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losguardo

Logiche Relazioni

Lucia Olivieri e Osvaldo Ottaviani dialogano con Massimo Mugnai

DiderotMassimo Mugnai è professore emerito presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ha insegnato Filosofia e Storia della logica dal 2002, dopo aver insegnato nelle Università di Bari e Firenze. Nella sua lunga attività di ricerca si è occupato di storia della logica, del rapporto tra logica e metafisica e della filosofia di Leibniz, del quale è considerato uno dei massimi esperti a livello internazionale. Tra i suoi lavori sull’argomento, ricordiamo i volumi: Leibniz e la logica simbolica (1973), Astrazione e realtà. Saggio su Leibniz (1976), Leibnizs Theory of Relations (1992), Introduzione alla filosofia di Leibniz (2001). Insieme a Enrico Pasini, ha curato e tradotto la più ampia silloge di scritti leibniziani attualmente disponibile in italiano (Scritti filosofici, 3 voll., 2003). È membro della “Leibniz Gesellschaft” di Hannover e fa parte del comitato scientifico di Studia Leibnitiana e The Leibniz Review. Tra le sue pubblicazioni più recenti, vanno menzionati i volumi Possibile/Necessario (2013), Il mondo capovolto. Il metodo scientifico nel “Capitale” di Marx (2021), e la curatela dei testi leibniziani: Dissertation on Combinatorial Art (2020, con Han van Ruler e Martin Wilson) e General Inquiries on the Analysis of Notions and Truths (2021). Per una discussione recente dei lavori leibniziani di Mugnai si rimanda anche all’articolo di Richard T. W. Arthur, Massimo Mugnai and the Study of Leibniz («The Leibniz Review», 23, 2013).

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In un contributo di qualche anno fa1 hai parlato di Leibniz come di un “logico del Novecento”. È soltanto un modo paradossale di dire che la riscoperta della logica lei- bniziana data dai lavori di Louis Couturat ai primi del Novecento o c’è qualcosa di più, nel senso che nei suoi scritti di logica Leibniz ha effettivamente anticipato temi e soluzioni della logica moderna (da Boole a Gödel)?

“Logico del Novecento” è una caratterizzazione che intende cogliere entrambi gli aspetti che avete menzionato. È un dato di fatto che soltanto col libro di Couturat (La logique de Leibniz, 1901) e con la pubblicazione degli Opuscules et fragments inédits (1903), sempre a cura di Couturat, è sorto l’interesse per la logica di Leibniz.

Couturat aveva quasi completato una prima stesura del suo libro sulla logica di Leibniz, quando fu sollecitato su suggerimento di Giovanni Vacca, un allievo di Peano, a consultare i manoscritti leibniziani conservati presso la Biblioteca di Hannover. Le ricerche logiche di Leibniz sono perciò una scoperta dei primi del Novecento. Al tempo stesso, studiando il lascito dei manoscritti (soprattutto a seguito della pubblicazione della quasi totalità di quelli dedicati ad argomenti di logica da parte dell Akademie der Wissenschaften di Berlino), è emerso che Leibniz possedeva tutti gli elementi di un calcolo logico analogo a quello proposto da George Boole nel 1847 con The Mathematical Analysis of Logic. Leibniz insomma aveva scoperto gli ingredienti fondamentali di quella che poi, nel Novecento si sarebbe chiamata un’algebra di Boole. Questo aspetto è stato messo in luce dagli studi di Wolfgang Lenzen e, più di recente, di Marko Malink e Anubav Vasudevan.

 

Come è nato il tuo interesse per Leibniz in generale e, nello specifico, per il Leibniz logico? Come mai hai deciso di dedicare molta attenzione alla teoria delle relazioni, un campo in cui sembra che Leibniz guardi alla tradizione (in particolare scolastica) più che anticipare il moderno trattamento della logica delle relazioni?

Nel lontano 1971 mi sono laureato presso la Facoltà di Lettere di Firenze con una dissertazione dalla struttura composita: una parte era dedicata a una rassegna dei principali studi su Leibniz del Novecento (Russell, Cassirer, Couturat, ecc.), un’altra a un esame della Dissertazione sull’arte combinatoria e una terza ai rapporti tra Leibniz e i cosiddetti enciclopedisti di Herborn (Johann Heinrich Bisterfeld, Johann Heinrich Alsted)2. La struttura composita era dovuta al fatto che la dissertazione mi era stata assegnata da Paolo Rossi, il professore col quale avevo deciso di laurearmi: Rossi insegnava storia della filosofia e mi aveva indirizzato su una ricerca di alcune fonti della combinatoria leibniziana. Mentre lavoravo su questo tema, frequentando le lezioni di Ettore Casari, mi sono appassionato alla logica e quindi la dissertazione di laurea ha virato verso argomenti di storia della logica.

Nello stesso anno della laurea mi recai a Hannover con una borsa DAAD per studiare i manoscritti leibniziani che avevano per argomento logica e ontologia. La questione delle relazioni mi interessò fin da subito perché leggendo il libro di Russell su Leibniz (B. Russell, A Critical Exposition of the Philosophy of Leibniz, 1900) mi aveva colpito l’osservazione secondo la quale Leibniz, sebbene da grande matematico qual era, avesse ben chiaro il ruolo delle relazioni nei ragionamenti matematici, non le considerava fondamentali in logica e sembrava, invece, avere in mente strategie ‘riduttive’ tendenti a trasformare enunciati relazionali in enunciati in forma soggetto-predicato. Il libro di Russell aveva suscitato un acceso dibattito riguardo a come Leibniz intendesse trattare le relazioni e gli enunciati relazionali (tipo ‘Paride ama Elena’, ‘Gianni è più alto di Piero, ecc.). Cercando di orientarmi in questo dibattito mi resi conto che nessuno degli interpreti si preoccupava di dare un’occhiata alla tradizione scolastica e tardo-scolastica, che pure Leibniz conosceva bene e apprezzava. Nel libro del 19923 mostravo perciò come dietro le posizioni leibniziane vi fossero concezioni e dibattiti radicati nella filosofia scolastica. Nel lungo saggio del 20124 riprendevo questo tema approfondendolo e mostrando come il problema della natura ontologica delle relazioni dovesse esser tenuto distinto dal loro trattamento logico. Nel senso che una cosa era l’accettazione di espressioni poliadiche a livello linguistico, un’altra il loro inserimento in un linguaggio logico in cui le proposizioni hanno una struttura fondamentalmente di forma ‘soggetto-predicato’ e un’altra ancora il problema di cosa corrisponda loro nella ‘realtà (se cioè esistano davvero proprietà poliadiche degli oggetti). Col saggio del 2012, in particolare ho cercato di far vedere come Leibniz condividesse una posizione nominalista riguardo alle relazioni, in perfetta coerenza con le posizioni che assumerà nella cosiddetta Monadologia.

La questione delle relazioni mi è sempre parsa un problema interessante. I logici medievali, per esempio, hanno sviluppato una logica originale e potente ed esplorato a fondo molte questioni di filosofia della logica, ma non hanno mai preso seriamente in considerazione una logica delle relazioni. Per avere un abbozzo di tale logica bisogna aspettare la seconda metà del secolo XIX, con l’opera di Augustus De Morgan. Eppure, un autore come Walter Burley, nel secolo XIV aveva sviluppato un’interessante logica dei condizionali e così avevano fatto Paolo Veneto e Giovanni Buridano: ma nessuno di questi autori ha pensato di fare qualcosa di simile per le relazioni. Per più di duemila anni, tentativi di rivendicare il ruolo delle relazioni e delle proposizioni relazionali nelle dimostrazioni logiche sono affiorati qua e là, ma sostanzialmente senza esiti interessanti. Con Paolo Mancosu affrontiamo il problema in un saggio che abbiamo appena scritto e che abbiamo mandato a giro per avere pareri da esperti.

 

In un saggio recente5 hai mostrato come, tra le altre cose, Leibniz abbia sviluppato un calcolo mereologico che sembra preludere ai moderni sistemi di mereologia classica. Che rilevanza ha questo punto per lo sviluppo degli studi leibniziani degli ultimi anni? In che modo la mereologia leibniziana è collegata alla sua metafisica?

Che Leibniz pensasse di sviluppare un calcolo di tipo mereologico risulta evidente da alcuni saggi molto belli che, da Couturat in poi, erano stati sempre considerati tentativi di costruire un calcolo logico equivalente a un calcolo delle classi. Ciò risulta evidente dal fatto che la quasi totalità delle traduzioni in diverse lingue traduce con espressioni equivalenti a ‘termine’ (al singolare o al plurale) il neutro in Latino corrispondente a ‘cosa’. Così, quando Leibniz parla di una ‘cosa che è contenuta in un’altra’ o che è posta fuori di essa, di solito ‘cosa’ viene tradotta con ‘termine’, mentre Leibniz chiaramente usa il neutro (singolare o plurale) per designare cose in senso proprio, perché pensa a una teoria generale del tutto e delle parti. Del resto, la teoria abbozzata nella Monadologia si accorda con un proposito del genere.

Sebbene le monadi non siano componenti effettivi dei corpi, una prospettiva mereologica si applica perfettamente a quelle che Leibniz chiama sostanze corporee, ai composti cioè di monade dominante e aggregati di monadi subordinate. Per avere un’idea della rilevanza che la prospettiva mereologica può avere per gli studi leibniziani consiglio il recente libro di Richard Arthur: Monads, Composition and Force (Oxford UP).

 

Nel 2020 è uscita una nuova edizione Oxford della Dissertatio de arte combinatoria, il primo importante scritto leibniziano6. Questa Edizione contiene un tuo lungo saggio introduttivo. Ci puoi dire quali sono gli elementi di maggior interesse di questo scritto, opera di un Leibniz appena diciannovenne?

Nella Dissertatio del 1666 sono racchiusi molti spunti importanti che saranno sviluppati in seguito dal Leibniz maturo. Ne faccio un breve elenco:

  1. L’idea appena menzionata di costruire una mereologia generale (teoria logica dei rapporti fra parte e tutto) da applicarsi a qualsiasi aspetto della realtà (materiale o spirituale) per il quale abbia senso parlare di aggregati e di parti di aggregati.

  2. L’idea di sviluppare un’analisi dei concetti complessi, così da arrivare ai concetti semplici dalla combinazione dei quali tutti gli altri derivano e associare segni particolari ai semplici, in maniera che alla ricombinazione dei semplici, e quindi alla creazione di ciascun complesso, corrisponda una configurazione simbolicacomplessa. Inquestomodo, lasemplicescomposizione- ricombinazione dei simboli (la loro manipolazione concreta) avrebbe permesso di scomporre e ricomporre i concetti complessi e di creare una sorta di linguaggio universale.

  1. L’idea di impiegare numeri per designare i concetti semplici (e quindi i complessi composti da quei numeri).

  1. Un’analisi estremamente raffinata della sillogistica e l’impiego della combinatoria per trovare i sillogismi validi (Leibniz sarà interessato alla sillogistica fino agli ultimi anni di vita, si veda in proposito il bel volume di Wolfgang Lenzen, Leibniz. Schriften zur Syllogistik, Hamburg, Meiner Verlag, 2019).

  1. Nella Dissertatio compare per la prima volta la distinzione tra proposizioni che corrispondono a verità eterne e proposizioni che sono fondate non sull’essenza delle cose delle quali parlano ma sull’esistenza. È questa, in embrione, la distinzione tra verità di ragione e verità di fatto.

  1. Nella Dissertatio de arte combinatoria compare per la prima volta l’espressione cogitatio caeca, con la quale Leibniz intende designare una forma di pensiero che si esprime attraverso simboli (cfr. Matteo Favaretti, Filum cogitandi. Leibniz e la conoscenza simbolica, ed. Milano, Mimesis, 2007).

  1. Nella Dissertatio, infine, Leibniz palesa una certa simpatia per l’atomismo, facendo emergere quella che sarà, in certo senso, una delle tensioni centrali della sua metafisica: l’adesione a una teoria che accetti gli atomi ma solo in quanto non-materiali.

 

È appena uscita sempre per Oxford University Press la tua edizione e traduzione delle Generales Inquisitiones (Ricerche generali)7, forse il più importante tra gli scritti logici leibniziani. Quali sono le novità di questa edizione rispetto a quelle precedenti? Negli ultimi anni c’è stata una notevole ripresa di attenzione per i temi trattati in questo scritto leibniziano, in particolare a partire dal paper di Malink e Vasudevan8, che hai già discusso nella “Leibniz Review”9 (Mugnai 2017). Quali sono i punti di novità/interesse/forza di questa nuova interpretazione? E se dovessi indicarne dei limiti/difetti?

Uno dei problemi fondamentali che si trova a gestire chi si occupi di storia della logica, soprattutto quando intenda pubblicare un testo antico o medievale, ma anche seicentesco, è quello della distinzione tra uso e menzione. I logici medievali, per esempio, hanno pochi mezzi a disposizione per indicare la differenza fra queste due funzioni e nella maggior parte dei casi non si preoccupano di segnalarla. Nel testo a stampa della Logica di Ockham e di altre opere di logica d’epoca medievale si fa ampio uso di virgolette per segnalare quando un’espressione è menzionata, ma nei manoscritti corrispondenti non ve n’è traccia. Le cose cambiano di poco con l’invenzione della stampa e quindi durante tutto il Seicento: Leibniz impiega l’articolo neutro greco ‘to’ oppure ricorre alla sottolineatura per indicare le espressioni menzionate, ma nella maggior parte dei casi tralascia o dimentica di farlo. Al momento di pubblicare il testo originale delle Generales inquisitiones mi sono chiesto se fosse filologicamente corretto intervenire con le nostre attuali convenzioni, rendendo il testo difforme dall’originale o se, invece, non fosse più opportuno ridurre al minimo gli interventi editoriali. Ho optato per questa seconda soluzione e, mentre ho lasciato il più possibile com’è il testo originale, sono intervenuto sulla traduzione a fronte. Rispetto all’edizione dell’Akademie, ho apportato, inoltre un’ulteriore modifica. Il testo delle Generales inquisitiones è piuttosto tormentato: è scritto con inchiostri di diverso colore, il che mostra che probabilmente è stato composto in periodi diversi, e le note marginali riflettono interventi di varia natura. Alcune sono vere e proprie integrazioni, altre invece sono riflessioni sul testo, del tipo: ‘questo andrebbe chiarito’, ‘di questo parlerò più avanti’, ecc. Mentre la scelta editoriale dell’Akademie è stata di mettere in nota a fondo pagina tutte le osservazioni marginali fatte da Leibniz, ho deciso di inserire nel testo quelle che mi sono parse integrazioni, destinando alle note a fondo pagina soltanto quelle che mi pareva avessero il carattere di osservazioni estranee al testo. Mi sono ispirato, insomma, ai criteri di edizione adottati a suo tempo da Franz Schupp nell’edizione critica (Hamburg, Meiner Verlag, 1982) precedente quella dell’Akadamie.

Nella Prefazione ho cercato, da un lato, di illustrare la struttura delle Generales inquisitiones e dall’altro di mettere in luce i principali risultati di logica che vi sono contenuti. Per fare ciò mi sono lasciato guidare soprattutto dal saggio di Malink e Vasudevan, che mi sembra sobrio e illuminante. Tra i numerosi meriti di questo lavoro vi è quello di aver preso sul serio l’uso che Leibniz fa degli astratti logici e di aver mostrato come proprio gli astratti logici permettano, come auspicato da Leibniz, la riduzione del calcolo proposizionale a un calcolo dei termini.

Uno dei pochissimi difetti che, a mio avviso, si possono trovare nel lavoro di Malink e Vasudevan è l’attribuzione a Leibniz di un’interpretazione esclusivamente estensionale del condizionale, così com’è presente nelle Generales inquisitiones. In realtà, tra i logici del Seicento, la distinzione tra condizionale materiale e altri tipi di condizionale (‘stretto’ o ‘rilevante’) era assai labile e raramente era colta con consapevolezza.

Nella Prefazione cerco anche di far vedere come le Generales inquisitiones siano utili per comprendere la natura della soluzione, prospettata da Leibniz, delle proposizioni contingenti. Fin dalla corrispondenza con Arnauld, Leibniz ha sempre difeso tesi secondo la quale tutte le proposizioni vere sono analitiche, separando analiticità da necessità. Se però anche le proposizioni contingenti vere sono analitiche, sorge il problema di spiegare come queste due caratteristiche (contingenza e analiticità) possano coesistere. La soluzione che Leibniz privilegia si fonda sul concetto di analisi infinita e ha il proprio luogo di nascita nelle Generales inquisitiones. Proprio in questo scritto è possibile cogliere come, tra esitazioni e ripensamenti, Leibniz perviene a questa soluzione.


Note
1 M. Mugnai, Leibniz e la logica, «Matematica, cultura e società», 3/1, 2016, pp. 241-257.
2 La parte su Leibniz e Bisterfeld è stata pubblicata in M. Mugnai, Der Begriff der Harmonie als metaphysische Grundlage der Logik und Kombinatorik bei Johann Heinrich Bisterfeld und Leibniz,
«Studia Leibnitiana», 5/1, 1973, pp. 43-73.
3 M. Mugnai, Leibnizs Theory of Relations (Studia Leibnitiana Supplementa 28), Stuttgart 1992.
4 M. Mugnai, Leibnizs Ontology of Relations: A Last Word?, «Oxford Studies in Early Modern Philosophy», 6, 2012, pp. 171-208.
5 M. Mugnai, Leibnizs Mereology in the Essays on Logical Calculus of 1686-1690, in V. De Risi (ed.) Leibniz and the Structure of Sciences, «Boston Studies in the Philosophy and History of Science», Dordrecht 2019, pp. 47-69.
6 G. W. Leibniz, Dissertation on Combinatorial Art, ed. by M. Mugnai, H. van Ruber, M. Wil- son, Oxford 2020.
7 G. W. Leibniz, General Inquiries on the Analysis of Notions and Truths, ed. and tr. by M. Mug- nai, Oxford 2021. (Si v. anche una precedente versione in italiano a cura dello stesso Mugnai:
G. W. Leibniz, Ricerche generali sull’analisi delle nozioni e delle verità e altri scritti di logica, Pisa 2008).
8 M. Malink – A. Vasudevan, The Logic of Leibnizs Generales inquisitiones de analysi notionum et veritatum, «Review of Symbolic Logic», 9/4, 2016, pp. 686-751.
9 M. Mugnai, Review of M. Malink-A. Vasudevan,The Logic of Leibnizs Generales inquisitiones, «The Leibniz Review», 27, 2017, pp. 117-137.

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