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Il ritorno della Russia nello scacchiere mediorientale

di Carlo Paternollo

Russia SiriaL’intervento russo nel conflitto siriano a supporto del presidente Assad ha inciso sulle sorti della guerra ed ha rivoluzionato lo scacchiere geopolitico del Medio Oriente rovesciandone gli equilibri, facendo leva sul disimpegno degli Stati Uniti dalla regione. In questo articolo esamineremo le principali condizioni che hanno permesso il ritorno della Russia come attore protagonista nel Medio Oriente e le motivazioni che hanno spinto Putin ad intraprendere una campagna militare in Siria, supportando uno schieramento ostile a quello appoggiato da Stati Uniti ed Europa. L’articolo cercherà di delineare la Grand Strategy russa nel Medio Oriente, identificandone i punti principali e la loro declinazione a livello tattico e militare nel conflitto siriano. In un successivo articolo osserveremo come la diplomazia e gli investimenti economici russi nella regione siano ulteriori strumenti per comprendere la Grand Strategy di Mosca in Medio Oriente.

Per meglio cogliere le radici dell’intervento della Russia nel teatro siriano è utile fare un passo indietro, risalendo alle origini del conflitto nel 2011, con la violenta repressione esercitata dal regime di Assad sui movimenti di protesta. Nel corso dei mesi la violenza aumentò significativamente fino a sfociare in una guerra civile che in breve tempo assunse una dimensione internazionale. Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Turchia – anche se quest’ultima ha tenuto un atteggiamento ambivalente nel corso del conflitto – supportavano la fazione dei ribelli mentre Russia, Iran e la milizia Hezbollah si schierarono con il regime di Assad.

Le milizie curde siriane non combattono per rovesciare il regime di Assad, ma portano avanti una propria agenda e, prima degli interventi militari della Turchia, speravano di barattare i successi militari contro l’ISIS con una maggiore autonomia regionale nel corso delle negoziazioni post-conflict, aggiungendo un’ulteriore dimensione al conflitto. Inoltre Israele ha bombardato Hezbollah nei pressi del suo confine. La Turchia inizialmente sostenne a gran voce i ribelli e puntò al regime change per i propri interessi strategici. Dal 2015, tuttavia, la posizione di Erdoğan sarà sempre più vicina allo schieramento di Mosca, anche al fine di contenere le milizie curde ritenute alleate al PKK, considerata organizzazione terroristica in Turchia.

Il mutamento del ruolo delle potenze estere nel Medio Oriente a seguito delle cosiddette Primavere arabe, che hanno influenzato numerose nazioni della regione, ha reso possibile il ritorno da protagonista della Russia. I moti di piazza del 2011 hanno influenzato l’equilibrio di potenza mediorientale, favorendo la crescita di attori locali nella geopolitica della regione e creando terreno fertile per l’espansione del ruolo russo. Il Medio Oriente ricopriva una posizione centrale per la politica estera e per la sicurezza americana, ancora più cruciale dopo gli attacchi dell’11 Settembre, con l’inizio della “guerra al terrore” e le campagne in Iraq e Afghanistan. La situazione iniziò a cambiare drasticamente dal 2010, prima sotto l’amministrazione Obama e in maniera più netta e decisa sotto la presidenza Trump quando gli Stati Uniti avviano un processo di “ritirata” dalla regione sia in termini diplomatici che di presenza militare, limitando decisamente il loro ruolo nella regione (Stepanova, 2016) (Phillips, 2019).

Dal punto di vista militare, l’America ridimensiona, soprattutto con la presidenza Obama, la presenza delle forze armate sul campo a favore dell’impiego di forze speciali e il supporto maggiore dell’intelligence e dei droni. Questa decisione riflette sia l’evoluzione dei conflitti nella regione che il graduale risentimento dell’opinione pubblica verso il sacrificio dei militari americani, i cosiddetti boots on the ground, nei conflitti in Iraq e Afghanistan. Gli ingenti costi economici e umanitari causati dai conflitti spinsero infatti Obama a ridimensionare drasticamente la presenza militare americana nella regione, anche a causa dei forti vincoli economici causati dalla recessione del 2008. Inoltre, il progresso nel campo energetico in America, con lo sviluppo della tecnica di estrazione nota come fracking, ha reso il Medio Oriente e i suoi giacimenti di petrolio meno essenziali per la stabilità energetica americana (Reuters, 2019).

Un fattore chiave che guida il ritorno della Russia da protagonista in Medio Oriente è la volontà di mostrare all’esterno dei propri confini la potenza russa e il desiderio del Cremlino di essere riconosciuto come un pari delle altre potenze globali, in particolare degli Stati Uniti. La volontà di dimostrare la propria forza oltre i confini nazionali è un tratto comune della politica estera di Mosca sin dalla fine del diciottesimo secolo, dopo la sconfitta napoleonica, una concezione espressa in russo come derzhavnost (letteralmente “status di super potenza”). Questo principio si traduce in una politica proattiva in cui Mosca dispiega grandi prove di forza militare e diplomatica per aumentare il prestigio e l’influenza russa agli occhi di spettatori domestici e internazionali. Nel caso dell’intervento nel conflitto siriano, tale dimostrazione di forza è stata rivolta sia nei confronti degli stati del Medio Oriente che nei confronti delle potenze occidentali. Una simile strategia è stata adottata da Mosca nei conflitti nell’ex Unione Sovietica, in particolare in Georgia e Ucraina. In questo caso la dimostrazione di forza della Russia si è rivelata essenziale sia come risposta all’espansione della NATO in prossimità dei confini russi, che a livello di politica interna (Talbot, et al., 2019) (Trenin, 2018). La retorica identitaria, centrale nei discorsi di Putin, sul ruolo che dovrebbe essere ricoperto dalla Russia nel mondo e del legame che unisce Mosca con le popolazioni di etnia russa nei territori delle ex repubbliche sovietiche, potrebbe giustificare agli occhi russi una simile risposta in Georgia e in Ucraina. In effetti, poco dopo l’annessione della Crimea, il tasso d’approvazione per Putin in Russia è aumentato drasticamente (Levada) (Talbot, et al., 2019) (Trenin, 2018). Ovviamente il Medio Oriente non presenta la medesima importanza a livello identitario di Ucraina e Georgia. Mentre i conflitti in Georgia e Ucraina possono essere visti come una risposta “reattiva” all’espansione della NATO nella regione (Casula, 2017), la strategia russa in Medio Oriente deve essere letta come proattiva, sofisticata e declinabile a livello militare, diplomatico ed economico.

Le mutate condizioni strutturali di power balance nella regione hanno offerto quindi a Mosca la possibilità di un intervento diretto nel conflitto siriano, attuando una strategia che oggi sembra portare ad un significativo successo per il Cremlino. La Russia prende parte al conflitto in seguito alla richiesta formale di assistenza militare da parte di Assad, il 30 settembre 2015. Le due nazioni sono legate da un accordo bilaterale siglato nel 1980 che prevede, in caso di richiesta, la possibilità di assistenza militare reciproca (Trenin, 2018). L’entrata nel conflitto da parte della Russia è quindi in linea con i principi della Carta delle Nazioni Unite e rispetta le norme di diritto internazionale. Putin ha enfatizzato la legalità dell’intervento russo in Siria in maniera decisa in numerose occasioni. La posizione del presidente russo è stata espressa senza mezzi termini nel corso di un’intervista condotta dal giornalista televisivo americano Charlie Rose per PBS nel 2015. Putin ha spiegato come il motivo principale dell’intervento in Siria fosse la lotta al terrorismo ed il supporto alle legittime forze siriane: «C’è solo un esercito regolare in Siria, l’esercito del presidente Assad». Putin si è poi spinto oltre, criticando il supporto americano per le fazioni «illegali» nel conflitto e ritenendo che tale approccio fosse «contrario ai principi della Carta delle Nazioni Unite» (President of Russia, 2019). Secondo Putin l’America stava ripetendo in Siria lo stesso errore già commesso in Libia, causando lo sgretolamento delle istituzioni statali e portando il Paese ad una situazione catastrofica, ed in precedenza in Iraq, dove l’America aveva favorito la nascita dell’Isis a seguito della rimozione di Saddam. Un altro elemento che secondo Putin ha reso necessario l’intervento diretto del Cremlino è la presenza di oltre 2000 foreign fighters russi che si sarebbero uniti all’ISIS per combattere in Siria (President of Russia, 2019). La Grand Strategy russa in Medio Oriente non è finalizzata all’esclusione degli Stati Uniti dalla regione né ad assumere un ruolo di controllo permanente sul territorio. Infatti, Mosca non avrebbe né i mezzi né il desiderio di rimanere risucchiata in prima persona in conflitti in una regione cronicamente instabile che non porterebbero a benefici tangibili a breve/medio termine e potrebbero gravare pesantemente sulle risorse del Paese, come accadde per gli Stati Uniti. Il Cremlino adotta una strategia diversa rispetto a Washington, più disinvolta dal punto di vista ideologico, pragmatica e flessibile. La Russia si pone invece l’obiettivo di essere riconosciuta da Washington quale protagonista paritario sia a livello militare nella lotta al ISIS, sia a livello diplomatico nel processo di pace in Siria. In tale secondo ambito di fatto la Russia occupa un ruolo chiave, mentre quello americano è tutto sommato di secondo piano.

L’intervento russo in Siria si spiega anche alla luce dei benefici che la sopravvivenza del regime di Assad potrebbe garantire a Mosca. La relazione fra il Cremlino e il regime siriano era già forte durante la Guerra fredda, ai tempi di Hafez al-Assad (padre di Bashar) (Gaub e Popescu, 2013). Hafez al-Assad permise all’Unione Sovietica la costruzione della base navale di Tartus nel 1971, sulla costa mediterranea della Siria. Oggi, con le sue undici strutture e i due moli da 100 metri, Tartus è l’unica base militare russa all’esterno dei confini dell’ex Unione Sovietica e rappresenta un simbolo dell’alleanza diplomatica e militare fra le due nazioni. La Russia nel 2005 estinse il debito di 9.8 miliardi di dollari che la Siria aveva accumulato dall’inizio della Guerra fredda (Lund, 2019). Assad dieci anni dopo, in seguito all’entrata di Mosca nel conflitto siriano, ha esteso l’affitto della base di Tartus per altri quarantanove anni. Il supporto per il regime di Assad da parte di Putin manda anche un forte messaggio alle altre potenze militari: Mosca supporta i suoi alleati con o senza l’approvazione degli Stati Uniti (Lund, 2019).

Il ritorno della Russia in un conflitto nella regione mediorientale presenta molti elementi di novità, anche rispetto all’ultimo intervento nella regione avvenuto ventisei anni prima con l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Quattro importanti punti differenziano l’ingresso nel conflitto siriano rispetto ai precedenti interventi militari esterni della Russia (ed in precedenza dell’Unione Sovietica). Primo punto: la Russia combatte in una nazione con la quale non condivide alcun confine. Secondo punto: il conflitto è combattuto principalmente da aeronautica e marina, anche per promuoverne il miglioramento tecnologico ed operativo, con un limitato ruolo della fanteria. Terzo punto: la Russia interviene nell’ambito di una coalizione a supporto del presidente Assad insieme a Iran, Turchia ed Hezbollah. Quarto punto: l’impegno russo nel conflitto ha una portata limitata e strettamente legata a chiari obiettivi diplomatici, per non rimanere risucchiati nella regione in un conflitto interminabile, con alti costi e perdite militari, come avvenuto in precedenza per gli Stati Uniti e la stessa Unione Sovietica (Trenin, 2018).

Come sopra indicato, l’intervento russo nel conflitto è improntato alla strategia di resonable sufficiency, che consiste nel definire le operazioni militari mirando a ottenere i massimi risultati con il minor numero di perdite, isolando le truppe nemiche per frammentarle e neutralizzarle. Questa strategia inizia già con la campagna aerea intrapresa da Mosca nella prima fase del conflitto (Adamsky, 2018). I bombardamenti si concentrano sugli obiettivi sensibili del nemico, linee di rifornimento, caserme, punti logistici per causarne l’isolamento. All’interno della coalizione Mosca decide la pianificazione e la gestione delle operazioni sul campo. La Russia inoltre svolge un ruolo chiave in relazione alle operazioni di ricognizione tramite tecnologie avanzate quali il sistema di satelliti GLONASS e tecnologia UAV (Adamsky, 2018). Mosca utilizza anche missili a media e lunga gettata sia via aria che mare. Le operazioni di terra, più esposte al rischio di perdite umane, sono invece lasciate agli altri membri della coalizione, svolte in gran parte dall’esercito siriano, dall’Iran e da Hezbollah (Adamsky, 2018). Nelle operazioni di terra sono anche stati impiegati diversi contractor russi. In tal modo le perdite umane nel conflitto hanno un impatto minore sull’opinione pubblica in patria, data l’incertezza sull’identità, la provenienza ed il numero dei contractors impiegati nel conflitto (Adamsky, 2018).

La tattica impiegata nel conflitto è anche strumentale alla proiezione della Russia come potenza militare. Si può leggere sotto questa luce l’utilizzo della Ammiraglio Kuznetsov, una portaerei da oltre 55.000 tonnellate. La presenza della portaerei non è decisiva a livello tattico per i limiti connessi alle difficoltà di atterraggio sulla nave e il suo utilizzo dal punto di vista operativo era limitato, in quanto le operazioni aeree venivano condotte dalla base di Khmeimim. Tuttavia, il dispiegamento della portaerei è in grado di generare un grande impatto mediatico e psicologico sui partecipanti al conflitto e sugli spettatori internazionali. Un chiaro esempio di derzhavnost (Adamsky, 2018).

Un altro importante elemento che tratteremo con maggiore attenzione nel prossimo articolo è il desiderio di Mosca di vendere armi ai “clienti” in Medio Oriente. Nel complesso durante il conflitto siriano Mosca ha utilizzato 200 sistemi d’arma diversi fra missili, elicotteri e jet, molti dei quali vengono poi venduti agli stati nella regione (Thornton, 2018).

Nel complesso la strategia militare russa ha senz’altro prodotto risultati. Le perdite totali per Mosca nel periodo compreso tra il 2015 ed il 2018 si sono limitate a 52 militari morti in combattimento. Nei 35.000 raid aerei soltanto un aereo è stato abbattuto (dalla Turchia, nell’episodio che ha portato all’incidente diplomatico del 2015). L’imperativo di resonable sufficiency è rispettato (Lavrov, 2018).

Gli ultimi sviluppi del conflitto siriano confermano l’attivismo di Mosca nella regione mentre gli Stati Uniti hanno accelerato il disimpegno dal Paese, mettendo in discussione la propria affidabilità agli occhi degli attori locali ed in particolare degli alleati delle fazioni curde. Putin, d’altro canto, ha promosso la sopravvivenza del regime di Assad, autorizzando una nuova offensiva nel Nord del Paese, l’ultima zona fuori dal controllo di Damasco, e la Russia è ora uno dei principali fornitori di armamenti della Turchia (membro storico della NATO) e si è assicurata sul piano diplomatico il ruolo di “moderatore” fra la Turchia e le fazioni curde nel Nord del Paese, facendo leva sulla rinnovata influenza su Erdoğan per mitigare l’intransigenza di Ankara e tutelare le fazioni curde “dimenticate” da Trump (Tramballi 2019). Putin ha assicurato la sopravvivenza del regime siriano in contrapposizione agli Usa e ed altri attori regionali e, da ultimo, il 14 novembre 2019 sono circolate immagini di soldati russi che occupano le basi abbandonate dall’aeronautica americana nei pressi di Kobane (van Wilgenburg 2019), nel nord della Siria, a testimoniare l’efficacia della Grand Strategy di Mosca e il raggiungimento di uno status nella regione tale da renderla un attore rilevante nel contesto mediorientale.


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