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La realtà della guerra, il fantasma dell’opposizione

di Mimmo Porcaro e Ugo Boghetta

banksyBristol1- La guerra in corso rivela ed esaspera le dinamiche profonde che hanno determinato la nostra storia a partire dalla dissoluzione dell’Urss. A quella dissoluzione non ha corrisposto il parallelo e “logico” scioglimento della Nato. E questo perché Washington doveva evitare che la fine del collante anticomunista avvicinasse eccessivamente l’Unione europea, e in particolare la Germania, alla Russia, dando vita così ad un’alleanza potenzialmente esiziale per il dominio statunitense. Da qui la spinta (favorita dalla preferenza tedesca per le ragioni economiche rispetto a quelle strategiche) all’inclusione di Polonia, Ungheria ecc. nell’Ue. Da qui il placet al consolidamento dell’Unione stessa, così ampliata, come mezzo per tener legata la Germania. Da qui l’evidente e inesorabile allargamento della Nato a Est, col momentaneo esito attuale. Non si tratta di un piano delineato in tutte le sue parti e tappe. Nessun vero stratega fa piani del genere e, soprattutto, lo stratega in questione era ed è internamente diviso, quantomeno sui tempi e sui modi: Trump contro Biden, Biden contro il Congresso, Dipartimento di Stato e Pentagono contro tutti e in reciproca frizione. Ma alla fine, anche grazie alla confusione, prevalgono gli apparati più duraturi e soprattutto la parte dominante, più dinamica e aggressiva, del capitalismo statunitense, rappresentata soprattutto dal Partito Democratico. E questo si traduce in una politica tesa ad acuire i conflitti tra Europa e Russia (anche in risposta all’incremento dei rapporti di Berlino e Roma con Mosca), a rinfocolare la questione ucraina, a mettere quindi in conto una guerra e a trasformarla, una volta scoppiata, nell’occasione per impantanare Putin, aumentare la dipendenza politica ed economica dei partner europei, rafforzare la posizione del dollaro e con essa la pretesa, ormai folle, del dominio assoluto dell’ Occidente “americano” sul resto del mondo. Ossia sulla stragrande maggioranza del genere umano.

 

2 – La guerra della Nato è quindi anche una guerra contro l’Europa, contro la Germania, contro l’Italia. Nonostante o forse proprio per questo né l’una né le altre si mostrano all’altezza della situazione. Anzi. In particolare il nostro paese mostra , come in tutte le più gravi crisi internazionali, il suo peggiore servilismo e l’incapacità di elaborare una strategia almeno parzialmente autonoma. Come all’epoca della guerra di Libia, l’Italia palesa ormai di combattere non solo a vantaggio degli interessi altrui, ma anche direttamente contro il proprio interesse, identificato da tempo solo con l’esser parte, a qualunque condizione, dell’Alleanza atlantica e dell’Ue. La fine della prima repubblica ha trascinato con sé ogni pur blando tentativo di far valere un minimo di autonomia, e all’indebolimento del capitalismo italiano nella competizione mondiale ha corrisposto una caduta rovinosa del ceto politico italiano. Un ceto formatosi nell’obbedienza ai vincoli esterni, nella pretesa fine delle ideologie, in un professionismo politico d’accatto, nella rispondenza immediata a grandi e piccole lobby, non poteva che passare dalla servitù volontaria alla pura e semplice volontà di servire, ossia dall’accettazione ragionata di uno spazio di alleanza entro il quale sviluppare comunque una propria politica, al bisogno di ricevere direttamente la linea dall’esterno per potersi così esimere dal pensare ed agire in proprio e dall’assumersi qualunque responsabilità. Si noti bene: nonostante l’attuale apparente identità di visioni tra Washington e i governi occidentali il servilismo integrale non è una conseguenza obbligata dell’adesione alla Nato o all’Ue, come ora mostrano Orban e Erdogan, e domani forse mostreranno Macron e Scholz. E’ la nostra classe dirigente ad aver abiurato, da Mani Pulite in poi, alla difesa e finanche alla definizione di ogni interesse nazionale, facendo dell’integrale dipendenza da decisioni esterne un punto di forza per imporre politiche antipopolari. Motivo non ultimo dell’urgenza di una definizione e difesa dell’interesse nazionale da parte delle classi subalterne.

 

3 – Purtroppo a questa degradazione dell’avversario corrisponde una analoga povertà ed inefficacia della (reale o potenziale) opposizione. Un’area larga che va dalle inquietudini e/o dalla diaspora del M5S fino alle parti più lucide della sinistra radicale, passando per quello che si è chiamato (o si è lasciato chiamare) sovranismo costituzionale, sembra non essere in grado di andare oltre la pur giusta denuncia dei caratteri di questa guerra e l’organizzazione di manifestazioni pensate spesso più per contarsi che per ampliare i consensi. Il problema non sta soltanto della necessità di approfondire teoricamente la conoscenza dell’epoca presente e dei suoi protagonisti, cosa peraltro assolutamente urgente. Si tratta, più banalmente, del fatto che nessuno sembra in grado di poter mandare in parlamento – quando e se si voterà – un congruo numero di eletti capaci di contrastare con un minimo di efficacia il bellicismo nostrano e le sue conseguenze. Di contrastarli, cioè, molto meglio di quanto non potrà farlo un partito “contiano”, che tenta timide differenziazioni a scopo elettorale, per poi riportare i voti così acquisiti nell’alveo del costante centrismo che guida la politica italiana. Eppure il momento sembra favorevole. La indecorosa canea atlantista dei media è motivata anche dalla percezione delle forti contraddizioni sociali e interstatali che il conflitto è destinato ad approfondire. Utile e coraggioso, ma non decisivo, è il cercare di contrastare la linea dei media sul loro terreno: infatti la critica più aspra ed efficace della guerra è la guerra stessa, sono i morti, le devastazioni, i costi immani. Nel paese c’è una forte corrente antibellicista che si ingrosserà. Il profondo malessere che cova da anni dovrà prima o poi tornare a manifestarsi, e non solo nelle urne. La destra, normalizzata la Lega e assorbita praticamente Fdi nell’area di governo, ha ridotto al momento la sua capacità di rappresentarlo, questo malessere, e lo stesso accade al tragicomico trasformismo del M5S. Eppure dall’area della possibile opposizione, pur di fronte ad una situazione nuovissima e ricca di opportunità, non sembra manifestarsi null’altro che la ripetizione delle vecchie identità e dei soliti errori. Dal lato della proposta politica tutto è fermo. Sembra quasi che in Italia tutti attendano la soluzione dall’esterno: chi dagli Usa, chi dalla fantomatica Europa, chi dal Vaticano, chi da Putin. Ancora una volta un effetto della nostra completa subalternità. E ancora una volta un grave errore.

 

4 – La guerra in corso è guerra tra oligarchie capitalistiche di diversa natura, distinte per il diverso rapporto tra capitale e stato e per la attuale propensione all’espansione o alla difesa, ma unite nella comune scelta del ricorso alle armi come strumento ormai direttamente decisivo. Una scelta pagata da tutti tranne che dai rispettivi gruppi dominanti. Con lo sviluppo del progetto di accerchiamento della Russia gli Stati uniti fanno pagare la guerra all’Europa. Insieme, Stati uniti ed Europa fanno pagare la guerra all’Ucraina. Infine il nazionalismo ucraino fa pagare a quello sventurato paese la propria storica incapacità di ridefinire il rapporto con la Russia senza cadere in mani spesso peggiori, nonché la tragica superficialità mostrata nel credere che “più Occidente” significhi davvero “più protezione”. L’oltranzismo nazionalista, le ambigue promesse occidentali e un sostegno bellico buono a solo a far durare la guerra, sono corresponsabili del massacro tanto quanto la Russia. Dall’altra parte il governo russo fa pagare la guerra, oltre che agli ucraini (russofoni inclusi), ai propri combattenti, alle loro famiglie e all’intero popolo di quell’enorme paese. La crescita di consenso che credibilmente si registra nei confronti di Putin è effetto di un nazionalismo che oggi più che mai serve a nascondere gravi problemi sociali, non certo risolti dalla svolta anti-eltsiniana dell’attuale presidente, che ha arrestato la disgregazione dello stato e gli eccessi liberisti, ma non ha certo mutato la natura filocapitalista del governo. A qualche nostalgico che si sforza di vedere qualcosa di “comunista” nel comportamento dell’attuale dirigenza russa, va ricordato che nell’aggredire l’Ucraina Putin ha espressamente maledetto Lenin e la netta opzione di quest’ultimo per l’autodecisione delle nazioni. Ossia per una scelta valoriale e tattica che consentì, pur tra notevoli contraddizioni, di aggregare fruttuosamente nell’Urss diversissime nazionalità e di farle a lungo convivere in modi decisamente incomparabili con quelli propri della brutale subordinazione imposta dalla violenza zarista.

 

5 – Di fronte a una guerra di tal fatta, chi pensa che il socialismo sia ancora un’alternativa necessaria e possibile deve assumere la posizione antibellicista che fu di Lenin: non chiedersi “di chi è la colpa” perché la colpa è di tutti, seppur spesso in modo asimmetrico, e soprattutto non identificarsi con nessuno dei contendenti. Come sempre, e soprattutto durante la guerra, il vero nemico non sta negli altri paesi, ma nel proprio, e la sconfitta del proprio governo è per ciascuno l’obiettivo principale: senza questo obiettivo, ogni pacifismo è vano. Certo, a differenza di Lenin noi non possiamo proporci di “trasformare la guerra in rivoluzione”, se non altro perché Lenin parlava nel corso di una crescita impetuosa del movimento operaio e socialista, mentre noi, almeno in Europa, viviamo in un’epoca del tutto diversa. Ma possiamo e dobbiamo usare la guerra come momento di chiarificazione dei rapporti fra le classi e gli stati, di lotta contro il nostro governo e soprattutto come inizio della costruzione molecolare di un movimento orientato al socialismo, nel corso dell’opposizione alla guerra stessa come espressione di tutte le peggiori tendenze del capitalismo. Questa ricostruzione è l’obiettivo strategico in relazione al quale giudicare la situazione presente e le sue evoluzioni, il perno attorno al quale far ruotare tutte le possibili variazioni e svolte tattiche.

 

6 – Nello scontro fra potenze, insomma, bisogna schierarsi con la potenza che non c’è ancora, e costruirla. Può sembrare una scelta fondata sul vuoto: ma in realtà è fondata sulle crescenti esigenze di milioni di persone. Come ogni scelta realista e radicale, il rifiuto di schierarsi apre inevitabilmente una contraddizione: essere contro il “nemico interno” significa favorire il “nemico esterno”. Questa contraddizione non è aggirabile, e quindi, quando sia possibile, deve essere utilizzata, come lo stesso Lenin opportunamente fece tornando in Russia col placet della Germania imperiale, nemica dello Zar. Diciamo quindi che una eventuale vittoria della Russia, in una qualunque delle forme possibili, potrebbe controbilanciare lo strapotere dell’Occidente ed aprire (anzi riacutizzare) le contraddizioni di quest’ultimo. Che tutto ciò potrebbe facilitare la costruzione di un’alleanza internazionale per un mondo multipolare e quindi la (molto futura…) edificazione di un nuovo equilibrio. Che l’entrata in campo di potenze che, come la Russia (e ancor più e certo diversamente la Cina) fanno perno più sullo stato che sulla libertà economica, potrebbe favorire la costruzione di aree geopolitiche capaci di controllare il movimento del capitale: cosa utilissima anche in una prospettiva socialista. Tutto ciò potrebbe essere. Ma il condizionale indica che questa è appunto solo una possibilità. La vittoria russa potrebbe invece esser tale solo su un piano tattico ed aumentare l’unità e la militarizzazione dell’Occidente. L’alleanza antiegemonica mondiale potrebbe essere indebolita da un’iniziativa bellica che a molti (Cina inclusa) appare avventurista, strategicamente debole e gravida di rischi. Ma, soprattutto, un futuro nuovo equilibrio di potenze potrebbe prevedere ancora una volta per l’Italia una disciplina internazionale antisocialista. Insomma: si può e si deve pensare di utilizzare qualcuna delle dinamiche scatenate da questa epoca di guerra, così come si deve progressivamente decidere su quale soluzione internazionale puntare. Ma, anche e soprattutto perché siamo (o meglio potremmo e dovremmo essere) all’inizio della costruzione di un nostro movimento, non dobbiamo identificarci con nessuno dei contendenti e dobbiamo contare solo sulle nostre forze.

 

7 – Contare sulle proprie forze è il principio che deve guidarci (un principio maoista: come si vede quando torna la guerra diviene inevitabile tornare ai classici, che sono tali perché hanno detto la verità), anche perché nessuno dei molto ipotetici sviluppi della posizione internazionale dell’Italia sembra attualmente utile. L’idea di puntare sugli Stati uniti come potenza inflazionista contrapposta all’austera Germania, idea connessa ad una certa interpretazione dell’Italexit, è forse oggi meno lontana ma ancor più improponibile di ieri, giacché comporterebbe lo schierarsi con la potenza maggiormente votata alla guerra. L’idea di accelerare l’unione politica europea e quindi la costruzione di un esercito continentale capace potenzialmente di supportare una politica di neutralità, appare reazionaria dal punto di vista economico-sociale e utopica dal punto di vista dei rapporti fra gli stati (la Germania non ricostruisce la Bundeswehr per farla guidare da un generale italiano…). L’idea di un asse italo-tedesco (o italo-franco-tedesco) basato sulla comune tendenza ad un rapporto cooperativo con la Russia, intesa come vicino col quale è logico coesistere, e sulla percepibile divaricazione tra Berlino e Washington (la questione del riarmo è posta in Germania da tempo, e non solo nei riguardi della Russia ma come effetto della crisi della leadership nordamericana), è resa al momento del tutto impraticabile dalle oscillazioni ed incertezze dei gruppi dirigenti tedeschi, e soprattutto è resa non auspicabile per il permanere dell’ordoliberismo teutonico. Tutte queste dinamiche e tutte queste scelte potenziali hanno in ogni caso una caratteristica in comune: non sono oggi alla nostra portata. Dobbiamo discuterne e approfondirle, ma con senso della realtà. Noi possiamo influire indirettamente su questo groviglio di questioni soltanto costruendo con le nostre forze un movimento che alzi il costo della mediazione sociale per le classi dirigenti e così acuisca le difficoltà dell’Ue, ne attenui le propensioni belliciste, ostacoli il tentativo di ricostruire una Unione analoga a quella precedente e favorisca, per intanto, il prevalere di alleanze interstatali ad hoc sui frusti e disastrosi meccanismi comunitari. Nulla di più (e sarebbe già tanto). Il problema è che per arrivare a ciò dovremmo superare abitudini ed errori talmente radicati da sembrare insormontabili. Bisognerebbe prendere atto fino in fondo della sconfitta del populismo, della inadeguatezza attuale delle formazioni comuniste e di sinistra radicale, delle serie difficoltà del sovranismo costituzionale. E giungere ad una proposta di fase che, intorno ad una parola d’ordine come “La vostra guerra non la paghiamo” consenta di costruire in prospettiva il nucleo di un nuovo partito. Perché è proprio sapendo rispondere a fasi come queste che si costruiscono nuovi partiti destinati a durare.

 

8 – Nel riflettere sugli errori che ci ostacolano (errori che, va detto, nel corso degli anni sono stati in gran parte commessi o tollerati anche da chi scrive) si deve ovviamente iniziare dalla sconfitta del populismo, populismo che ha raggiunto il punto più alto col governo giallo-verde. Un’ esperienza che ha rappresentato di fatto una coalizione trai i perdenti della globalizzazione (proletariato più fragile, piccolo e medio capitale, nonché numerose fasce intermedie), ma una coalizione debole, inconsapevole e soprattutto egemonizzata dalla parte capitalistica. L’egemonia di tale parte è dovuta al fatto che solo essa aveva sia una rappresentanza politica esplicita (la Lega) sia autonome organizzazioni categoriali capaci di incalzare lo stesso partito di riferimento. Il resto della coalizione non aveva invece né l’una né l’altra cosa, essendo il M5S un partito vago e confusionario per scelta, che svolge soltanto by design alcune delle funzioni di un partito “laburista”, e non avendo il proletariato (in particolare quello più debole) nessuna vera organizzazione sociale e soprattutto nessuna organizzazione veramente autonoma, dato l’indirizzo politico dei sindacati maggioritari. Su queste basi era impossibile definire un programma capace di mediare fra gli interessi degli uni e degli altri e quindi di costruire una stabile alleanza di massa a sostegno dei progetti ambiziosi declamati dai due partner di governo. Tutto ciò ha favorito sia l’emergere dell’opportunismo della Lega e del conservatorismo della sua “base pagante”, sia la vocazione trasformistica di un partito volutamente privo di ideologie (e quindi di idee) come il M5S. Qui si mostra tutta la debolezza della posizione populista, in quanto fondata sull’appello a un “popolo” indistinto. La forza del populismo sta nel capire che in questo periodo è impossibile o estremamente difficile, per la gran massa dei lavoro dipendente, fondare identità politiche sulla base di identità di classe. Ma se le classi non possono essere il punto di partenza dell’aggregazione politica, l’azione sui rapporti di classe deve comunque essere necessariamente il punto d’arrivo del programma di un partito popolare, pena l’inefficacia e/o la completa cooptazione nelle tanto odiate élite. Eludendo questo nodo, è come se il M5S avesse messo in pratica la lezione di uno dei più influenti e più dannosi pensatori degli ultimi anni, Ernesto Laclau. In Laclau l’efficace descrizione dell’attuale impossibilità di dirette aggregazioni di classe si trasforma nella prescrizione di evitare qualsiasi valutazione e qualsiasi programma classista, oltre che qualsiasi accenno ad un mutamento di sistema che vada oltre la semplice democrazia radicale. Il programma si fonda soltanto sulla capacità meramente retorica di individuare il tema che può momentaneamente unificare una serie di eterogenee rivendicazioni, così come meramente retorico è il contenuto fondamentale dell’azione politica, giacché le gerarchie sociali e le stesse istituzioni statali altro non sarebbero che plessi di rapporti discorsivi. Ma il M5S ha pagato a duro prezzo l’idea che bastasse parlare un linguaggio “anticasta” e proporre la democrazia immediata per aggregare stabilmente il “popolo”, trasformare la società, lo stato e addirittura i rapporti internazionali. Inutile dire che in questa concezione si perde anche l’idea del partito come sede di autoeducazione popolare, come strumento per trasformare le classi subalterne in classi dirigenti, attraverso la formazione di specialisti di origine popolare. Il partito populista moderno non vuole trasformare i propri membri, ma soltanto esprimerne discorsivamente le opinioni, ricorrendo a piattaforme apparentemente libere da fastidiose intermediazioni “burocratiche”, per giungere poi ad una semplice decisione maggioritaria, priva perciò stesso di saggezza politica. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: crescita di mediatori occulti e di gerarchie tanto solide quanto informali, assenza di un gruppo dirigente stabile e organico, trasformismo, improvvisazione, cialtroneria. Chiunque volesse ricostruire qualcosa di buono a partire dalla crisi del M5S dovrebbe tener conto di tutto ciò.

 

9 – Errore speculare è quello della sinistra radicale (e ci riferiamo alla parte che non si identifica con la difesa dell’europeismo e/o con l’enfatizzazione del tema dei diritti individuali). Si producono analisi di classe molto spesso condivisibili, anche se rozze (ma questo è un problema che riguarda tutti noi, giacché se pure sono presenti singoli brillanti pensatori non esistono purtroppo una o più scuole marxiste capaci di dare ordine alla ricerca e alla discussione). Tali analisi però vengono quasi sempre tradotte linearmente in proposta politica, come se gli ulteriori approfondimenti dello sfruttamento individuati e denunciati dovessero/potessero naturalmente dare vita, prima o poi, a movimenti di protesta e a qualcosa di più. Alla vacuità dell’appello al popolo corrisponde qui l’inutilità dell’appello alla classe. Ciò accade non solo perché, come tutti sanno, tra sfruttamento e rivolta ce ne corre. Ma anche perché l’appello alla classe è spesso circondato dall’invito al conflitto permanente, all’ autorganizzazione di massa, all’ azione dal basso: un invito che può essere veramente efficace solo quando conflitto, autorganizzazione ecc. hanno già raggiunto una determinata soglia critica, altrimenti appare come vacua declamazione che allontana invece di attrarre perché aumenta la sensazione di incertezza e di insicurezza che attanaglia la gran parte del popolo che viene da decenni di passività, a cui si chiede di affidare il proprio destino ad una lotta dalle prospettive indefinite. Intendiamoci: senza un conflitto di tal genere (e soprattutto senza le associazioni autonome di base che nascono da esso) non si fa nulla di veramente efficace, ma non è detto che si possa e si debba sempre iniziare da ciò. In fasi storiche come queste (ma la cosa può ovviamente mutare anche presto) le classi subalterne hanno bisogno di sicurezza, di Stato, di partiti che guadagnino la loro fiducia sia con la presenza costante e quotidiana sia con idee, linguaggi non gergali e programmi che non contengano semplicemente l’invito a lottare, ma la promessa di agire concretamente a livello di governo per cambiare la loro situazione. A ciò si aggiunga che spesso i programmi, quando ci sono, riproducono stereotipi banali che, anch’essi, allontanano invece di attrarre. Quando si capirà che è sbagliato porre la tassazione come perno centrale di un programma di redistribuzione della ricchezza, sbagliato sia perché una vera tassazione dei redditi più alti è possibile solo con differenti rapporti di forza (e in ogni caso non libera risorse sufficienti), sia perché sono spesso proprio gli strati popolari a star lontano da chi parla di tasse, perché temono, e non del tutto a torto, che alla fine le pagheranno loro, e che le imposte graveranno su quella proprietà della casa che, come realtà e come ideologia, è una delle poche ancore di salvezza di numerosissime famiglie di lavoratori. E quando si capirà che è sbagliato dire che l’immigrazione non è un problema ma una risorsa? Essa è tale solo per il capitale e per i politici che speculano sulla xenofobia. Non è tale per chi patisce la concorrenza degli immigrati o si trova in difficili condizioni di convivenza. Non è vero per chi, bombardato continuamente dai discorsi sulla scarsità delle risorse, teme razionalmente che queste si riducano ancor di più con l’arrivo di altri poveri. Sappiamo bene che le soluzioni alla Salvini non sono soluzioni. Sia perché sono inumane, sia perché incrementano la clandestinità invece di arginarla. E sappiamo anche che altre soluzioni non sono facilissime e che tutte devono comunque avere come scopo l’integrazione e l’eguaglianza, l’alleanza tra lavoratori. Ma il punto, prima ancora di trovare le soluzioni, è quello di riconoscere che il problema è un problema, mettendosi così in sintonia con la maggioranza dei lavoratori. Continuare a parlare bellamente di integrale apertura e di accoglienza sempre e comunque, e questo in un paese esposto come il nostro, è semplicemente irresponsabile. E spiega molta parte della giusta diffidenza degli elettori.

 

10 – Quanto al sovranismo costituzionale e socialista, questo vive oggi una crisi che non sarà risolta, ma semmai aggravata, da incerte incursioni elettorali o dalla identificazione con movimenti privi di prospettive. Non si tratta dell’effetto Draghi, né della momentanea apparente coesione bellicista del continente: anche quando l’Ue era in evidenti difficoltà quest’area non ha mai superato la soglia della vera esistenza politica. I problemi non nascono da oggi, ma non dipendono dalla vacuità delle idee, anzi. Il legame tra questione di classe e questione nazionale; la necessità, per le classi subalterne, di rompere con l’Ue; l’esigenza di una nuova collocazione internazionale del paese in un quadro multipolare; l’urgenza di un’alleanza tra lavoratori dipendenti e Pmi, sono tutte questioni rese ancor più pregnanti dalla guerra. Quindi non di veri errori concettuali si è trattato, ma del paradosso che coglie chiunque abbia un’idea giusta, e la proponga nel tempo sbagliato e in modi inadeguati (e questo vale anche per i richiami della sinistra radicale al socialismo e al comunismo). Il paradosso è che più trova conferme la tua giusta lettura della realtà, e quindi più tu insisti sulla tua idea, più questa insistenza ti isola: la verità detta anzitempo, e male, ti impedisce di accumulare le forze per raggiungere i tuoi scopi. Perché detta anzitempo e male? Soprattutto perché la necessità di rompere con l’Ue è stata di fatto presentata come scopo principale, se non unico, e come questione immediata e facilmente comprensibile: sottovalutando così la pesante presenza dell’Unione nello stato e nella società italiane, nonché la paura del salto nel buio (superabile solo quando la casa brucia davvero), e non comprendendo appieno il carattere rivoluzionario dell’exit. Rompere con l’Ue vuol dire infatti rompere con decenni di storia, con una forma assai strutturata del domino capitalistico e con un assetto geopolitico stabilito da tempo. Implica quindi la necessità di accumulare (anche sul piano internazionale) forze talmente ingenti da non poter essere direttamente aggregate sulla sola proposta, oltretutto meramente “negativa” dell’exit. Un “partito di scopo” di tal fatta poteva attecchire in Inghilterra, visto il diffuso antieuropeismo d’oltremanica e visto che Londra non è mai entrata nell’eurozona. In Italia l’antieuropeismo è minore, e maggiori sono le conseguenze dell’uscita. Da noi la cosa può essere proposta solo come esito di una serie di rivendicazioni popolari, tali da fornire progressivamente motivazioni chiare e positive anche all’addio a Bruxelles. Ciò non vuol dire che la questione europea debba essere accantonata, anzi. La guerra, anche se al momento sembra giocare a favore della conservazione, può divenire fattore di crisi e disgregazione dell’Unione, ma anche in questo caso è difficile porre immediatamente la questione in termini di “dentro o fuori” e si devono piuttosto immaginare alcune battaglie intermedie. Battaglie che dovrebbero essere impostate evitando l’altro errore, potenzialmente esiziale, di questo progetto politico: l’incapacità di distinguersi sufficientemente dalla destra e quindi la tendenza a finire nel suo cono d’ombra, a subordinarsi ad essa. Subordinazione avvenuta non solo perché la destra univa alla retorica antieuropeista la forza delle proprie dimensioni politiche e quindi una incomparabile capacità di attrazione, ma anche perché l’antieuropeismo socialista ha ritenuto erroneamente che la lotta all’Ue e l’exit fossero condizione preliminare della ripresa e dell’efficacia del conflitto sociale, ed in particolare di quello proletario, e che quindi fosse necessario ed utile a tal fine allearsi con la destra, anche se in posizione subalterna. Come dimostrato dalla misera fine dell’antieuropeismo leghista e dal ben più astuto rientro nei ranghi di Fdi, l’exit non è presupposto ma conseguenza della nascita di un nuovo movimento popolare, che deve avere come nemico il mutevole ma stabile centro euroatlantico che determina la politica italiana e di cui la stessa destra è parte integrante.

 

11 – A tutti questi errori va aggiunto quello che probabilmente è il guaio peggiore, peggiore perché indica probabilmente non tanto l’incapacità quanto la non volontà di uscire dal proprio cerchio ristretto. Indica la paura di diventare maggioranza perché questo implicherebbe la perdita delle posizioni di potere acquisite all’interno della minoranza. Si tratta del gergalismo, a cui abbiamo già fatto cenno, ossia dei linguaggi e delle parole d’ordine con le quali si pretende di rivolgersi “alle masse” mentre in realtà ci si sta rivolgendo ai propri simili e sodali, per esibire l’appartenenza ad una comune consorteria o per mandare messaggi in cifra, utili solo per il conflitto trai gruppi e dentro essi. Massimi e inarrivabili esponenti di tale gergalismo sono i gruppi più o meno woke, i cui testi sono pieni di parole ormai congelate, di asterischi e schwa che hanno la precipua funzione di distinguersi (e quindi isolarsi) dal resto dei parlanti, anche a danno delle stesse spesso nobili cause che questi gruppi difendono (e nello stesso tempo indeboliscono). Su un piano differente si deve notare come, proprio nel momento in cui sarebbe possibile sviluppare un discorso maggioritario, alcuni continuino a evidenziare, anche intrecciandola alla questione della guerra, l’appartenenza allo schieramento inevitabilmente minoritario dei no-vax e no green pass. Qui non intendiamo entrare nel merito della questione, ma solo far notare che dal punto di vista della conquista della maggioranza una posizione del genere è una della meno indicate. E questo perché la grande maggioranza degli italiani ha posizioni opposte (e a volte fortemente contrastanti) e le ha non per motivi filosofico-epistemologici o per sudditanza, bensì per aver fatto e fa esperienza diretta di un sistema sanitario che dal punto di vista clinico funziona positivamente nella gran parte dei casi e contribuisce a migliorare e ad allungare la vita dei cittadini. E’ questa convinzione, che da qualcuno può essere contestata ma che ha un serio fondamento razionale e non certo scalzabile nel medio periodo, a far sì che la posizione contraria non potrà mai divenire maggioritaria, e quindi ostacolerà l’espansione di qualunque proposta politica che innalzi anche quelle bandiere, oltre a rendere più difficile, come è già avvenuto, la stessa lotta contro lo scientismo, contro i media, contro la gestione della campagna vaccinale e dello stesso green pass. Passando a posizioni più direttamente politico-generali, gergalismo è anche, per esempio, parlare dell’uscita dalla Nato e dalla stessa Ue non già come prospettive (prossime o remote che siano), ma come obiettivi immediati, cosa che serve certo a raggruppare i fedelissimi, ma solo a quello, mentre un intervento di massa di centocinquanta parole, oggi, dovrebbe dedicarne cento alla situazione sociale, quaranta alla guerra, cinque ciascuna alla Nato e all’Ue. Altro e importante esempio è quello della pur generosa riproposizione, sic et simpliciter di una identità comunista, anche come presenza elettorale: e questo nel paese che ha visto il più grande partito comunista d’occidente trasformarsi nel proprio opposto. Chi scrive è comunista, e sa che senza una presenza organizzata dei comunisti (comunque denominati) non si fa nulla, nemmeno le riforme. Ma altra cosa è, in questo momento, la proposta di massa e quindi anche la lotta per la rappresentanza politica. C’è stato un tempo, diciamo dal suicidio del Pci al suicidio del Prc (avvenuto con la gestione del secondo governo Prodi e della successiva campagna elettorale) in cui il semplice richiamo all’identità comunista poteva consentire di aggregare una decorosa forza parlamentare; ma le cose ormai non stanno più così, ed insistere oggi nel voler raccogliere consensi significativi come comunisti impedisce di costruire domani gli spazi politici ampi in cui ridefinire e rilanciare utilmente una proposta che si richiami alla grande esperienza storica del comunismo mondiale.

 

12 – Tutto quanto sopra non è più accettabile. Ormai la scala, l’imminenza, la tragicità dei problemi che dobbiamo affrontare impongono un salto di qualità analogo al salto compiuto dalla fase storica. O si cambia o si muore. Sappiamo bene che le trovate e le invenzioni individuali non possono risolvere nessuna situazione. E non chiediamo certo a nessuno di rinnegare le sue idee più importanti (ma semmai di modificarne la scansione logica e temporale, nonché la traduzione politica), né tantomeno auspichiamo lo scioglimento di organizzazioni che si sono costruite attraverso l’impegno e i sacrifici di moltissime persone. Ma in frangenti come questi ognuno di noi, comunque collocato, ha il dovere di dire la verità. E la verità è che alla frattura epocale avvenuta il 24 febbraio del 2022 bisogna rispondere con una iniziativa politica egualmente discontinua. I modi per produrre tale discontinuità possono essere i più disparati. A noi pare che si potrebbe iniziare costruendo un gruppo di discussione tra chi concorda, in tutto o in parte, con le cose qui scritte. Parallelamente si potrebbe lavorare per giungere alla proposta di una lista elettorale unitaria che eviti la frammentazione in listarelle del 2%, e si rivolga ai votanti con un programma che, alla faccia delle elucubrazioni postmaterialiste, chieda Pane, Lavoro, Pace e Democrazia. Pane ossia welfare; lavoro ossia piena occupazione e non semplice innovazione green e digitale; pace ossia ordine multipolare e spazi per una politica popolare; democrazia, ossia possibilità di decidere del proprio futuro, come classi subalterne e come paese. E questo potrebbe essere il primo passo verso quella vasta coalizione popolare senza la quale sarebbe impossibile sostenere le gravi ritorsioni a cui, dobbiamo saperlo, sarà sottoposta d’ora in poi ogni politica che rivendichi l’indipendenza delle classi subalterne, e quindi l’indipendenza nazionale nella ricerca delle più adeguate forme di cooperazione internazionale.

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