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losguardo

M. Cacciari, La mente inquieta

Recensione di Giulio Gisondi

M. Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, Einaudi, 2019

978880624085HIGL’ultimo lavoro di Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo, vuol essere un tentativo di ripensare il contenuto filosofico dell’Umanesimo. Lontano dal diluire o dal ricondurre, come spesso ha fatto una certa filosofia contemporanea, l’esperienza culturale del Quattrocento italiano all’esclusivo ambito artistico-letterario, da un lato, e alla pratica erudita e filologica degli studia humanitatis, dall’altro, l’autore riconosce, invece, all’Umanesimo la sua piena identità e dignità filosofica. E lo fa esplicitando, sin dalle prime pagine, il debito nei confronti della lezione di Eugenio Garin, di quell’idea di Umanesimo civile compreso come «età di crisi […], in cui il pensiero si fa cosciente della fine di un Ordine e del compito di definirne un altro, drammaticamente oscillante tra memoria e oscuri presagi, crudo scetticismo e audaci idee di riforma» (Introduzione ). Proprio il riconoscimento dell’Umanesimo quale momento disarmonico, disincantato, tragico e conflittuale, di rottura delle cattedrali metafisiche scolastiche, rappresenta uno dei maggiori risultati della ricerca e della prospettiva gariniana, a partire dalla quale questo saggio prende le mosse.

Tuttavia, nonostante il lavoro di ricostruzione storico -filosofica e filologica avviato nel dopoguerra dalla scuola di Garin, di Cesare Vasoli, e proseguito dai loro allievi, Cacciari osserva come ancora oggi molte siano le riserve, le diffidenze e le incomprensioni relative al senso, al significato e al valore filosofico dell’Umanesimo. Una delle ragioni di tale incomprensione è legata all’abitudine, di una pur grande storiografia, di porre il problema dell’Umanesimo considerandolo sempre in funzione della propria posizione teoretica. È questa, ad esempio, la prospettiva all’interno della quale l’Umanesimo è stato considerato da autori come Giovanni Gentile o Ernst Cassirer, ovvero quale presupposto o momento della maturazione del loro stesso pensiero.

Oltre a questi, Cacciari intravede anche in studiosi filologicamente più accorti, Paul Oscar Kristeller e Robert Curtius, una tendenza a leggere nel Quattrocento italiano una «emptiness teoretica» (p. 5), privilegiando quasi esclusivamente la tradizione degli studi di grammatica, retorica, storia, poesia, quasi che «la filosofia non via abbia parte» (p. 5). Stessa tendenza, questa, che, in maniera similare ma opposta, egli lega a quella proveniente da Jacob Burckhardt, ad una concezione dell’Umanesimo «sotto il segno esclusivo dell’arte […], della fede nella bellezza […], o dell’affermazione dell’individuo come poietes, potenza formatrice, creatrice, tettonica» (p. 5).

Proprio in tal senso, Cacciari segnala come questa grande riscoperta delle arti, e con essa, sull’altro versante, quella delle lettere, non avrebbero mai potuto nascere senza una nuova ed implicita filosofia, senza un’antropologia filosofica che riscoprisse l’essere umano come essenzialmente poietico, in grado di farsi pienamente ‘uomo’ soltanto direzionando le sue arti e i suoi discorsi verso una dimensione pubblica, politica. È questo il patrimonio di una civilis sapientia tendenzialmente repubblicana, che da Coluccio Salutati passa attraverso Leon Battista Alberti, Nicolò Machiavelli, Giordano Bruno, giungendo fino a Giambattista Vico e oltre, intrecciando indissolubilmente filologia e filosofia, ratio e oratio, pensiero e discorso, in una forma che lega la teoresi ad una costante e connaturata prassi civile.

Ma se, da un lato, la tendenza della storiografia filosofica, sin qui percorsa, è stata quella di cercare nell’Umanesimo una prima traccia della propria filosofia, a questa fa eco il tentativo di quella tradizione tedesca erudita di fine Ottocento che, da Ulrich von Wilamowitz in poi, lo ha ridotto «al servizio della propria filologia» (p. 7). Se la filosofia contemporanea non ha inteso «che la peculiare filosofia dell’Umanesimo consiste proprio nel valore e nel significato che si attribuisce al termine filologia» (p. 7), il nuovo Humanismus, invece, non ha compreso «l’intrinseca natura filosofica dell’amore-studio per il logos, nel suo significato più complesso» (p. 7), generando quelle ambiguità, incomprensioni ed incapacità di affrontare il pensiero dell’Umanesimo. In altre parole, l’Humanismus filologico ha finito con l’imporre il proprio punto di vista e i propri valori nella considerazione della cultura dell’Umanesimo, riducendolo alla dogmatica ed antropocentrica esaltazione dell’uomo, a partire dallo studio dei classici greci e latini. E da qui, la critica del nuovo Humanismus ha assunto, da parte della successiva filosofia tedesca, i caratteri di una critica e di un’incomprensione dell’Umanesimo storico in generale.

È da questa stessa lettura che, accomunando e confondendo Umanesimo e Humanismus, nasce la Lettera sull’Umanismo di Heidegger, pubblicata a Berna nel 1947 per le edizioni Franck, in una collana diretta da Ernesto Grassi: stesso anno, stesso editore e stesso direttore di collana in cui, qualche mese più tardi, apparirà quel Der Italiänische Humanismus, L’Umanesimo italiano di Garin, pubblicato inizialmente in tedesco proprio su richiesta dell’heideggeriano, ma più attento lettore dell’Umanesimo, Grassi, quasi in risposta al breve testo del suo maestro. Erede di una lettura dell’Humanismus che vede nel linguaggio lo strumento della volontà di potenza, che fissa metafisicamente la dignitas dell’uomo nei termini di assoluta centralità sull’essente, dimenticando limiti, finitezze e temporalità dell’esserci, Heidegger non riconosce il significato filosofico dell’Umanesimo storico, confinandolo in una riproposizione della metafisica moderna del soggetto. Si tratta di questioni e critiche fondamentali nella comprensione della filosofia dell’Umanesimo, che Cacciari sonda attraverso brevi incursioni e impressioni in autori e problemi chiave.

Tra questi problemi, un posto centrale è dedicato proprio a due temi profondamente heideggeriani, e sui quali già Grassi invitava il suo maestro a considerarne la centralità nell’Umanesimo, vale a dire, il linguaggio e l’essere. Proprio nel problema del linguaggio, non pura questione di stile ma esigenza di comunicare una realtà differente, in profonda e continua trasformazione, si avverte l’appello presente in tutti gli umanisti ad un rinnovamento e ad una riforma politica e religiosa. E tale riforma passa, in primo luogo, attraverso una nuova, completa e più profonda concezione degli Studia humanitatis quale forma di sapere civile, filosofico e filologico al tempo stesso. Riforma, rinascita e renovatio che non è mai atemporale e sterile imitazione del passato, dei classici e dei loro stili, ma comprensione storica di quel pensiero e di quella parola particolari, al fine di risvegliarli e comprenderli in un senso nuovo, alla luce del proprio tempo presente. Il recupero e lo studio delle lettere e della grammatica, della retorica e della dialettica, corrisponde così alla necessità di armarsi di nuovi e, insieme, antichi strumenti di decifrazione, comprensione e trasformazione del reale. La filologia non è mai, in tal senso, mero sapere erudito. Essa è, invece, immanente all’idea stessa di renovatio, in quanto capacità di legare ideae, verba e res, di collocarle nel loro tempo, di comprenderne la loro storicità. Idea, verba e res che, nella loro forma linguistica, sono sempre anche immagine pittorica e poetica: aspetto quest’ultimo che Cacciari lega in maniera strettissima a quello filosofico, attraverso le sedici icone illustrate, che compaiono in appendice al saggio.

Da questa nuova considerazione della filologia scaturisce anche la comprensione umanistica della lingua: un organismo vivente e comunitario, in grado di esprimere un’epoca e un mondo. Ragione questa che ci consente di comprendere ancor più chiaramente il pieno assurgere, tra Tre e Quattrocento, del volgare a linguaggio e sapientia poetica, superiore alla stessa scientia teologica, in grado di trasfondersi concretamente in immagine viva, metafora, allegoria ed evidenza simbolica. Ed è questa una delle stesse ragioni per le quali già in Dante, oltre che in Petrarca, secondo lo schema gariniano, si possono intravedere, come fa Cacciari, le fondamenta filosofiche dell’Umanesimo, specie per quella sua capacità di volgersi dal latino al volgare e viceversa.

Filologia, dunque, come studio di una parola sempre incarnata in un pensiero, in un legame inscindibile con la filosofia, l’una guida dell’altra: philia, amore del linguaggio, così come del pensiero, del discorrere e del riflettere, cura, chiarezza e precisione nella scelta dei termini, presupposto e fondamento necessario di un pensare logicamente e terminologicamente corretto, secondo la lezione di Lorenzo Valla. Una filologia che resterebbe cieca senza filosofia, così come l’altra rimarrebbe sterile esercizio scolastico senza la linfa di una anthropine sophia. Esercizio filologico, fedeltà al testo e al linguaggio che guidano la filosofia ad una forma di realismo antropologico, a riconoscere il mondo umano come indeterminatezza che oscilla tra virtù e vizio, creazione e distruzione, tra verità e dissimulazione.

Proprio questa forma di disincantato realismo caratterizza i tratti ironici, satirici e sarcastici del Momus dell’Alberti o dell’Asino d’oro di Machiavelli: in entrambi l’uomo è sì in balìa della perfidia della Fortuna, della cosmica vicissitudo, ma è anche forza e soggetto attivo di questa dinamica universale, capace se non di orientarla, almeno di prevederne gli urti e le correnti. Se l’essere umano è gettatezza, temporalità e finitezza, al tempo stesso, egli può far in modo che le forme del proprio agire, siano esse lingue, pensieri, leggi, religioni, istituzioni e repubbliche, gli sopravvivano. È l’irrequietezza costitutiva dell’uomo, la sua permanente mutevolezza, il suo essere e sentirsi costantemente incompiuto, mai sazio di cosa alcuna, ad agire come una tensione che spinge la sua azione oltre la condizione temporale e finita, mortale. È questo disincanto a spezzare le radici dell’antropocentrismo medievale, per cui la creazione tutta appariva opera destinata all’uomo. Se il tema della dignitas hominis, centrale in tutto l’Umanesimo e che tanto spazio occupa in autori come Giannozzo Manetti, Alberti, e più di tutti nell’Oratio di Giovanni Pico della Mirandola, ha spesso alimentato lo stereotipo dell’assoluta centralità dell’uomo nel cosmo, in realtà «non si tratta di immaginare utopisticamente la nascita di un ‘uomo nuovo’, ma di comprendere come da una stessa linfa possano maturare contrapposte possibilità» (p. 58); come, cioè, il desiderio possa guidare ogni uomo ad innalzarsi verso la virtù e a farsi eroico, divino, o a piombare nella barbarie del vizio, facendosi bestia e schiavo delle proprie passioni. La consapevolezza di questa contraddittorietà dell’essere umano e del mondo che abita, l’equilibrio a tenere insieme disincanto e tragicità, da un lato, utopia e tentativi di auto-superamento, dall’altro, rappresentano i tratti fondamentali del patrimonio umanistico- rinascimentale, e che sembrano riverberarsi in una tradizione tutta italiana, da Vico a Leopardi, da Gramsci a Pasolini, in un’idea di modernità ben differente da quella che siamo soliti pensare e definire come tale.

E, infine, come non cogliere la centralità che il problema ontologico dell’unità dell’essere, e del suo rapporto alla molteplicità e alle molteplici vie del filosofare, occupa da Marsilio Ficino in poi, attraverso Pico ed oltre sino al De la causa di Bruno, in un confronto incessante con il Parmenide di Platone. Sincretismo ecclettico, o piuttosto implicita comprensione che una realtà molteplice, plurale, contraria, può essere colta solo da punti di vista differenti e complementari, per vie altrettanto molteplici, in un tentativo incessante di concordanze filosofiche, linguistiche, culturali, religiose, umane, di portare ad unità il molteplice senza esaurirlo o appiattirlo alla tirannia di un’unica forma.

Un Umanesimo sì inquieto, tragico, disarmonico, questo di cui ci parla Cacciari, ma in cui emerge il tentativo di pensare un uomo che sia in grado di assorbire gli effetti della Fortuna e di rimettersi in cammino, oltre i limiti del proprio tempo. Un Umanesimo, questo, in linea di continuità con la tradizione degli studi umanistico-rinascimentali italiani di scuola gariniana, ma che, al tempo stesso, parla il linguaggio dell’esserci, ponendo al centro il problema dell’essere e del linguaggio, ripensando e oltrepassando quelle stesse critiche anti-umaniste di matrice heideggeriana.


Da Lo Sguardo - rivista di filosofia N. 27, 2018 (II) - Politica delle passioni?

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