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sinistra

Per una teoria materialistica dell’errore, degli opposti e della soggettività

di Eros Barone

image002Parvus error in principio magnus est in fine.

Tommaso di Aquino, De ente et essentia.

Io fui già di opinione di non vedere, col pensare assai, più di quello che io vedessi presto; ma con la esperienza ho cognosciuto essere falsissimo: per che fatevi beffe di chi dice altrimenti. Quanto più si pensano le cose tanto più si intendono e fanno meglio.

Francesco Guicciardini, Ricordi.

  1. Errare humanum est”

Nell’introdurre un problema schiettamente dialettico, qual è quello dell’errore, conviene senz’altro premettere una sintetica esposizione del modo in cui tale problema è stato affrontato e risolto nel corso della storia del pensiero filosofico. La distinzione concettuale da cui è opportuno prendere le mosse è quella tra errore pratico ed errore teoretico. Tralasciando il primo tipo di errore, a cui sarà riservata essenzialmente la trattazione svolta in questo scritto, va preso in considerazione il secondo tipo, cioè l’errore teoretico, che consiste nel ritenere vera una proposizione falsa o falsa una proposizione vera, laddove questo tipo di errore concerne l’assenso che viene dato al giudizio e collega, quindi la volontà e l’intelletto. 1

La filosofia greca, ispirandosi prevalentemente all’identità, posta da Socrate, tra scienza e virtù, ha in generale identificato l’errore etico e quello teoretico, talché nessuno erra volontariamente, poiché, come afferma Platone, la conoscenza della verità è la condizione della felicità individuale (cfr. Gorgia ed Eutidemo). Fondamentale nella storia del pensiero dialettico, oltre che nella ricerca filosofica sulla genesi dell’errore, sarà poi, in polemica sia con la scuola eleatica che affermava l’impossibilità di dire e di pensare ciò che non è, sia con i sofisti che riducevano il vero e il falso a un effetto dell’arte retorica, la scoperta platonica del concetto di “non essere” (o differenza) in senso relativo, che sta al centro del Teeteto e del Sofista.

Dal canto loro, Aristotele e le scuole filosofiche dell’età ellenistica, fra le quali per l’acume e la profondità manifestate nell’analisi della questione dell’errore merita di essere citato lo scetticismo, imposteranno tale questione collegandola prevalentemente con il problema se siano i sensi o l’intelletto (oppure entrambi, secondo quanto dimostrato nei tropi scettici) 2 a determinare giudizi falsi.

Per il pensiero cristiano, a partire da Agostino l’errore, come il male, è ‘defectus’, ossia una “privazione” dell’essere, un allontanarsi da ciò che è, un puro “non essere”. Tuttavia, le trattazioni più ampie e sistematiche del concetto di errore sono state fornite dalla filosofia moderna e recano i nomi di Cartesio e di Spinoza. Al primo risale la dottrina della genesi pratica dell’errore, per cui questo viene attribuito ad una prevaricazione della volontà sull’intelletto nel dare l’assenso a giudizi non ancora chiari e distinti 3. Per il secondo l’errore, di cui viene negata la stessa esistenza in quanto contrastante con la perfezione ontologica della sostanza, non è pensabile se non come mancanza di conoscenza del vero, giusta la definizione della verità come “index sui et falsi” (norma di sé e del falso). 4 Leibniz, dal canto suo, riprende la nozione negativa dell’errore di origine agostiniana. Nell’idealismo hegeliano, giusta l’equazione tra filosofia e storia della filosofia, l’errore consiste invece nell’assunzione dei momenti dell’Idea come “in sé” separati in forza di quelle intellettualistiche astrazioni che sono tipiche dell’“intelletto tabellesco”. Spetta poi alla ragione superare l’errore di tale intelletto, inverando ogni determinazione dell’Idea nel divenire dell’intero o dell’Idea assoluta. 5

In contrasto con le concezioni razionalistiche e idealistiche, l’empirismo e poi il positivismo difendono la nozione di errore e la sua consistenza positiva. Da questo punto di vista, Kant rientra in questa corrente filosofica, poiché ammette sia l’errore materiale causato dall’influenza negativa della sensibilità (in quanto essa induce a confondere l’apparenza fenomenica con la verità della cosa) sia l’errore formale derivato da un uso improprio delle categorie dell’intelletto. 6

Un particolare interesse riveste, in questa sintesi delle concezioni antiche e moderne dell’errore, la posizione illustrata da Nicola Abbagnano ‘ad vocem’ nel suo Dizionario di filosofia, ove la neutralizzazione teoretica dell’errore, fondata sullo sganciamento del problema dalla questione della verità, viene portata alle estreme conseguenze. Orbene, nelle concezioni idealistiche, l’errore, a differenza della menzogna o del sofisma, è l’inconsapevole fallimento del pensiero nel suo sforzo di raggiungere la verità, talché non è mai avvertito come tale se non in una coscienza che, possedendo la verità stessa (o, comunque, quella che essa ritiene verità), la confronti con l’errore. Alla luce di questa concezione dell’“inattualità” (che non significa poi irrealtà) dell’errore, si tende perciò a considerare dialetticamente quest’ultimo come il negativo dello spirito, che lo spirito incessantemente supera nella sua positività. Secondo l’Abbagnano, invece, «l’errore può consistere nel giudicare un oggetto in base a un criterio che è estraneo all’oggetto stesso o meglio a quel campo di oggetti cui esso appartiene; o anche nel giudicare in base a un criterio appropriato un oggetto che tuttavia non si lascia discriminare dal criterio stesso. Un errore della prima specie si ha quando si vuol decidere della realtà di un fatto in base a un criterio morale (“Non deve, non può, essere andata così”), Un errore della seconda specie si ha quando si vuol decidere della verità o falsità dei postulati o proposizioni iniziali delle scienze o di enunciati non significativi. In generale, si può chiamare errore ogni giudizio o valutazione che contravvenga al criterio riconosciuto valido nel campo cui il giudizio si riferisce, oppure ai limiti di applicabilità del criterio stesso. Pertanto il contrario di un giudizio errato non è un giudizio ‘vero’, come comunemente si ritiene, ma piuttosto un giudizio ‘retto’ o ‘corretto’ o ‘esatto’ o ‘regolare’; e l’opposto dell’errore si potrebbe appunto chiamare ‘rettitudine’ o ‘correttezza’». 7

Anche se nel prosieguo del discorso sarà sempre più evidente la valorizzazione del contributo aristotelico da parte dello scrivente, è semplicemente impossibile disconoscere il significato, l’importanza e il valore del contributo di Platone al pensiero dialettico, quale emerge da tutte le sue opere e, in particolare, da un passo del Teeteto, il dialogo sulla scienza. 8

A proposito della teoria dell’errore, è opportuno richiamare, per la pregnanza dialettica dell’aporia che ne emerge, il passo in cui Socrate e Teeteto si accorgono, procedendo nell’indagine, che è impossibile fornire una interpretazione soddisfacente del giudizio sbagliato (o errore). Ora, il falso giudizio è impossibile, se il giudizio è un’attività della sola anima. Se supponiamo che lo spirito sia una specie di colombaia, e che gli uccelli in essa contenuti siano pezzi di conoscenza, allora potremmo a volte acchiappare l’uccello sbagliato, e questo sarebbe l’errore. Dobbiamo dunque supporre che alcuni degli uccelli siano pezzi di errore. Ma se acchiappiamo uno di questi, appena lo abbiamo preso sappiamo che si tratta di un errore, per cui non potremmo mai essere in errore. D’altra parte, la conoscenza è un giudizio esatto sostenuto dal ragionamento. In assenza del ragionamento non vi è conoscenza. Si pensi alle lettere, le quali possono essere denominate ma non hanno alcun significato, e si pensi alle loro combinazioni in sillabe, le quali possono essere a loro volta analizzate e divenire quindi oggetti di conoscenza. Ma se la sillaba è la somma delle lettere che la compongono, è inconoscibile come le lettere; se invece è qualcosa di più, è questo tratto addizionale che la rende conoscibile, e l’affermazione diviene priva di contenuto. Inoltre, che cosa si intende per ragionamento? Evidentemente, una spiegazione del modo come una cosa differisce da tutte le altre. Ebbene, o questo è un ulteriore giudizio o si riferisce a una conoscenza della differenza. Il primo corno dell’alternativa implica un regresso all’infinito, il secondo un circolo vizioso. 9

 

  1. Errori, fallacie e verità

Fra le varie tesi concernenti la natura dell’errore e il suo rapporto con l’idea di verità la più importante è quella che sarà oggetto di specifica attenzione nei prossimi paragrafi, e secondo la quale gli errori esistono soltanto rispetto a determinati obiettivi e ai vincoli che vengono posti stabilendo gli obiettivi. In sostanza, l’errore nasce sempre da uno scarto tra una rappresentazione e una certa porzione di realtà, scarto che si oppone al conseguimento di un obiettivo. Partendo da tale assunto, si può operare una distinzione tra errori e fallacie.

Una fallacia è infatti un’incoerenza interna nell’àmbito di una rappresentazione, è un passaggio improprio da una premessa a una conclusione e richiede che un aspetto della rappresentazione neghi la validità di un altro aspetto. Tuttavia una fallacia non implica necessariamente alcunché rispetto alla porzione di realtà oggetto della rappresentazione, cosicché asserire che un ragionamento è fallace non comporta necessariamente nulla sul valore di verità delle sue conclusioni. In altri termini, le fallacie possono condurre a conclusioni esatte. Viceversa, si possono raggiungere conclusioni false (ad esempio, partendo da false premesse) anche senza fallacie.

L’errore si riferisce anche a un’azione scorretta o a una trasgressione compiuta per ignoranza o inavvertenza, laddove risulta ancor più evidente sia che l’errore nasce da una discordanza tra una rappresentazione e una certa porzione di realtà, sia che la fallacia, benché violi le regole metodologiche del sistema teorico nel cui àmbito viene considerata, non conduce necessariamente a un’azione scorretta. Insomma, poiché ogni concetto deve contenere una minore varietà delle molteplici caratteristiche della porzione di realtà rappresentata, è possibile giudicare la falsità o la scorrettezza di un concetto soltanto nel contesto di un obiettivo (o di un insieme di obiettivi).

Bateson dimostra che si possono utilmente distinguere «due ordini di errore»: «1) l’organismo può usare correttamente l’informazione che identifica l’insieme entro cui operare la scelta, ma scegliere in questo insieme un’alternativa errata; oppure, 2) l’organismo può scegliere da un insieme errato di alternative [può usare, cioè, il concetto sbagliato]». 10 La maggior parte delle discussioni tradizionali sull’errore, sia che si tratti di calcoli aritmetici sia che si tratti di errori di ortografia, si limitano al primo ordine (questo è uno dei motivi per cui espressioni quali ‘ignoranza o inavvertenza’ sono comuni nelle ordinarie definizioni di errore). Platone, in questo senso, argomentando contro il relativismo epistemologico estremo dei sofisti circa la questione se le affermazioni false siano realmente affermazioni, si serve, tanto nel Teeteto quanto nel Sofista, dell’esempio degli errori di ortografia del primo ordine. Platone sottolinea che l’errore dei sofisti nasce dalla incapacità di distinguere tra gli aspetti sintagmatici e lessicali della significazione. Egli sostiene pertanto che l’affermazione ‘Teeteto vola’ è erronea sull’asse sintagmatico: l’errore, cioè, non consiste in ‘Teeteto’ o ‘vola’, ma nella combinazione dei due termini. In realtà, ciò che è più significativo nell’esempio di Platone riguarda ciò che viene ignorato ed escluso, poiché è più probabile che l’errore derivi da fonti contrastanti di informazione che non da una mera casualità (nell’esempio dell’ortografia, che si è or ora citato, l’errore può risultare dalla interferenza di un modello ad opera di un altro modello, anziché dall’inceppamento di un modello operato da un evento casuale). Ciò nondimeno, giova rammentare che Platone, come molti altri pensatori della tradizione occidentale, escludeva gli ordini di errore conseguenti a modelli contrastanti.

 

  1. Il concetto di errore in un contesto marxista e la tradizione occidentale

Il concetto di errore può essere discusso con maggiore chiarezza in un contesto marxista, in quanto il marxismo è un sistema teorico esplicitamente finalizzato – si pensi alla definizione engelsiana del marxismo come “guida per l’azione”, ripresa da tutti gli altri classici del socialismo scientifico - in cui ci si propone sia di operare dal punto di vista del proletariato, che esprime l’interesse generale di tutta l’umanità, sia di acquisire la comprensione del mondo per modificarlo. In questo senso, il marxismo, inserendo i fenomeni in un contesto complessivo, dispone di una base esplicita per decidere scientificamente quale tipo e grado di conoscenza siano necessari per attuare i cambiamenti verso cui tende.

D’altronde, vi sono certi aspetti dell’epistemologia occidentale attualmente dominante che vanno criticati in quanto agiscono come veri e propri ‘ostacoli epistemologici’, ossia come fallacie che generano errori. Una di queste fallacie, che qui non è possibile discutere, è, ad esempio, la definizione di conoscenza ‘oggettiva’ come conoscenza indipendente dal contesto e disinteressata, laddove la scissione tra conoscenza ‘pura’ e applicazioni pratiche trova riscontro nella scissione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, così come tra concezione ed esecuzione, che sempre più caratterizza ogni sorta di attività. Anche se le radici di tale scissione si possono individuare nella Grecia classica e altrove, non è necessario spingersi così lontano nel tempo giacché la forma oggi dominante risale all’Europa del Seicento. Si pensi a Descartes, il quale fa immediatamente seguire alla dimostrazione della sua stessa esistenza – ‘cogito, ergo sum’ – una prova dell’esistenza di Dio, cioè dell’Altro, laddove l’opposizione ‘sé/Altro’ diviene il modello per tutta una serie di polarità dualistiche: ‘anima/corpo’, ‘mente/materia’, ‘uomo/natura’, ‘individuo/società’, ‘soggettività/oggettività’, ‘organismo/ambiente’, ‘noi/loro’ ecc.

In questo sistema fondato su un tipo di pensiero dicotomico, entrambi i termini appartengono allo stesso tipo logico, costituiscono, cioè, un’opposizione binaria. L’opposizione si risolve sempre fra gli aspetti positivi e gli aspetti negativi di un’essenza. Ciò la distingue, ad esempio, dal tradizionale dualismo cinese, che contrappone due concetti essenzialmente distinti (ma interrelati). Il dualismo occidentale conduce pertanto a certi atteggiamenti (e ai relativi comportamenti), uno dei quali è l’atteggiamento disgiuntivo ‘o/o’, mentre un altro è la risoluzione di opposizioni mediante la ‘media aurea’ o il compromesso, piuttosto che attraverso l’asportazione parziale e la sintesi conseguente.

Il punto è che un particolare codice astratto – l’opposizione binaria – è talmente ìnsito nel senso comune occidentale (così come nella stessa filosofia occidentale), che non solo questo codice viene costantemente impiegato per organizzare le nostre percezioni ed è abbastanza astratto da non essere condizionato da controlli empirici, ma esso sfugge anche ad ogni senso critico in quanto la maggior parte delle persone non è neppure consapevole di servirsene; inoltre, esso dispiega tutto il suo potenziale mistificante in quanto le coppie ‘mente/materia’, ‘anima/corpo’, ‘uomo/natura’ ecc. non sono veramente opposizioni tra termini dello stesso tipo logico, ma contraddizioni asimmetriche. Un rapido elenco delle fallacie che scaturiscono da questa ‘forma mentis’ è sufficiente ad illustrare le conseguenze che da questi atteggiamenti epistemici derivano nei comportamenti pratici: a) supporre che ogni termine abbia uno ed un solo opposto; b) ridurre le opzioni a due; c) saltare alla conclusione che la dimostrata falsità di un precetto implichi la validità del suo opposto; d) risolvere le contraddizioni (percepite acriticamente come opposizioni) con un compromesso anche quando non esiste la possibilità di un genuino compromesso; e) ridurre tutte le contraddizioni a opposizioni binarie.

 

  1. L’essere degli opposti si dice in molti modi

Dal canto suo, il concetto di identità/unità degli opposti, comunemente usato da Hegel, Marx, Engels, Lenin, Mao Zedong e altri pensatori della tradizione dialettica, corrisponde in realtà a un buon numero di rappresentazioni, ed è probabile che proprio qui risieda la sua utilità pratica, giacché, parafrasando “il maestro di color che sanno”, cioè Aristotele, l’essere degli opposti si dice in molti modi. E proprio dalla fine classificazione che Aristotele offre dei vari tipi possibili di opposizione conviene prendere le mosse, avvertendo nel contempo che dei quattro i tipi individuati da Aristotele tre soggiacciono pienamente al principio di non-contraddizione (“tertium non datur”), mentre uno, quello dei contrari, ammette più di due opzioni tra loro alternative.

Nel libro X della Metafisica, al capitolo 4, essi vengono così elencati, secondo il criterio dell’estensione e dell’indeterminatezza decrescenti: 1) i contraddittori; 2) la privazione e il possesso; 3) i contrari; 4) i correlativi. 11

I contraddittori indicano una negazione completa l’uno dell’altro, come avviene tra l’affermazione e la negazione (ad esempio, ‘x è seduto’ e ‘x non è seduto’). Essi non hanno nulla in comune, neppure il genere, e non ammettono termini intermedi tra loro. Si tratta dell’opposizione più estesa e indeterminata, che abbraccia tutta la realtà. La privazione e il possesso sono termini che appartengono al medesimo genere, ma tali che l’uno non costituisce il contrario, bensì semplicemente l’assenza dell’altro (ad esempio, la cecità e la vista). Essi sono un caso particolare di contraddittori, cioè l’affermazione e la negazione nell’àmbito del medesimo genere, all’interno del quale stabiliscono tuttavia un’alternativa totale (che esclude, cioè, termini intermedi). I contrari sono i termini più lontani l’uno dall’altro nell’àmbito del medesimo genere (ad esempio, il bianco e il nero). Essi rappresentano un caso particolare di privazione e possesso, cioè, per l’appunto, quella privazione e quel possesso che sono più lontani tra loro. Rispetto al caso precedente, i contrari hanno un’estensione minore poiché, oltre ad avere in comune il genere, non stabiliscono all’interno di esso un’alternativa totale (“tertium datur”), ammettendo quindi termini intermedi (ad esempio, il grigio). I correlativi, infine, sono quei contrari che si implicano reciprocamente, sia quanto alla nozione sia quanto all’esistenza (ad esempio, il doppio e il mezzo). Essi sono dunque un caso particolare di contrari e possiedono l’estensione minore di tutti poiché hanno in comune, oltre al genere, il fatto che ciascuno dei due non può essere definito né esistere senza l’altro.

Sennonché il modo evasivo e, in taluni casi, elusivo con cui è stato trattato, nel corso della storia della filosofia, il caso degli opposti correlativi induce a guardare con una speciale attenzione a questo tipo di opposizione. In realtà, è difficile non riconoscere che il caso dei correlativi è il più indicato a cogliere lo scontro di classe. Della qual cosa già Aristotele si era accorto, poiché tra gli esempi di correlazione, accanto a quello del doppio e del mezzo, pose l’esempio del padrone e dello schiavo, 12 laddove la prima critica che gli si può rivolgere è che, oltre ad intendere la lotta di classe come un caso particolare e subordinato di opposizione, egli qualificava la negazione reciproca tra i termini contradditori come l’antagonismo massimo e l’opposizione tra i correlativi come l’antagonismo minimo. È stato dunque un merito del filosofo francese Alain Badiou quello di distinguere, nell’esame della teoria degli opposti, i processi asimmetrici e, correlativamente, i processi simmetrici. 13 I secondi valgono per il conflitto tra opposti omogenei (ad esempio, le guerre mondiali interimperialiste, sfociate in immense distruzioni senza determinare null’altro che un mutamento di egemonia nei rapporti di forza tra le potenze su scala mondiale); i primi valgono invece, almeno in linea teorica, a determinare il processo della rivoluzione proletaria, fondata sull’eterogeneità (o discontinuità qualitativa) della forza delle classi popolari rispetto a quella delle classi dominanti. Di conseguenza, occorre riformulare la distinzione tra i quattro tipi di opposizione, distinguendo i correlativi simmetrici dai correlativi asimmetrici e affermando, in particolare nel campo teorico-pratico del materialismo dialettico, la separazione di due concezioni antagonistiche: quella delle classi dominanti e di coloro che, impadronendosi del potere, vogliono solo sostituirle, e quella di chi tende ad abolire definitivamente ogni forma di oppressione. Sarà utile mettere in rilievo, a scanso di facili irenismi, che questa distinzione riguarda e attraversa anche i proletari, tanto che lo stesso Lenin nei mesi successivi alla rivoluzione d’Ottobre manifestava apertamente tale pericolo: «E coloro che vedono la vittoria sui capitalisti come la vedono i piccoli proprietari – “loro hanno arraffato, adesso lascia che arraffi io” – rappresentano ciascuno la fonte di una nuova generazione di borghesi». 14 La conclusione che, alla luce del materialismo dialettico, deriva da questa fondamentale rettifica della teoria degli opposti è che la lotta di classe è un insieme di processi guidati da correlativi asimmetrici, cioè qualitativamente disomogenei. Occorrerà quindi riformulare la classificazione degli opposti nel modo seguente: 1) correlativi asimmetrici/correlativi simmetrici; 2) contrari; 3) privazione/possesso; 4) contraddittori.

Ma vi è di più, giacché – e questo è il corollario logico e critico che deriva da quanto si è precisato in precedenza - le opposizioni si diversificano non solo secondo il tipo, ma anche secondo il livello (complanare oppure gerarchico). Valga, a questo proposito, un esempio. Nonostante il fatto che nella società moderna sussistesse una distinzione gerarchica tra i sessi (una relazione di dominanza e subordinazione basata su precisi rapporti di forza e di potere: relazione che oggi, nelle società occidentali, si è in parte rovesciata per tutta una serie di cause che non è qui possibile analizzare), era comune sentir parlare di tale relazione come della “battaglia dei sessi”. Questa espressione neutralizzava, simmetrizzandola, la reale relazione tra i sessi nelle nostre società. In sostanza, in base ad uno scopo ideologico facilmente identificabile, la maggioranza delle persone, condizionata da una falsa identità degli opposti, riceveva questa impressione dal rapporto tra maschi e femmine nella società. In realtà, allora come oggi, identità e opposizione non esistevano e non esistono (e ciò indipendentemente dalle nostre esplicite o implicite convinzioni); esisteva soltanto, ed esiste, un conflitto, ed è un conflitto non paritetico. I due aspetti del conflitto, quello socialmente dominante e quello socialmente subordinato, possono essere complementari (giacché nessuno dei due può in ultima analisi fare a meno dell’altro), ma la complementarità non è quella reciproca degli uguali. Ecco perché questa particolare situazione dovrebbe essere descritta, così come quella che si produce nel rapporto tra capitale e lavoro, nei termini (logici e ontologici) degli opposti correlativi asimmetrici. Da questo punto di vista, il termine ‘contraddizione’ può essere sostituito al termine ‘opposizione’ (dato il carattere esclusivamente logico del termine ‘contraddizione’ nella teoria aristotelica degli opposti), poiché le relazioni testé descritte non si manifestano a un solo livello, ma implicano almeno due livelli, uno dei quali dominante sull’altro. Così, è opportuno, in primo luogo, correggere l’idea di una relazione simmetrica (uguali e opposti) indicandone la fondamentale asimmetria e, in secondo luogo, includere nella descrizione la realtà per cui ‘maschio’ e ‘femmina’ – come ‘capitale’ e ‘lavoro’ nell’attuale sistema economico – sono interdipendenti o complementari. Questa interdipendenza può estrinsecarsi in numerosi modi, tutti peraltro legati al rapporto di subordinazione che istituiva nell’età antica la complementarità tra padrone e schiavo. Naturalmente, resta inteso che, in condizioni socio-economiche diverse, l’interdipendenza o complementarità potrebbe assumere un aspetto completamente differente e tradursi in una relazione di reciprocità.

Dal canto suo, la simmetrizzazione si riferisce a un modo ideologicamente usuale di neutralizzare l’importanza di un’affermazione o il significato di una relazione del mondo reale. Si tratta, in questo caso, di un processo attraverso il quale relazioni disuguali, gerarchiche o multiplanari tra persone, gruppi o parti di un insieme, vengono trasfigurate in un improprio rapporto di presunta uguaglianza ad un unico livello (è ciò che accade, per esempio, in quel “tessuto di menzogne” che è la Costituzione, una “rivoluzione promessa” in cambio di una “rivoluzione mancata”, come riconobbe persino Piero Calamandrei che fu uno dei suoi ‘padri’).

 

  1. Il contributo di Lenin

Nei Quaderni filosofici (1914-1915) Lenin delinea il suo contributo alla dialettica materialistica 15, distinguendo in essa, innanzitutto, ben sedici significati differenti ma interconnessi e perciò dotati di valore nodale: «1) oggettività dell’esame (non esempi, non digressioni, ma la cosa stessa) - 2) tutto l’insieme delle molteplici relazioni di questa cosa con le altre - 3) lo sviluppo di questa cosa (respective del fenomeno), il suo proprio movimento, la sua propria vita - 4) le tendenze (e i lati) internamente contraddittorie in questa cosa - 5) la cosa (fenomeno, ecc.) come somma e unità degli opposti - 6) la lotta (respective il dispiegarsi di queste opposizioni, tendenze contraddittorie, ecc.) - 7) la connessione dell’analisi e della sintesi, la scomposizione delle singole parti e l’insieme, la somma di queste parti - 8) i rapporti di ogni cosa (fenomeno, ecc.) non sono soltanto molteplici, ma generali, universali. Ogni cosa è connessa con ogni altra – 9) non soltanto unità degli opposti, ma anche trapasso di ogni determinazione, qualità, tratto, lato, proprietà in ogni altra [nel suo opposto?] – 10) il processo infinito di scoperta di nuovi lati, rapporti, ecc. – 11) il processo infinito di approfondimento della conoscenza umana delle cose, dei fenomeni, dei processi, ecc., che muove dal fenomeno all’essenza, dall’essenza meno profonda all’essenza più profonda – 12) dalla coesistenza alla causalità, da una forma di connessione e reciproca dipendenza a un’altra più profonda e più universale – 13) la ripetizione in uno stadio più alto di certi tratti, proprietà, ecc. dello stadio inferiore e – 14) il presunto ritorno al vecchio (negazione della negazione) – 15) la lotta del contenuto con la forma e viceversa. Rigetto della forma, rielaborazione del contenuto – 16) il passaggio della quantità nella qualità e viceversa (15 e 16 sono esempi di 9)». 16

L’ampiezza, la complessità e la dinamicità della definizione fornita da Lenin gli permette di elencare anche un certo numero di relazioni tra cui intercede un’identità (o analogia o somiglianza) strutturale. Ecco l’insieme delle “identità degli opposti” esemplificato, sulle orme della engelsiana “compenetrazione degli opposti”, dal geniale marxista russo: «Nella matematica + e -. Differenziale e integrale. Nella meccanica azione e reazione. Nella fisica elettricità positiva e negativa. Nella chimica associazione e dissociazione degli atomi. Nella scienza sociale lotta di classe». 17

Può apparire paradossale, in questo elenco, l’inclusione della lotta di classe assieme alla relazione “+ e –” della matematica, ma si deve tener conto che in questo passo dei suoi appunti Lenin, procedendo per approssimazioni successive e applicando i significati 5, 6 e 9 della definizione della dialettica or ora riportata, pone in risalto quel carattere dinamico e trasformativo delle relazioni che sfugge inevitabilmente allo schematismo di tipo scolastico: «L’identità degli opposti (o, forse, è meglio dire: la loro “unità”? Benché la differenza tra i termini “identità” e “unità” non assuma qui particolare importanza. In un certo senso, sono entrambi esatti) è il riconoscimento (la scoperta) di tendenze contraddittorie, che si escludono reciprocamente, opposte, in tutti i fenomeni e processi della natura (spirito e società compresi). Condizione della conoscenza di tutti i processi del mondo nel loro “automovimento”, nel loro sviluppo spontaneo, nella loro vivente realtà, è la conoscenza di essi come unità degli opposti». 18 Laddove è opportuno soffermarsi sull’espressione “in un certo senso, sono entrambi esatti”, il cui vero significato è che l’“identità degli opposti” o l’“unità degli opposti”, da un lato, possono essere ravvisate in contesti diversi e, dall’altro, possono convertirsi l’una nell’altra. In senso stretto, tuttavia, un’opposizione è una relazione tra elementi o sistemi in cui gli elementi e i sistemi si trovano allo stesso livello logico e ontologico.

Si può allora convenire, al fine di mantenere una sia pur relativa coerenza nell’impiego di questi termini, che il termine ‘contraddizione’ vada riservato al tipo speciale di opposizione che si verifica tra i livelli di vari sistemi. Ad esempio, si afferma comunemente che esiste un’opposizione tra natura e società o tra uomo e donna (nelle società occidentali); sennonché ognuna di queste relazioni è in realtà asimmetrica, in quanto i due termini non appartengono allo stesso livello logico o reale. La società è inserita nella (e subordinata alla) natura; negli attuali sistemi sociali l’uomo domina sulla donna (ma vi è chi sostiene che i rapporti si sono invertiti). Di conseguenza, se si vogliono descrivere con precisione gli attuali conflitti esistenti tra questi sottosistemi o gruppi che si còllocano nell’àmbito del più grande sistema della società o in quello della biosfera, si devono individuare le reali asimmetrie implicate. Si definiranno quindi le relazioni di natura antagonistica in gioco come contraddizioni al fine di disinnescare la comune implicazione ideologica per cui si tratterebbe di opposti correlativi simmetrici che si pongono sullo stesso piano.

 

  1. La critica marxiana della “legge dei mercati” di Say

Marx, dal canto suo, aveva ben distinto gli opposti correlativi simmetrici dagli opposti correlativi asimmetrici, discutendo la relazione tra produzione e consumo in regime capitalistico nell’Introduzione ai Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (1857-1858). La tesi secondo cui produzione e consumo sono “identici”, cioè complanari e uguali sotto l’aspetto quantitativo, è nota come “legge dei mercati” di Say. Questo economista francese si è infatti servito della concezione hegeliana della “identità degli opposti” per sostenere, appunto, la tesi secondo cui in qualsiasi sistema economico la produzione di beni è uguale e opposta al consumo di beni. È da osservare che in questa proposizione sono ìnsite due implicazioni importanti, giacché, in primo luogo, Say presuppone che tutto ciò che viene prodotto è sempre consumato. Di conseguenza non vi può mai essere una sovrapproduzione di beni (il paradosso è che questa ipotesi precedette la grande crisi economica che ebbe luogo in Europa intorno agli anni Quaranta del XIX secolo). La seconda implicazione è il logico corollario della prima. Se, ‘ex hypothesi’, tutta la produzione viene consumata, se non si possono verificare crisi di sovrapproduzione e se il meccanismo dell’accumulazione capitalistica viene ignorato – come fece Say e come continuano a fare (o, meglio, a cercare di fare) gli attuali economisti borghesi fautori del ‘libero mercato’ -, ne consegue che produzione e consumo sono nel nostro sistema economico esattamente allo stesso livello di realtà. Sennonché, come insegnano i discorsi politici degli economisti di governo e degli specialisti di affari esteri, il nostro sistema economico dipende in primo luogo dalle necessità espansive dell’apparato produttivo e solo subordinatamente dai bisogni dei consumatori in quanto tali.

La cosiddetta “legge” di Say costituisce quindi soltanto un altro modo per neutralizzare un’opposizione tra correlativi asimmetrici ricorrendo alla simmetrizzazione. Non per nulla Marx inizia la sua critica affermando che non vi è «niente di più semplice, per un hegeliano, che identificare produzione e consumo» 19 e sottolinea che, oltre a Say, diversi altri economisti di orientamento socialista sono incorsi nella stessa fallacia ideologica. Dopo un’ampia disàmina, sulla quale ci soffermeremo nel prossimo paragrafo, Marx così conclude: «Non è che produzione, distribuzione, scambio, consumo, siano identici, ma che essi rappresentano tutti delle articolazioni di una totalità, differenze nell’àmbito di una unità». 20

La produzione domina in ultima analisi tutti gli altri momenti della vita economica in regime capitalistico: si tratta, infatti, di una relazione asimmetrica, cioè gerarchica. Ciò nondimeno, Marx aggiunge che «tra i diversi momenti si esercita un’azione reciproca. E questo avviene in ogni insieme organico». 21

Trova dunque una lampante conferma, alla luce della esemplare lezione di metodo che Marx fornisce qui e altrove, la necessità di articolare correttamente gli strumenti logici indispensabili per aprire la strada che conduce alla conoscenza della verità nella giungla epistemologica e ideologica che emerge dai conflitti, dall’oppressione e dallo sfruttamento che caratterizzano la società tardo-capitalistica. Le quotidiane confusioni che vengono compiute tra relazioni di differenza, distinzione, opposizione e contraddizione corrispondono a confusioni sia logiche sia reali tra livelli di relazione nei sistemi sociali e in altri sistemi. Si tratta di confusioni che spesso conducono alla neutralizzazione ideologica di effettive relazioni gerarchiche nei sistemi e nella società, laddove la neutralizzazione è un processo psicologico e ideologico che nasce dall’incapacità individuale e collettiva nel riconoscere le relazioni reali per quello che sono e dai tentativi di negare o annullare la reale struttura contestuale di tali relazioni ricorrendo alla simmetrizzazione.

 

  1. Produzione, distribuzione, scambio, consumo e soggettività

Pertanto, nella sua analisi dei quattro momenti che costituiscono il processo sociale della produzione Marx considera dapprima i due estremi (produzione e consumo), essendo queste le due polarità che determinano il processo e la sua direzione. Resta inteso che il risultato di questa prima analisi comprenderà necessariamente gli altri due momenti (distribuzione e scambio). Sennonché, una volta messe in luce, come si è cercato di fare nei paragrafi precedenti, le caratteristiche del metodo dialettico adoperato da Marx, la prima importante osservazione, di natura squisitamente dialettica, che emerge dall’esame della sostanza del problema è il posto centrale che occupano, rispetto al processo produttivo, il momento del consumo e, correlativa ad esso, la categoria della finalità. 22 Da questo punto di vista, risulta quindi vera la proposizione secondo cui «il consumo produce la produzione», il che ha luogo secondo due modalità diverse: da un lato, «il consumo rende definitivamente esecutivo l’atto di produzione, portando a compimento il prodotto come prodotto, dissolvendolo, consumandone la forma oggettiva autonoma»; dall’altro, «il consumo crea il bisogno di una nuova produzione e quindi quel motivo ideale che è lo stimolo interno della produzione e il suo presupposto». Marx introduce esplicitamente, a questo punto, la categoria di finalità: «Il consumo crea l’impulso alla produzione; esso crea anche l’oggetto, che determina finalisticamente la produzione». A partire da questo momento comincia a farsi evidente il ruolo che assume nella spiegazione di un processo oggettivo materiale la soggettività umana.

Orbene, il rapporto produzione-consumo presenta due versi, uno dei quali, come si è visto or ora, va dal consumo alla produzione, mentre l’altro va dalla produzione al consumo, in quanto fa ripartire la produzione riproducendo il bisogno e fornendo una precisa finalità all’intero processo produttivo. Tuttavia, una funzione decisiva è svolta anche dal processo contrario, che va dalla produzione al consumo, poiché – osserva ed esemplifica Marx - «non è soltanto l’oggetto che la produzione procura al consumo...ma un oggetto determinato che deve essere consumato in un modo determinato...La fame è fame, ma la fame che si soddisfa con carne cotta, mangiata con coltello e forchetta, è una fame diversa da quella che divora carne cruda, aiutandosi con mani, unghie e denti». La produzione produce dunque non soltanto l’oggetto materiale per il consumo, «ma anche il modo di consumarlo non solo oggettivamente, ma anche soggettivamente...La produzione crea quindi il consumatore...La produzione fornisce non solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno al materiale». In altri termini, scrive Marx, «la produzione non soltanto produce un oggetto per il consumo, ma anche un soggetto per l’oggetto». All’insegna della categoria dialettica dell’identità/unità degli opposti, la finalità del processo produttivo e la soggettività del bisogno si compènetrano dunque l’una nell’altra.

Per quanto riguarda poi il ruolo svolto dal momento della distribuzione, Marx scrive: «Tra il produttore e i prodotti si interpone la distribuzione che, in base a leggi sociali, determina quale quota della massa dei prodotti spetti al produttore, venendo così a interporsi fra produzione e consumo». Si apre qui un discorso la cui importanza è difficile sopravvalutare, poiché sarà ripreso e definito compiutamente solo nel 51° capitolo del terzo libro del Capitale, intitolato Rapporti di distribuzione e rapporti di produzione, in cui la disàmina critica iniziata, ad un livello di massima generalità, nei Lineamenti verrà inquadrata e risolta, con un approccio metodologico ancora una volta squisitamente dialettico, al livello specifico del modo di produzione capitalistico. Confutando la tesi illusoria degli economisti borghesi secondo i quali rapporti di distribuzione sarebbero separati dai rapporti di produzione, Marx dimostra nel suddetto capitolo, richiamandosi, in un certo senso, al nastro di Moebius, come i primi vengano subordinati ai secondi, anzi identificati con essi alla stregua di un loro “rovescio”.

Inserendo il tema della soggettività nello stesso contesto, Marx afferma che «i principali agenti di questo modo di produzione, il capitalista e il lavoratore salariato, sono in quanto tali semplicemente incarnazioni, personificazioni del capitale e del lavoro salariato; sono caratteri sociali determinati, che il processo sociale di produzione imprime agli individui; sono prodotti di questi determinati rapporti sociali di produzione». 23 Sotto questo aspetto, per esempio, l’«unico scopo» del capitalista «è la produzione del plusvalore, cosicché egli produce un certo tipo di merci unicamente a tal fine». 24 Il capitalista, cioè, assume necessariamente questo ruolo (altrimenti cesserebbe di essere capitalista), che si “imprime” perciò nella sua soggettività. 25 In forza di esso ruolo, «lo scopo del compratore [della forza-lavoro] è la valorizzazione del suo capitale, la produzione di merci che contengano una maggior quantità di lavoro di quella paga, che contengano quindi una parte di valore che a lui non costa nulla e che ciò nonostante viene realizzata mediante la vendita delle merci. La produzione di plusvalore o il fare di più è la legge assoluta di questo modo di produzione». 26

Dalla identificazione del capitalista con il proprio ruolo deriva il suo comportamento come classe nei confronti della forza-lavoro. «Si dimostra con una esattezza per così dire matematica – scrive Marx – la ragione per cui i capitalisti...costituiscono...una vera massoneria nei confronti della classe operaia nel suo complesso.» 27 Sennonché la medesima identificazione fa sì che i capitalisti si comportino fra loro come «falsi fratelli quando si fanno concorrenza». I capitalisti si fronteggiano quindi in quanto “possessori di merci” sul terreno della concorrenza e della esplicazione (sia pur condizionata dagli oggettivi meccanismi socio-economici) del loro “arbitrio individuale”. Accade così che, in quanto i capitalisti «si contrappongono l’uno all’altro soltanto come possessori di merci, regna un’anarchia completa nel quadro della quale la struttura sociale della produzione si afferma solo come una soverchiante legge naturale nei confronti dell’arbitrio individuale». 28

Articolando criticamente la nozione di rapporti di distribuzione, Marx passa poi a definire la posizione dell’altro principale “agente della produzione” del modo di produzione capitalistico, ossia del “lavoro salariato” quale si personifica nell’operaio.

«Nello studio dei rapporti di distribuzione – egli scrive – si prendono le mosse dalla pretesa constatazione di fatto secondo cui il prodotto annuo si distribuisce come salario, profitto e rendita fondiaria. Ma in tali termini la constatazione è falsa. Il prodotto si ripartisce da un lato in capitale, dall’altro in redditi. Uno di questi redditi, il salario, non assume mai la forma di un reddito dell’operaio, se non dopo essersi contrapposto all’operaio stesso nella forma di capitale. Il contrapporsi delle condizioni di lavoro prodotte e dei prodotti di lavoro in generale, in quanto capitale, ai produttori diretti , include a priori un carattere sociale definito delle condizioni di lavoro materiali rispetto agli operai, e con ciò un rapporto determinato, in cui essi entrano nella produzione stessa con i possessori delle condizioni di lavoro e fra loro stessi.» 29

Il «carattere sociale definito delle condizioni di lavoro materiali rispetto all’operaio» è ciò che costituisce il suo lavoro quale “lavoro produttivo” (di merci nella fattispecie) non in generale, ma all’interno del modo di produzione capitalistico. «L’operaio non produce per sé ma per il capitale. Quindi non basta più che l’operaio produca in genere. Deve produrre plusvalore. È produttivo solo quell’operaio che produce plusvalore per il capitalista, ossia che serve all’autovalorizzazione del capitale [...] Il concetto di operaio produttivo non implica dunque affatto soltanto una relazione fra attività e effetto utile, fra operaio e prodotto del lavoro, ma implica anche un rapporto di produzione specificamente sociale, di origine storica, che imprime all’operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale... Dunque – conclude Marx – essere operaio produttivo non è una fortuna ma una disgrazia!» 30

 

  1. Una soggettività scissa tra i “bisogni di valorizzazione” del capitale e i “propri bisogni di sviluppo”

Come ben si sa, l’operaio è anche compratore di merci, non foss’altro per il suo sostentamento, e per questo, e per la riproduzione della sua classe, egli riceve un salario, il che implica, anche per questo verso, la sua appartenenza al ciclo della produzione capitalistica. In tal modo, si crea un’ulteriore contraddizione nel modo di produzione capitalistico, la quale consiste nel fatto che gli operai, in quanto compratori delle merci sono importanti per il mercato, ma in quanto venditori della loro merce, la forza-lavoro, la società capitalistica ha la tendenza a costringerli al minimo del prezzo (su questa contraddizione agisce, come è noto, la lotta di classe, almeno nel suo aspetto salariale).

Sennonché, trattando della legge dell’accumulazione capitalistica Marx aveva sottolineato che essa «esprime in realtà solo il fatto che la sua natura esclude ogni diminuzione del grado di sfruttamento del lavoro o ogni aumento del prezzo del lavoro che siano tali da esporre a un serio pericolo la costante riproduzione del rapporto capitalistico e la sua riproduzione su scala sempre più allargata». E rilevava: «Non può essere diversamente in un modo di produzione entro il quale l’operaio esiste per i bisogni di valorizzazione di valori esistenti, invece che, viceversa, la ricchezza materiale esista per i bisogni di sviluppo dell’operaio». 31

Qui mette conto di osservare che il termine “bisogni” è usato una volta in senso proprio, riferito al soggetto (“bisogni di sviluppo dell’operaio”), e una volta in senso traslato, riferito all’oggetto (“bisogni di valorizzazione ecc.”). Tuttavia, quella che potrebbe sembrare un’improprietà logica ed espressiva , ad un più attento esame si rivela una correlazione pienamente corretta, poiché pone in rilievo la contrapposizione asimmetrica tra la necessità interna e finalistica del sistema di produzione quale si personifica nel capitalista, organicamente identificato con la propria funzione, e i bisogni dell’operaio. Così, nonostante la “mistificazione” dei rapporti sociali prodotta dalla forma-merce e dalla forma-denaro, e dal loro sviluppo nella forma-capitale, l’operaio vive immediatamente nel processo di produzione diretto questa antitesi che si sviluppa nella lotta di classe e, quando esistono le condizioni necessarie (esistenza e azione del partito rivoluzionario), nella coscienza di classe. Perciò, se nell’operaio l’uomo del bisogno e l’uomo del lavoro sono strutturalmente dissociati e contrapposti fra loro, riflesso, questo, della contraddizione oggettiva del sistema, ciò avviene in forza di una situazione complessiva che definisce (per l’appunto, oggettivamente) non solo il capitalista e l’operaio, ma condiziona anche, in forma mediata, ogni soggetto individuale all’interno del campo sociale dominato dal modo di produzione capitalistico.

Allora, tornando a quel livello di generalità secondo cui Marx tratteggia, in una delle ultime pagine del III libro del Capitale, le potenzialità della società comunistica rispetto al sistema borghese-capitalistico che ne crea i presupposti, si prenda nota del modo in cui viene formulata l’ipotesi alternativa e delineata la struttura portante del programma massimo che il movimento di classe deve elaborare: «...se riconduciamo il salario alla sua base generale, precisamente a quella parte del prodotto di lavoro dell’operaio che passa nel suo consumo individuale; se liberiamo questa parte dai limiti capitalistici e la estendiamo al volume del consumo consentito da un lato dalla forza produttiva esistente della società (cioè dalla forza produttiva sociale del suo lavoro considerato come lavoro effettivamente sociale), e richiesto d’altro lato dal pieno sviluppo della personalità; se riduciamo inoltre il pluslavoro e il plusprodotto alla misura che è richiesta nelle date condizioni di produzione della società, da un lato per la costituzione di un fondo di assicurazione e di riserva, dall’altro per l’allargamento continuo della riproduzione nella misura determinata dai bisogni sociali; se comprendiamo infine nel n. 1, nel lavoro necessario, e nel n. 2, nel pluslavoro, la quantità di lavoro che i membri della società in grado di lavorare devono sempre effettuare, per coloro che non possono ancora o non possono più lavorare; in altre parole, se spogliamo sia il salario che il plusvalore, sia il lavoro necessario che il pluslavoro, del loro specifico carattere capitalistico, non abbiamo più queste forme, ma semplicemente i loro fondamenti, che sono comuni a tutti i modi di produzione sociale». 32

 

  1. Stalin, Lenin e l’importanza dell’autocritica

Nella storia del comunismo russo vi è un episodio scarsamente noto, dal quale è possibile ricavare, tornando circolarmente al tema iniziale, chiarimenti essenziali sulla problematica dell’errore in un contesto marxista.

L’episodio si verificò in una riunione organizzata a Mosca il 23 aprile 1920 per il cinquantesimo compleanno di Lenin: una celebrazione tutt’altro che solenne, a giudicare dai due soli interventi di cui disponiamo: quello di Stalin 33 e quello conclusivo di Lenin. 34 Stalin inizia dichiarando di volersi limitare a mettere in rilievo «un tratto caratteristico del compagno Lenin cui nessuno ha fino ad ora accennato, la sua modestia e il suo coraggio nel riconoscere i propri errori». Seguono due esempi. Il primo riguarda la discussione avvenuta tra i bolscevichi, nel dicembre 1905, sul problema del boicottaggio delle nuove elezioni alla Duma. Stalin, a tale proposito, ricorda che Lenin, contrario in un primo tempo alla tattica del boicottaggio, cambiò poi parere nel corso della conferenza di Tammerfors di fronte alle pressioni dei delegati delle province, tra cui lo stesso Stalin.

Molto più importante però è il secondo esempio relativo alla preparazione della rivoluzione d’Ottobre, così ricostruito da Stalin: «Nel 1917, nel mese di settembre, sotto il governo Kerensky, nel momento in cui fu convocata la Conferenza democratica e quando i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari costituirono un nuovo organismo, il Preparlamento, che doveva preparare il passaggio dai Soviet all’Assemblea costituente, in quel momento il Comitato Centrale di Pietrogrado decise di non sciogliere la Conferenza democratica e di proseguire per la via del rafforzamento dei soviet, di convocare il congresso dei soviet, di iniziare l’insurrezione e di dichiarare il congresso dei soviet organo del potere statale. Ilic, che si trovava allora fuori di Pietrogrado nella clandestinità, non fu d’accordo con il Comitato Centrale e scrisse che bisognava subito sciogliere e arrestare quel branco di canaglie (la Conferenza democratica). A noi sembrava che la cosa non fosse così semplice, perché sapevamo che la Conferenza democratica era per metà, o almeno per un terzo, composta di delegati del fronte, che con l’arresto o lo scioglimento non potevamo far altro che guastare le cose e peggiorare le relazioni con il fronte. A noi sembrava che tutti i burroni, tutte le fosse e tutte le buche sul nostro cammino fossero più visibili a noi, pratici. Ma Ilic è grande, egli non teme né fosse né buche né burroni sul suo cammino, non teme i pericoli e dice: “Levati e va’ dritto allo scopo”. Noi pratici consideravamo che non fosse allora conveniente agire così, che bisognava allora girare attorno a questi ostacoli, per poter prendere il toro per le corna. E, nonostante tutte le richieste di Lenin, noi non gli demmo ascolto, proseguimmo sulla via del rafforzamento dei soviet e trascinammo la cosa fino al Congresso dei soviet del 25 ottobre e fino all’insurrezione vittoriosa. Allora Ilic era già a Pietrogrado. Sorridendo e guardandoci con aria furba ci disse: “Bene, avevate ragione”. Ciò di nuovo ci colpì. Il compagno Lenin non temeva di riconoscere i suoi errori».

Prescindendo dalla polemica politico-storiografica sulla esatta concatenazione degli eventi, che si svilupperà in séguito fra alcuni protagonisti della rivoluzione d’Ottobre, la sostanza di questo discorso di Stalin è che anche un capo come Lenin, perfino nei momenti più decisivi, poteva commettere gravi errori (in questo caso si sarebbe trattato di un errore di ‘putschismo’), ma che il partito era in grado di correggere in tempo quegli errori e di salvare i destini della rivoluzione.

Dal canto suo, Lenin, confermando nel suo breve intervento conclusivo quelle doti di “modestia” e di “coraggio nel riconoscere i propri errori”, giustamente ascrittegli da Stalin, metteva in guardia il partito bolscevico dal pericolo di «cadere in una situazione assai pericolosa, nella situazione di un uomo che esagera i suoi meriti», e non esitava a ricordare che «gli insuccessi e la decadenza dei partiti politici erano spesso stati preceduti da una situazione simile, in cui questi partiti avevano la possibilità di presumere troppo di sé». Una lezione di realismo politico e di vigilanza rivoluzionaria che, restando immune da ogni “vertigine del successo”, Stalin saprà mettere a frutto.


Note
1 In merito alla dialettica tra errore e verità mi sia consentito rinviare alla presentazione da me curata in questa stessa sede (colonna di destra del sito) e intitolata Galileo, Roberto e la verità.
2 Per una chiara esposizione introduttiva sullo scetticismo si veda la Storia del pensiero scientifico e filosofico diretta da Ludovico Geymonat, vol. 1, Garzanti, Milano 1970, pp. 302-308. Per un approfondimento del tema è sempre valida la monografia di Mario Dal Pra, Lo scetticismo greco, Laterza, Roma-Bari 1989.
3 Principia philosophiae, I, 31-38.
4 Ethica ordine geometrico demonstrata, II, scolio 43.
5 È la fondamentale proposizione secondo cui “il vero è l’intero”, che si trova nella Prefazione della Fenomenologia dello Spirito, trad. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze1970, p. 15.
6 Per i due tipi di errore si vedano, rispettivamente, l’Estetica trascendentale e la Dialettica trascendentale della Critica della ragion pura.
7 N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, UTET, Torino 1968, p. 304.
8 Platone, Teeteto, 197b - 198d (cfr. la traduzione e il commento a cura di A. Guzzo, Mursia, Milano 1985, capp. XXXVI-XXXVII, pp. 246-251).
9 Cfr. Teeteto cit., pp. 261-294. Nella chiusa del Teeteto Platone rinvia espressamente il lettore al Sofista, che è immaginato come un dialogo tenuto la mattina dopo tra gli stessi personaggi e un Ospite Eleate. Ivi la scienza è scienza d’idee: un organismo logico rigoroso. Il Teeteto è la ‘pars destruens’ e il Sofista la ‘pars construens’ – seppure con riprese critiche di fondamentale importanza sia contro le medesime dottrine già esaminate nel Teeteto, sia riguardo alla dottrina di Parmenide – della dottrina platonica della scienza.
10 G. Bateson, Per un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1977, pp. 311-312.
11 Sul tema qui discusso risultano particolarmente illuminanti i chiarimenti forniti da G. Bottiroli nel volume, Contraddizione e differenza, Giappichelli, Torino 1980, pp. 9-44.
12 Cfr. Aristotele, Le categorie, 7, 6b, 27.
13 A. Badiou, F. Balmès, De l’idéologie, Maspero, Paris 1976.
14 Cfr. Seduta del comitato esecutivo centrale di tutta la Russia (29 aprile 1918) - Rapporto sui compiti immediati del potere sovietico, in Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 269.
15 Lenin, Opere complete, vol. 38, Editori Riuniti, Roma 1969, pp. 83-376.
16 Ibidem, pp. 205-206.
17 Ibidem, pp. 361-362.
18 Ibidem, p. 362. Mette conto di osservare che il termine ‘opposti’ ricopre un insieme complesso di relazioni, il che è rilevante sia per chi si prefigge di criticare il pensiero liberale sia per chi si propone di sviluppare il pensiero dialettico. Pertanto, la disàmina svolta nel presente elaborato vuole anche essere un’esemplificazione di quella rilevante categoria di fallacie che generano errori. Vi sono infatti certi schemi molto astratti che le persone utilizzano, per lo più acriticamente, per definire certe rappresentazioni della realtà. Questi schemi costituiscono un serbatoio ideologico eccezionalmente importante e possono diventare una fonte fondamentale di errore.
19 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1968, vol. I, p. 18.
20 Ibidem, p. 25.
21 Ibidem, p. 26. Per comprendere l’analisi dialettica di Marx in tutta la sua pregnanza e in tutto il suo rigore è utile riportare, in continuità con la nota precedente, l’intero passo compreso tra le pp. 25 e 26: «La produzione assume l’egemonia tanto su se stessa, nella sua determinazione antitetica, quanto sugli altri momenti. Da essa il processo ricomincia sempre di nuovo. Che lo scambio e il consumo non possano essere elementi egemonici è cosa che si comprende da sé. Altrettanto si dica della distribuzione in quanto distribuzione di prodotti. Ma come distribuzione degli agenti della produzione è essa stessa un momento della produzione. Una produzione determinata determina quindi un consumo, una distribuzione, uno scambio determinati, nonché i determinati rapporti reciproci tra questi diversi momenti. Indubbiamente anche la produzione, nella sua forma unilaterale, è da parte sua determinata dagli altri momenti. Quando per es. il mercato, e cioè la sfera dello scambio, si estende, la produzione cresce estensivamente e si articola intensivamente. Se muta la distribuzione, la produzione si modifica; per es., quando si verifica una concentrazione del capitale, una diversa distribuzione della popolazione tra città e campagna ecc. Tra i diversi momenti si esercita un’azione reciproca. E questo avviene in ogni insieme organico». Si noti che per Marx il termine ‘organico’ è quasi sempre sinonimo di ciò che oggi si definirebbe ‘sistemico’.
22 Cfr. Marx, Lineamenti...cit., pp. 13-19, dove si legge la seguente proposizione: «Senza produzione non v’è consumo; ma non v’è nemmeno una produzione senza consumo, altrimenti la produzione sarebbe senza scopo».
23 K. Marx, Il capitale, trad. it. di M. L. Boggeri, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1968, p. 998.
24 Ibidem, p. 232.
25 Se è permesso citare una ‘boutade’, peraltro assai seria, qualcuno ha giustamente osservato, a questo proposito, che i capitalisti non sono padroni perché sono str****, ma sono st**** perché sono padroni.
26 K. Marx, Il capitale, trad. it. di D. Cantimori, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 677.
27 Il capitale, vol. III, p. 242.
28 Ibidem, p. 999.
29 Ibidem, pp. 996-997.
30 Il capitale, vol. I, p. 556.
31 Il capitale, vol. I, p. 680.
32 Il capitale, vol. III, pp. 993-994.
33 G. Stalin, Opere complete, Edizioni Rinascita, Roma 1951, pp. 356-358.
34 V. I. Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1967, vol. 30, pp. 477-479.

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