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“Mamma, ho visto un comunista”: D’Alema va a Pechino, vede Xi, si innamora e getta nel paniko i media italiani

di OttolinaTV 

a2 Immagine 2025 09 04 101335.jpgContinua il panico nelle redazioni dei media filogovernativi: la dimostrazione di forza degli Stati canaglia degli ultimi giorni, per i pennivendoli suprematisti, ha rappresentato uno choc senza precedenti; la comfort zone è stata demolita, e non erano preparati. Davvero credevano alle minchiate che scrivevano sulla Russia pompa di benzina con la bomba atomica e sulla Cina copiona sull’orlo del collasso a causa degli sprechi pubblici. Visto che non si sono accorti di questo enorme treno contro cui stavano andando a sbattere, ora sono terrorizzati che quel treno possa arrivare anche nel loro giardino di casa e vedono ovunque piloti in grado di guidare quel treno, compreso nei baffetti del leader Massimo. L’occhio di riguardo di Massimo D’Alema per Pechino non è una novità: da tempo baffino pronuncia parole ragionevoli sul sistema cinese, sulla sua ascesa pacifica e sul suo ruolo nel Mondo Nuovo. Questo week end la relazione, però, ha fatto un salto di qualità: alla storica parata del 3 settembre, l’unico italiano ufficialmente presente era proprio lui, l’ex primo ministro della repubblica italiana che durante la parata, intervistato da un’emittente cinese, ha avuto l’ardire di affermare che aveva accettato con piacere l’invito “in forza della memoria e del ricordo di una lotta eroica come fu quella del popolo cinese per la sconfitta del nazismo e del fascismo”; “Confido che qui da Pechino venga un messaggio per il ritorno di uno spirito di amicizia tra tutti i popoli”.  Apriti cielo…I soliti comunist”, titola il Giornale; D’Alema sfila col nemico. Il leader di sinistra alla parata militare con i dittatori. Xi minaccia il mondo. D’Alema in estasi, rilancia Libero; L’amore della sinistra per i dittatori non muore mai.

Il mio commento preferito, però, è del giornale preferito dai sovranelli per Trump, La Verità: D’Alema si intrufola pure a Pechino, e aiuta Xi a riscrivere la Storia. In che senso? Beh, ve l’ho appena detto: L’”ex premier”, sottolinea l’occhiello, “cita il contributo del dragone alla sconfitta del nazismo” che però, secondo La Verità, sarebbe “immaginario”. 

La Cina, che ha perso 35 milioni di uomini per respingere l’invasione giapponese mentre gli USA, fino all’ultimo, al Giappone fornivano acciaio e petrolio, non avrebbe in realtà dato nessun contributo alla sconfitta del nazifascismo: “Quello che è andato in scena a Pechino è stato un maestoso festival dell’orrore” scrive Francesco Bonazzi nell’articolo; ma “D’Alema che va a battere le mani all’Asse del Male è troppo anche per l’Asse del Male”.

Al di là del folclore, comunque, dietro questa alzata di scudi contro D’Alema il cinese, un senso c’è eccome: D’Alema ha sicuramente innumerevoli difetti, ma ha innegabilmente anche un discreto fiuto e la volontà, spregiudicata, di salire sul carro del vincitore; lo ha fatto in modo tempestivo e radicale quando in Europa il crollo dell’URSS ha derubricato per qualche decennio la questione socialista e comunista, e lo rifà adesso che il vento è cambiato di 180 gradi. 

 

Fino a che a salire sul carro cinese c’è qualche inguaribile romantico che sogna ancora le magnifiche sorti e progressive del socialismo reale, il problema non sussiste, ma quando incomincia a salirci chi è cresciuto a pane, rapporti di forza e realpolitik, il problema si fa serio e, per scoraggiare qualsiasi tentazione di emulazione, meglio mettere in moto la macchina del fango e rievocare quel profondo sentimento anticomunista che, per quanto suoni cringe e fuori dal tempo, in uno dei paesi più vecchi e funzionalmente analfabeti del pianeta tiene insieme il blocco tradizionale delle Bimbe di Silvio e nuove generazioni che hanno scambiato la propaganda dei think tank reazionari nella nuova frontiera dell’anticonformismo. “Il lupo perde il pelo ma non perde il vizio”, scrive un originalissimo Alessandro Sallusti su Il Giornale; ”Flirtare con i tiranni nemici dell’Occidente, infatti, è un classico dei comunisti italiani. E’ stato così per tutta la durata dell’Unione Sovietica. E allora come ora in prima fila c’era e c’è Massimo D’Alema”. 

In mezzo a tanta paccottiglia, comunque, c’è anche qualche riflessione seria: reazionaria fino al midollo, ma seria. Come, ad esempio, quella di Giovanni Orsina, sempre su Il Giornale: “Nella Guerra Fredda” sottolinea Orsina “si sono scontrate due ideologie globali. Pensava globale il comunismo… e pensava globale il liberalismo. Dopo Il 1989 è rimasta in campo una sola ideologia globale. È quello che cercava di dire Francis Fukuyama con la famosa tesi della fine della storia: non che gli eventi avrebbero smesso di susseguirsi, ma che aveva trionfato per sempre un modello universale di organizzazione delle cose umane. Il modello in effetti aveva trionfato, ma non per sempre: avrebbe raggiunto lo zenit alla fine del millennio per poi cominciare a declinare”. Il risultato è che “viviamo oggi sul pianeta più globalizzato della storia ma non abbiamo un pensiero globale con cui pensarlo: ecco in sintesi la crisi che stiamo vivendo”. I Paesi che si sono riuniti prima per il Summit della SCO e poi per la parata del 3 settembre, sostiene infatti Orsina, citando la risoluzione stessa del Summit, non esprimono nessun “pensiero globale”; piuttosto, mutuano molti dei valori del liberalismo: “il rispetto di ciascun popolo di scegliersi in autonomia il proprio percorso politico, economico e sociale”, “il rispetto reciproco della sovranità, dell’indipendenza e dell’integrità territoriale”, “la centralità delle Nazioni Unite nel coordinare la costruzione di un mondo più rappresentativo, democratico e giusto” e, addirittura, “il rispetto per i diritti umani e le libertà fondamentali”. Ora, ammette Orsina, “non c’è dubbio che l’Occidente sia stato impari ai valori liberali che propagandava”, come d’altronde “non c’è dubbio che abbia coperto questa sua inadeguatezza con dosi abbondantissime di ipocrisia”, ma ciononostante “i nostri limiti e le nostre ipocrisie di occidentali impallidiscono di fronte al cinismo di un documento che, portando fra le altre le firme di Cina, Iran e Russia, chiama al rispetto della sovranità, dell’integrità territoriale, dei diritti umani, della democrazia e delle libertà fondamentali”. E questo significa, appunto, che il “non-Occidente” non ha una sua ideologia globale, ma è costretto a “imitare strumentalmente quella occidentale, volgendola contro l’Occidente”; “Come ai tempi di Fukuyama” sottolinea allora Orsina, “in campo c’è ancora un solo vero pensiero universale, per quanto malconcio, ed è quello liberale”, che però è “diventato il cavallo di Troia delle potenze illiberali”. Questo, da un lato, rende comprensibile la tentazione di Donald Trump “di abbandonarlo del tutto per seguire il puro e semplice interesse nazionale americano”; dall’altro, però, dovrebbe rafforzare anche l’idea diametralmente opposta e, cioè, che “la vera forza dell’Occidente consiste proprio nel suo monopolio della capacità di pensare il mondo per se stesso e per gli altri”. Insomma, Orsina, involontariamente, riesce a spiegare in modo impeccabile il nocciolo della questione: l’Occidente o è totalitario e in grado di imporre con ogni mezzo necessario la sua visione del pianeta a tutti gli altri, oppure non è. In cosa consista esattamente questa visione è ovviamente motivo di dibattito: per Orsina, Sallusti, Capezzone e compagnia cantante consiste, appunto, nei valori della libertà e della democrazia, come dimostra il genocidio di Gaza; per noi consiste nella realtà materiale di sottomettere ogni relazione sociale agli interessi di una ristretta oligarchia finanziaria. Quale delle due descrizioni vi convince di più?

Ma andiamo oltre. Un po’ di analisi in più sulle armi messe in bella mostra durante la parata le trovate su The War Zone qua e qua, e su Guancha qua, qua e qua

Sulla storica firma dell’accordo per il colossale gasdotto Power of Siberia 2, segnalo l’articolo del buona Korybko qua.

Foreign Affairs torna sulla questione indiana con un importante articolo dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan: “Le ragioni per un’alleanza tra Stati Uniti e India”; “Washington dovrebbe avvicinare Nuova Delhi, non allontanarla”, recita l’occhiello. Su Asia Times, Ivan Lidarev, della National University di Singapore, prova a riassumere “il vero motivo per cui Modi è andato in Cina”: la visita di Modi, secondo Lidarev, segnerebbe il “ritorno all’autonomia strategica dopo aver apertamente appoggiato gli Stati Uniti”. 

Asia Nikkei ricorda come, al di là delle chiacchiere, “in un contesto di cambiamenti geopolitici, le banche taiwanesi puntano su Hong Kong”; secondo l’articolo, “Mentre i rivali riducono le operazioni a causa delle difficoltà economiche e del mercato immobiliare, gli  istituti di credito taiwanesi a Hong Kong si stanno espandendo per cogliere le opportunità offerte dalle crescenti tensioni geopolitiche”; un mercato interno sovraffollato avrebbe spinto sempre più istituti a puntare su ricavi all’estero e “La città, con il suo accesso alla liquidità in dollari statunitensi, ospita attualmente 20 istituti di credito taiwanesi autorizzati e rimane il polo finanziario offshore più redditizio per le banche taiwanesi”. Difficile pensare che questi centri di potere e di interessi economici vedano di buona occhio la retorica indipendentista del presidente filo-USA Lai Ching-Te.

Soprattutto ora che, come sottolinea Bloomberg, il mercato azionario cinese sta garantendo ritorni stellari: già nel 2025, l’indice Hang Seng di Hong Kong aveva registrato una crescita record intorno al 30%, seguita da vicino dall’indice di Shanghai; da inizio agosto, però, si è registrata un’ulteriore impennata che ha visto aumentare la capitalizzazione complessiva del mercato azionario cinese di oltre 1200 miliardi nell’arco di poco più di un mese. E’ il risultato dello scoppio della bolla immobiliare: prima dello scoppio, i risparmi cinesi andavano sostanzialmente tutti nel mattone; questo comportava una crescita preoccupante del valore del mattone, trasformava le case in asset finanziari difficilmente accessibili al grosso della popolazione e distoglieva capitali da impieghi più redditizi e maggiormente in linea con lo sforzo cinese per raggiungere l’indipendenza tecnologica. Lo scoppio della bolla, se da un lato ha avuto ripercussioni pesanti sulla crescita economica, dall’altro ha permesso di invertire la corsa dei prezzi, di – come annunciava Xi Jinping – riaffermare il principio secondo il quale “le case servono per vivere, non per speculare” e, soprattutto, di dirottare capitali verso aziende tecnologiche innovative. Pure troppo: come titola Bloomberg, infatti, adesso “La Cina punta a limitare la speculazione azionaria per favorire guadagni costanti”. Lo spostamento dei capitali ha funzionato, ma è stato talmente massiccio da creare potenzialmente nuovi squilibri e, con la più che giustificata diffidenza verso la capacità del mercato di autoregolarsi, l’amministrazione ora comincia a ragionare sugli interventi necessari per evitare un surriscaldamento eccessivo, con tutti i rischi che comporta. 

E con questo per oggi è tutto. Se avete qualche idea su come migliorare questo nuovo formato fatemelo sapere nei commenti. A domani!

 

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