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Il messia collettivo: Antonio Negri e la teologia

di Gabriele Fadini

Schermata del 2024 02 17 11 59 12.pngAll’interno dell’ampio spettro dei temi trattati dalla riflessione di Antonio Negri, poco è lo spazio riservato alla questione legata al paradigma teologico-politico. Gabriele Fadini sostiene che ciò non comporti che i temi legati al rapporto tra teologia e politica non abbiano una portata significativa nel suo pensiero. Perciò, in questo articolo l’autore si interroga su come, nella teoria politica di Negri, certamente inscritta nella tradizione del materialismo, la liberazione possa passare anche attraverso la religione. Domanda non certo nuova, a cui tuttavia Negri dà delle risposte peculiari, radicate innanzitutto nel pensiero spinoziano dell’immanenza.

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All’interno dell’ampio spettro dei temi trattati dalla riflessione di Antonio Negri, poco è lo spazio riservato alla questione legata al paradigma teologico-politico. Ciò, tuttavia, non comporta a nostro avviso che i temi che andremo sottolineando non abbiano una portata significativa a proposito di questo argomento. In Goodbye Mr. Socialism è presente una tesi che crediamo riassumere per interno il rapporto che Negri intrattiene con il pensiero teologico-religioso:

La religione è un grande imbroglio in sé, ma può essere anche un grande strumento di liberazione per sé[1].

Ci troviamo di fronte a una ambiguità? A una contraddizione in termini? In che modo va intesa questa affermazione?La questione che ci si pone di fronte, in altri termini, consiste nel domandarci come la liberazione possa passare anche attraverso la religione per un autore che inscrive il proprio percorso di pensiero all’interno della grande tradizione del materialismo più o meno ortodosso. La domanda da cui partiamo non è tuttavia nuova per la riflessione filosofica e teologica.

Già, infatti, Walter Benjamin veniva sostenendo nelle sue Tesi sul concetto di storia la reciproca influenza tra materialismo dialettico e teologia, mentre più recentemente è stato il filosofo sloveno Slavoj Žižzek ad affermare che il vero e autentico materialista dialettico non può non passare attraverso una sorta di teologia della morte di Dio di matrice strettamente hegeliana ed elaborata tra gli altri dal teologo Thomas Altizer, in cui Dio si separa da Dio stesso morendo in Croce e annullandosi come «Grande Altro» per rinascere come lo Spirito che abita nella comunità dei credenti.

Nella postfazione al volume di R. Boer Critica del cielo, critica della terra, Negri traccia il proprio personale perimetro tra teologia e materialismo. Il materialismo, infatti, non si costituisce in termini di laicizzazione e/o secolarizzazione della tradizione teologica, ma si pone come «altro» rispetto a quest’ultima[2]:

[…] per darsi nella sua essenzialità, il materialismo non solo deve liberarsi dalla teologia – deve essere anche capace di interpretare il mondo e di agire dall’interno il dispositivo religioso. È come quando si cerca di liberarsi dal capitalismo provando a configurarlo nella praxis umana: questo procedimento costituisce una «illusione». Bisogna invece reinventare il concetto e la praxis della produzione[3].

In questo punto, Negri opera una totale equivalenza tra teologia e capitalismo fondandosi entrambi sulla «trascendenza» di contro a ogni forma politica dell’immanenza. Questo riferimento all’immanenza ci porta ancora più approfonditamente al punto cruciale della questione per come si pone nel pensiero di Negri: solo una rottura radicale con la trascendenza può configurare un rapporto tra teologia e materialismo essendo quest’ultimo caratterizzato dalla più totale immanenza:

Non ho mai avuto nulla contro la religione, sono semplicemente contro la trascendenza. Rifiuto nella maniera più totale qualsiasi forma di trascendenza[4].

Ma non solo, poiché l’immanenza è la cifra della molteplicità di contro a ogni forma di sottomissione alla trascendenza dell’Uno, è il pensiero della democrazia diretta della moltitudine di contro a ogni forma politica della rappresentanza.

In un breve testo poco noto al pubblico italiano, ovvero la postfazione al libro di B.E. Benson e P.G. Heltzel, Evangelicals and Empire. Christian Alternatives to te Political Status Quo, Negri e Michael Hardt riconoscono a quei movimenti evangelici opposti all’evangelismo operante come matrice ideologica della politica imperiale, un ruolo non giustificatore dello status quo ma rivolto al tentativo di rovesciare l’ordine imperiale stesso. Negri e Hardt parlano chiaramente della distinzione tra un pensiero politico che si articola dall’alto rispetto all’auto organizzarsi dal basso dell’azione politica della moltitudine[5].

Se, dunque, prima la contrapposizione era tra teologia e materialismo e trascendenza e immanenza, ora con questa ulteriore specificazione ci permette di parlare di una contrapposizione tra «dall’alto» e «dal basso» laddove con il primo termine sarebbe da intendersi qualsiasi forma di trascendenza/teologia e con il secondo qualsiasi forma di immanenza/materialismo.

Come ben sofferma Elia Zaru nella sua introduzione al pensiero di Antonio Negri, è il pensiero di Spinoza che definisce in maniera più approfondita l’idea di immanenza presente nel pensiero del filosofo padovano[6]. In Spinoza, infatti, Negri «legge» l’immanenza come la più propria «intimità» tra Dio e l’umano secondo l’idea presente nell’Etica per cui la potenza dell’uomo è la stessa potenza di Dio[7] allorché la divinità è messa all’opera[8] nella marcia della libertà all’interno del carattere completamente produttivo dell’essere. Il materialismo, così, assume un’ulteriore determinazione: esso è, infatti, oltre che immanente anche ontologicamente produttivo. L’immanenza dunque significa che di questo mondo non c’è un fuori, che in questo mondo c’è solo la possibilità di vivere qui dentro e che l’essere in cui viviamo è un divenire non chiuso, non prefigurato o preformato, ma prodotto[9]. Con la conseguenza che l’essere contro dell’immanenza rispetto a qualsiasi forma di trascendenza che cristallizza i rapporti sociali, magari proprio perché voluti come tali da Dio, fa sì che l’assoluto in Spinoza sia il tessuto delle singolarità libere[10].

Ma Negri non si ferma qui poiché caratterizzando l’ontologia nei termini della produzione ravvisa nell’immanentismo del materialismo spinoziano uno scarto rispetto al resto della tradizione materialista, uno scarto caratterizzato dall’eccedenza che ogni progetto costitutivo produce nel prendere corpo all’interno dell’ontologia, un atto continuamente in movimento nella prassi costitutiva dell’essere[11]. Il nome che il filosofo padovano dà a questa eccedenza è amore:

Mi capita talvolta di scrivere o parlare di «amore» nel contesto del discorso sociologico. In genere vengo sommerso di ironia e di sarcasmo. Quanto è difficile strappare l’amore alla vanità psicologica del romanticismo o alla feroce utopia del misticismo! In realtà è così che l’amore è stato interpretato – o eluso – dal moderno. Mentre invece la definizione dell’amor in Spinoza introduce un rapporto razionale e costruttivo tra la potenza ontologica e l’azione collettiva delle singolarità. […] Il panteismo spinozista […] è il riconoscimento della forza dell’uomo nella produzione del vero attraverso l’esercizio comune dell’amore. La democrazia è un atto d’amore[12].

In Kairòs, Alma Venus, Multitudo, Negri articola ulteriormente ciò che intende per amore enucleando la struttura dinamica del suo darsi. Amore si radica nell’eterno – Spinoza – ma il suo movimento è l’esperienza dell’innovazione stessa[13]. Esso infatti è una potenza ontologica che costruisce l’essere[14]. Ed è a livello di amor dunque che Dio e l’eterno sono aperti alla creazione e alla produzione delle singolarità che rifluendo su questo eterno lo dispongono a essere concreato da esse:

Dire che siamo in Dio è molto spinoziano. Siamo nella sostanza di Dio, ma la cosa più meravigliosa è che creiamo Dio ogni giorno. Tutto quello che facciamo è una creazione di Dio. Creare nuovo essere, qualcosa che, contrariamente a noi, non morirà mai. Qualsiasi cosa facciamo entra nell’eterno: la bellezza del pensiero di Spinoza è tutta qui: il divino non è fuori di noi. […] Essere spinoziani significa che ci è dato di vivere questa innovazione tramite cui si accede all’eternità[15].

Allorché poi Negri parla della positività dell’ascesi di contro al misticismo, intendendo l’ascesi come la costruzione del sé e assolutamente non come mortificazione e rinuncia[16], si porrebbe l’interessantissima questione di analizzare il percorso intellettuale e biografico che lo vide in gioventù membro del mondo cattolico, analisi che esonda dai termini del nostro discorso ma che andrebbe fatta per approfondire ancor di più la presenza di temi religiosi della formazione del giovane Negri e su come essi vennero vissuti. Quello che qui ci interessa sottolineare è la presenza all’interno del materialismo negriano di un riferimento teologico ben preciso. Sempre in Kairòs, Alma Venus, Multitudo, Negri paragona l’atto del kairòs che determina il nome comune, lanciandosi sull’orlo del tempo e passando dal pieno al vuoto sull’orlo dell’essere per produrne di nuovo, al Cristo che si svuota per creare nuovo essere[17]. Ma Cristo è presente in un altro punto all’interno del volume dedicato da Negri al materialismo. Parlando ancora di amor, egli se la prende con quella tradizione teologica rea di aver reso i poveri semplici oggetti di carità e afferma contemporaneamente che con l’introduzione dell’idea per cui nei poveri è visto il volto di Cristo, vi è un’apertura a un processo di soggettivazione che li rende protagonisti attivi della propria liberazione[18]. Se uniamo queste due osservazioni arriviamo al punto di intravedere non un impianto teologico nel pensiero del filosofo, ma un contributo che questi offre alla riflessione teologica. Se, infatti, secondo la teologia cristiana Dio si è fatto uomo in un movimento di discesa per permettere agli uomini di divenire Dio in un corrispettivo movimento di ascesa, lo ha fatto incarnandosi in un uomo completamente dedito alla liberazione del proprio popolo, così gli uomini possono divenire Dio riproducendo quella medesima scelta di lotta per i più deboli. Ciò ci porta ad affermare che il Messia assume non solo il volto di Gesù ma anche quello di coloro che egli ha liberato dallo Sheol dopo esservi disceso nello iato tra morte e resurrezione e averli tratti con sé proprio nella sua resurrezione. Ma non solo, poiché il Messia è un Messia collettivo perché in esso sono presenti le vite di tutti coloro che hanno vissuto e vivono dedicando la vita alla liberazione dei più poveri permettendo a costoro di soggettivarsi e diventare padroni del proprio destino. Questa posizione tipica della teologia della liberazione latinoamericana e che si basa, però, su un assunto tratto dalla Patristica, apre alla possibilità che il corpo glorioso di Cristo nel momento della resurrezione sia composto da lui e da tutti coloro che a lui si sono uniti nella prassi per la costruzione del Regno di Dio e che questo Messia collettivo sarà il solo Messia che ritornerà in occasione dell’ultima e definitiva parousia. Posta questa vicinanza tra Negri e la teologia soprattutto della liberazione si pone subito una distanza. In Negri, infatti, la liberazione è creazione[19] e se la creazione abbiamo visto essere innovazione dell’eterno, quello che i cristiani possono fare è collaborare con Dio per la liberazione storica dell’umanità, possono cioè attuare una cooperazione tra tempo ed eterno, ma non possono ricreare l’eterno, fare sì che il tempo lo porti sul bordo dell’essere per farlo aumentare e liberandolo produrre sempre nuove eccedenze. Non è questa una possibilità data solo all’immanenza?

Lo svuotamento di Cristo per creare nuovo essere è a tutti gli effetti un movimento kenotico che comporta una qualsivoglia forma di sottrazione. Nel principio di sottrazione, la potenza sovrabbondante di questo passaggio dal pieno al vuoto si fonda per Negri su quell’idea di potenza assolutamente positiva che lo porta a considerare l’essere come avere una struttura ontologica pienamente positiva[20]. Ora è chiaro che Negri non è così ingenuo da negare l’esistenza del negativo, ma ciò che fortemente nega è che questa negatività – in termini heideggeriani – giaccia al cuore dell’essere. Ma non solo, poiché Negri nega anche che il potere-di-non-(fare-qualcosa) intacchi la stessa positività dell’essere che in Spinoza come abbiamo molte volte detto è piena potenza positiva.

Il punto è cruciale.

Se, infatti, il passaggio dal pieno al vuoto avviene per svuotamento, l’idea di potenza che si può celare dietro questo passaggio piuttosto di una potenza espansiva è quella di una dynamis che viene disattivata per poter essere portata all’atto sempre di nuovo da ciò che in questo vuoto emerge. Un vuoto creativo che come luogo di una creazione ex nihilo che ac-cadendo come evento irriducibile produce singolarità che portano a compimento la potenza secondo lo schema aristotelico potenza-atto[21].

Ma non solo, poiché sempre questo passaggio dal pieno al vuoto può essere letto nei termini della dottrina cabbalistica luriana dello Tzimtzum secondo cui per creare il mondo Dio si ritrasse, si contrasse, aprendo così uno spazio vuoto affinché gli enti finiti potessero venire all’essere. Dopo lo Tzimtzum, la dottrina prosegue con l’atto di Dio che riversò la sua luce divina in alcuni vasi da lui creati, i quali rottisi poiché troppo fragili finirono peri lasciare le scintille di luce fuori da essi; e si conclude con il Tikkun ovvero con l’opera restauratrice dell’uomo chiamato a riportare a Dio la luce dispersa nel vuoto. Ci troviamo qui di fronte, con il Tikkun, a un movimento per il quale l’eterno, la Divinità persasi nell’esilio dello Tzimtzum viene «redenta» dall’uomo che vive sotto i precetti etici dell’ebraismo. Insomma, il paradosso dell’uomo che «salva» Dio dalla sua impotenza, concetto presente anche in autori come Simone Weil o Hans Jonas: l’esilio di Dio è la sua impotenza, il Tiqqun è opera di liberazione da questo esilio, di restituzione della potenza a Dio.

La risposta di Negri a queste nostre «obiezioni» a tal proposito, può essere trovata in alcune densissime pagine dedicate alla teologia negativa presenti nel volume Il Lavoro di Giobbe. Per il filosofo padovano, infatti, commentando la linea che tiene uniti Meister Eckhart e Martin Heidegger, nell’abbandono al vuoto e nella «disappropriazione» di sé, la teologia negativa produce una libertà negativa che sola scopre la libertà interiore come partecipazione alla natura divina. La gioia che ne deriva è una gioia errante impossibilitata a consistere ontologicamente sulla potenza. Nulla di tutto questo in Giobbe:

Qui anche il non razionale è positivo e la negazione della razionalità divina non annulla la validità ontologica dell’esistenza. Il male può essere negazione o privazione dell’essere ma la potenza che noi abbiamo di subirlo è comunque positiva[22].

Ciò non significa negare l’esperienza dell’assoluto impoverimento e della disappropriazione, ma affermare che nel conoscere l’abisso della sofferenza Giobbe conosce una determinazione dell’essere che certo non si può negare ma solo urlare. Nella teologia negativa, il soggetto è riconosciuto passivamente sotto concetti come quelli di «abbandono», «congedo», «assenza» che fanno sì che l’alienazione neghi l’alienato, l’immiserimento il misero, l’impoverimento il povero e che nella liberazione non vi sia più traccia del liberato. In Giobbe, invece, il continuo approfondimento della domanda ontologica sulla potenza non conduce mai al nulla ma di nuovo, sempre di nuovo, alla potenza poiché, ancora, ogni potenza del non essere è una potenza ontologica positiva[23].

Specificando questo punto, possiamo dire che per una «teologia forgiata nel materialismo», il Messia non è la figura di qualcuno che riempia il cielo e rispetto a cui il compito della sequela sia quello dello svuotamento per assurgere alla partecipazione alla sua natura, ma poiché proprio come non c’è il valore ma solo la possibilità di crearlo, così non c’è un Messia ma solo la possibilità di esserlo:

L’idea del Messia è quella di un tentativo di vivere il rapporto uomo-Dio fuori di ogni determinazione, fuori di ogni teleologia – il Messia è una libertà posta sull’orlo del nulla, sul margine della distruzione, un bisogno che si è fatto evento – è l’urgenza ontologica di un fondamento, di un valore che si fa presenza. Il discorso morale è attraverso l’idea del Messia ricondotto alla materia, riempito di esperienza. Il valore attraverso il Messia è ricondotto al lavoro[24].

Il lavoro del Messia qui non unifica ma separa padroni da servi, potenti da ribelli e la redenzione è degli ultimi, di coloro che, attraverso la sofferenza, hanno compreso l’ingegnosità del lavoro[25], la sua dismisura che come nel caso della creatività non sono un misurato (dal potere) ma un misurante (come potenza) e quando la potenza si oppone al potere diviene divina, assume il carattere divino della sovrabbondanza esattamente come sovrabbondante è la potenza che crea[26].

Concludendo. La riflessione negriana non può essere declinata secondo i termini tradizionali della teologia-politica e cercare di farlo significherebbe forzare i testi. Possiamo però dire che il materialismo del filosofo pone degli interrogativi a quella branca della teologia-politica, ovvero la teologia della liberazione, che ha finalità analoghe – non medesime – rispetto al pensiero di Negri. In particolar modo l’idea di un Messia collettivo cui abbiamo fatto riferimento crediamo possa fungere da trait d’union tra le due prospettive e che la «partita» si giochi sul tema dello svuotamento, ovvero sulla dialetticità o meno di questo movimento. Resta la risposta alla domanda da cui eravamo partiti: data una possibilità di dialogo tra teologia e materialismo, la religione può restare certamente un imbroglio ma la sua potenza veritativa si rivela nella capacità di essere una forza di liberazione e di antagonismo rispetto a tutte le forme di potere, dominio e oppressione dei pochi sopra i molti.


Note
[1] A. Negri, Goodbye Mr. Socialism, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 165-166.
[2] Cf. R. Boer, Critica del cielo e critica della terra: saggi su marxismo, religione e teologia, ombre corte, Verona 2011, p. 203.
[3] Ibid.
[4] A. Negri, Il Ritorno. Quasi un’autobiografia, Rizzoli, Milano 2003, pp. 190-191.
[5] M. Hardt – A. Negri, Postfazione a Evangelicals and Empire. Christian Alternatives to te Political Status Quo, a cura di B. E. Benson e P. G. Heltzel, Brazos Press, Gran Rapids 2008, pp. 307-314.
[6] Cfr.. E. Zaru, Antonio Negri, DeriveAprrodi, Roma 2024.
[7] Cfr.. A. Negri, Spinoza e noi, Mimesis, Milano, 2012, pp. 24-25
[8] Cfr. ovi, p. 15.
[9] Cfr. ivi, p. 35.
[10] Cfr. ivi, p. 31.
[11] Cfr. ivi, p. 63.
[12] Ivi, pp. 76-77.
[13] Cfr. A. Negri, Kairòs, Alma Venus, Multitudo. Nove lezioni impartite a me stesso, Manifestolibri, Roma 2000, p. 103.
[14] Cfr. ivi, p. 105
[15] Negri, Il Ritorno, cit., pp. 53-54.
[16] Ivi, p. 191: «L’ascesi […] è una costituzione interiorizzata dell’oggetto, mentre il misticismo, al contrario, allontana dall’oggetto, è teologia negativa, teoria dei margini. L’ascesi è uno stato costituente, una trasformazione dei sensi e dell’immaginazione, del corpo e della ragione. Per vivere bene e per costruire il comune è sempre necessaria una qualche forma di ascesi».
[17] Cfr. Negri, Kairòs Alma Venus, cit., p. 34.
[18] Cfr. ivi, p. 108.
[19] Cfr. A. Negri, Il lavoro di Giobbe, manifestolibri, Roma 2002, p. 19.
[20] Cfr. Negri, Spinoza e noi, cit., pp. 44-45.
[21] Il tema è, in parte affrontato da G. Agamben ne Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
[22] Negri, Il lavoro di Giobbe, cit. ,p. 133.
[23] Cfr. ivi, p. 134.
[24] Ivi, p. 106.
[25] Cfr. ivi, p. 108.
[26] Cfr. ivi, pp. 112-113.

Gabriele Fadini è dottore di ricerca in Filosofia e laureato in Scienze Religiose. Si interessa di temi che hanno a che fare con il punto in cui la filosofia si unisce ad altre discipline. Da questa prospettiva si occupa del rapporto tra psicoanalisi e filosofia, ma anche di teologia politica e teologia della liberazione. Collabora con riviste scientifiche tra le quali «Attualità Lacaniana».

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