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L'Europa sottomessa... ma a chi?

di Ferdinando Bilotti

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Attraverso l’Ucraina, gli Stati Uniti stanno conducendo una guerra contro la Russia.

Attraverso la guerra contro la Russia, stanno conducendo una guerra contro l’Europa.

Promuovendo l’isolamento economico della Russia, gli USA hanno indotto l’Unione Europea a stabilire sanzioni che hanno ridotto le sue importazioni di idrocarburi da tale nazione. L’attentato al gasdotto Nord Stream, che con tutta probabilità è opera degli stessi Stati Uniti, ha ulteriormente compromesso l’afflusso di risorse energetiche dal suo territorio. Come se non bastasse, la Russia ha reagito alle sanzioni con delle misure ritorsive, consistenti nella limitazione delle proprie esportazioni di altre materie prime, in uso nell’industria e nell’agricoltura. Le imprese europee hanno dovuto così fare i conti con una penuria di molti prodotti di cui si servivano e con un rincaro dei loro prezzi, dovuto all’insorgere di fenomeni speculativi e alla sostituzione delle importazioni russe con altre meno a buon mercato (a cominciare dal gas di scisto statunitense, più costoso di per sé e reso ancora più caro dall’onerosità del trasporto via nave e dei trattamenti di liquefazione e rigassificazione cui va sottoposto).

L’industria continentale, quindi, si è ritrovata a produrre a costi più alti, con conseguente perdita di competitività sul versante dei prezzi cui era in grado di offrire i propri manufatti. Ciò l’ha resa interessata a valutare una delocalizzazione delle proprie attività in altre nazioni, ancora in grado di offrire energia a basso costo e magari dotate di condizioni più favorevoli anche sotto altri aspetti (ad esempio: minori tutele per i lavoratori e normative ambientali meno rigide). Fra i paesi a possedere tali requisiti c’erano proprio gli Stati Uniti, che oltretutto presentavano la caratteristica di costituire un importante mercato di sbocco per le produzioni europee.

Con ammirevole tempismo (nello stesso 2022 in cui sono scoppiati la guerra prima e il Nord Stream poi), l’amministrazione Biden ha varato un provvedimento, l’Inflation Reduction Act, che sembrava pensato proprio per favorire questa migrazione di industrie: esso infatti, elargendo generosi sussidi alle aziende operanti in patria, ha offerto agli imprenditori europei un ulteriore incentivo ad affrontare le spese connesse a una rilocalizzazione al di là dell’Atlantico delle proprie strutture produttive. Vedremo negli anni a venire quale portata assumerà tale fenomeno; certo è che questa combinazione di fattori costituisce una spada di Damocle pendente sulle teste delle classi lavoratrici e delle economie europee.

Tutto chiaro, insomma: Biden (o chi per lui, date le sue condizioni di salute) prima provoca la Russia, sventolandole sotto il naso il drappo rosso dell’ingresso dell’Ucraina nella NATO; quindi sfrutta la guerra per ottenere la rottura dei rapporti commerciali fra Europa e Russia (lo stesso attentato al Nord Stream, collocato in questo contesto bellico, ha potuto essere convenientemente attribuito agli ucraini) e mettere così in crisi la nostra industria; infine rende gli Stati Uniti più attrattivi per le imprese europee, ovvero offre una soluzione al problema da lui stesso creato.

Perché questa politica antieuropea? La risposta è che gli USA, in buona sostanza, non hanno più un’industria. A partire dagli anni Ottanta, un ceto politico dominato dalle lobby imprenditoriali ha consentito che queste trasferissero la produzione manifatturiera in Messico, nel Sud-Est asiatico, infine in Cina, nell’intento di gonfiare i propri profitti tramite l’abbattimento del costo del lavoro. Ma una nazione non può sopravvivere senza industria. Non soltanto e non tanto perché la sua classe lavoratrice si riduce a vivere di lavoretti, in uno stato di semipovertà che genera disagio psichico, dipendenze, criminalità (in fondo, dei lavoratori a chi importa?); ma anche e soprattutto perché lo stato, per effetto dell’impoverimento della classe media, si ritrova privo di una adeguata base imponibile (a meno che non sia disposto a tassare pesantemente i ricchi, ipotesi fuori discussione negli Stati Uniti) ed è costretto a coprirsi di debiti. Gli USA hanno fatto esattamente questo: il loro debito pubblico, che nel 1980 era pari all’incirca al 40 per cento del PIL, alla vigilia della grande crisi finanziaria del 2008 era già salito all’80 per cento; le due grandi crisi (contando anche quella da Covid) hanno poi favorito una sua ulteriore e più rapida lievitazione, che l’ha portato nel 2024 sopra la soglia del 120 per cento. Un simile andamento è sostenibile? Forse sì, se il dollaro continuasse ad essere la moneta del commercio internazionale: in tal caso, difatti, la necessità di possedere dollari da scambiare istigherebbe le altre nazioni ad acquistare titoli di debito USA, per incassarne i rendimenti (denominati per l’appunto in dollari). Il problema è che l’egemonia del dollaro, nel futuro anche prossimo, non può essere data per scontata: l’ascesa della Cina al rango di “fabbrica del mondo”, innescata proprio dalle delocalizzazioni statunitensi (e proseguita grazie all’accorta pianificazione del governo di Pechino, che ha fatto sorgere anche delle grandi imprese a capitale nazionale), ha posto questo paese al centro di enormi flussi di merci, materie prime e capitali, che esso potrebbe decidere di gestire senza fare ricorso alla moneta statunitense. Insomma, la persistenza della supremazia del dollaro dipende ormai dalla benevolenza del Partito Comunista Cinese... sapendo questo, riuscireste a dormire sonni tranquilli, se foste nei panni dell’inquilino della Casa Bianca?

Dunque, l’industria americana va ricostruita. E il modo più semplice per farlo è andare a prendere delle industrie già esistenti. In Europa, ovviamente; perché non sarà mai possibile far rientrare quelle che i capitalisti statunitensi hanno portato in Cina. La Cina, infatti, offre alle imprese dei vantaggi incolmabili (in termini non solo di costi, ma anche di disponibilità di operai e tecnici); e tali vantaggi non possono venire cancellati in qualche modo, perché gli USA non possono imporle di sanzionare la Russia o far saltare impunemente il gasdotto Power of Siberia, che le porta il gas russo.

La questione del rilancio industriale, peraltro, non deve fare passare in secondo piano l’altro vantaggio derivante da questa politica: la possibilità di esportare in Europa il gas americano. Oggi gli Stati Uniti hanno una bilancia dei pagamenti con l’UE in sostanziale pareggio, in quanto le importazioni dei nostri manufatti sono compensate dalla presenza nel vecchio continente dei fondi azionari e delle imprese di servizi informatici statunitensi, che vi fanno profitti e poi li riportano in patria. Accrescendo le proprie esportazioni di materie prime proprio mentre riducono le importazioni di manufatti, gli USA potrebbero alterare a proprio vantaggio tale bilancia in misura significativa: a quel punto comincerebbero a drenare risorse dall’Europa, arricchendosi a sue spese.

Sia chiaro: non stiamo sostenendo che il saccheggio delle industrie e dei capitali europei costituisca l’unica ragion d’essere della guerra alla Russia. Ogni guerra americana trova una sua giustificazione ulteriore in se stessa, in quanto fonte di lucrose commesse per il famigerato “complesso militare industriale”. Inoltre, è credibile che anche la Russia sia stata vista dall’amministrazione Biden come un territorio da spogliare delle sue ricchezze. L’obiettivo doveva essere quello di infliggerle una sconfitta così umiliante da indurre la popolazione russa a rovesciare il ceto politico putiniano e ad affidarsi a elementi filo-occidentali, i quali, per ripristinare relazioni amichevoli con gli USA, avrebbero consentito alle loro imprese di assumere la gestione delle enormi risorse naturali del paese. Si sarebbe così creato un altro flusso di capitali diretto verso gli Stati Uniti, generato dai profitti realizzati dalle società americane operanti in Russia.

Infine, attaccare la Russia era anche un modo per colpire indirettamente la Cina, la quale era ormai divenuta, per effetto della sua ascesa economica, la più temibile minaccia all’egemonia globale degli USA. Su questo argomento, però, vi sarebbe molto da dire, ragion per cui preferiamo lasciarlo da parte, ripromettendoci di dedicarvi un articolo a sé stante.

Ora riprendiamo la nostra sintetica ricostruzione storica. Dopo Biden arriva Trump, il quale è espressione di una fazione della classe dirigente statunitense dotata, rispetto a quella prima al potere, di una visione più realistica dello stato di forma del paese: per essa l’aggressiva politica bideniana non è suscettibile di piegare la Russia e rischia di risultare controproducente sul piano dei rapporti di forza tra USA e Cina. Infatti gli Stati Uniti, a loro avviso, non sono abbastanza forti da poter condurre con successo la tentata azione di logoramento della Russia, e neppure sono in grado di condurla senza perdere capacità di esercitare, nel medesimo tempo, un’efficace azione di contenimento militare della Cina.

Dunque, Trump inizia una faticosa opera di ricucitura con Putin. La fine della guerra russo-ucraina, però, con tutta probabilità porterà alla cancellazione delle sanzioni: Putin senz’altro porrà questa condizione, e si dà il caso che Putin sia in grado di dettare le sue condizioni agli occidentali, dal momento che la guerra la sta vincendo. Poco male: mentre tratta col Cremlino, Trump si premura di imporre dazi sulle importazioni dall’Europa, che ne mineranno la competitività anche nel caso del ritorno nel continente del gas russo a basso costo. Già che c’è, strappa al Presidente della Commissione europea (l’ineffabile Ursula Von Der Leyen) l’impegno da parte dell’UE ad acquistare armi e materie prime energetiche americane, nonché ad effettuare cospicui investimenti in territorio statunitense. L’effettiva applicabilità di questi accordi è abbastanza dubbia (l’Unione Europea non è uno stato e tanto meno uno stato di tipo socialista, nel quale il governo può ordinare alle imprese dove effettuare i propri acquisti e i propri investimenti); ma intanto il principio è stato fatto passare (il principio, cioè, che l’Europa debba svenarsi per sostenere l’economia statunitense). E comunque l’Inflation Reduction Act è rimasto in vigore, ragion per cui, per attrarre gli investimenti europei, gli USA possono tuttora contare su una carota, oltre che su un bastone.

Questa ricostruzione potrebbe essere giudicata un’analisi esaustiva degli eventi degli ultimi anni... se in essa non vi fosse un grosso buco nero, ovvero qualcosa che rimane senza spiegazione: l’atteggiamento dei governi europei. Perché questa sottomissione incondizionata ai voleri statunitensi? Perché hanno varato sanzioni che ci penalizzano, hanno fatto spallucce di fronte al sabotaggio del Nord Stream, hanno accettato senza sostanziali reazioni la svolta protezionista di Trump? A proposito dei dazi trumpiani, va fatto notare che l’Europa era in grado di contrastarne l’imposizione minacciando una ritorsione temibile, ovvero la tassazione delle attività statunitensi condotte nel nostro continente. Una possibile spiegazione è che i nostri governanti non siano altro che delle marionette nelle mani degli apparati governativi e di sicurezza d’oltreoceano, i quali ne avrebbero assunto il controllo tramite la corruzione o il ricatto (i servizi segreti statunitensi hanno il vizietto di spiare i politici europei, quindi delle loro faccende private ne sanno parecchio), o addirittura li avrebbero gestiti sin dall’inizio della loro carriera (sì, stiamo proprio avanzando l’ipotesi che i leader europei non siano altro che degli agenti americani, infiltratisi nei principali partiti per farvi carriera sino ad assumerne la direzione). Essa, tuttavia, non risulta soddisfacente, per le ragioni che ora illustreremo.

Nell’articolo “Perché comandano i ricchi” abbiamo rilevato come in Europa si sia determinata un’accentuata subordinazione delle classi politiche ai principali rappresentanti del potere economico. Tale subordinazione avrebbe dovuto consentire alla grande imprenditoria europea di prendere parte alla selezione delle prime o comunque di influenzarne in misura significativa le decisioni; e quindi avrebbe dovuto far sì che i condizionamenti provenienti dagli USA fossero contrastati da altri, orientati alla tutela delle economie continentali. Perché ciò non si è verificato? Potremmo supporre che proprio la sensibilità dei politici europei alle pressioni lobbistiche sia responsabile di ciò: ovvero che essi siano stati condizionati dall’azione congiunta del potere politico e del potere economico statunitense (il secondo rappresentato dai produttori energetici e di armamenti, grandi beneficiari della situazione che si è creata), la quale avrebbe assunto una forza tale da soverchiare l’influenza che riuscivano ad avere su di loro gli operatori economici del vecchio continente.

Questa rappresentazione di una lobby imprenditoriale europea messa all’angolo dalla sua equivalente statunitense, tuttavia, non suona convincente, in quanto, se le cose fossero andate in tal modo, le scelte a essa sfavorevoli avrebbero comunque suscitato delle combattive, per quanto minoritarie, prese di posizione critiche, promosse ovviamente dalla medesima. Invece tali scelte non hanno incontrato un’opposizione degna di nota, né in ambito politico né in ambito mediatico (i media cosiddetti “mainstream”, ampiamente controllati dal potere economico, hanno silenziato o demonizzato qualunque accenno di critica alle politiche antirusse; solo quando sono arrivati i dazi di Trump si sono permessi qualche mugugno); è come se l’imprenditoria europea non fosse stata soltanto sopraffatta da altri soggetti nella lotta per l’affermazione dei rispettivi interessi, ma non fosse neppure riuscita a fare presenti i propri. Tale imprenditoria, insomma, sembra avere sofferto di una capacità d’influenza non insufficiente, ma addirittura nulla: il che tuttavia non è credibile.

Ma ammettiamo pure che i governanti europei abbiano risposto in via esclusiva agli interessi americani. Concesso ciò, rimane comunque una contraddizione da spiegare. I maggiori lobbisti statunitensi sono i grandi fondi d’investimento, che hanno il sostanziale controllo delle grandi imprese nazionali di ogni comparto. Questi fondi, però, sono presenti anche in Europa, possedendo pacchetti azionari di banche e industrie. Una classe politica europea obbediente a tali operatori finanziari potrebbe mai volere danneggiare delle aziende in cui essi hanno investito?

Considerata la questione sotto questi diversi punti di vista, si deve allora necessariamente giungere alla conclusione che segue, per quanto strana possa apparire: evidentemente, i rappresentanti del grande capitalismo europeo hanno approvato le politiche che hanno danneggiato l’economia europea. E' possibile una cosa del genere? Sì, lo è. Noi siamo abituati a ragionare in termini di “interesse nazionale”; ma la società è composta da gruppi sociali diversi, aventi interessi a volte divergenti, quando non contrapposti, ragion per cui può avvenire che una linea politica penalizzante per la maggior parte della popolazione (e quindi suscettibile di avere un impatto complessivamente negativo sull’economia) risulti comunque favorevole alla rimanente frazione di essa. E se tale frazione coincide con la componente della cittadinanza dotata di maggiore influenza sul ceto di governo, allora può benissimo accadere che un governo scelga di portare avanti proprio quella linea.

Nella seconda parte di questo articolo vedremo come il ragionamento ora condotto possa venire proficuamente usato come chiave interpretativa delle politiche europee dell’ultimo triennio. Vedremo, cioè, come i nostri governanti si siano mossi contro l’economia europea non perché sottomessi al grande capitale statunitense, che li starebbe usando come propri agenti contro il grande capitale europeo, ma perché sottomessi al grande capitale statunitense ed europeo.

 

Parte 2

Abbiamo concluso la prima parte di questo articolo promettendo di dimostrare che la politica condotta a partire dal 2022 dalle nostre élite politiche, benché lesiva degli interessi europei complessivamente intesi, non è risultata contraria a quelli delle nostre élite economiche. Cominciamo dunque la nostra analisi, prendendo in esame innanzitutto gli effetti immediatamente riscontrabili di tale politica nei diversi ambiti dell’economia:

- finanza d’investimento: i fondi d’investimento energetici, operanti sulla borsa del gas di Amsterdam, hanno potuto sfruttare le incertezze create dagli eventi per gestire la compravendita di questa materia prima con modalità speculative, ossia rivendendola alle imprese energetiche a prezzi gonfiati rispetto a quelli cui riuscivano ad accaparrarsela;

- produzione di energia elettrica tramite gas e distribuzione di elettricità e gas: le società del settore hanno approfittato dell’impossibilità degli utenti di fare a meno dei loro servizi per compensare l’incremento del costo della materia prima tramite incrementi dei prezzi delle loro forniture. In effetti, sfruttando il pretesto della crisi internazionale in atto, hanno potuto far lievitare le proprie tariffe addirittura più di quanto fosse necessario per compensare il rialzo dei costi di approvvigionamento del gas;

- altri servizi essenziali: come gli operatori sopra citati, quelli degli altri settori terziari hanno innalzato i propri prezzi più di quanto fosse necessario per compensare la crescita che hanno subito i costi energetici;

- settore manifatturiero: gli operatori di vari ambiti, a loro volta, hanno aumentato i propri prezzi più di quanto avessero bisogno di fare per compensare la crescita dei prezzi delle forniture energetiche e di talune materie prime impiegate nei processi produttivi;

- servizi bancari: le banche hanno visto aumentare la richiesta di prestiti e mutui (cui la popolazione, impoverita dal rialzo del costo della vita, ha dovuto fare maggiormente ricorso) e hanno potuto ricavare maggiori profitti dalla loro concessione (giacché hanno innalzato gli interessi sui prestiti, oltretutto lasciando sostanzialmente invariati quelli sui depositi). [1]

Come si vede, i principali operatori economici hanno colto l’occasione della crisi internazionale per porre in essere rialzi di prezzo di portata tale da incrementare i loro margini di profitto. Tali pratiche, naturalmente, sono state rese possibili dalla scelta dei governi di mantenere nei riguardi delle medesime un atteggiamento acquiescente, invece di contrastarle con attività di sorveglianza e regolazione finalizzate a proteggere i consumatori. Il mistero della mancata opposizione di tali soggetti alle politiche autolesionistiche che hanno investito l’Europa sembra dunque già risolto. Tuttavia, non possiamo fermare qui la nostra analisi. La situazione dei produttori manifatturieri, difatti, va analizzata più in profondità. Essi possono anche avere accresciuto i propri profitti unitari, ma l’impoverimento dei cittadini europei scaturito dalla crescita del costo dei servizi essenziali ha inciso negativamente sulla domanda interna all’UE dei beni di consumo, nuocendo pertanto al volume complessivo dei profitti stessi. Inoltre, aumentando i propri prezzi essi hanno perso competitività nei confronti dei loro rivali asiatici, che hanno quindi acquisito la possibilità di sottrarre loro quote del mercato europeo. Ancora, la necessità di vendere a prezzi più elevati, sulla quale da ora in avanti incideranno anche i dazi, rischia di costare loro la perdita di molti clienti sul mercato americano, che per le imprese europee ha una notevole importanza. Insomma, vi sono delle buone ragioni per ritenere che per gli operatori del manifatturiero le politiche dell’ultimo triennio abbiano assunto davvero una valenza negativa. Ma allora perché non le hanno contrastate?

La risposta è che i governi e gli stessi operatori economici hanno la possibilità, nel prossimo futuro, di rimediare ai danni che tali politiche hanno procurato nell’immediato, agendo per diverse vie. Innanzitutto, le industrie europee potrebbero decidere di abbandonare l’Europa. Abbiamo visto come gli Stati Uniti offrano incentivi volti a incoraggiare il trasferimento della produzione oltreoceano. E ci sono anche altri paesi dove potrebbe essere vantaggioso delocalizzare: paesi, magari, colpiti anch’essi dai dazi di Trump, ma che in termini di costi energetici e di altra natura (da quelli salariali a quelli generati dalle normative ambientali) assicurano vantaggi tali da annullare la penalizzazione indotta dalle barriere tariffarie. Possiamo dare per scontato che i nostri governi si guarderanno dal limitare la libertà decisionale degli azionisti (d’altronde, c’è anche la questione dell’impegno a investire negli USA preso dalla Von Der Leyen...), ragion per cui appare estremamente verosimile che questa migrazione si verificherà davvero.

Beninteso, la soluzione della delocalizzazione comporterà un costo da pagare: l’ulteriore contrazione del mercato europeo indotta dall’incremento della disoccupazione. Va considerato, però, che ai posti di lavoro distrutti in Europa ne corrisponderanno altri sorti negli USA o altrove, che influiranno positivamente sulla domanda locale dei beni prodotti dalle imprese trasferitesi. A fare le spese di questi spostamenti, pertanto, saranno soltanto i popoli europei.

Ma c’è di più: nel lungo periodo, i titolari delle maggiori industrie potrebbero avere la possibilità di non risultare danneggiati dalla situazione che si è determinata persino rimanendo in Europa.

Dicevamo che i governi europei non si permetteranno di ostacolare la partenza delle imprese. Prevediamo, però, che cercheranno di offrire loro degli incentivi a non trasferirsi, consistenti in cospicui sussidi e sgravi fiscali, funzionali a ripristinare la competitività di prezzo delle loro produzioni. In linea di principio, tali risorse saranno rivolte all’intero apparato industriale, ma nei fatti - anche questa ci pare una facile previsione - verranno assegnate in base alla capacità di lobbing detenuta dalle diverse aziende: il che vuol dire che ad accaparrarsele saranno soprattutto i grandi complessi industriali. Invece i produttori minori resteranno privi di adeguate tutele; questa discriminazione, unita al fatto che la loro stessa minore forza finanziaria li renderà particolarmente esposti alla crisi, causerà il fallimento di molti di essi. In ragione di ciò, per un verso il mercato europeo andrà restringendosi, a causa della diffusa perdita di reddito e di occupazione, ma per l’altro i grandi operatori vedranno migliorare la propria posizione relativa all’interno di esso: costoro, per intenderci, potrebbero passare dall’intercettare il 60 per cento di 100 (intendendo con “100” la capacità di spesa pre-crisi della popolazione europea) al detenere l’80 per cento di 80 (che sarebbe già abbastanza per guadagnarci: provate a fare i conti).

Inoltre, il sostegno all’Ucraina offrirà all’UE una giustificazione per promuovere il potenziamento del comparto industriale militare. Nell’Europa futura, pertanto, acquisterà importanza una forma di attività imprenditoriale del tutto dipendente dallo stato (emanatore di commesse da un lato e di sussidi dall’altro), dunque monopolizzata dalla élite imprenditoriale dotata di maggiore ascendente sul mondo politico. Rendetevi conto che questa, per essa, è un’eccellente prospettiva: produrre per lo stato è meglio che produrre per le masse di consumatori, le quali hanno il vizio di guardarsi intorno prima di scegliere (gettando l’occhio sino alla Corea o alla Cina) e di cambiare marca se rimangono insoddisfatte dall’acquisto. Poi, le armi sono la merce più redditizia: il loro impiego ne causa subito o in breve tempo la distruzione, imponendone la sostituzione con ulteriori acquisti. Certo, se rimangono accatastate in un deposito il discorso è diverso; ma finché l’Ucraina continuerà a funzionare, per la produzione bellica occidentale, come un buco nero il problema non si porrà.

Ricapitolando: i grandi imprenditori manifatturieri avranno la possibilità di separare i propri destini da quelli dei paesi d’origine, cercando altrove maggiori opportunità di guadagno, nonché di fare leva sul loro peso politico per concentrare nelle proprie mani quelle residue esistenti in patria, di rafforzarsi in un ambito, quale quello militare, dove non esiste un vero “mercato” e di mantenere artificiosamente la propria competitività internazionale tramite iniezioni di denaro pubblico. Le condizioni perché questo avvenga si stanno già determinando (pensiamo all’Inflation Reduction Act o ai progetti di riarmo europei). Pertanto, essi hanno la ragionevole sicurezza che nei prossimi anni i loro profitti torneranno ai livelli pre-crisi o addirittura supereranno questi ultimi. Se a tale considerazione aggiungiamo il fatto che i titolari delle maggiori industrie sono investitori che operano anche in ambiti non manifatturieri (e che pertanto stanno già traendo vantaggio dalla crisi in atto, secondo le modalità prima esposte), allora anche l’acquiescenza di tale frazione del capitalismo europeo risulta comprensibile.

La situazione che si è creata, dunque, è senz’altro potenzialmente disastrosa per l’economia e per i popoli europei, ma non lo è necessariamente per i grandi detentori di capitali del vecchio continente. Siamo così pervenuti a una prima spiegazione del fatto che il ceto politico continentale abbia assecondato le politiche antieuropee degli USA, pur essendo pesantemente influenzato nelle sue decisioni dagli interessi del capitale europeo: quelle politiche non gli hanno impedito e non gli impediranno di continuare a proteggere questi ultimi.

La credibilità della nostra interpretazione risulta ancora maggiore se facciamo un piccolo salto indietro nel tempo e riconsideriamo gli eventi del 2020-21. Anche al tempo della pandemia i governi hanno preso delle misure che hanno danneggiato gravemente l’economia. Non staremo ora a discutere se fossero giuste, eccessive o sbagliate alla radice; il fatto è che gli esponenti dell’imprenditoria in grado di fare pressione perché fossero attenuate o limitate nel tempo, insomma modulate in modo da ridurre il sacrificio chiesto alle attività economiche, non si sono mossi. Perché? La risposta è che, in quel frangente come oggi, essi hanno visto nella crisi un’opportunità. Da una parte, difatti, ha offerto loro occasioni di profitto (vi ricordate le mascherine prodotte dalla Fiat?); dall’altra, ha messo in ginocchio gli operatori economici più piccoli. D’altronde, una crisi economica crea di per sé le condizioni per una maggiore concentrazione dei capitali, e in generale della ricchezza presente nella società. Se poi i decisori politici si premurano di tutelare maggiormente i soggetti più forti invece di quelli più deboli, questo effetto risulta amplificato.

C’è un’ulteriore considerazione che va fatta. Come abbiamo già accennato nella prima parte dell’articolo, appare plausibile che gli Stati Uniti si siano impegnati nel confronto con la Russia anche allo scopo di destabilizzarla e di arrivare per questa via a soggiogarla, oltre che sul piano politico, su quello economico: crediamo, cioè, che l’amministrazione Biden abbia sperato che l’onta della sconfitta militare e i danni arrecati dalle sanzioni potessero indurre la popolazione russa a rovesciare il ceto politico putiniano e ad affidarsi a elementi filo-occidentali, disposti, pur di ripristinare relazioni amichevoli con la nostra parte di mondo, a consentire una forte penetrazione delle imprese statunitensi nell’economia del loro paese. Ebbene, secondo noi anche le classi dirigenti europee hanno ragionato in questi termini. La nostra grande imprenditoria, quindi, deve avere accettato di assecondare la politica antirussa statunitense anche perché riteneva che, se l’Europa fosse rimasta subordinata agli USA, avrebbe avuto l’opportunità di partecipare al saccheggio delle immense risorse della Russia che tramite quella politica la presidenza Biden puntava a realizzare. Questo progetto politico, ovviamente, si è rivelato fallimentare; ma ora i capitalisti europei non possono più tornare indietro. Sì, ora hanno bisogno della guerra contro la Russia, per giustificare il potenziamento dell’apparato militare e quindi la valanga di commesse e sussidi che l’industria deve ricevere per rifarsi delle perdite che per il momento sta subendo. Ciò spiega come mai, quando Trump ha cominciato a dialogare con Putin, i governi europei non si siano accodati di buon grado, ma all’opposto siano rimasti fermi sulle posizioni assunte al tempo di Biden.

Ancora un’altra cosa. Abbiamo individuato, all’origine dell’aggressività statunitense verso l’Europa, la necessità di rimediare a una condizione economico-finanziaria gravemente compromessa. Ebbene, dobbiamo ritenere che questa esigenza sia stata compresa e sia condivisa dalle classi dirigenti europee. Ciò in ragione dell’importanza della piazza finanziaria statunitense quale destinazione degli investimenti europei. I nostri capitalisti, insomma, devono essersi detti che non potevano permettersi di lasciare andare a fondo gli Stati Uniti. In fin dei conti, per essi quello che si è determinato è stato un compromesso accettabile. L’Europa si dissanguerà per tenere in piedi l’economia americana, ma i profitti dei maggiori imprenditori europei verranno comunque tutelati. Questi, così, trarranno i frutti dell’operazione di salvataggio dell’economia americana, ma non ne pagheranno il prezzo.

A questo punto, possiamo tirare le somme e provare a dare una lettura complessiva degli eventi di questi ultimi anni. Il governo americano, per sostenere la sua economia, è andato all’attacco di quella europea. La classe politica europea non ha potuto opporsi a questa sua decisione, non soltanto perché sensibile alle pressioni delle lobby imprenditoriali statunitensi, ma anche perché condizionato da quelle europee, che avrebbero risentito di un collasso dell’economia statunitense. Queste ultime, però, ovviamente pretendevano che l’impoverimento dell’Europa a vantaggio degli USA avvenisse secondo modalità tali da non penalizzarle. Occorreva quindi contemperare gli interessi delle une con quelli delle altre. A ciò in parte hanno provveduto gli stessi Stati Uniti, stabilendo condizioni favorevoli al trasferimento oltreoceano delle nostre imprese manifatturiere, e in parte i governanti europei, con i loro piani di riarmo e la loro acquiescenza dinanzi ai comportamenti approfittativi e speculativi messi in atto da banche e altri soggetti finanziari. A far credere ai nostri capitalisti che nel lungo periodo il rapporto tra costi e benefici dell’accettazione della strategia statunitense sarebbe stato favorevole ai secondi, inoltre, hanno contribuito la certezza di poter contare su cospicui sostegni pubblici, le prospettive di selezione darwiniana delle imprese conseguente alla crisi e il miraggio della spoliazione delle risorse russe.

Questa ricostruzione funziona; possiamo arricchirla, però, di un ulteriore elemento, che pone in relazione gli eventi del 2020-21 con quelli più recenti. Un capitalismo occidentale dappertutto in difficoltà, a causa dell’ascesa della Cina, ha visto nell’emergenza Covid l’occasione per introdurre nell’economia fattori di crisi ed elementi di dirigismo utili a rilanciare i profitti degli operatori maggiori, tramite lo sfoltimento dell’habitat economico dalle imprese più piccole e la rapina dei redditi e patrimoni del ceto medio. Non era possibile, tuttavia, far durare ancora a lungo quella situazione di paura che aveva reso accettabile una profonda deviazione dal nostro modo di vivere consueto. Per questa ragione, quando nel 2022 le tensioni USA-Russia sono deflagrate, in Europa il coinvolgimento nel conflitto è stato visto come un’occasione per sostituire a un’emergenza ormai logora un’altra nuova di zecca. Anche questo fattore deve avere contribuito ad allineare gli europei agli americani.

In estrema sintesi, possiamo ricapitolare le nostre argomentazioni nel modo seguente. È indubbio che gli USA, in questi ultimi anni, abbiano perseguito i propri interessi politici ed economici a spese dell’Europa, agendo in modo da allontanarla dalla Russia, da farne un mercato per il proprio gas e da rafforzarsi industrialmente a sue spese; essi tuttavia hanno potuto contare, ai fini del perseguimento dei propri disegni, sulla condiscendenza delle classi dominanti europee, le quali pertanto nella vicenda ucraina hanno assunto il ruolo non di vittime, bensì di alleate (sia pure, diciamo così, in posizione subordinata) di quella statunitense. Tale atteggiamento si spiega col fatto che i massimi esponenti continentali del potere economico hanno ritenuto di poter ricavare dei benefici dalla salvaguardia dell’economia statunitense, dalla situazione di crisi che è andata determinandosi in Europa e dalle politiche di gestione della crisi stessa da parte dei governi continentali. Pertanto il comportamento dei nostri decisori politici, che valutato in rapporto ad astratti e onnicomprensivi “interessi nazionali” appare incomprensibile, alla luce di queste considerazioni risulta invece del tutto logico: essi hanno agito in conformità alle esigenze dell’insieme dei più forti gruppi di pressione economici (europei o statunitensi che fossero), sacrificando alle medesime gli interessi delle componenti sociali che non rientravano in quella ristretta cerchia di soggetti influenti (vale a dire quelli di tutti i ceti dalla piccola imprenditoria in giù).

È tutto? Ebbene... no, ancora non è tutto. Aggiungiamo anche che far calare sulla società europea un plumbeo clima di guerra imminente (“Se non lo fermiamo, Putin arriverà sino a Lisbona!”) offriva l’opportunità di irregimentare la società, limitando le nostre libertà civili. Un’opportunità del genere si era già determinata nel periodo dell’emergenza Covid; ed evidentemente le nostre classi dirigenti l’avevano molto apprezzata, tanto da volere concedersi un bis. Come abbiamo già rilevato, la guerra in Ucraina è capitata a proposito, giusto nel momento in cui la fiducia nella veridicità della narrazione pandemica - o semplicemente la capacità di sopportare le restrizioni imposteci - stava cominciando a scemare. Non era un treno che si potessero far scappare. Tanto più che il prezzo del biglietto potevano farlo pagare a noi.


Nota
[1] In merito a quanto riportato cfr. QUI, QUI e QUI

 

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Comments

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Tonino
Wednesday, 10 September 2025 19:25
"sì, stiamo proprio avanzando l’ipotesi che i leader europei non siano altro che degli agenti americani, infiltratisi nei principali partiti per farvi carriera sino ad assumerne la direzione".

Beh, basta vedere quanti politici europei poi approdati a posizioni apicali hanno legami con istituzioni finanziarie, accademiche e think tanks di oltreoceano: da Draghi a Macron a Merz, passando per Annalena Baerbock, Robert Habeck, Sanna Marin, Maia Sandu, Mikhail Saakashvili, Salomé Zourabichvili e tanti altri...
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