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“Dall’Asia al Mondo. Un’altra visione del XX secolo” di Pierre Grosser

di Clara Galzerano

Recensione a: Pierre Grosser, Dall’Asia al Mondo. Un’altra visione del XX secolo, Giulio Einaudi editore, Torino 2018, pp. LII – 712, 36 euro (scheda libro)

Pierre GrosserL’histoire du monde se fait en Asie: il titolo originale del libro di Pierre Grosser[1] è emblematico e racchiude in sé il significato e l’obbiettivo ultimo che l’autore attribuisce alla sua trattazione. La storia si decide in Asia, nella misura in cui esiste una dimensione asiatica per ogni importante evento storico universalmente riconosciuto come “occidentale”. Grosser si approccia dunque all’analisi degli avvenimenti del XX secolo partendo dall’Asia per arrivare poi al mondo, come suggerisce invece la traduzione italiana del titolo del libro.

Nell’introduzione, Grosser inizia la propria narrazione dalla “fine”, accattivandosi il lettore e spiegandogli come “un’altra visione del XX secolo” sia funzionale a comprendere le dinamiche internazionali del terzo millennio, che vedono l’affermarsi della Cina e del Giappone. Il successo delle due potenze dal punto di vista economico, strategico e militare, infatti, è la conseguenza di un lungo processo iniziato il secolo scorso, durante il quale gli sviluppi della situazione in Estremo Oriente hanno influenzato la storia mondiale in modo più determinante di quanto non sia comunemente percepito.[2]

Dopo aver motivato il lettore, Grosser, che da questo punto in poi prosegue la trattazione senza sovvertire la narrazione cronologica degli avvenimenti, si dedica alle vicende storiche che hanno caratterizzato l’inizio del Novecento utilizzando un linguaggio semplice, giornalistico, che rende la lettura di contenuti complessi scorrevole. L’autore, appoggiandosi ad una bibliografia accurata e molto vasta, punta a sottolineare come nei calcoli geopolitici mondiali il fattore asiatico sia stato tanto rilevante quanto usualmente trascurato nello studio della storia contemporanea. L’esperimento intellettuale di Grosser spinge l’interlocutore a spostare lo sguardo verso Oriente: servendosi di un’ottica diversa da quella consueta, ma senza abbandonarsi alla retorica terzomondista, l’autore tenta di avanzare un’analisi coerente che tiene conto di fattori spesso sottovalutati nella trattazione storica, raggiungendo risultati interessanti.

 

Dalla prima alla seconda guerra mondiale: la sottovalutazione del fattore asiatico porta alla guerra fredda

La situazione che si sviluppa in Asia nei primi anni del Novecento contribuisce in maniera determinante a definire l’assetto internazionale che porterà alla prima guerra mondiale. È infatti la competizione nella regione, evidenzia Grosser, ad acuire la polarizzazione tra due campi: dopo la guerra russo-giapponese del 1905, avviene un riavvicinamento a quattro tra Gran Bretagna, Francia, Russia e Giappone, che isola la Germania. L’impero tedesco si trova escluso dal complesso di accordi bilaterali che vengono stipulati tra le potenze internazionali per stabilire le reciproche sfere di influenza coloniale in Asia-Pacifico. Il rinnovo del trattato anglo-giapponese (1905) apre la strada ai successivi trattati del 1907 con la Francia e con la Russia, con i quali il Giappone si inserisce nella rete delle alleanze europee. La Gran Bretagna, che era entrata in una entente cordiale con la Francia (accordo anglo-francese, 1904), si rivolge infine alla Russia (convenzione anglo-russa del 1907 per l’Asia). Questo sistema di accordi politico-militari costituisce la premessa per l’istituzione della Triplice Intesa. Il nuovo equilibrio creatosi in Estremo Oriente stabilizza la regione e la trasforma in un teatro secondario a fronte del pericolo tedesco in Europa. Anche Washington teme l’espansione tedesca, soprattutto nel Pacifico, ma decide di entrare in guerra contro Berlino in Europa (1917).[3]

La fine della prima guerra mondiale (1918) rinvigorisce tuttavia le tensioni esistenti in Asia. Il Trattato di Versailles (1919), a causa del non riconoscimento dell’uguaglianza tra le razze e la mancata restituzione dello Shandong alla Cina, scatena il risentimento dei paesi asiatici nei confronti degli imperi europei e nordamericano. Di conseguenza Mosca, che dopo il fallimento della Rivoluzione a Ovest guarda ormai verso Oriente, trova terreno fertile per la propria propaganda nei nuovi movimenti anticolonialisti e nascono partiti comunisti in tutto l’Estremo Oriente.[4]

In questo contesto, la rivalità tra potenze, soprattutto nella Cina settentrionale, porta ad una situazione di instabilità nella regione. È così che la seconda guerra sino-giapponese, che inizia nel 1937, fa dell’Asia il teatro iniziale del secondo conflitto mondiale. Fino al 1941, però, la Cina affronterà da sola il Giappone, che giunge così ad invadere anche il Sud-Est asiatico. Infatti, la seconda guerra mondiale viene globalizzata solo attraverso la discesa in campo degli Stati Uniti. Tuttavia, la mondializzazione del conflitto è determinata da un evento asiatico, ossia l’attacco giapponese alla base di Pearl Harbor (7 dicembre 1941), che porta al massiccio dispiegamento di forze nella regione sia da parte degli americani che degli alleati europei. Nonostante le potenze occidentali abbiano sempre attribuito la priorità al nemico tedesco, Grosser fa notare come il teatro Asia-Pacifico abbia influito pesantemente sullo svolgimento della guerra. Infatti, solo dal dicembre del 1943 gli americani mettono in campo più uomini contro la Germania che contro il Giappone e, inoltre, nel complesso, Washington registrerà più perdite nel Pacifico che in Europa. Nel frattempo, i britannici assistono ad una dolorosa umiliazione nella regione con la caduta di Hong Kong (dicembre 1941), di Singapore (febbraio 1942), della Birmania (maggio 1942), i bombardamenti su Darwin (febbraio 1942) e il successivo affidamento della difesa dell’Australia agli Usa. Anche la Francia è costretta a fronteggiare una situazione problematica in Asia: il collaborazionismo con gli invasori dura più a lungo nelle colonie asiatiche che in madrepatria e Parigi rimane esclusa dall’operazione di disarmo delle forze giapponesi e dalla Conferenza di Jalta (febbraio 1945). Al contempo, sia i cinesi che i russi rivendicano il loro ruolo di vincitori nella guerra per aver contribuito alla disfatta dei giapponesi nella regione. Questi esempi mostrano come l’affermazione strategico-militare dei vari stati in Asia sia essenziale per presentarsi come grande potenza mondiale alla fine del conflitto.[5]

Durante il primo mezzo secolo di storia del Novecento, sottolinea Grosser, la poca lungimiranza delle potenze occidentali nel riconoscere l’Estremo Oriente come una priorità dello scacchiere internazionale ha portato all’infiltrazione dell’Urss nella regione, fenomeno che anticipa le dinamiche che si verranno a creare durante la guerra fredda. Infatti, la rivalità tra Washington e Mosca, in competizione per colmare il vuoto lasciato dalla caduta dell’impero nipponico, si inasprisce a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale.[6]

 

La seconda metà del XX secolo: l’Asia fa tremare l’Occidente

L’autore riconduce quindi le origini della guerra fredda alle guerre civili e coloniali che sono scoppiate in Asia dopo la sconfitta del Giappone. La prima ondata di decolonizzazione avviene proprio nella regione: si pensi, ad esempio, all’indipendenza dell’Indonesia (1945), del Vietnam (1945) e dell’India (1947). Viene fondata la Repubblica Popolare Cinese (Rpc, 1949), mentre il Giappone dal 1947 diventa il punto di appoggio americano per il contenimento anticomunista in Asia. In questo contesto, Usa e Urss iniziano a ragionare in termini di sfere di influenza, mentre la guerra di Corea e la guerra di Indocina portano alla cristallizzazione nella regione dei due campi della guerra fredda, quello capitalista e quello comunista, ma determinano anche dei cambiamenti nella natura della guerra a livello mondiale. Infatti, fa notare Grosser, nel 1955 si conclude la fase di militarizzazione e di guerra aperta tra Urss e Usa e la competizione della guerra fredda da militare diventa strategica, basata sull’esibizione del modello sovietico e americano: l’Asia diventa il banco di prova del soft power delle due potenze. La guerra di Corea inasprisce anche la rivalità tra Cina e Usa e assume un significato globale. Il conflitto, che doveva essere “limitato” nella durata, mostra come nessuno dei due campi, comunista e capitalista, possa affidarsi alla speranza di una sconfitta definitiva del nemico: ciò che accade in Asia, rimarca l’autore, è speculare e complementare a ciò che avviene in Europa, dove si assiste alla divisione e al congelamento del continente in due blocchi e all’accettazione di questo modus vivendi. Tuttavia, l’Asia rimane un’area instabile, fucina di possibili tensioni e, per questo motivo, centrale nel grande gioco della Guerra fredda.[7]

Il processo di radicalizzazione comunista in Asia e l’inizio della guerra del Vietnam (1964-65) cambiano profondamente la relazioni internazionali. Il Vietnam mostra le atrocità dell’imperialismo americano e catalizza il dissenso dell’opinione pubblica internazionale. Tuttavia, con il proseguire del conflitto, Usa e Urss si avvicinano a causa dei loro problemi asiatici, il contenimento del comunismo per i primi e la sfida cinese per i secondi. Infatti, il movimento comunista internazionale viene messo a dura prova dal dissidio sino-sovietico, che scoppia all’inizio degli anni Sessanta per motivi ideologici e raggiunge il suo apice con gli scontri sul fiume Ussuri nel 1969, frutto di una contesa territoriale. La rottura tra le due potenze comuniste favorisce la distensione americano-sovietica da una parte e la frammentazione del Terzo Mondo dall’altra, mentre il Giappone fa il suo ritorno sulla scena regionale. Grosser sottolinea acutamente che la tensione e la rivalità esistente tra blocco occidentale e orientale sembra dissolversi prima nel teatro Asia-Pacifico che altrove. La prima metà degli anni Settanta è infatti scandita da due avvenimenti asiatici di vasta portata che portano ad una primo allentamento. La normalizzazione sino-americana (simbolicamente rappresentata dal viaggio di Nixon nella Rpc nel 1972) e la fine della guerra del Vietnam (1975) modificano gli equilibri della regione, che non dipendono più dal contenimento comunista a opera degli americani. Gli schieramenti della guerra fredda sembrano disintegrarsi e in Asia s’instaura progressivamente un nuovo equilibrio a quattro potenze (Usa, Urss, Rpc e Giappone). Gli Usa, per preservare la loro credibilità, sublimano il fallimento della guerra del Vietnam con la volontà di creare una nuova struttura globale di pace e così negli anni Settanta prende forma la grande distensione americano-sovietica. Tuttavia, in Asia gli americani contano sulla Cina popolare e il Giappone per il contenimento dell’Urss, mentre gli alleati asiatici muovono i primi passi verso la normalizzazione dei rapporti con il vicino sovietico. [8]

La svolta del biennio 1978-9 sul piano degli equilibri internazionali è ancora legata ad avvenimenti asiatici. La disgregazione del mondo comunista (conflitti tra Vietnam e Cambogia e tra Vietnam e Cina, l’invasione sovietica in Afghanistan) porta l’Asia a volgersi verso le pratiche del mondo capitalista. Deng Xiaoping inaugura l’era delle riforme cinesi (1978), mentre i successi economici dei paesi dell’Asean e del Giappone colpiscono e preoccupano l’Occidente. L’Asia conosce un miracolo economico e una stagione di pace: la stabilità della regione spiega come dagli anni Ottanta saranno prima l’Europa e poi il Medio Oriente a diventare luoghi di tensioni e conflitti.[9]

Le osservazioni dell’autore pongono l’attenzione su un aspetto molto interessante ma non ancora studiato a fondo: anche la fine della guerra fredda (1989-1991) sembra essere collegata all’Asia. Da una parte, scaturisce dalla necessità di far fronte all’affermarsi del continente asiatico come potenza economica. Dall’altra, il processo di democratizzazione in Estremo Oriente, pur con i suoi limiti, subisce un’accelerazione negli anni Ottanta e influisce direttamente sui cambiamenti in Europa. Ad esempio, nelle Filippine (1986), in Corea del Sud (1986-7) e in Birmania (1988) si assiste ad una “ondata democratica” che, partendo da Est, giunge a Ovest alla fine degli anni Ottanta. I paesi asiatici che hanno raccolto successi in ambito sociale ed economico sembrano mostrare ai paesi dell’Europa dell’Est come una svolta democratica sia necessaria per la rinascita delle economie nazionali. Da questo punto di vista, anche le battute di arresto registrate in Asia, come ad esempio la repressione avvenuta a Piazza Tiananmen nel giugno 1989, rivelano alle élite dell’Est Europa e dell’Urss come una risposta autoritaria alle dimostrazioni di massa non sia più efficace nel quadro di un contesto internazionale totalmente mutato.[10]

 

Considerazioni finali

È da qui, dalla pax asiatica e dal boom economico degli anni Ottanta-Novanta, che hanno origine i successi cinesi, giapponesi, ma anche coreani e delle cosiddette “tigri asiatiche” nel XXI secolo. L’approfondimento di Grosser riguardo al ruolo dell’Estremo Oriente nella storia del Novecento dimostra come non si sia arrivati da un momento all’altro ad un mondo in cui le dinamiche legate all’Asia orientale sono imprescindibili nei calcoli geopolitici ed economici delle potenze occidentali. Questa situazione è il frutto di un secolo di avvenimenti che hanno visto l’Asia protagonista, convitato di pietra al banchetto delle grandi potenze. L’approfondimento di Grosser non può non destare l’interesse di lettori di ogni genere, in un momento in cui la guerra tecnologica e commerciale tra Cina e Stati Uniti fa addirittura temere una terza guerra mondiale e i progetti cinesi riguardanti la Nuova Via della Seta coinvolgono sempre più anche l’Europa. L’attualità dimostra che Grosser ha ragione: il XXI secolo si deciderà ancora in Asia.[11]


Note
[1]Pierre Grosser, esperto di relazioni internazionali e di storia contemporanea, è professore presso l’École libre des sciences politiques di Parigi dal 1996. Per una panoramica completa dei contributi e delle opere pubblicate, si consulti questo link.
[2]Pierre Grosser, “Introduzione”, Dall’Asia al Mondo. Un’altra visione del XX secolo, Torino: Giulio Einaudi editore, 2017, pp. XI-L.
[3]Grosser, Le origini asiatiche della prima guerra mondiale”, op.cit., pp.3-40.
[4]Grosser, “Le dimensioni asiatiche del dopoguerra”, op.cit., pp.41-90.
[5]Grosser, “La polveriera manciuriana porta alla seconda guerra mondiale (1927-1939)” e “La mondializzazione della guerra attraverso l’Asia (1939-1941)”, op.cit., pp.91-185.
[6]Grosser, “L’Asia Pacifico, il teatro essenziale della guerra”, op.cit., pp.187-229.
[7]Grosser, “La guerra fredda e la decolonizzazione cominciano in Asia”, op.cit., pp.231-275.
[8]Grosser, “L’Asia fissa la geografia della guerra fredda”, “L’ondata rivoluzionaria che viene dall’Asia” e “Gli Stati Uniti e l’Asia, tra Vietnam e Cina (anni Settanta)”, op.cit., pp.278-476.
[9]Grosser, “La grande svolta del 1978-1979”, op.cit., pp.477-515.
[10]Grosser, “La fine della guerra fredda è anche asiatica”, op.cit., pp.517-562.
[11]Grosser, op.cit., p.562.

Comments

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Paolo Selmi
Thursday, 02 May 2019 01:14
Cercherò, prima o poi, di leggere tutte e 736 le pagine di questo libro. Da questa recensione, tuttavia, il rischio di passare da una concezione eurocentrica del mondo a una sinocentrica, c'è tutto. Sembra quasi che enfatizzare un punto di vista diverso da quello tradizionale aiuti a esorcizzare e risolvere qualche malcelato senso di colpa.
Qualche forzatura, riscontrata in più punti nella lettura di questa recensione, porta infine a ritenere che questa rilettura (e riscrittura storiografica) del passato recente, siano decisamente da supporto a un altrettanto malcelato tentativo di legittimazione di questo presente come "presa d'atto obbiettiva". Solo un po' di confusione o disegno consapevole? Occorrerebbe entrare nella testa del prof. Grosser... mi limito a considerare che:
1. nonostante siano nominate diverse componenti del puzzle asiatico, la sineddoche Cina=Asia (o elemento sinogiapponese=Asia, non cambia molto), è una componente retorica della sua analisi che non deve apparire inosservata. Di quale pax asiatica stiamo parlando? L'Iran, l'Iraq, per esempio, sono Asia o è Asia solo l'Estremo Oriente? Certo che, senza includere questi e altri Stati, il discorso diventa molto più "lineare", ma cade la tesi di fondo.
2. La lettura che vede il Komintern guardare a Est visto il fallimento dell'Ovest è errata. Il Komintern nasce nel 1919, il PCC nel 1921. Prima di esso c'era tanto fermento ma nulla di concreto. Per un lavoro di ricerca, commissionato dall'Archivio Biografico del Movimento Operaio di Genova, sono stato incaricato di stilare tutte le biografie dei membri cinesi del Komintern nei suoi primi dieci anni di vita. Questo mi ha portato a sfogliare tutti i resoconti stenografici (in russo, disponibili ormai in rete) dei congressi del Komintern. Ebbene, durante i primi congressi a rappresentare la Cina ci furono cinesi residenti a Mosca (immigrati, quindi, in grado di esprimersi in russo), senza alcun legame con la Madrepatria. Dopo la nascita del Partito Comunista di Cina, sezione cinese dell'Internazionale Comunista, le cose cambiarono, ma il peso specifico e l'importanza della questione cinese (e asiatica in generale) non furono MAI comparabili alle questioni europee: inutile girarci intorno, gli interventi dei rappresentanti cinesi (e asiatici) erano confinati agli ultimi giorni dei congressi, se non l'ultimo giorno. Vi fu persino un delegato indiano che lamentò, per iscritto in un suo intervento, la non sufficiente attenzione ai processi rivoluzionari in corso nel continente asiatico. (A proposito, l'India in tutta la recensione compare una volta sola... anche nel libro è così? sarebbe un grave errore anche se, indubbiamente per la sineddoche di cui sopra, ignorarla aiuta molto a dare compattezza all'analisi di Grosser).
3. La Cina torna a essere unita nel 1928, con la fine della Spedizione al nord di Jiang Jieshi (o Chiang Kai-shek che di r si voglia). L'URSS fino all'anno prima aveva foraggiato l'esercito cinese e lo aveva addestrato nell'Accademia di Huangpu, o a Mosca direttamente come nel caso del generale Zhu De (il vero fondatore della tecnica di guerriglia usata negli anni successivi dall'Armata Rossa cinese), i quadri della sezione cinese del Komintern erano confluiti nella dirigenza del GMD (guo min dang), quindi anche l'immagine di una Cina sola contro l'imperialistico Giappone non risponde al vero. La realtà è sempre molto più complessa di schemi "geopolitici", qualunque sia la loro matrice.
4. Il pistolotto sul presunto contributo dei paesi asiatici che " sembrano mostrare ai paesi dell’Europa dell’Est come una svolta democratica sia necessaria per la rinascita delle economie nazionali", più che una forzatura, sembra proprio un insulto a Paesi che da allora non solo non solo rinati, ma sono divenuti terreno di conquista per l'imperialismo occidentale prima e orientale poi. Se poi pensiamo alla "democratica" Corea del Sud e alle sue "democratiche" repressioni operaie e studentesche, e agli altri Paesi menzionati, ci accorgiamo che l'enorme impulso all'accumulazione capitalistica in tali Paesi ebbe sicuramente diversi fattori, ma altrettanto sicuramente il "tasso di democrazia" non compare tra questi.
5. Non so se autore o recensore ritengano "terzomondista" un insulto. Fatto sta che la Conferenza di Bandung non fu un caso isolato. Era parte integrante del discorso politico di allora. Eliminarlo perché non ci fa comodo, perché è "di troppo" nella nostra analisi "geopolitica", è un errore storiografico grossolano, così come è altrettanto grossolano sottovalutarne la portata nelle relazioni internazionali fra i cosiddetti PVS in un'ottica antimperialistica.
6. Allo stesso modo, infilare un avvicinamento USA-URSS in chiave anticinese è talmente fuori dal contesto storico di allora (l'autore non menziona la Crisi dei missili, per esempio) che anche la visita di Nixon, che pure non può non citare, è costretto a collocarla in un'altra casella della sua analisi altrettanto forzata. Più rispondente al vero, alla luce delle fonti che man mano vengono desecretate, è invece l'alleanza RPC-USA in chiave antisovietica, con basi militari al confine con l'URSS concesse alla CIA per attività di intercettazione, con la concessione di servizi logistici per la fornitura di armi ai mujaheddin afghani, eccetera. Anche la corsa agli armamenti, che di lì a poco avrebbe subito una drammatica impennata, è scomparsa del tutto in questa analisi.

Cordialmente,
Paolo Selmi
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