi. In particolare, allorché si ragiona sul dibattutissimo tema dell’Unione Europea, bisogna preventivamente distinguere tra i tre piani dell’ideale, del reale e dell’ideologico.

In estrema sintesi, l’odierna Unione Europea viene troppo spesso surrettiziamente presentata come se, nella sua attuale configurazione, corrispondesse in actu alle premesse e alle promesse del nobile ideale europeo quale era venuto prendendo forma, sia pure secondo modalità differenti, nelle elaborazioni concettuali di alcuni dei protagonisti della stagione filosofica moderna (da Immanuel Kant1 a Edmund Husserl2). In questo modo, il reale viene scambiato indebitamente con l’ideale, in una totale rimozione del fatto che, tra i due, nell’odierno presente si dà uno scarto abissale; uno scarto in forza del quale si può, senza esagerazioni, sostenere che l’attuale Unione Europea si pone come antitesi del grande ideale dell’Europa come confederazione – così in Kant, ma poi anche in Spinelli – di Stati liberi e democratici, uguali e solidali.

Accade, così, che – complice la grande narrazione delle politiche neoliberali, che hanno forgiato a propria immagine e somiglianza l’Unione Europea nella fase schiusasi con la data esiziale del 1989 (cfr. Boltanski e Chiapello 1999, pp. 83 ss.; d’Orsi 2009) – l’Europa quale realmente è viene continuamente occultata tramite il nobile ideale dell’Europa federale dei popoli e delle culture. In quest’opera di mediazione tra il reale e l’ideale svolge un ruolo decisivo l’“ideologia europea”,3 ossia quel dispositivo narrativo che, oggi trionfante su tutto il giro d’orizzonte, celebra le virtù del reale occultandone le contraddizioni e, sinergicamente, propagandandolo come naturale-eterno, secondo il tipico modus operandi delle ideologie così come le aveva smascherate Karl Marx (si veda Parekh 1982).

Tramite il ricorso al nobile ideale dell’Europa husserliana e kantiana si giustifica la presente Europa, come se essa fosse piena attuazione di quell’ideale, e si silenziano preventivamente le voci dissonanti, che sollevano dubbi circa la legittimità dell’odierna Europa unita principalmente dalla moneta unica e dalla Banca Centrale. È questa la cifra dell’ideologia europea e del suo surrettizio impiego ideologico dell’ideale per giustificare il reale: con l’esito del tutto paradossale che vengono delegittimati come “antieuropeisti” coloro i quali, nel nome dell’idea di Europa, criticano quella esistente, e vengono invece salutati come europeisti quanti glorificano l’odierna Europa, negazione dell’ideale europeo.

Esplicitata – sia pure impressionisticamente – questa premessa, possiamo dunque chiarire, nelle pagine che seguono, tramite il ricorso alle prima evocate categorie gramsciane, per quali ragioni chi si identifichi nei nobili ideali dell’Europa kantiana o husserliana non possa non essere, per ciò stesso, tenacemente critico verso l’odierna Unione Europa, che di quegli ideali si pone a tutti gli effetti come un rovesciamento. Con le parole di un recente saggio di Manolo Monereo, occorre essere por Europa y contra el sistema euro (Monereo 2014): le due determinazioni si negano a vicenda, giacché il “sistema euro” costituisce il più lampante pervertimento dell’idea di Europa.

 

2. L'Unione Europea come rivoluzione passiva

Come è noto, il concetto di “rivoluzione passiva” (si veda Mena 1984) svolge un ruolo fondamentale nel “sistema in movimento” (cfr. Burgio 2014) dei Quaderni del carcere. Gramsci mutua l’espressione “rivoluzione passiva” da Cuoco, che l’aveva impiegata in riferimento alla rivoluzione partenopea del 1799, svoltasi sotto l’egida dei nobili e degli aristocratici, senza partecipazione contadina. In riferimento alla vicenda partenopea delineata da Cuoco, Gramsci allude, con la formula “rivoluzione passiva”, a quei fenomeni di profondo mutamento economico, sociale, politico e culturale diretto e gestito dalle classi dominanti (l’aristocrazia nel Risorgimento, la borghesia nel fascismo), subito passivamente da quelle dominate e determinante un adeguamento passivo della mentalità e dei costumi delle masse. In particolare, il fascismo può, per Gramsci, considerarsi una rivoluzione passiva sui generis, “propria del secolo XX” (Q. VIII, 237)4 nella forma di una stabilizzazione violenta e repressiva del capitalismo in crisi; stabilizzazione gestita dalle classi dominanti e tale da conservare la “gelatinosa” struttura economica e sociale dell’Italia. In questo senso, è esempio di rivoluzione passiva anche quel fenomeno che, studiato soprattutto nel quaderno XXII, Gramsci chiama genericamente “americanismo”, con le sue due manifestazioni satellitari del fordismo e del taylorismo (cfr. Baratta 1990).

In che senso si può, dunque, parlare – con Gramsci, oltre Gramsci – di rivoluzione passiva in riferimento all’odierna Unione Europea? Lungi dal realizzare il sogno husserliano del compimento del telos occidentale o quello kantiano del foedus pacificum e dell’attuazione di rapporti tra popoli liberi e uguali, la creazione dell’Unione Europea ha posto in essere il più perverso rovesciamento di quel nobile ideale.

Per dirla nel modo più semplice e diretto possibile, l’Unione Europea corrisponde, appunto, a una “rivoluzione passiva” – dunque affine, nella sua essenza, al fascismo e all’americanismo – con cui le classi dominanti, dopo il 1989, hanno stabilizzato il nesso di forza capitalistico, rimuovendo la potenza che ancora in parte, sia pure in forme non esenti da contraddizioni, lo contrastava (lo Stato sovrano, con primato del politico sull’economico) (si veda Leghissa 2012, p. 117). Proprio come il fascismo e l’americanismo studiati dai Quaderni del carcere, anche la rivoluzione passiva dell’Unione Europea “fa durare” il presente, impedendo al nuovo di sorgere e al vecchio di tramontare (cfr. Burgio 2003).

Si è trattato, gramscianamente, di una rivoluzione passiva anche per il fatto che, al pari di quella risorgimentale, la nascita dell’Unione Europea non ha visto l’attiva partecipazione delle classi subalterne. Di più, è stata attuata apertamente ai danni di queste ultime, non più rappresentate politicamente e, di più, nemmeno interpellate circa la possibilità di entrare nel “sistema Europa”. La creazione dell’Unione Europea ha provveduto a esautorare l’egemonia del politico, aprendo la strada all’irresistibile ciclo delle privatizzazioni e dei tagli alla spesa pubblica, della precarizzazione forzata del lavoro e della riduzione sempre più netta dei diritti sociali, imponendo la violenza economica ai danni dei subalterni e dei popoli economicamente più deboli (cfr. Bagnai 2012; Badiale e Tringali 2012).

La neutralizzazione della volontà – direbbe Gramsci – “nazionale-popolare” e di quel pur contraddittorio primato della politica sull’economia tipico dello Stato sovrano e dello jus publicum europaeum ha costituito un passaggio obbligato per la spoliticizzazione dell’economia e per l’imporsi dell’odierna dittatura del “fnanz-capitalismo” (cfr. Gallino 2011).

Come è stato recentemente mostrato in La nouvelle raison du monde da Pierre Dardot e Christian Laval (2009/2013), la corsa alla competitività illimitata e – foucaultianamente – la “governamentalizzazione” in senso neoliberale costituiscono, a tutti gli effetti, la cifra dell’epoca post-1989: ciò trova la propria più lampante incarnazione nei princìpi della Costituzione Europea, che è formalizzazione della “nuova ragione del mondo” neoliberale (ivi, pp. 20-21).

In particolare, come sappiamo, l’Unione Europea si fonda sulla competizione tra le economie europee e, insieme, sulla moneta unica gestita da una banca centrale che è garante della stabilità dei prezzi. Questo permette a ogni Paese europeo di praticare il dumping fiscale più spietato per attirare a sé le multinazionali e i contribuenti più facoltosi, abbassando sempre di più i salari e il livello della previdenza sociale, i costi della produzione e gli stessi diritti sociali. Ne seguono due conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti e che, lungi dall’essere patologie transeunti, discendono strutturalmente dai fondamenti sui quali è stata edificata l’Unione Europea: la delocalizzazione e la riduzione della spesa pubblica (sanità e istruzione in primis). In quest’ottica, acquista un senso specifico la frase pronunziata da Mario Monti in un’intervista del 26 settembre 2011: “la Grecia è il più grande successo dell’euro”, essendo quest’ultimo non una semplice moneta, ma un preciso metodo di governo teso ad applicare le politiche neoliberiste (cfr. Bagnai 2012, pp. 55-62).

La competitività diventa il principio regolatore, quando non l’ideale stesso dell’Unione Europea (si veda Casiccia 2011): i valori della cultura europea, le sue radici spirituali, finiscono per essere ridimensionate, quando non completamente omesse, sostituite dagli ideali della competitività e del fiscal compact. Per questa via, come ancora suggerito da Dardot e Laval (2009/2013, pp. 213ss.), la norma neoliberista si estende a tutti i paesi dell’Unione Europea e a tutte le aree dell’esistenza, guadagnando territori che tradizionalmente erano sottratti alla sua presa. Si crea, per questa via, uno spietato calo della domanda, nell’illusione di un’offerta più competitiva, e viene posta in essere la concorrenza generalizzata tra i salariati europei e nel mondo, con annesse defazione salariale e accentuazione delle disuguaglianze. In ciò risiede, appunto, “il miraggio di fondare l’Europa politica sul successo economico e la prosperità materiale” (ivi, p. 23), su cui si fonda il tragico errore di costituzionalizzare le norme della stabilità del bilancio e della concorrenza.

Che l’Unione Europea, fin dal Trattato di Maastricht, sorga come “rivoluzione passiva” con cui il nesso di forza capitalistico rinsalda se stesso nell’epoca post-1989 affiora limpidamente se si considerano, sulla scia di Dardot e Laval (ibidem), quelli che, a ben vedere, sono i suoi tre princìpi fondamentali: a) la costituzionalizzazione della concorrenza e del pareggio di bilancio; b) il federalismo esecutivo, che consacra il primato dell’intergovernamentale; c) il passaggio in secondo piano dei diritti sociali, ciò che invece era garantito dalla pur contraddittoria presenza dello Stato nazionale dello jus publicum europaeum.

Al cospetto di questa evidente struttura neoliberale, l’ideologia europea sempre di nuovo impiega l’ideale dell’Europa per occultare e legittimare la realtà presente, che di quell’ideale è, appunto, la negazione. L’odierna Unione Europea, da questo punto di vista, rappresenta il paradosso di un’Europa che nega se stessa e la propria storia, neutralizzando i propri valori e i propri ideali sull’altare della norma del pareggio di bilancio e della competitività; norma che, lungi dal produrre una confederazione tra Stati fratelli e democratici, genera nuove asimmetrie che pongono in essere conflittualità di tipo economico analoghe, entro certi limiti, a quelle politico-militari del Novecento. Si pensi anche solo all’odierno rapporto asimmetrico e conflittuale tra la Grecia di Tsipras e la Germania della Merkel (cfr. Bagnai 2012, pp. 32ss.): senza esagerazioni, è riuscito, in termini economici, al regime neoliberista ciò che non era riuscito – in termini militari – al fascismo di Mussolini, “spezzare le reni alla Grecia”.

Alla luce di queste considerazioni, si può sostenere, ancora con Dardot e Laval, che “la crisi dell’Europa è una crisi dei suoi princìpi” (Dardot e Laval 2009/2013, p. 23), non certo di alcune sue specificità generali e, per così dire, secondarie. Sicché, se si dessero possibilità concrete per riformare l’Europa in corso d’opera, sarebbe opportuno adoperarsi per tradurle in atto. E, tuttavia, tali possibilità non vi sono, giacché il problema è negli stessi princìpi dell’Unione Europea. Infatti, le oligarchie che governano l’Unione Europea hanno assunto come progetto di riferimento non certo il sogno di Erasmo o di Spinelli, né il foedus pacificum kantiano e il telos husserliano, bensì il processo di governamentalizzazione neoliberista, che di quel nobile sogno è il pervertimento.

Storicamente, l’Europa esiste come arcipelago di differenze5, e dunque in quella ricchezza irriducibile delle tradizioni, delle lingue e delle culture in virtù della quale gli italiani e i francesi, i tedeschi e gli spagnoli, i portoghesi e i greci sono europei senza dover rinunciare alle proprie specificità. È l’esatto contrario della tendenza oggi imperante nell’Unione Europea, nella sua aspirazione all’annichilimento di ogni differenza e nell’imposizione dell’unico modello della crescita, della competitività e del libero mercato. L’ideale di un’Europa di Stati nazionali democratizzati, liberi e uguali, in cui siano rispettate le culture e le tradizioni nazionali, le comunità etniche e religiose, è reso impossibile dalla finanziarizzazione del vecchio continente, dall’imposizione della sola cultura anglofona del mercato e dalla sottomissione dei popoli sovrani al volere della “nuova ragione del mondo” neoliberista. In questo senso, diventa possibile sostenere, una volta di più, che “non è il tetto di ‘casa Europa’ che è troppo fragile, sono le fondamenta che cadono a pezzi” (ibidem): di qui la necessità di rifondare l’Europa, dotandola di nuove fondamenta rispetto a quelle odierne. Si tratta, cioè, di rifare ex novo l’Europa, a partire dalla politica e dalla cultura, e non dalla “cattiva unifcazione” monetaria, con la quale si sono poste sullo stesso livello, tramite l’eurozona, economie differenziate e impossibilitate a stare tra loro sullo stesso piano (da cui le già evocate asimmetrie che pongono la Grecia e i Paesi dell’area mediterranea in una posizione di completa subalternità rispetto alla Germania). L’errore capitale è stato quello – coerente con il programma neoliberista – di fondare l’Unione Europea sull’economia: là dove l’unifcazione economica dovrebbe costituire il compimento della già avvenuta unificazione politica, in grado di garantire libertà e uguaglianza, diritti e democrazia, cioè un’economia rispettosa dei popoli e dei diritti (si veda Badiale e Tringali 2012, pp. 15-22).

Si può, davvero, sostenere che l’Unione Europea è sorta su queste basi e costituisce, grasmcianamente, una rivoluzione passiva? Ascoltiamo quanto sostenuto da Frits Bolkestein, responsabile del mercato interno e della fiscalità della Commissione Europea (si veda Dardot e Laval 2009/2013, p. 344). Nella conferenza presso l’Istituto Walter-Eucken a Freiburg del 10 luglio del 2000, programmaticamente intitolata Costruire l’Europa liberale del XXI secolo, egli ha sostenuto:

In una visione dell’Europa di domani, l’idea di libertà come la difendeva Eucken deve occupare di certo una posizione centrale. Nella pratica europea, l’idea è concretizzata dalle quattro libertà del mercato interno, ovvero la libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e del capitale (ibidem).

A dire di Bolkestein, l’ideale dell’Europa unita coinciderebbe con la libertà di spostamento delle persone e dei beni, del capitale e dei servizi: ciò che, appunto, rispecchia il sogno della governamentalizzazione neoliberale e del suo perseguimento dell’ideale della competitività senza impedimenti, senza limiti e senza i “lacci e lacciuoli” dello Stato e della politica. Non vi è riferimento allo spirito europeo e alla cultura, all’idea di una costituzione europea. La libertà viene certamente evocata come valore, ma nella forma specifica ed esclusiva della libertà di scambio e di consumo, di acquisto e di circolazione6.

Richiamandosi a Eucken e all’ordoliberalismo, Bolkestein sosteneva, poi, che erano quattro i punti da attuare nell’Unione Europea, assumendoli, de facto, come ideali di riferimento (ivi, p. 345): a) flessibilizzare i salari e i prezzi tramite riforme del lavoro; b) riformare le pensioni con incentivazione del risparmio individuale; c) promuovere lo spirito d’impresa; d) difendere la civiltà come libero consorzio umano retto sul libero mercato.

Perché questa rivoluzione passiva potesse compiersi, era necessario produrre un’integrale spoliticizzazione dell’economia (Leghissa 2012, pp. 101ss.). Per questo, è del tutto contraddittorio sostenere che l’odierna Unione Europea potrà essere riformata e perfezionata tramite un surplus di politica: essa è nata con l’obiettivo di mettere in congedo la politica, di modo che l’economia potesse imporsi senza più freni e limitazioni dell’ordine politico.

L’“anarchia commerciale” (Handelsanarchie) a suo tempo denunciata da Fichte (1800/1909, pp. 70) corrisponde all’odierna deregulation propria del laissez faire globale del codice neoliberista quale si incarna nell’Unione Europea come compimento della spoliticizzazione dell’economia tramite il trasferimento del potere dagli Stati nazionali sovrani al mercato sovrano transnazionale con sede presso la Banca Centrale. Come recentemente ricordato da Eve Chiapello e Luc Boltanski, il capitalismo regolato non può esistere, poiché la sua essenza è la sregolatezza, l’entropia efficiente che travolge ogni norma che aspiri a frenare e limitare la dinamica d’accumulation illimitée du capital (Boltanski e Chiapello 1999, pp. 52ss.).

Ove ancora sopravviva, lo Stato è oggi ridotto, proprio come la politica, a una funzione meramente ancillare rispetto all’economia. Prova ne è che, in caso di crisi, banche e finanza tornano a rivolgersi alla “mano visibile” dello Stato. Quest’ultimo, con veri e propri piani di salvataggio della finanza, interviene soccorrendo i responsabili della crisi e iniettando liquidità, dunque socializzando le perdite e privatizzando i profitti.

Il superamento della tradizionale Staatsform costituisce un passaggio obbligato per la spoliticizzazione, per l’annientamento della forza di una politica ancora in grado di agire sull’economico (Leghissa 2012, pp. 101ss.). Rendere inefficienti le unità statali tramite l’instaurazione di un ordine impolitico è la condizione per imporre i due princìpi convergenti dell’anarchia commerciale e – con la sintassi di Carl Schmitt (Schmitt 1929/1984, pp. 167-183) – della Entpolitisierung integrale della sfera economica, di modo che lo Stato non possa più governare l’economia, ma sia al suo servizio. In accordo con i trattati di Maastricht (art. 104) e di Lisbona (art. 123), gli Stati europei oggi non hanno più la possibilità di prendere a prestito dalle loro banche centrali. Di più, lo Stato abbandona il diritto di battere moneta e trasferisce questa facoltà sovrana al settore privato, di cui diventa debitore (cfr. Bagnai 2012, pp. 142ss.). Che l’Unione Europea si regga strutturalmente sull’economia spoliticizzata emerge in maniera adamantina nell’articolo 30, comma 3 del Trattato di Lisbona del 2007:

La Banca Centrale europea è un’istituzione. Essa ha personalità giuridica. Ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione dell’euro. Essa è indipendente nell’esercizio dei suoi poteri e nella gestione delle sue finanze. Le istituzioni, organi e organismi dell’Unione e i governi degli Stati membri rispettano tale indipendenza.

La Banca Centrale non dipende dalla potenza politica statale, né può essere da essa limitata: la sua indipendenza assoluta è rispettata. Non vi è politica che possa controllarla, finendo invece la politica per essere essa stessa governata dall’economia.

Dal canto suo, l’articolo 86 del Trattato di Lisbona delinea un’economia di concorrenza totale, senza monopoli privati e pubblici, esibendo visibilmente il vero volto neoliberista dell’Unione Europea, in quella che è stata con diritto definita la “logica europea di costituzionalizzazione dell’ordine liberista”:

È incompatibile con il mercato comune e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato comune o su una parte sostanziale di questo (Dardot e Laval 2009/2013, p. 360).

Con questo principio, è definitivamente messa in congedo la possibilità, per lo Stato, di governare l’economia. Se la modernità si era aperta con la figura dello Stato come Deus mortalis (Hobbes 1651/2001, p. 360), si può ben dire che oggi il moderno sia stato ampiamente superato: l’economia ha rioccupato essa stessa lo spazio della politica, ponendosi come superiorem non recognoscens e come Deus mortalis.

 

3. Cesarismo finanziario e questione meridionale

Ancora con la sintassi di Gramsci, si potrebbe con diritto parlare di “cesarismo fnanziario” in riferimento all’odierna situazione europea, in cui le decisioni vengono stabilmente prese da quegli enti “sensibilmente sovrasensibili” – avrebbe detto Marx (1867/1964, p. 103) – che non sono stati democraticamente eletti dal popolo e che quest’ultimo non può governare. Nei Quaderni del carcere, la categoria di cesarismo svolge un ruolo di primaria importanza, non secondario rispetto a quella di rivoluzione passiva. Come sappiamo, in riferimento a Napoleone III, a Bismarck e, ancora, a Mussolini, i Quaderni parlano di “cesarismo” nel senso di una “soluzione arbitrale, affidata a una grande personalità, di una situazione storico-politica caratterizzata da un equilibrio di forze a prospettiva catastrofca” (Q, IX, 133). Più che sull’aspetto della “grande personalità”, l’accento cade su quello della “soluzione arbitraria” e strutturalmente sottratta alla volontà democratica.

In questo senso, si può, con diritto, parlare di “cesarismo fnanziario” in riferimento all’odierna Unione Europea, alludendo al fatto che il potere è affidato al mercato ipostatizzato in “grande personalità” (secondo l’oggi in voga figura delle scelte anonime e impersonali del Mercato [cfr. AA. VV. 2011]), che decide senza alcun mandato democratico sulla vita dei popoli europei.

Tramite il cesarismo finanziario dell’Unione Europea, si sono trasferiti i poteri dei governi democratici a istanze prive di rappresentatività, non soggette ad alcun controllo da parte del popolo. Si è instaurata la sovranità assoluta dei mercati finanziari e si è prodotta un’autentica deriva oligarchica della democrazia. La stessa soppressione degli Stati nazionali come impedimenti al potere transnazionale dell’economia e delle oligarchie finanziarie a struttura rizomatica si rivela, allora, pienamente funzionale all’instaurazione del cesarismo finanziario, con il potere stabilmente concentrato in quell’entità “sensibilmente sovrasensibile” e “piena di capricci teologici” che è la Banca Centrale, cifra macabra di un’Europa finanziaria in cui i popoli e le nazioni non contano più nulla né come soggetto politico, né come soggetto sociale.

Se si volesse proseguire il progetto incompiuto dei Quaderni del carcere, il suo ambizioso tentativo di pensare criticamente la storia d’Italia considerata in se stessa e in relazione con le vicende europee, si potrebbe ravvisare nell’odierna Unione Europea una fase di “ristagno della storia”, il compimento di un capitalismo ormai “assoluto”7 (sciolto da limitazioni e non contrastato dal confitto da parte degli offesi), vuoi anche un momento decisivo della lotta di classe che il capitale – con il suo esercizio di un’egemonia oggi assoluta – sta vincendo senza incontrare resistenze.

Fase suprema del neoliberismo (Dardot e Laval 2009/2013, pp. 272ss.), l’Unione Europea segna il trionfo del capitale nella tradizionale lotta di classe, in cui i diritti sociali e del lavoro vengono sacrificati sull’altare dell’ideologia europea e del sacro dogma della crescita e del pareggio di bilancio. Così ha puntualmente scritto Luciano Gallino, insistendo sui processi di precarizzazione e di flessibilizzazione del lavoro come coessenziali all’ordine neoliberista dell’Unione Europea:

Le politiche del lavoro dell’Unione Europea sono concepite e dirette dalla Commissione europea, un organismo non eletto, soggetto alle pressioni dei gruppi economici massicciamente presenti a Bruxelles, che dopo la presidenza di Jacques Delors (1985-1995) ha vistosamente abbracciato la dottrina economica e politica neoliberale (Gallino 2007, p. 162).

Nel suo studio Anschluss (2013), Vladimiro Giacché ha sostenuto che, con l’Unione Europea e con il “sistema euro”, si è verificata una situazione per molti versi analoga a quella della riunificazione delle due Germanie dopo il 1989: si è trattato, cioè, di un processo di annessione ad opera dell’Ovest ai danni dell’Est. Quest’ultimo si è visto costretto a transitare a un’economia a capitalismo avanzato e ad abbandonare il sistema di diritti sociali per accedere al regime neoliberale.

Situazione analoga si sarebbe verificata, ad avviso di Giacché, con l’unifcazione operata dall’Unione Europea tra il Nord a guida tedesca e il Sud dei paesi mediterranei, oggi definiti ingenerosamente PIGS: si sarebbe anche in questo caso trattato di una annessione nel sistema neoliberista che in quei paesi, complice l’arretratezza e la modernizzazione non ancora realizzata in forma pienamente dispiegata, non era ancora del tutto presente.

Accanto all’analogia storica dell’Anschluss di Giacché, può euristicamente giovare l’analogia con la “quistione meridionale” di Gramsci. Come sappiamo, nei Quaderni, ma già anche nel saggio su Alcuni temi sulla quistione meridionale (1926), Gramsci tematizza l’unifcazione risorgimentale dell’Italia nei termini di un’opera di annessione brutale del Sud ad opera del Nord, con annesso sfruttamento delle risorse del primo da parte del secondo. Così nei Quaderni: “l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna” (Q, I, 44, 47). E ancora:

Il Nord concretamente era una ‘piovra’ che si arricchiva alle spalle del Sud e che il suo incremento economico-industriale era in rapporto diretto con impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale. Il popolano dell’Alta Italia pensava invece che se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico, ciò significava che le cause della miseria non erano esterne, da ricercarsi nelle condizioni economico-politiche obiettive, ma interne, innate nella popolazione meridionale, tanto più che era radicata la persuasione della grande ricchezza naturale del terreno: non rimaneva che una spiegazione, l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica (Q, XIX, 10, 1934-1935, 2021-2022).

Si potrebbe forse, allora, parlare a giusto titolo di un’europeizzazione della “quistione meridionale”, peraltro sviluppando un allargamento del tema che era già stato avviato dallo stesso Gramsci. Sappiamo, infatti, che nei Quaderni lo stesso tema dell’americanismo deve essere letto in parallelo, oltre che con il fascismo, con la “quistione meridionale” (cfr. Mordenti 1996, p. 67). Il rapporto di egemonia del Nord sul Sud, in Italia, viene sempre più determinandosi, a livello globale, come nesso egemonico del capitalismo americano fordista su tutte le altre forme esistenti. Per questo, l’egemonia americana – la vera novità strutturale del capitalismo quale si è venuto sviluppando dopo Marx – costituisce, a giudizio di Gramsci, una sorta di internazionalizzazione della “quistione meridionale”8, in cui il Nord americano sfrutta e sottomette il Mezzogiorno del restante mondo capitalistico.

In che senso si può, allora, parlare gramscianamente di una europeizzazione della questione meridionale? È evidente che le politiche neoliberali hanno individuato nell’area mediterranea dell’Europa – i Paesi infelicemente detti PIGS – quello che potremmo definire, con Lenin, l’“anello debole della catena” del capitalismo europeo, il punto su cui fare leva per disarticolarlo e per introdurre il paradigma neoliberista a profitto dell’area nordica (cfr. Preve e Tedeschi 2013, pp. 145ss.). A tal punto che, forse, si potrebbe con diritto parlare di germanizzazione dell’Europa.

È, pertanto, sull’area mediterranea che si sta abbattendo la “furia del dileguare” propria della politica economica neoliberista europea, diretta dalle logiche di riproduzione del capitale finanziario globale (Harvey 2010/2011): non soltanto sulla Grecia, prima vittima sacrificale immolata al Moloch capitalistico (cfr. Benini 2012), ma anche sulla Spagna degli Indignados (si veda, ad esempio, E. Dussel 2011/2012) e sull’Italia, perennemente sotto ricatto del debito.

Il tema della “quistione meridionale” di Gramsci aiuta anche a gettare luce su quel particolare atteggiamento per cui le aree nordiche, e in particolare l’area tedesca, ritengono sempre più con convinzione che l’immiserimento dei popoli mediterranei non sia – citando Gramsci – “da ricercarsi nelle condizioni economico-politiche obiettive, ma interne, innate nella popolazione meridionale”, strutturalmente pigra e non propensa al lavoro. Si pensi, a questo proposito, alle litanie – ossessivamente frequenti e animate da un razzismo niente affatto larvato – intorno alla presunta pigrizia atavica dei greci. Con le parole del Convivio dantesco, la disgrazia dipendente dalla sorte o, più spesso, dalle scelte altrui “suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata” (D. Alighieri, Convivio, I, 3, 4.).

 

4. Con Gramsci, oltre Gramsci

Se portate all’altezza dei tempi, le tre categorie gramsciane dei Quaderni del carcere che abbiamo evocato aiutano a comprendere le contraddizioni in cui è sospesa l’odierna Unione Europea. Esse ci insegnano, insieme, l’esigenza di compiere l’esodo dai suoi confini, ossia dal mercato finanziario che unifica solo a livello monetario il continente europeo e che rende possibili, tramite la moneta unica, le forme di oppressione e di dominio che erano state fortunatamente sventate nel 1945. Da tale esodo deve seguire la ricerca di una diversa Europa dei popoli e del lavoro, della cultura e della politica: un’Europa, cioè, che finalmente realizzi l’ideale europeo oggi pervertito nell’orizzonte desertificato dell’Unione Europea.

Perché ciò sia realizzabile, è necessario, seguendo Gramsci, creare una volontà collettiva “nazionale-popolare” e un’egemonia alternativa al pensiero unico e a quell’“ideologia europea” che – al pari di quella tedesca demistificata illo tempore da Marx – naturalizza l’esistente e ipostatizza la violenza economica del sistema finanziario in destino ineluttabile. Per riaprire la pensabilità di futuri sottratti alla presa del regime neoliberista, occorre assimilare l’insegnamento gramsciano per cui è anzitutto dalla cultura che occorre partire, per prospettare alternative alla realtà che si pretende unico mondo possibile. La vera Europa, quella che sarà in grado di sviluppare – con le parole della Krisis husserliana – il “telos che è innato nell’umanità europea dalla nascita della filosofia greca, e che consiste nella volontà di essere un’umanità fondata sulla propria ragione filosofica” (E. Husserl (1936/1950); tr. it. 1983, pp. 44-45), dovrà prendere le mosse dalla cultura e dalla politica, non dall’economia9.

Ereditare Gramsci per ripensare l’Europa significa, di conseguenza, ripartire dalla centralità da lui assegnata alla cultura come luogo di costituzione delle forme della politica, ma poi anche metabolizzare la sua visione dell’essente come possibilità e del presente come storia, reagendo alla duplice dinamica di naturalizzazione del sociale e di fatalizzazione della storia prodotta dall’egemonia del pensiero unico. Il presente, in ogni sua manifestazione, non corrisponde a una realtà naturale – con buona pace dell’ideologia europea –, ma al prodotto storicamente determinato dell’agire umano e, in quanto tale passibile di trasformazione ad opera del libero agire: con le parole dei Quaderni, “uno degli idoli più comuni è quello di credere che tutto ciò che esiste è ‘naturale’ esista” (Q, XV, 6, 1760).

La filosofìa della praxis, in fondo, ha come obiettivo primario la destrutturazione di tale “idolo comune” e la sua sostituzione con la prospettiva secondo cui l’essente è, di volta in volta, il risultato mai definitivo dell’agire umano che si dipana nel ritmo storico. Fatum non datur. Non ci vuole più Europa, con buona pace delle retoriche neoliberiste il cui obiettivo è l’apologetica dell’esistente: ci vuole un’altra Europa.

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Note
1  Su questo tema,s iveda almeno la raccolta di saggi a partire dal convegno genovese del 2004: Becchi, Cunico e Meo (2005).
2  Cfr. almeno Bianchi(2007); Ferraro(1998).
3  Ci permettiamo di rinviare al nostro Il futuro è nostro. Filosofa dell’azione (Fusaro 2014, cap. VI).
4  A. Gramsci, Quaderni del carcere (= Q).
5 Questa tesi è ampiamente sviluppata in M. Cacciari (1997).
6 Si veda il documentatissimo L. Barra-Caracciolo (2013).
7 Su questo tema, ci permettiamo di rinviare al nostro Minima mercatalia. Filosofa e capitalismo, (Fusaro 2012).
8 Si veda G. Baratta, voce Americanismo, in F. Frosini e G. Liguori (a cura di), Le parole di Gramsci: per un lessico dei “Quaderni del carcere”, Carocci, Roma 2004, p. 17.
9 L’ha ben sottolineato, tra gli altri, F. Nicolaci (2013).
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