Sharm el-Sheikh. C'è una soluzione?
di David Bidussa
Ho molti dubbi sulla possibilità di dare forma definitiva e condivisa alla carta geografica e politica del Medio Oriente a partire dal testo degli accordi firmati a Sharm el-Sheikh lunedì 13 ottobre. Ovvero: da una parte dare una soluzione statuale a chi è senza Stato da più di settant’anni, dall’altra stabilizzare la linea di confine dello Stato di Israele.
Sono quattro i punti su cui propongo di riflettere, anticipati da una premessa – che riguarda quel che non ricordiamo – e seguiti da un breve postscriptum – che riguarda le questioni evitate da noi “spettatori”. Il primo punto riguarda l’assenza di un rappresentante diretto dei palestinesi nel documento firmato lunedì 13 ottobre; il secondo cosa significa sancire un dopoguerra garantito da un sistema di controllo internazionale; il terzo punto riguarda il fatto che qualsiasi nazione moderna nasce, anche, da una dimensione di lotta interna tra progetti politici distinti, quindi non solo liberazione dall’occupante ma anche confronto tra più ipotesi circa il “dopo”; il quarto punto, infine, riguarda la necessità di una condizione culturale che consenta di pensare il domani (e che a me pare inesistente).
Premessa
Saramago scrive che le persone “sono essenzialmente il passato che hanno avuto” per cui “noi avanziamo nel tempo come avanza un’inondazione: l’acqua ha dietro di sé l’acqua, è questo il motivo per cui si muove, ed è questo che la muove” [Quaderni di Lanzarote, Feltrinelli]. Per costruire un futuro, dunque, non è sufficiente immaginarlo, è necessario prendere in carico il presente e gli attori in campo, che sono il presente in forza di ciò che hanno dietro, il passato che hanno avuto. Ma vi è un altro elemento, e cioè che esiste anche chi si è mosso in direzione contraria – non senza incertezze, doppiezze, e contraddizioni –, eliminato dalla scena pubblica non dal nemico, ma da quella parte «dei suoi» che non erano d’accordo: coloro che un qualsiasi processo di pace non lo volevano o lo avvertivano (e ancora lo avvertono) come una «ostacolo» al loro sogno.
E questo vale per entrambe le parti nel conflitto israelo-palestinese. Tra poche settimane, il 4 novembre, ricorderemo il trentesimo anniversario dell’assassinio di Itzhak Rabin: è una data che conosciamo, eppure nessuno ricorda il 10 aprile 1983, l’uccisione a colpi d’arma da fuoco di Issam Sartawi a Albufeira, in Portogallo, nei giorni de congresso dell’Internazionale Socialista, dove era stato invitato per rendere pubblica una apertura al dialogo con Israele. Sartawi, scelto dall’OLP su indicazione di Yasser Arafat come rappresentante per questo incontro, aveva dato vita a metà degli anni Settanta a iniziative con esponenti israeliani pacifisti come Matti Peled (il cui genero oggi è una delle figure di punta di Parents Circle-Families Forum), iniziative congiunte di dialogo. Il 10 aprile, a ucciderlo, è Yousef Al Awad: l’atto è rivendicato dall’Organizzazione Abu Nidal e l’obiettivo è chiaro, frustrare gli sforzi di Sartawi per raggiungere la pace. Dodici anni dopo, con Rabin, la storia si ripete nell’altro campo: l’eliminazione di Rabin è espressione di un clima di odio interno che ha il suo leader di riferimento in Benjamin Netanyahu e in Ariel Sharon. Trenta anni dopo il quadro non si è modificato granché.
Primo punto
L’espressione più evidente di questa impasse è nella inesistenza di una possibile leadership politica di ricambio che renda possibile un processo di pace che preveda il riconoscimento dell’altro. Questo aspetto è dimostrato dalla non presenza di una delegazione israeliana e di una delegazione palestinese a Sharm El Sheik, in un qualche modo la loro assenza sarebbe delegata agli altri.
Ma mentre per Israele gli altri sono una realtà che esiste (per gli Stati Uniti, prima di tutto), la realtà interna dei palestinesi è quella di un confronto tra sette politiche che hanno come prima preoccupazione il controllo della “plebe” e rifuggono da una proposta di progetto politico di sviluppo, rifiutano di riconoscere che esiste una società politica palestinese fatta di gruppi politici legittimi e che l’egemonia non si conquista eliminando fisicamente la parte politica avversa.
I processi di Liberazione sono un insieme di più guerre: una a carattere nazionale, una a carattere sociale, una a carattere civile. Agire senza avere chiara questa distinzione non fa crescere il processo di credibilità politica e non aiuta a modificare la lingua del fondamentalismo, è un agire che non è contro la politica dominante, ma conforme e schiacciato sul codice del sovranismo politico imperante a livello globale nel tempo attuale. Al popolo palestinese resta il ruolo di vittima: le vittime non sono attori politici in grado di fare politica da soli, hanno sempre bisogno di qualcuno che le protegga. Due sono gli effetti di questa condizione: l’affidamento del proprio futuro a una parte di paesi arabi e musulmani – da Arabia Saudita a Turchia a Qatar –; nessuna crescita o maturazione politica. Si delinea dunque un percorso che non porta a uno Stato, ma perpetua una politica di affidamento, porta a un nuovo reinsediamento in una «terra di nessuno», una riedificazione non importa dove, di campi profughi. Affidarsi a qualcuno non è prendere su di sé la responsabilità di scegliere.
Secondo punto
La filosofia dell’accordo firmato a Sharm el-Sheikh è l’“accucciamento” di tutte le parti in guerra all’interno di un paradigma vittimario. Quel paradigma è origine, e conseguenza, dell’impossibilità di maturare una scelta di responsabilità politica. Responsabilità politica, lo scriveva Max Weber un secolo fa concludendo nel 1919 la sua conferenza sulla politica come professione, è sapere che la politica è scelta, rinuncia a qualcosa per poter essere realizzazione di qualcos’altro. Se l’azione politica si limita ad essere affermazione di identità, l’esito non può che essere o il dominio come unico orizzonte di azione, o la rivendicazione dell’azione politica come «atto di risarcimento» interpretato e vissuto dalla parte opposta come «sanzione punitiva», cui è legittimo rispondere senza arrivare a un compromesso o a un accordo. Un’intransigenza che rende eterno il tempo presente. Per spezzare il ritorno dell’uguale occorre una condizione che accompagna e tutela le due parti in lotta e che si colloca per certi aspetti sopra di loro, perché la storia plurigenerazionale di quel conflitto non rende nessuna delle due parti capace, in autonomia, di intraprendere un percorso di compromesso. Qualsiasi processo di pace che intende risolvere un conflitto radicale e di lunga durata nasce da una condizione: la sconfitta riconosciuta di una delle due parti e l’accordo tra vincitori per governare la situazione. In breve, il fine è dividersi il mondo: è successo nel 1815 con il Congresso di Vienna; è accaduto di nuovo nel 1945 con gli accordi sanciti a Yalta. Il dopoguerra è un tempo che si apre sulla base di un accordo per zone di influenza. Non è il caso di questo accordo.
Terzo punto
Una nazione contemporanea non nasce solo attraverso una lotta di liberazione (se in precedenza è un territorio sottomesso a una potenza straniera) ma nasce anche dalla consapevolezza di dover intraprendere una “guerra civile”: un gruppo umano nazionale riconosce le differenze interne, si confronta anche militarmente per sostenerle, riconosce alla fine una vittoria e una sconfitta. In quel conflitto, una volta deposte le armi, la sfida sarà pensare, progettare e realizzare lo “sviluppo”. Se la guerra civile si trasforma in guerra permanente – in cui il controllo di porzioni di territorio diventa una questione di clan – prende forma uno Stato debole, diviso in fazioni impegnate a delegittimare e espellere le altre. Oggi viviamo in una condizione politica (non solo nel territorio che riguarda il conflitto israelo-palestinese) in cui la nuova conflittualità amplia la dimensione della lotta per il controllo del territorio.
La guerra ai “traditori” o ai “collaborazionisti” presume l’esistenza di una classe politica che non tollera l’eventualità di un conflitto permanente, che ha a fondamento le regole di un sistema politico democratico, che, al minimo, tollera le opposizioni politiche e mette nel conto, anche se fa di tutto perché non possa avvenire, l’eventualità di un rovesciamento numerico del rapporto tra maggioranza e minoranza. Una classe politica che, a un certo punto e sostanzialmente in tempi abbastanza rapidi, esprima un “Togliatti” che firma un’amnistia, e che dunque sia portatrice di un progetto politico definito. Questa necessità riguarda il mondo palestinese ma non è estraneo Israele: in nessuna delle due parti è presente una tale classe politica capace di pensare al dopo. La visione del domani non prevede la presenza dell’altro.
Quarto punto
All’interno di tutti i gruppi nazionali coinvolti, i nuclei culturali che presentano ipotesi interpretative, culturali, storiografiche, intorno ai temi della identità del gruppo, e che si distinguono per una lettura non fondamentalista, o comunque per una discussione che include un’idea del gruppo come processo di ibridazione, sono sempre più ristretti, e nei fatti stanno scomparendo. Le forme che a partire dalla metà del Novecento avevano segnato i processi di modernizzazione culturale, anche con incertezze, sono al tramonto o si sono eclissate da tempo: è un ciclo che sta finendo che è segnato non solo dalla crisi del dialogo interreligioso, ma dalla vita grama di chi voglia insistere su un’ipotesi culturale in cui l’identità non è solo ed esclusivamente prodotto interno. La svolta fondamentalista non è stata solo teologica, è stata anche nella narrazione dell’identità culturale: questo aspetto rende ulteriormente poco praticabile una strada che si accredita come scenario di convivenza possibile, anche limitandosi a una condizione di “due popoli, due Stati”. Non ho le competenze per parlare della parte araba e islamica. Ma questo processo di periferizzazione è sicuramente profondo nella parte ebraica all’interno della quale quelle voci che a lungo hanno contribuito a formare un vocabolario che sosteneva la convivenza, sono oggi deboli, non hanno originato una nuova generazione di voci autorevoli.
Un luogo di discussione pubblica rappresentato dal quotidiano “Ha-Aretz”, o una figura pubblica come Avraham Burg, non sono efficaci se si limitano a smontare il paradigma culturale della propria parte. La loro azione dovrebbe procedere parallelamente a voci dello stesso profilo dall’altra parte: se rimangono i soli a parlare, la loro parabola sarà solo quella della voce testimoniale, non della possibilità di contribuire a costruire una nuova agenda. Questa condizione indica che i margini per “due popoli, due Stati” sono alquanto ristretti. Lo stesso vale anche per l’ipotesi dello “Stato binazionale”: al di là dello slogan non è in grado di dare forma a un’ipotesi di vita praticabile che non sia il sogno, o solo un auspicio che non fa i conti con la rabbia accumulata in questi ottanta anni, né anche con le forme di potere reale che attraversano le società civili delle due realtà sociali e politiche. Una proiezione senza fondamento. Certo sognare è lecito e anche umano, ma è necessario avviare pratiche, uscire dai luoghi del dissenso o delle minoranze virtuose per trovare percorsi di azione, andando contro il senso comune delle parti in conflitto: privilegiarne una parte come fosse l’unica ha come effetto l’arroccamento dell’altra, l’innalzamento della retorica vittimaria.
Postscriptum
Tutto questo al netto delle profonde contraddizioni di un’opinione pubblica che ha uno sguardo strabico su quel conflitto, come ha scritto Paolo Flores d’Arcais: mentre concentra la propria attenzione su quello scenario, ne tralascia altri, non per distrazione, ma con convinzione. Un aspetto che non riguarda i morti, ma la dissimulazione onesta dei vivi, avrebbe detto Torquato Accetto, uno che della morale ambigua è stato un fine interprete. Ma quella, forse, è un’altra storia.
Trump non è il dominus incontrastato. È l’attuale punto di riferimento di realtà disomogenee che hanno matrici distinte e che continuano a guardarsi con diffidenza. Perché ci sia pace occorre che ci sia un ordine internazionale in cui i pezzi che si sono fatti la guerra, o che hanno lottato per conquistare aree di influenza, arrivino a un accordo. Questo scenario attualmente non c’è, per molti motivi. Non solo perché non ci sono zone d’influenza precise tra Russia, Stati Uniti, Cina), ma perché anche tra quel blocco eterogeneo che si chiama Brics non c’è un accordo su a chi riconoscere il comando. L’effetto è la crisi profonda di qualsiasi istanza volta a far rispettare il diritto internazionale: a crisi dell’ONU non discende tanto dalle inadempienze, quanto dalla crisi del compromesso tra potenze che era la condizione stessa della nascita dell’ONU. Finito quel patto, quell’ente è sempre meno rilevante e vincolante per i soci contraenti e per i soci fondatori (che probabilmente oggi in un’ipotesi di ricomposizione sarebbero, almeno parzialmente, non gli stessi). L’accordo di Sharm el-Sheikh avviene dunque in un tempo sospeso, dove il diritto internazionale è costituito da un contenuto e da un profilo alquanto incerti.






































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