Il mondo dopo il declino americano
Arman Spéth intervista Michael Roberts
Per descrivere la situazione mondiale odierna è diventato più difficile evitare i cliché. La guerra economica scatenata da Donald Trump, il crescente rifiuto della Cina di accettare le sue provocazioni e la guerra in corso in Ucraina hanno generato livelli di incertezza sistemica mai visti dal periodo tra le due guerre mondiali, se non prima. Il timore di un’altra grande crisi, o addirittura di un’altra grande guerra, è comprensibilmente diffuso, soprattutto in Europa, la regione che rischia di perdere di più dall’emergente «Guerra fredda».
Quanto di questa turbolenza è da attribuire a un leader americano incostante e quanto è il risultato di trasformazioni strutturali più profonde? L’emergere di potenze in grado di rivaleggiare con gli Stati uniti indica la possibilità di un ordine globale più giusto, o un ordine egemone viene semplicemente sostituito da un altro? E, soprattutto, cosa significa tutto ciò per la vita e le prospettive politiche di lavoratori e lavoratrici?
In questa intervista, Arman Spéth ha parlato con l’economista marxista Michael Roberts, autore dei libri The Great Recession: A Marxist View e The Long Depression, per avere il suo punto di vista sulla sempre più frammentata economia globale e sulle sue ricadute politiche.
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Le dislocazioni geopolitiche cui stiamo assistendo sarebbero incomprensibili senza considerare la seconda amministrazione di Donald Trump. Dal suo ritorno al potere, sia la politica interna che quella estera degli Stati uniti hanno innegabilmente cambiato rotta e, dato il ruolo egemone degli Usa a livello globale, questo ha inevitabilmente avuto ripercussioni sul resto del mondo.
Facendo un passo indietro rispetto al caos quotidiano, vede qualcosa che si avvicini a una strategia coerente nella politica economica di Trump? C’è un metodo in questa follia e, se sì, qual è esattamente?
In primo luogo, Donald Trump è un individuo gravemente disfunzionale, la cui autocelebrazione, l’intensa arroganza e la mancanza di empatia umana sono evidenti a tutte le persone ragionevoli. Le sue dichiarazioni pubbliche e i suoi continui zig zag politici (dazi, conflitti internazionali e ogni sorta di questioni culturali e sociali) lo dimostrano. Ma c’è del metodo in questa follia. La strategia di Trump mira a ripristinare la base manifatturiera degli Stati uniti, a ridurre il deficit commerciale e a riaffermare l’egemonia globale degli Usa, in particolare contro la Cina.
Trump e i suoi seguaci Maga sono convinti che gli Stati uniti siano stati derubati del loro potere economico e del loro status egemonico da altre grandi economie, che hanno rubato la loro base manifatturiera e poi imposto ogni sorta di ostacolo alla capacità delle aziende americane (in particolare quelle manifatturiere) di dominare il mercato. Per Trump, questo si riflette nel deficit commerciale complessivo che gli Usa registrano con il resto del mondo.
Il presidente americano fa spesso riferimento al presidente William McKinley quando annuncia i suoi dazi. Nel 1890, McKinley, allora membro della Camera dei Rappresentanti, propose una serie di dazi per proteggere l’industria americana, successivamente adottati dal Congresso. Ma le misure tariffarie non funzionarono a dovere. Non evitarono la grave depressione economica iniziata nel 1893 e durata fino al 1897. Nel 1896, McKinley divenne presidente e guidò una nuova serie di dazi, il Dingley Tariff Act del 1897. Poiché si trattava di un periodo di espansione, McKinley affermò che i dazi avrebbero contribuito a rilanciare l’economia. Soprannominato il «Napoleone della Protezione», collegò la sua politica tariffaria all’occupazione militare di Porto Rico, Cuba e Filippine per estendere la «sfera d’influenza» americana, un concetto che Trump riecheggia oggi nei suoi commenti su Canada, Groenlandia o Gaza. All’inizio del suo secondo mandato presidenziale, McKinley fu assassinato da un anarchico infuriato per le sofferenze dei braccianti agricoli durante la recessione del 1893-97, di cui attribuì la colpa a McKinley.
Ora abbiamo in Trump un altro «Napoleone del protezionismo», che sostiene che i suoi dazi aiuteranno i produttori americani. L’obiettivo è chiaro: vuole ripristinare la base manifatturiera Usa. Gran parte delle importazioni che arrivano negli Stati uniti da paesi come Cina, Vietnam, Europa, Canada, Messico, ecc., provengono da aziende statunitensi che vendono prodotti negli Stati uniti a costi inferiori rispetto a quelli che avrebbero se fossero stati prodotti all’interno del paese. Negli ultimi quarant’anni di «globalizzazione», le multinazionali di Stati uniti, Europa e Giappone hanno trasferito le loro attività produttive nel Sud del mondo per sfruttare i bassi costi della manodopera, l’assenza di sindacati o normative, e l’accesso alle tecnologie più recenti. Ma questi paesi asiatici di conseguenza hanno drasticamente industrializzato le loro economie, guadagnando così quote di mercato nella produzione e nelle esportazioni, costringendo gli Stati uniti a ripiegare su marketing, finanza e servizi.
Tutto questo è un problema? Trump e la sua squadra la pensano così. Il loro obiettivo strategico finale è indebolire, strangolare e attuare un «cambio di regime» in Cina, assumendo al contempo il pieno controllo egemonico sull’America latina e sul Pacifico. Quindi, la produzione manifatturiera statunitense deve essere ripristinata in patria. Joe Biden era desideroso di farlo attraverso una «politica industriale» che sovvenzionasse le aziende tecnologiche e le infrastrutture manifatturiere, ma ciò significava un enorme aumento della spesa pubblica che a sua volta ha portato il deficit fiscale a livelli record. Trump ritiene che imporre dazi per costringere le aziende manifatturiere americane a tornare in patria e le aziende straniere a investire in America sia una soluzione migliore. Ritiene di poter incrementare la produzione manifatturiera, spendere di più in armi e ridurre le tasse per le aziende, tagliando al contempo la spesa sociale e mantenendo così stabili il bilancio pubblico e il dollaro, il tutto attraverso aumenti tariffari.
Quali sono le probabilità che la sua scommessa abbia successo?
Questa volta non finirà bene. Negli anni Trenta, il tentativo degli Stati uniti di «proteggere» la propria base industriale con i dazi Smoot-Hawley portò solo a un’ulteriore contrazione della produzione, mentre la Grande Depressione investiva Nord America, Europa e Giappone. Le grandi imprese e i loro economisti condannarono le misure Smoot-Hawley e fecero una campagna veemente contro di esse. Henry Ford cercò di convincere l’allora presidente Herbert Hoover a porre il veto alle misure, definendole «stupidità economica». Parole simili provengono ora dalla voce delle grandi imprese e della finanza, il Wall Street Journal, che ha definito i dazi di Trump «la guerra commerciale più stupida della storia». La Grande Depressione degli anni Trenta non fu causata dalla guerra commerciale protezionistica provocata dagli Stati uniti nel 1930, ma i dazi aggiunsero forza alla contrazione globale perché ogni paese agì per proprio conto. Tra il 1929 e il 1934, il commercio mondiale diminuì di circa il 66%, poiché i paesi di tutto il mondo adottarono misure commerciali di ritorsione.
Sebbene Trump abbia rotto con le politiche neoliberiste di «globalizzazione» e libero scambio per «rendere di nuovo grande l’America» a spese del resto del mondo, non ha abbandonato il neoliberismo in economia interna. Le tasse saranno ridotte per le grandi imprese e i ricchi, ma l’obiettivo sarà anche quello di ridurre il debito pubblico federale e tagliare la spesa pubblica (tranne quella per gli armamenti, ovviamente). Quest’anno, il deficit di bilancio degli Stati uniti ammonterà a quasi 2.000 miliardi di dollari, di cui oltre la metà è costituito da interessi netti, più o meno quanto gli Stati uniti spendono per le proprie forze armate. Il debito pubblico totale ammonta a oltre 30.000 miliardi di dollari, ovvero il 100% del Pil. Il debito americano in percentuale del Pil supererà presto il picco raggiunto durante la Seconda guerra mondiale. Il Congressional Budget Office stima che entro il 2034 il debito pubblico degli Usa supererà i 50.000 miliardi di dollari, ovvero il 122,4% del Pil. Gli Stati uniti spenderanno 1.700 miliardi di dollari all’anno solo per interessi.
Per evitare questo scenario, Trump mira a «privatizzare» il più possibile il governo. «Vi incoraggiamo a trovare un lavoro nel settore privato non appena lo desiderate», ha dichiarato l’Ufficio per la Gestione del Personale dell’amministrazione Trump. Secondo Trump, il settore pubblico è improduttivo, ma non il settore finanziario, ovviamente. «La strada per una maggiore prosperità americana è quella di incoraggiare le persone a passare da lavori a bassa produttività nel settore pubblico a lavori ad alta produttività nel settore privato». Questi «ottimi lavori», tuttavia, non sono stati identificati. Inoltre, se il settore privato smettesse di crescere con l’intensificarsi della guerra commerciale, quei lavori ad alta produttività potrebbero comunque non materializzarsi.
Ma perché Trump pone così tanta enfasi sul rilancio del settore manifatturiero e sulla riduzione del surplus commerciale dei beni? Come si suppone che questo rafforzi il capitalismo americano, e perché insiste nonostante ciò contraddica direttamente gli interessi di ampi settori della borghesia americana?
La dichiarata politica di Trump di rilancio del settore manifatturiero statunitense si basa sull’idea che proteggere l’industria nazionale dalla concorrenza estera rivitalizzerà il capitalismo americano. L’ironia è che gli Stati uniti registrano un considerevole surplus commerciale in servizi come finanza, media, professioni commerciali, sviluppo software, ecc. Pertanto, il deficit commerciale nei beni manifatturieri è in parte compensato dalle esportazioni di servizi.
L’applicazione di dazi sulle importazioni di beni compromette ulteriormente la capacità di crescita del settore manifatturiero e dei servizi statunitense, poiché aumenta il costo dei componenti destinati alla produzione finale. Ciò provocherà un aumento dei prezzi se questi costi vengono trasferiti, o una riduzione della redditività in caso contrario, o entrambe le cose.
Le contraddizioni nei dazi e nelle deportazioni di Trump sono state palesemente rivelate dal recente arresto e allontanamento di oltre cinquecento tecnici coreani che lavoravano a un progetto di batterie per auto Hyundai in Georgia. Trump vuole che le aziende straniere investano per creare posti di lavoro negli Stati uniti, ma poi arresta lavoratori edili stranieri. Sostiene che le entrate derivanti dagli aumenti dei dazi contribuiranno a ridurre il deficit e il debito del governo federale, ma l’aumento delle entrate è irrisorio rispetto alle riduzioni delle entrate derivanti dai tagli fiscali per le aziende e gli americani più ricchi previsti dal suo «Big Beautiful Bill». Trump ha talvolta annullato o ridotto gli aumenti dei dazi quando i mercati finanziari hanno reagito negativamente, ma il settore finanziario sembra sempre più ottimista riguardo alle misure di Trump. Quindi, per ora, persisterà.
Guardando oltre i dazi, il contesto più ampio è quello del malessere economico globale. Dall’inizio della crisi finanziaria globale nel 2008, il capitalismo globale si trova in quella che lei definisce una lunga depressione, caratterizzata da bassa redditività, crescita stagnante, crisi ricorrenti e deboli riprese. Di conseguenza, i governi dei paesi occidentali, e in particolare degli Stati uniti, sono intervenuti più direttamente nei processi economici e hanno tutelato determinati interessi. Allo stesso tempo, lei sottolinea che il neoliberismo rimane molto vivo negli Stati uniti. Questo contraddice le affermazioni di alcuni esperti secondo cui il neoliberismo sarebbe morto. Ha cambiato idea?
Le principali economie capitaliste hanno tutte registrato un ritmo di crescita economica molto più lento dopo la crisi finanziaria globale del 2008 e la conseguente Grande Recessione. L’economia statunitense ha registrato i risultati migliori, ma la crescita del Pil reale non ha superato in media il 2% annuo negli ultimi diciassette anni, rispetto a oltre il 3% annuo prima del 2008. Le altre cosiddette economie del G7 hanno registrato risultati peggiori; il loro tasso medio di crescita del Pil reale è stato al massimo dell’1% annuo. Germania, Francia e Regno Unito sono in stagnazione, mentre Giappone, Canada e Italia stanno ottenendo risultati solo marginalmente migliori.
Questa stagnazione della produzione nazionale è dovuta al rallentamento degli investimenti produttivi, mentre la redditività media del capitale a livello globale si avvicina ai minimi storici. Com’è possibile che ciò accada quando sappiamo che i grandi colossi della tecnologia, dell’energia e delle grandi case farmaceutiche negli Stati uniti stanno realizzando enormi profitti? Queste aziende rappresentano l’eccezione alla regola, rispetto a vaste fasce di aziende negli Usa, in Europa e in Giappone. Infatti, circa il 20-30% delle aziende a livello globale non realizza profitti sufficienti per onorare i propri debiti ed è costretto a indebitarsi ulteriormente per sopravvivere. Di conseguenza finora, in questo secolo, i profitti sono stati sempre più investiti non in innovazione e tecnologia ma in speculazioni immobiliari e finanziarie. Wall Street prospera mentre Main Street arranca.
Le politiche neoliberiste si basavano sull’egemonia statunitense. A livello internazionale, si è sempre trattato di una maschera per quello che un tempo veniva chiamato il Washington Consensus, ovvero che gli Stati uniti e i suoi partner minori in Europa e Asia-Pacifico avrebbero deciso le regole del libero scambio e dei flussi di capitale nell’interesse delle banche e delle multinazionali del cosiddetto Nord del mondo. Trump ha cambiato tutto. Ora il governo degli Stati uniti agisce da solo, non solo a spese dei paesi poveri del cosiddetto Sud del mondo, ma anche dei suoi partner minori nell’«alleanza» guidata dagli Stati Uniti.
Lo Stato trumpista interviene anche nell’economia e nella struttura sociale degli Usa. Il settore pubblico e molte delle sue agenzie sono stati decimati. Trump cerca persino di prendere il controllo della Federal Reserve. Governa per decreto, aggirando il Congresso e ignorando i tribunali. Il libero scambio è stato sostituito dal protezionismo; e l’immigrazione è stata sostituita dalle deportazioni. Eppure, sotto Trump, il neoliberismo – nel senso della deregolamentazione dei controlli ambientali, delle tutele sanitarie, del rischio finanziario e dei tagli alla spesa pubblica e alle tasse per i ricchi – continua.
Passiamo ai «partner minori» degli Stati uniti. L’Ue sta subendo un’umiliazione senza precedenti, acconsentendo di fatto a una totale subordinazione agli Usa. Questo segnala una chiara debolezza economica e politica. Allo stesso tempo, l’Ue sta cercando di contrastare il proprio declino rafforzando settori chiave attraverso iniziative protezionistiche e statali come il Chips Act, il Green Deal, ecc. Vede qualche possibilità realistica per l’Europa di arrestare il suo declino di rilevanza nel mercato mondiale?
I leader dei principali paesi dell’Ue si sono lasciati andare all’autolesionismo. La crisi finanziaria globale del 2008 ha portato a un enorme debito per i paesi più deboli dell’Ue. Hanno imposto misure di austerità draconiane ai loro cittadini per soddisfare le richieste delle banche e delle istituzioni dell’Ue: la Bce e la Commissione. I tassi di crescita della produttività del lavoro, degli investimenti e dei redditi reali nelle principali economie hanno subito un brusco rallentamento e le principali economie europee (incluso il Regno Unito) non sono riuscite a tenere il passo con i più recenti progressi tecnologici.
E poi è arrivata la guerra in Ucraina. La politica di sanzioni contro la Russia e la fine delle importazioni russe di petrolio e gas hanno fatto salire i prezzi dell’energia a livelli record. Questo ha messo a dura prova la produzione manifatturiera tedesca e quella europea. La Germania è rapidamente passata dall’essere la potenza manifatturiera europea alla stagnazione e alla recessione, ormai da tre anni consecutivi. Francia e Italia non hanno fatto molto meglio, e l’economia britannica è chiaramente a pezzi, con scarsi segnali di ripresa.
A complicare ulteriormente la situazione, i leader europei sono diventati ossessionati dall’affermazione che la Russia di Vladimir Putin sta per invadere l’Europa e «porre fine alla democrazia». È difficile dire se ci credano davvero, ma la loro soluzione è pretendere che l’esercito statunitense rimanga in Europa. I leader dell’Ue stanno inoltre applicando sanzioni e dazi sui prodotti cinesi su richiesta degli Stati uniti, dimostrando ulteriormente la loro vile sottomissione come stati vassalli di Washington.
Nel frattempo, la spesa pubblica europea ha visto un forte aumento della spesa militare – più che raddoppiando la quota del Pil entro la fine di questo decennio – a scapito degli investimenti produttivi, delle misure climatiche, dei servizi pubblici e del welfare. Non c’è da stupirsi che le forze reazionarie stiano rapidamente guadagnando forza con le loro politiche razziste, anti-immigrazione, scettico-climatiche e di «libero mercato» in quasi tutti gli Stati europei. In questo contesto, e dato che non vi è alcun segno di cambiamento nella traiettoria dell’Ue, il relativo declino dell’Europa non può che accelerare. Charles de Gaulle in Francia, Helmut Kohl in Germania e persino Margaret Thatcher in Gran Bretagna si stanno rivoltando nella tomba.
Il declino e la subordinazione dell’Ue agli interessi americani non possono essere compresi al di fuori dei più ampi cambiamenti nel potere globale. Trump non sta solo perseguendo i dazi, ma sta anche modificando le condizioni in cui gli Stati uniti esercitano il loro ruolo di egemone globale. Cerca di liberarsi degli oneri e degli obblighi della leadership egemonica e di sostituirli con un sistema di dominio assoluto. Ma così facendo, ha intensificato un processo già in atto: il relativo declino dell’egemonia statunitense, le cui fondamenta economiche si stanno erodendo da tempo. Questo porterà a un ordine multipolare più stabile o ci stiamo dirigendo verso una fase caotica di rivalità tra grandi potenze?
Trump si considera l’«affarista» per eccellenza. E nel concludere accordi, le regole e i regolamenti concordati sono solo un ostacolo. A suo avviso, può definire accordi commerciali internazionali nell’interesse degli Stati uniti attraverso negoziati diretti con i leader di Europa, Giappone, ecc. Può porre fine alle guerre in Ucraina, Medio Oriente, Africa e Asia meridionale attraverso la contrattazione diretta, usando incentivi e minacce. Questo è l’approccio di Trump su tutto.
Ma dietro i suoi capricci si cela la convinzione razionale che gli Usa stiano rapidamente perdendo il loro ruolo egemonico globale. Visto in una prospettiva storica, questo segnala un cambiamento nell’ordine globale. Sì, ora abbiamo un mondo multipolare come non si vedeva dagli anni Trenta del Novecento. Dopo il 1945, si è sviluppato un ordine mondiale bipolare in cui l’imperialismo statunitense governava il mondo ma si scontrava con un opposto ideologico, l’Unione sovietica. L’imperialismo statunitense alla fine vinse quella Guerra fredda con il crollo dell’Unione sovietica e dei suoi satelliti in Europa. Da allora, è stata Pax Americana, ma con poca pace effettiva, mentre gli Stati uniti continuavano a condurre invasioni e interventi per sorvegliare il mondo nei propri interessi e in quelli dei partner minori in Europa, Medio Oriente, America latina e Asia orientale.
Ma nessuna cosa buona può durare per sempre, e il capitalismo americano è ormai entrato in un periodo di declino irreversibile. L’industria manifatturiera e le esportazioni statunitensi hanno perso il loro predominio sui mercati mondiali, prima a favore dell’Europa negli anni Sessanta, poi del Giappone negli anni Settanta, ma in modo decisivo a favore della Cina nel XXI secolo. Detto questo, non dovremmo esagerare il relativo declino dell’egemonia statunitense. Gli Stati uniti hanno ancora il settore finanziario più grande e penetrante al mondo. Il loro stock di attività estere è di gran lunga superiore a quello di qualsiasi altro paese. Il dollaro rimane la valuta principale per il commercio, i flussi di capitali e le riserve valutarie nazionali. E l’esercito statunitense è ancora onnipotente, con oltre settecento basi in tutto il mondo e un bilancio superiore a quello dei bilanci militari del resto del mondo messi insieme. I suoi complici cercano disperatamente di rimanere sotto l’ala protettiva degli Stati uniti per preservare la «democrazia liberale», ovvero gli interessi delle loro élite capitaliste.
Ma ora ci sono importanti potenze recalcitranti che non seguono le regole degli Usa. Alcune di loro, come la Russia, originariamente volevano unirsi all’Occidente – la Russia è stata persino membro del cosiddetto G8 per un certo periodo. L’India fa parte del Quad-4, un organismo guidato dagli Stati uniti progettato per mitigare l’ascesa della Cina in Asia. Quando il popolo iraniano rovesciò il corrotto e feroce Scià nel 1979, persino i mullah cercarono di raggiungere un compromesso con gli Stati uniti e l’Occidente. Anche il Sudafrica post-apartheid era desideroso di unirsi all’Occidente democratico, nonostante decenni di sostegno all’oppressione dei governi di apartheid da parte degli Usa e dei suoi alleati. Ma tutti i membri di quelli che oggi vengono chiamati Brics furono respinti dall’alleanza guidata dagli Stati uniti. Il cosiddetto Washington Consensus, la piattaforma ideologica dei successivi governi statunitensi, mirava invece a un cambio di regime in Russia, Iran e, soprattutto, Cina. La sorte era segnata per un mondo multipolare.
Tuttavia, i Brics non rappresentano un’alternativa coerente al predominio statunitense. Ciò significa che l’idea di un mondo multipolare che sostituisca l’egemonia statunitense è prematura. Certo, la Pax Americana, così come è esistita dopo la Seconda guerra mondiale e di nuovo dopo il crollo dell’Unione sovietica negli anni Novanta, non è più in vigore. Ma i cosiddetti Brics sono una formazione eterogenea e flessibile di potenze regionali con base nei paesi più popolati e spesso più poveri del mondo, con pochi interessi comuni. Non sono i Brics in quanto tali a rappresentare una minaccia al predominio statunitense, ma piuttosto la crescente potenza economica della Cina, potenzialmente un nemico molto più potente e resistente di quanto lo sia mai stata l’Unione sovietica.
Il declino dell’egemonia statunitense solleva anche la questione delle alternative progressiste e di quale posizione dovrebbe assumere la sinistra. Tre tendenze emergono: in primo luogo, il sostegno al nazionalismo economico – l’idea che proteggere la propria economia possa proteggere posti di lavoro e salari dalla concorrenza globale. In secondo luogo, un lamento sorprendentemente nostalgico per la fine del libero scambio – a sua volta riflesso dei timori di un nazionalismo risorgente. E in terzo luogo, un orientamento verso il multipolarismo e i Brics – spesso visti come un’alternativa progressista all’imperialismo statunitense. Nessuna di queste posizioni appare particolarmente convincente. Come potrebbe essere una prospettiva di sinistra che non si impantani nel nazionalismo, nella nostalgia del libero scambio o nell’orientamento verso un multipolarismo capitalista frammentato?
La «sinistra», come la descrivi tu, è quella che definirei la sinistra riformista, liberale o socialdemocratica. Questa sinistra parte dal presupposto che non ci siano alternative al sistema capitalista, perché qualsiasi idea di socialismo è da tempo passata in secondo piano. Il compito di questa sinistra, secondo loro, è far funzionare il capitalismo in modo più equo per la maggioranza, ma senza danneggiare significativamente gli interessi del capitale, perché ciò ucciderebbe la gallina dalle uova d’oro. Questa sinistra ha perso terreno, perché la gallina capitalista non depone più abbastanza uova per tutti e le produce sempre più solo per la minoranza al potere.
La sinistra liberale era solita elogiare il successo della globalizzazione e del libero scambio nel periodo della Grande Moderazione, a partire dagli anni Novanta. Il crollo finanziario globale e la Grande Recessione, seguiti dalla Lunga Depressione degli anni Dieci di questo secolo, la devastante crisi pandemica del 2020, la conseguente spirale inflazionistica del costo della vita: tutto ciò ha messo in luce l’incapacità del capitalismo di soddisfare i bisogni sociali della maggioranza della popolazione in America, Europa e in tutto il mondo nel XXI secolo.
Il liberalismo e le riforme graduali, un tempo sostenute con successo dalla sinistra liberale, sono state screditate ovunque. Sono state sostituite dal sostegno popolare a un nazionalismo grezzo, sotto forma di opposizione alle grandi imprese e di razzismo contro i migranti, che si sta diffondendo in America e in Europa (ad esempio, il 70% delle persone detenute nei centri di detenzione Ice americani non aveva condanne penali, e molti di coloro che avevano precedenti penali avevano commesso solo reati minori, come violazioni del codice della strada). Trump e i suoi sostenitori Maga, Nigel Farage nel Regno Unito e altri gruppi simili in tutta Europa rappresentano un passo avanti verso gli anni bui del fascismo degli anni Trenta che alla fine portarono a una terribile guerra mondiale. Per combattere questo, la vera sinistra deve invece partire dalla premessa che il sistema capitalista, ora dominante a livello globale, è irreversibilmente in crisi.
La questione della multipolarità sembra più complessa. Per alcuni, la multipolarità significa semplicemente rafforzare i paesi capitalisti del Sud del mondo. Per altri, e questa è la prospettiva più interessante, si tratta di spezzare il predominio occidentale e creare più spazio di manovra per progetti progressisti che altrimenti potrebbero essere soffocati dall’egemonia statunitense.
I Brics possono rappresentare una forza alternativa decisiva all’imperialismo guidato dagli Stati uniti con la sua ambiziosa alleanza Nato? Non credo. Economicamente, i Brics e persino i Brics+, che includono Indonesia, Egitto e forse Arabia Saudita, costituiscono un raggruppamento eterogeneo, in cui la Cina è l’economia dominante. Gli altri sono relativamente deboli o eccessivamente dipendenti da un solo settore, solitamente quello energetico e delle materie prime.
La forza finanziaria dei Brics con la loro Nuova Banca di Sviluppo è debole rispetto alle agenzie del capitale occidentale. Politicamente, i leader del gruppo Brics hanno interessi e ideologie diversi. La Russia è un’autocrazia clientelare. L’Iran è governato da un’élite religiosa islamica. La Cina, nonostante il suo fenomenale successo economico, ha un governo monopartitico. L’India è governata da un partito nazionalista indù ex fascista che reprime qualsiasi dissenso. Questi non sono governi che promuovono l’internazionalismo o la democrazia operaia. All’interno di questi paesi non c’è spazio di manovra, come dici tu. Ciò che serve è la rimozione di questi regimi da parte di movimenti di lavoratori e lavoratrici per instaurare autentiche democrazie socialiste che guideranno il cambiamento internazionale.
L’emergere del multipolarismo nel XXI secolo è una conseguenza del relativo declino del capitalismo statunitense, soprattutto dopo la crisi finanziaria globale e la conseguente Grande Recessione. Ma è un’illusione pericolosa immaginare che le potenze resistenti siano una forza per l’internazionalismo, che otterranno una riduzione delle disuguaglianze e della povertà a livello globale, o fermeranno il riscaldamento globale e l’imminente disastro ambientale. Per questo abbiamo bisogno di un’internazionale di governi socialisti. Se un governo socialista salisse al potere in una grande economia, ciò aprirebbe la strada ad altri paesi per resistere all’imperialismo. Un governo socialista potrebbe collaborare con paesi al di fuori del controllo degli Stati uniti, come il Venezuela o Cuba, che oggi hanno opzioni molto limitate. Ma, cosa ancora più importante, ispirerebbe anche il movimento per i governi socialisti democratici in tutto il mondo.







































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