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intelligence for the people

Nessuna de-escalation a Gaza e in Medio Oriente

di Roberto Iannuzzi

La guerra nella Striscia prosegue senza sosta, mentre l’inconcludente diplomazia USA nella regione consente di fatto a Israele di andare avanti con le operazioni militari

7d590beb 7f8a 4b80 81b3 19dca01842de 2400x1600Le ultime settimane sono state caratterizzate da una specie di sanguinoso limbo in Medio Oriente.

Le operazioni militari israeliane sono proseguite in tutta la loro violenza, provocando fra i 100 e i 200 morti al giorno a Gaza (sebbene il verdetto della Corte Internazionale di Giustizia avesse ordinato a Tel Aviv di adottare tutte le misure necessarie per prevenire un genocidio contro i palestinesi nella Striscia).

Ma un laborioso negoziato era sembrato decollare, sotto la spinta di Stati Uniti, Qatar ed Egitto, per giungere a un cessate il fuoco che portasse alla liberazione degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas, e che potesse eventualmente trasformarsi in una tregua permanente.

L’iniziale decisione americana di rispondere in maniera relativamente contenuta a un attacco con droni, che il 28 gennaio aveva portato all’uccisione di tre soldati statunitensi in una base al confine tra Giordania e Siria, aveva spinto alcuni a ipotizzare che Washington intendesse non esacerbare le tensioni regionali, sperando nel successo di un negoziato che potenzialmente avrebbe aperto la strada alla fase successiva del suo aleatorio piano per la Palestina.

Quest’ultimo, in tutta la sua problematicità, era così articolato: riabilitare una delegittimata Autorità Nazionale Palestinese (ANP), imporre una nuova amministrazione palestinese da essa guidata a Gaza, eventualmente sotto il controllo di una missione araba capeggiata dai sauditi, i quali avrebbero accettato una riconciliazione con Israele in cambio di un accordo di sicurezza con gli USA e della creazione, in prospettiva, di uno Stato palestinese demilitarizzato, e sotto ogni aspetto fittizio.

Pur con mille incognite, l’eventualità che un cessate il fuoco ponesse fine alla fase acuta del conflitto, dando una chance all’implementazione di questo piano e ad un possibile allentamento delle tensioni regionali, era favorita dal fatto che, malgrado l’immane distruzione, i combattimenti a Gaza avevano raggiunto una fase di stallo.

 

Stallo a Gaza

Intorno al 20 gennaio, alcuni reportage indicavano che l’esercito israeliano aveva sottostimato la rete di tunnel di Hamas, che ora si riteneva superasse i 700 km di lunghezza (la Striscia è lunga circa 40 km, e larga 12 nel suo punto di maggior estensione).

Soltanto sotto Khan Yunis, gli israeliani ora stimavano che vi fossero oltre 150 km di gallerie, distribuite su vari livelli. La rete era collegata con la superficie da oltre 5.700 pozzi. Nel suo complesso, un’infrastruttura impossibile da distruggere interamente.

Nemmeno l’inondazione dei tunnel, che Israele aveva avviato in diversi punti, sembrava funzionare, a causa di ostruzioni e barriere che bloccavano il flusso dell’acqua. Secondo un reportage del Wall Street Journal, fino all’80% della rete sotterranea di gallerie rimaneva funzionante.

L’intelligence statunitense riteneva che Hamas avesse perso fra il 20 e il 30% dei suoi combattenti, una stima che coincideva con quella israeliana, ma alti ufficiali dell’esercito di Tel Aviv ammettevano che tali numeri fossero tutt’altro che certi. Gli americani valutavano che il gruppo armato palestinese avesse armi e autonomia sufficienti per resistere ancora diversi mesi.

Alla vigilia dell’invasione, le forze di difesa israeliane (IDF) avevano calcolato che avrebbero stabilito il “controllo operativo” su Gaza City, Khan Younis e Rafah (le tre principali città della Striscia) entro fine dicembre. A fine gennaio, invece, Israele stava ancora combattendo a Khan Younis e non aveva cominciato la sua offensiva verso Rafah.

A Gaza City, dove le IDF avevano ridotto la propria presenza militare, Hamas stava ricostituendo la propria presenza amministrativa e di protezione civile.

 

Divisioni in Israele

Nel frattempo, il premier israeliano Benjamin Netanyahu doveva fare i conti con le tensioni nel paese e le divisioni nel governo. Gadi Eisenkot, ex generale ed ex capo di stato maggiore dell’esercito, e membro del gabinetto di guerra, aveva affermato che gli obiettivi militari non erano ancora stati raggiunti, e che era un’illusione pensare che gli ostaggi potessero essere liberati attraverso operazioni di guerra.

Fra i più di 100 prigionieri liberati dall’inizio dell’invasione, solo uno era stato liberato con un’operazione di salvataggio. Gli altri erano stati scambiati con detenuti palestinesi durante la tregua di novembre. Secondo Eisenkot, non vi erano dubbi: la liberazione degli ostaggi aveva la precedenza sull’esigenza di annientare il nemico, anche perché la prospettiva di ottenere la piena vittoria su Hamas era “poco credibile”.

Michael Milshtein, ex dirigente dell’intelligence israeliana, aveva dichiarato che il paese era a un bivio: giungere a un accordo con Hamas per la liberazione degli ostaggi e ritirarsi, oppure puntare al totale rovesciamento del movimento palestinese e alla conquista dell’intera Striscia di Gaza. “Bisogna scegliere”, aveva detto Milshtein.

Dal ministro della difesa Yoav Gallant, tuttavia giungevano messaggi bellicosi. Egli sosteneva che a guerra finita le IDF avrebbero mantenuto il controllo militare sull’intera Striscia, paragonandola al caso della Cisgiordania.

Nel territorio di quest’ultima, secondo Gallant, le IDF avevano “una libertà di operazioni sotto il profilo militare al più alto livello, anche se non controlliamo l’area dal punto di vista civile”. A Gaza, egli sosteneva, si poteva ottenere lo stesso risultato, ma ciò avrebbe richiesto tempo.

 

Offensiva contro l’UNRWA

All’indomani del verdetto della Corte Internazionale di Giustizia del 26 gennaio, Israele aveva lanciato la sua offensiva contro l’UNRWA, l’agenzia ONU che fornisce assistenza umanitaria ai rifugiati palestinesi. L’accusa israeliana era che più di una decina di impiegati dell’organizzazione si sarebbero infiltrati in Israele il 7 ottobre, e quattro avrebbero preso parte al sequestro di israeliani.

Non solo. Il 10% del personale UNRWA a Gaza sarebbe stato costituito da uomini di Hamas o della Jihad Islamica palestinese.

In conseguenza dell’accusa israeliana, gli Stati Uniti e molti altri paesi occidentali avevano sospeso i loro finanziamenti all’organizzazione, mettendone a rischio la sopravvivenza.

La campagna israeliana non è nuova. Da tempo Israele sostiene che combattenti di Hamas avrebbero utilizzato le strutture dell’UNRWA per nascondersi e immagazzinare armi.

Sky News ha successivamente preso visione dei documenti dell’intelligence israeliana che incriminerebbero l’UNRWA, ed ha affermato che tali accuse non sono provate. Inoltre, molte di esse, anche se confermate, non implicherebbero direttamente l’UNRWA. Alla stessa conclusione è giunto il britannico Channel 4.

Già nel 2021 l’Associated Press riferiva che “un dossier israeliano confidenziale che descrive presunti legami tra gruppi palestinesi per i diritti umani e un’organizzazione terroristica designata a livello internazionale contiene poche prove concrete, e non è riuscito a convincere i paesi europei a smettere di finanziare questi gruppi”.

Lo stesso segretario di Stato USA Antony Blinken, pur definendo “molto credibili” le prove fornite da Israele, ammetteva che “non abbiamo avuto la possibilità di indagare da soli [queste accuse]”.

 

Gaza occupata come la Cisgiordania

Alcune dichiarazioni del ministro delle finanze israeliano Bezalel Smotrich potrebbero aiutare a chiarire le finalità della campagna israeliana contro l’UNRWA. In una intervista di fine gennaio a Channel 12, egli aveva detto: “Non dobbiamo far entrare gli aiuti attraverso l'UNRWA... Al fine di rispettare il diritto internazionale... riceveremo gli aiuti e li distribuiremo da soli!”.

Alle perplessità dell’intervistatore, Smotrich aveva risposto scandendo le parole: “Ascolti ciò che sto dicendo: ci sarà un governo militare a Gaza. Perché chiunque riconosce che dobbiamo rimanere a Gaza e controllarla militarmente, e non c’è controllo militare senza controllo civile”.

Sebbene Smotrich non faccia parte del gabinetto di guerra, le sue dichiarazioni sono in armonia con quelle di Gallant citate precedentemente, il quale parlava di “controllo militare di Gaza”. In altre parole, Smotrich stava parlando di una occupazione/annessione della Striscia, alla quale verrebbe applicato un modello analogo a quello vigente in Cisgiordania.

 

Nessun cessate il fuoco

Infine, l’altro ieri è giunto il netto rifiuto, da parte di Netanyahu, della proposta di cessate il fuoco avanzata da Hamas.

Il movimento palestinese aveva prospettato un cessate il fuoco in tre fasi da 45 giorni ciascuna. Secondo tale proposta, in cambio della progressiva liberazione degli ostaggi, le forze israeliane si sarebbero ritirate dalle aree residenziali di Gaza durante la prima fase, e dall’intera Striscia nella fase successiva.

Durante le prime due fasi, Hamas avrebbe liberato gli ostaggi israeliani e stranieri in cambio di almeno una parte degli oltre 8.000 palestinesi che languiscono nelle carceri israeliane. Prima della fine della seconda fase, si sarebbe dovuto raggiungere un accordo per una tregua di lunga durata a Gaza. Nell’ultima fase, Israele e Hamas si sarebbero scambiati le salme di palestinesi e israeliani in loro custodia.

Il piano di Hamas prevedeva anche l’ingresso di almeno 500 camion al giorno di cibo, combustibile e altri beni nella Striscia.

Come ha scritto il giornalista israeliano Jack Khoury, gli ostaggi (circa un centinaio, ancora vivi, sono nelle mani di Hamas) rimangono il più efficace strumento di pressione a disposizione del gruppo palestinese. Essi sono la loro unica merce di scambio nei negoziati.

Khoury scrive che “nessuno in Israele pensa a una soluzione diplomatica post-conflitto, a uno Stato palestinese, all’autodeterminazione dei palestinesi, e tanto meno alla catastrofe umanitaria a Gaza, dove il numero di morti e feriti si ritiene abbia ormai raggiunto le 100.000 unità”. Per questo gli ostaggi sono così preziosi per Hamas.

Ghazi Hamad, un alto dirigente del gruppo, aveva dichiarato martedì che “Israele vuole ottenere tutti gli ostaggi per poi avere l’assoluta libertà di tornare alla guerra, a uccidere e assassinare”, aggiungendo che “abbiamo bisogno di un testo che garantisca chiaramente un cessate il fuoco complessivo e il ritiro delle forze di occupazione”.

Poche ore dopo il rifiuto del piano da parte di Netanyahu, lo stesso Blinken aveva affermato che “sebbene ci siano alcuni evidenti punti deboli nella risposta di Hamas, pensiamo che essa crei lo spazio per il raggiungimento di un accordo, e lavoreremo incessantemente su questo finché non ci arriveremo”.

I negoziati dunque proseguiranno, ma è allo stesso tempo evidente che gli USA continuano ad astenersi dall’esercitare qualsiasi pressione reale su Israele, a parte vuote ramanzine verbali sulla necessità di proteggere maggiormente i civili.

Circa 250 aerei cargo statunitensi e almeno 20 navi hanno consegnato a Israele più di 10.000 tonnellate di armamenti e attrezzature militari dall’inizio della guerra a Gaza, e Washington non ha mai neanche lontanamente minacciato di ridurre questo flusso ininterrotto.

 

Possibile catastrofe a Rafah

L’affermazione con cui Netanyahu ha rifiutato la proposta negoziale di Hamas (“la vittoria è a portata di mano”) è chiaramente una menzogna in quanto, anche dopo altri mesi di combattimento, Hamas non potrà mai essere sradicato del tutto. Lo stesso non può dirsi tuttavia della popolazione di Gaza.

Oltre che dai bombardamenti, la disperazione dei residenti della Striscia è accentuata dalla fame, dalla scarsità d’acqua e di medicine. Da tempo Human Rights Watch ha denunciato che Israele usa la fame come arma di guerra a Gaza. Ed esperti ONU hanno affermato che Israele sta distruggendo il sistema alimentare della Striscia.

Il ministro della difesa Gallant ha avvertito che la prossima offensiva delle forze armate israeliane sarà nella città meridionale di Rafah, al confine con l’Egitto.

Ma il governatorato di Rafah è attualmente il più sovraffollato della Striscia, con una densità media di oltre 22.000 persone per km quadrato, un valore cinque volte superiore ai livelli pre-conflitto. Oltre 1,4 milioni di palestinesi, circa due terzi dell’intera popolazione di Gaza, sono ammassati nell’area. Un’operazione militare a Rafah rischierebbe di trasformarsi in uno sterminio di proporzioni inaudite.

Essa inoltre potrebbe aprire una grave crisi fra Israele ed Egitto. Temendo che l’offensiva possa provocare una fuga di massa in territorio egiziano, il Cairo ha minacciato l’annullamento del trattato di pace del 1979 se “un solo profugo palestinese” dovesse attraversare il confine.

Il governo egiziano ha da tempo chiarito che non è una motivazione economica a spingerlo a rifiutare i palestinesi di Gaza, ma il fatto di non voler “importare” la questione palestinese in territorio egiziano per ragioni di sicurezza dello Stato.

 

Diplomazia USA a tempo perso

Mentre la situazione umanitaria e di sicurezza nella Striscia rischia di precipitare oltre ogni umana immaginazione, gli USA continuano a promuovere il loro improbabile piano negoziale, senza aver nemmeno ottenuto l’appoggio del premier israeliano.

Netanyahu è contrario alla riabilitazione dell’ANP, preferendo, come abbiamo visto, un controllo diretto della Striscia da parte di Israele.

L’Autorità guidata dal presidente Mahmoud Abbas, peraltro, è invisa agli stessi palestinesi. Secondo un recente sondaggio, il 90% degli intervistati è favorevole alle dimissioni di Abbas, e il 60% allo smantellamento stesso dell’ANP.

Se l’anziano Abbas dovesse morire, o dimettersi, il rischio poi è che si scateni una lotta per la successione all’interno di Fatah, che potrebbe anche sfociare in uno scontro armato.

E’ anche possibile che, dopo altri mesi di combattimento, Hamas rimanga una presenza con cui fare i conti a Gaza, sebbene militarmente indebolito. Nel caso di una crisi all’interno di Fatah, il movimento islamico palestinese è destinato ad acquisire ulteriore popolarità, anche in Cisgiordania.

Infine sembrerebbe che i sauditi non si accontentino della semplice promessa di un percorso negoziale che porti a uno Stato palestinese: “Quello c’è già stato negli ultimi trent’anni, ed erano gli accordi di Oslo”.

In conclusione, l’unico effetto degli sforzi diplomatici degli USA, e dei tour de force del loro segretario di Stato (al quinto viaggio in Medio Oriente dallo scoppio del conflitto), sembra essere quello di dare spazio alla strategia di Netanyahu, che a sua volta consiste semplicemente nel prolungare la guerra, possibilmente in vista di un tutt’altro che scontato controllo militare completo sulla Striscia.

L’incendio di Gaza, dunque, continua a divampare senza alcun controllo, con il rischio che le fiamme si estendano al resto della regione, favorite dalle inutili quanto provocatorie azioni di rappresaglia americane in Siria, Iraq, e nello Yemen.

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