
The War Must Go On
di Alfonso Gianni
Rallenta su un fronte, quello palestinese, s’inasprisce sull’altro, quello russo-ucraino, proprio mentre, e forse proprio per questo, cominciano a circolare proposte di pace, che a quanto ci è dato per ora di sapere non sono poi tanto diverse da quelle avanzate poco dopo l’inizio della guerra, casomai peggiorative per l’Ucraina; senza oscurare i cinquanta e più focolai di guerra tutt’ora accesi, di cui il più grave è forse quello “dimenticato” in Sudan, o quelli che possono aprirsi da un momento all’altro (vedi gli Usa contro il Venezuela): il sistema di guerra, che ormai sovraordina le relazioni internazionali, non si ferma. Al contrario si autoalimenta. Attraverso inganni e autoinganni, falsità e costruzioni immaginarie di nemici alle porte. Nulla ci viene risparmiato, perché la guerra non è più la prosecuzione della politica con altri mezzi, è la sostituzione della politica. Conseguentemente della diplomazia, ridotta ad ancella muta di un simile cambiamento.
Per averne un’ennesima prova, basta gettare l’occhio sulla risoluzione approvata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu sul conflitto in Palestina, che non ha fatto altro che ribadire i venti punti del cosiddetto piano di pace presentato da Trump alcune settimane fa. Un piano che fin dal suo primo annuncio si presentava come un ricatto rivolto ad Hamas e ai palestinesi: o accettate questo o sarete distrutti. Il principio di realtà è totalmente ignorato, anzi capovolto. Anche i più realisti, che non osavano chiamare i venti punti trumpiani un piano di pace, ma al massimo un progetto di tregua o anche soltanto un momentaneo “cessate il fuoco”, sono stati smentiti. Per quanto persino quest’ultimo fosse meglio del genocidio continuo, e come tale da più parti era stato accolto, tutto si può dire tranne che abbia retto alla prova dei fatti. A meno che non si voglia, come i vari inviati ed esponenti dell’Amministrazione Trump hanno fatto, fingere che una tregua possa tranquillamente “tenere” ed essere definita tale a fronte del perdurare delle uccisioni giornaliere di palestinesi, delle distruzioni operate dall’esercito israeliano in terra di Palestina, del consolidamento del possesso del 53% del territorio, demarcato dalla famigerata linea gialla, delle violenze, rivolte persino contro i molli tentativi dell’esercito israeliano di contenerne la furia aggressiva, perpetrate dai coloni in Cisgiordania, la cui condizione è ulteriormente peggiorata con l’invasione di Gaza da parte dell’Idf.
Una situazione che, messa in secondo piano di fronte al genocidio a Gaza, sta ogni giorno che passa evidenziando la sua specifica drammaticità
Come ha osservato Gideon Levy su Haaretz “Il volto della Cisgiordania sta cambiando. Trump può vantarsi di avere fermato l’annessione, ma ormai l’annessione è più radicata che mai […] La Cisgiordania sta chiedendo a gran voce un intervento internazionale esattamente come fa la Striscia di Gaza. I soldati, siano essi statunitensi, europei, emiratini o perfino turchi, devono proteggere i suoi abitanti. Qualcuno deve salvarli dalle grinfie dell’esercito israeliano e dei coloni”1 aizzati dalla destra del governo israeliano, fautrice vincente della legge che farebbe scattare automaticamente la pena di morte – fin qui nella storia di Israele applicata in un solo caso, quello di Adolf Eichmann - a chi uccide un cittadino israeliano. Una legge che è stata salutata anche come un modo per svuotare le carceri che si aggiunge a quello delle torture e delle conseguenti morti dietro le sbarre – 98 in due anni -, come reso noto, almeno nei 94 casi accaduti tra il 7 ottobre 2023 e l’agosto 2025, documentati recentemente da Medici per i diritti umani (Phri) in un loro sconvolgente rapporto.2
La risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu
Per capire come possa scivolare in basso una diplomazia embedded basta ricordare l’artificio linguistico che ha permesso di ottenere l’appoggio di Arabia Saudita, Giordania e Paesi del Golfo, indispensabile per evitare il veto di Russia e Cina – che infatti si sono astenute. La prima versione della risoluzione non conteneva alcun accenno alla creazione di uno Stato palestinese. Perciò è stata cambiata con un’altra traboccante di protervia e di ipocrisia: se l’Autorità palestinese si piegherà ad attuare le riforme reclamate dalla comunità internazionale “potrebbero finalmente crearsi le condizioni per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la sovranità palestinese” e saranno gli Stati Uniti ad avviare “un dialogo tra Israele e i palestinesi per concordare un orizzonte politico per una coesistenza pacifica e prospera”.
Più di un diplomatico e diversi commentatori hanno ravvisato nel comportamento in fondo condiscendente della Russia, che pure aveva presentato un testo alternativo certamente più vicino alle istanze arabe e palestinesi – né ci voleva molto per farlo – una sorta di scambio neppure troppo sotto banco fra Mosca e Washington che permetterebbe alla Casa bianca di ammorbidire le intransigenze ucraine sulla integrità del loro territorio, in particolare per quanto riguarda la Crimea, senza perdere la faccia. Si vedrà.
D’altro canto, come oramai loro solito, i rappresentanti dell’Amministrazione Trump sono stati estremamente chiari, fino alla brutalità, sulla necessità che il testo proposto venisse accettato: “Votare contro la risoluzione significa votare per la ripresa della guerra” si era premurato di avvertire l’ambasciatore statunitense Mike Waltz.3 Intanto Hamas ha dichiarato di bocciare la risoluzione perché impone una tutela internazionale sulla Striscia e prevede il suo totale disarmo. Una pretesa peraltro evidentemente inesigibile, dal momento che non vengono offerte garanzie di alcun tipo all’organizzazione palestinese, bensì la sua distruzione come soggetto attivo.4
Considerare sconfitto Netanyahu per il semplice fatto che Hamas abbia espresso una pubblica opinione sulla risoluzione e che quindi per questo dovrà essere preso in considerazione – come afferma Yehudah Mirsky della Brandeis University di Gerusalemme - 5 mi sembra più un wishful thinking che non un’analisi ponderata delle forze in campo. E’ vero che la destra israeliana è incontenibile e incontentabile. “La missione della mia vita è impedire la creazione di uno stato palestinese nel cuore della nostra terra” ha dichiarato Bezalel Smotrich, ministro delle finanze di Israele, subito scavalcato in questa orrida gara da Ben Gvir, ministro della sicurezza nazionale (quello che ha distribuito pasticcini ai deputati della Knesset dopo il loro voto favorevole alla introduzione della pena di morte per i palestinesi), che ha affermato “Se accelerano il riconoscimento dello stato palestinese, e l’Onu lo riconosce, dovrebbero essere ordinati omicidi mirati di alti funzionari dell’Anp”, mentre al novantenne Abu Mazen sarebbe riservata una cella di isolamento nella peggiore delle galere israeliane.6
Al di là di questi terrificanti e farneticanti proclami la realtà è che la sorte di Netanyahu e quella della estrema destra del suo governo, e viceversa, sono legate assieme. Simul stabunt simul cadent come si suole elegantemente dire.
La risoluzione onusiana contiene però anche altri buchi neri che delineano una situazione di incontrollabile incertezza. Non viene deciso, dettaglio non trascurabile, chi guiderà il Board of Peace, se non che resterà sottratto al controllo dell’Onu e minacciato della possibile direzione di Tony Blair. Mentre la polizia locale dovrebbe essere addestrata anche dai nostri carabinieri, lontano da Gaza, forse nel Centro di eccellenza per le unità di polizia di stabilità (Coespu) di Vicenza, così anche il governo Meloni ritroverebbe un suo protagonismo. Anche qui, si vedrà. Intanto si segnalano iniziative di deportazione via aerea di palestinesi, a spese dei medesimi, come da testimonianze raccolte da Al Jazeera, verso mete improbabili quanto improvvisate a opera di una fantasmatica Ong tedesca.7 Esattamente il contrario di quanto previsto nel punto 12 del piano di Trump per terminare il conflitto a Gaza - ora facente parte della risoluzione 2803 adottata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu il 17 novembre – che enfaticamente afferma che nessuno sarà costretto a lasciare Gaza, anzi tutti saranno incoraggiati a rimanere per partecipare alla ricostruzione.8
Quale futuro per la Palestina?
Ciò che è sicuro è che la risoluzione stessa, mentre lo afferma, affossa definitivamente la soluzione dei “due popoli, due stati”, mentre quella di un solo stato non teocratico e multinazionale rimane solo in qualche mente più o meno illuminata, senza sfiorare alcun tavolo di trattativa, inibite entrambe dalla legge costituzionale approvata dalla Knesset il 19 luglio 2018 che faceva di Israele lo “Stato nazione del popolo Ebreo”, con la conseguenza che l’unica nazione destinata a calcare la terra della Palestina storica sarebbe quella ebraica.9
Non si può che condividere quanto ha recentemente scritto Ilan Pappé secondo cui “la soluzione a due Stati è un cadavere in decomposizione, già all’obitorio da fin troppo tempo. La comunità internazionale ha semplicemente evitato di effettuare un’autopsia perché potesse essere sepolto.”10 Il che lo spinge, sulle ali della speranza, a immaginare uno scenario per l’imminente quarto di secolo in cui i due popoli possano convivere in pace entro i confini di un unico Stato.11
Per quanto questo quadro possa apparire utopico – e per più di una ragione - è bene rilevare che su questa questione nodale, come su altre, si fa strada una riflessione anche autocritica dentro Hamas. La si riscontra nelle risposte che Ahmed Yousef fornisce in una intervista di qualche settimana fa. Yousef ha vissuto per 20 anni negli Stati Uniti, senza mai perdere i suoi collegamenti con Gaza. E’ stato allievo dello sceicco Ahmed Yassin, uno dei fondatori di Hamas e venne scelto come consigliere politico da Ismail Haniveh, il leader ucciso a Teheran da un attacco mirato israeliano nel 2024. “Possiamo e dobbiamo trovare un approccio non violento per affrontare la questione palestinese” – afferma - “Hamas non è un gruppo terrorista, ci consideriamo un’organizzazione di liberazione nazionale […] Non sono contrario (alla soluzione dei due popoli e due Stati, ndr), ma ritengo che sia più solida e abbia maggiori possibilità di sopravvivere la soluzione di un solo Stato che concili la vita, religiosa e politica, di musulmani, cristiani ed ebrei […] C’è bisogno di unità tra tutte le fazioni palestinesi e credo che il futuro di Hamas sia quello di avere un partito politico che faccia sua l’agenda dell’Olp. Serve un sistema di condivisione del potere.”12
Quanto le parole di Ahmed Yousef possano trovare ascolto in Hamas e nella popolazione palestinese non ci è dato di sapere. Possiamo solo sperarlo. Ma per adesso – e per un periodo non breve - la questione palestinese, anche al netto di possibili precipitazioni ulteriormente peggiorative, rimane una ferita aperta della – e dalla – modernità, la più grande questione morale irrisolta del xxi secolo, come ebbe a dire Nelson Mandela, e l’eco delle sue parole, l’influenza dei suoi pensieri e dei suoi atti torna a farsi sentire.
La sanguinosa guerra in Sudan
Ma è un eco debole che comunque trova poche orecchie disposte all’ascolto. La violenza è tornata a primeggiare. Il sistema di guerra sovraordina ogni scelta e ogni mossa. Così è nelle tante guerre aperte nel mondo. Conoscono tregue ma non fine. Così è nel continente africano, nel Sudan squassato da una guerra da due anni e mezzo. Si dice abbia fatto 150mila morti e centinaia di migliaia di sfollati. Nessuno potrà controllare la veridicità di queste cifre. Nell’epoca in cui il calcolo domina le attività umane, le decide e le programma attraverso gli algoritmi il numero delle vittime in una guerra è affidato a conteggi probabilistici, legati al volume di fuoco, alla potenza degli strumenti di morte impiegati, al peso finale di membra umane sparse e accorpate, quando e se questo avviene, fino a raggiungere quello che staticamente indica la consistenza e l’aspetto di una figura umana. La distruzione di una comunità, di una popolazione è anche la sparizione della individualità dei suoi componenti, ammassati in un tutto indistinto, un enorme lago di sangue visibile anche dall’occhio satellitare.13
Cosìcchè diventano importanti i racconti, le testimonianze di chi è sopravissuto. Solo attraverso queste cogliamo l’orrore di una guerra. Solo così ci accorgiamo della strage che si è compiuta a Al Fashir, capitale storica del Darfur, prima, durante e dopo la sua capitolazione di fine ottobre. In realtà è improprio definire la guerra – quella in atto in Sudan, forse la più terribile e la più crudele di quelle in corso – come dimenticata – come si sente dire – poiché si può dimenticare solo ciò che è stato conosciuto. Il che non è accaduto, se non nei centri decisionali delle grandi potenze, delle aziende dei produttori di armi e dei loro venditori, da parte di chi aveva ed ha precisi interessi economici a favorire lo scoppio e ad alimentare la durata di quella guerra. O, al converso, era nota a chi, come Ong e centri di ricerca, si adopera da anni nel monitoraggio delle guerre sparse per il mondo - ma purtroppo con limitati canali di diffusione degli esiti di tale prezioso lavoro -, la cui quantità è divenuta nota a livello di massa solo grazie alle famose parole di Papa Francesco sulla guerra mondiale a pezzetti. E chi si è soffermato a fine ottobre sull’inimmaginabile dramma del massacro della popolazione sudanese è stato, non a caso, ancora il Papa, questa volta Leone XIV.
Lo scontro iniziato il 23 aprile 2023 tra l’esercito sudanese, supportato da milizie affiliate ma in modo insufficiente a reggere l’urto, e le cosiddette Forze di supporto rapido (Rsf) dotate a quanto pare di una netta superiorità tecnologica, grazie agli armamenti che, via Libia come sede logistica, giungono, dopo trasporti aerei e di terra, dagli Emirati arabi uniti, non si ferma, anzi si incrudelisce. L’oro – specialmente in questa situazione di incertezza e il pericolo dello scoppio di una nuova bolla finanziaria innestata dalla corsa all’Intelligenza artificiale – fa gola a tutti ed è una delle principali risorse del sottosuolo sudanese. Chi offre l’accesso alle miniere o direttamente la materia aurea, può avere in cambio gli armamenti più sofisticati.
I processi di scomposizione e ricomposizione della Ue
L’Europa assiste a questo immane massacro immobile e lascia fare. Il motivo non è difficile da rintracciare. Il comandante delle Rsf, Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, è stato per anni in attivo contatto con diverse cancellerie europee con il solito obiettivo: intercettare e fermare i migranti che cercano di attraversare il deserto per raggiungere i luoghi di imbarco per il loro rischioso viaggio verso il nostro continente. Tutto si tiene in questo sistema capitalistico, modernissimo – altro che ritorno al medioevo – e in continua ridefinizione di sé stesso, delle sue forme di potere, delle sue modalità nell’esercizio dello sfruttamento e nel provvedere a una ripetuta accumulazione. E il collante ora è il sistema di guerra che non è solo l’insieme delle guerre in atto, ma le conseguenze che questo porta nello scardinamento delle più elementari norme della democrazia formale e liberale, non parliamo poi di quella sostanziale, dei diritti delle persone, del diritto internazionale e delle organizzazioni che per decenni avevano concorso bene o male a implementarlo e garantirlo. Fino ad aggredire le Costituzioni sorte nel e dal secondo dopoguerra, non essendo più sufficiente la loro violazione (si pensi all’articolo 11 sul ripudio della guerra nel dettato costituzionale italiano), contrapponendo una costituzione materiale a quella legale, ma puntando a modificare e capovolgere le norme scritte di quest’ultima. Come si è cercato e si cerca di fare – da ultimo con la controriforma Nordio della giustizia – nel nostro paese.
Un sistema di guerra che sta facendo implodere l’Unione europea, non solo perché la sua esistenza è nel mirino distruttivo, alimentato dai desideri di riconquistare un primato mondiale in decadimento, da parte dell’Amministrazione Trump, ma perché le sue regole di funzionamento, pensate e praticate come un percorso da una presunta unità economica a una - non raggiungibile per questa via - unità politica, codificate da trattati che abbiamo sempre giustamente sottoposto a critica, in particolare da quello di Maastricht in poi, oggi sono messe in discussione e in crisi dal nuovo vento di guerra.
Abbiamo sotto gli occhi un processo di scomposizione e ricomposizione della stessa struttura dell’Unione europea fondata su logiche intergovernative e a-democratiche. Il Regno Unito, uscito dalla Ue in seguito alla Brexit, vi rientra di fatto dalla finestra e fa valere il suo peso in un’ottica militare ancor più che prima. A seconda delle esigenze - di cui, insisto, la primaria è l’alimentazione del sistema di guerra - nascono nuove funzioni o mutano quelle primitive, si affermano nuovi “formati”. La evidente diversità di condizione dei vari paesi che compongono la Ue, soprattutto dopo l’accelerazione delle nuove annessioni dall’Est europeo, è stata affrontata fin dall’inizio con la formazione di sottogruppi, prevalentemente concepiti per difendere interessi economici comuni ad alcuni paesi, dal Visegrad, nato per sostenere le posizioni dei paesi dell’Europa centrale e orientale, al Med9 coordinatore dei paesi mediterranei. Questi gruppi inglobano anche paesi ancora esterni alla Ue, e costituiscono di fatto un loro passo propedeutico all’ingresso effettivo nell’Unione europea. Come esempio possiamo seguire il percorso di uno di questi.
Il triangolo di Weimar
Nel 1991 si forma un’alleanza commerciale composta da Francia, Germania e Polonia (il cui ingresso nella Ue avverrà nel 2004), con l’intento di sostenere i tre paesi nei momenti di crisi, chiamata triangolo di Weimar. Al suo sorgere l’intento era anche quello di migliorare le relazioni con la Russia, tema in quel periodo caro soprattutto alla Germania. Ma da allora le cose sono radicalmente cambiate. Già nel 1992, su spinta della Polonia, l’alleanza tende a configurarsi non solo come parte della Ue, ma anche come braccio della Nato (nella quale la Polonia entrerà ufficialmente il 4 aprile 2023).
La dimensione militare è ben presente nel Triangolo: infatti il 5 luglio 2011, Polonia, Francia e Germania hanno firmato un accordo a Bruxelles per mettere insieme un'unità di poco più di 2000 soldati, chiamata Weimar Battlegroup, con il proposito di schierarsi nelle zone di crisi a partire dal 2013, sotto il comando polacco. Negli anni successivi l’alleanza si apre ad altri paesi e cambia natura (e anche denominazione assumendo quello di Weimar+ (o plus), che compare il 13 febbraio 2025 in calce ad un documento concernente la situazione della guerra russo-ucraina. Oltre alle firme di Francia, Germania e Polonia, compaiono anche quelle dell’Italia, della Spagna e del Regno Unito. E’ evidente che il gruppo assume a quel punto prevalentemente il volto di una alleanza diplomatica, geopolitica e militare. La spinta in questa direzione non deriva solo dal vento di guerra che proviene dal confine russo-ucraino, ma anche dai mutamenti annunciati da Trump nella politica estera, dalla sua manifestata convinzione che gli europei debbano proteggersi da soli in caso di aggressione.
I gruppi e i sottogruppi sono andati moltiplicandosi nella storia dell’Unione europea intrecciando la loro storia con quella dell’allargamento a Est di Ue e Nato. Con la conseguente inflazione di acronimi, quali E3, E4, E5, G5. Non si può dire che questi hanno incrementato l’efficienza della Ue. Forse solo l’E4, formato da Germania, Francia, Regno Unito e Polonia, ha dato segni di maggiore vitalità, soprattutto da quando Joachim-Fredrich Merz, le cui propensioni spintamente riarmiste sono ben note, è diventato cancelliere federale della Germania.
Quello che importa sottolineare è che questi processi di scomposizione e ricomposizione della Unione europea mettono in luce il sostanziale fallimento del percorso fin qui seguito per costruire l’unità nel e del continente europeo e la sua attuale internità a quel sistema di guerra che muove le mosse dei governi dell’occidente.
La Risoluzione del 2 aprile 2025 e il ReArm Europe Plan
Del resto la Risoluzione assunta dal Parlamento europeo il 2 aprile 2025 sulla politica di sicurezza e di difesa comune,14 gli impegni per ogni singolo paese a incrementare le spese a scopo bellico, il ReArm Europe Plan/Readiness 203015 sono fin troppo chiari ed espliciti. Si tratta di una strategia complessiva della Ue per aumentare enormemente la spesa a fini bellici degli Stati membri. Mira a mobilitare oltre 800 miliardi di euro in spesa aggiuntiva per la difesa attivando la flessibilità fiscale nazionale nell'ambito del Patto di stabilità e crescita, lanciando uno strumento di prestito di 150 miliardi di euro, il Security Action for Europe (Safe) per gli acquisti congiunti, e aumentando il supporto della Banca europea per gli investimenti.
Se questa strada non verrà impedita – ma finora possiamo contare solo sui movimenti popolari che recentemente hanno ripreso forza e vigore - l’esito di una guerra di proporzioni inimmaginabili nel giro di qualche anno è più che probabile. Non è affatto esagerato prevederlo. Basta leggere i succitati documenti e tenere nel dovuto conto le dichiarazioni dei massimi dirigenti della Ue e dei principali Capi di Stato.
L’ossessione europea del pericolo russo
La Ue sembra in preda a una ossessione, sia che le sue élite ci credano effettivamente o che avanzino previsioni infondate solo per giustificare le scelte di riarmo. Il pericolo continuamente agitato è quello di una aggressione a paesi della Ue e della Nato da parte della Russia. La Risoluzione del Parlamento europeo indica nella Russia il nemico più prossimo, ma non tralascia di considerare la Cina come potenza avversaria, collocandosi quindi sulla scia trumpiana. In una articolata intervista al settimanale tedesco Die Zeit (ripresa ovviamente anche dalla stampa internazionale, fra cui quella italiana) Ursula von der Leyen, dopo avere avvertito che “le ambizioni imperialistiche” di Putin potrebbero spingerlo ad attaccare in un non lontano futuro un paese membro della Ue e della Nato, ha subito precisato, per non lasciare dubbi, che “diverse agenzie di intelligence stimano che il Cremlino potrebbe essere pronto per un simile attacco entro il 2030”.16 D’altro canto queste erano le opinioni espresse anche da Joe Biden e da autorevoli membri del suo establishment.
Senza pretendere di competere con tutte le “diverse intelligence” citate dalla Presidente della Commissione europea, è possibile revocare in dubbio le convinzioni sulla volontà della Russia di espandersi militarmente a ovest e quindi muovere attacchi in questa direzione. Se non altro per la semplice ragione che sul piano di uno scontro bellico con armamenti convenzionali, la forza di risposta della Nato sarebbe enormemente superiore a quella messa in campo dalla Russia. Quindi quest’ultima sarebbe destinata alla sconfitta.
Non si tratta di opinioni personali ma di esponenti autorevoli della Nato, come il Capo di Stato Maggiore della Difesa britannico, ammiraglio Sir Anthony Radakin, secondo il quale (siamo nel marzo del 2024) “le forze aeree da combattimento della Nato – che superano numericamente quelle russe di 3 a 1 – stabilirebbero rapidamente la superiorità aerea. Le forze marittime della Nato imbottiglierebbero la Marina russa nel Mare di Barents e nel Baltico, proprio come l’Ucraina ha respinto la flotta del Mar Nero della Crimea” e possiamo tralasciare pure il resto dell’elenco dei settori nei quali la superiorità della Nato sarebbe schiacciante, sempre secondo l’Ammiraglio, andando subito alle sue conclusioni “Il motivo principale per cui Putin non vuole un conflitto con la Nato è che la Russia perderebbe. E perderebbe rapidamente”.17
A questo punto sarebbe interessante chiedere al suddetto Ammiraglio, e in generale ai comandanti della Nato, perché mai, così stando le cose, l’Europa si affanni a impegnare enormi somme per il suo riarmo. In assenza di una simile interlocuzione diretta, non è difficile rispondere almeno in due modi. Il primo è che l’avvento della presidenza Trump abbia effettivamente gettato la Ue nella preoccupazione di trovarsi senza l’ombrello “protettivo” della Nato. Il secondo è che assai più concretamente il piano di riarmo, entrando in quel sistema di guerra generale, permette di rilanciare un’economia europea assai fiacca a cominciare da quei paesi un tempo locomotiva, ora vagoni su un binario morto, come la Germania, non a caso la più pronta a decidere misure riarmiste.
Il rilancio degli armamenti nucleari
Certamente le considerazioni cambiano se entrassero realmente in gioco le armi nucleari. In questo caso il confronto fra Russia e Nato sarebbe, se non paritario, molto meno sbilanciato. Ma uno scontro atomico, anche con armi nucleari “tattiche” avrebbe proporzioni e conseguenze così devastanti da sfuggire da ogni possibile e realistica previsione sugli esiti di un simile conflitto, se non quello di una comune distruzione.
Ed è precisamente questo il pericolo vero che sta dietro il potenziamento crescente del sistema di guerra. Un pericolo che forse si presenta come il più concreto tra quelli che si sono manifestati dal secondo dopoguerra in poi. Gli elementi in questa direzione si accumulano. Non riguardano solo le altalenanti affermazioni fatte anche da Putin o da esponenti del suo governo sul possibile ricorso agli armamenti nucleari, che per ora appaiono più un’alzata di voce e di tono per bloccare un più deciso intervento dei paesi europei a fianco dell’Ucraina o la ripresa dei test atomici più volte annunciati da Trump.
Riguardano piuttosto il fatto che del disarmo nucleare non parla più nessuno e che persino nel Paese di Hiroscima e Nagasaki si prospetti un riarmo atomico. Ne ha parlato la nuova premier giapponese Sanae Takaichi che, rispondendo in una sede ufficiale come la commissione del bilancio alla Camera bassa, a una interrogazione parlamentare, ha affermato di non potersi impegnare nel mantenimento dei “tre principi fondanti sul nucleare”, cioè quelli di “non detenere”, “non fabbricare” e “non consentire l’introduzione di armi atomiche nel Paese”. Una dichiarazione sconvolgente per un paese, l’unico ad avere subito un doppio bombardamento atomico ed avere mantenuto finora fermo il bando delle armi nucleari.
Si deve però ricordare che l’erosione del divieto della guerra come strumento politico, contenuto nell’articolo 9 della sua Costituzione, che ha impedito di avere un esercito offensivo tradizionale, era cominciata con la precedente leadership di Shinzo Abe con l’asserzione del principio, peggio che ambiguo, del “pacifismo proattivo”. Ma ora siamo di fronte ad un salto di qualità all’indietro di misura gigantesca. E non si tratta di oscure minacce dovute all’attuale tensione con la Cina per l’affaire Taiwan, ma prive di fondamenti quanto a possibilità realizzative, dal momento che, come informa il Japan Times: “il Giappone dispone attualmente di una riserva di 16.000 chilogrammi di plutonio utilizzabili per armi nucleari, sufficienti per fabbricare più di 3.000 armi atomiche. Possiede poi un lanciatore spaziale mobile a combustibile solido (il razzo H3), in grado di lanciare oltre 1.200 chilogrammi in orbita terrestre bassa, più che sufficienti per sganciare una testata nucleare. Dispone inoltre di tre centri di ricerca avanzati sulla fusione nucleare, che possono aiutarlo a sviluppare dispositivi a fissione potenziata e vere e proprie armi termonucleari. Una forza nucleare giapponese minima potrebbe costare appena 6 miliardi di dollari. Non ci vorrebbe molto tempo. Alcuni stimano meno di un anno”. Altro che la paura della presunta bomba atomica dell’Iran! Lo stesso giornale giapponese avverte però che “il passaggio del Giappone al nucleare fungerà inevitabilmente da innesco alla proliferazione” e che l’esito di una simile scelta sarebbe un boomerang per il Giappone, rendendolo “un obiettivo militare molto più urgente per Cina, Russia e Corea del Nord”, oltre al fatto di rendere più deboli e sospettose le relazioni con gli Usa. Ma non sappiamo se queste sagge considerazioni saranno in grado di fermare la mano della nuova leadership giapponese che si appresta a rivedere la Strategia di sicurezza nazionale entro il 2026.18
La riunione del Consiglio supremo di difesa italiano
Il 17 novembre il Capo dello Stato ha convocato e presieduto una riunione del Consiglio supremo di difesa senza che questo abbia trovato la giusta eco anche perché i mass media si sarebbero di lì a poco gettati a capofitto nel tormentone delle improvvide o inventate esternazioni del consulente del Quirinale Francesco Garofani e dalla inevitabile polemica seguita tra Palazzo Chigi e l’Alto colle – finita poi a tarallucci e aceto. Eppure si è trattata di una riunione non certo rituale. Nell’occasione il ministro della Difesa Guido Crosetto ha presentato un corposo non paper per illustrare le azioni di contrasto alla cosiddetta guerra ibrida.19 Il vero e più concreto oggetto della riunione è stato “il pieno sostegno italiano all’Ucraina nella difesa della sua libertà” entro il quale si motiverebbe “il dodicesimo decreto di aiuti militari”, mentre viene ribadita come “fondamentale … la partecipazione alle iniziative dell’Unione europea e della Nato di sostegno a Kiev e il lavoro per la futura ricostruzione del Paese”. Naturalmente questo ulteriore pacchetto – salvo diverse evoluzioni del quadro del conflitto russo-ucraino – sarà reso noto nei suoi specifici contenuti solamente ai membri, vincolati alla segretezza, del Copasir (l’organo bicamerale del Parlamento italiano che esercita il controllo sull'operato dei servizi segreti) senza che le aule parlamentari abbiano modo di conoscerli e tantomeno possibilità di discuterli. Il comunicato varato al termine della riunione ci informa che il nostro paese insiste per quanto riguarda una soluzione del conflitto israelo-palestinese, nella solita formula dei “due popoli due Stati” e che “farà la sua parte anche per quanto riguarda l’addestramento delle forze di Polizia palestinesi”. Insomma l’Italia si conferma sempre più interna alle logiche che reggono il sistema di guerra, ed intende proiettare gli sforzi di innovazione in campo tecnologico su un versante direttamente militare, facendo di questo settore un asse portante di una economia di guerra. Warfare in luogo di welfare non è solo una denuncia da gridare nelle manifestazioni, ma la triste sintesi del quadro che il finanzcapitalismo moderno ci offre.
I movimenti e una sinistra politica da costruire
Contro questo sistema di guerra si sono levati, possiamo dire in più parti del mondo, donne e uomini di tutte le età, ma particolarmente i giovani. La cosiddetta generazione zeta che comprende i nati tra il 1990 e il 2010, altrimenti detti anche “nativi digitali”. Seppure non siamo nella situazione della famosa manifestazione globale del febbraio del 2003 per cercare di fermare lo scatenarsi della guerra in Iraq, si può parlare di una ripresa su scala internazionale, in diversi continenti delle mobilitazioni, il cui filo conduttore è il rifiuto della guerra e della svolta autoritaria nei singoli paesi.
In queste settimane abbiamo assistito ad un risveglio etico e politico che ha portato a grandi mobilitazioni, anche nel nostro paese. L’anello che ha tirato la catena è stato il tentativo di fermare il genocidio in atto nella striscia di Gaza e le crescenti violenze in Cisgiordania. Attorno a questo obiettivo si sono aggrumate varie tematiche, da quelle della difesa della democrazia (vedi la nuova legge sulla sicurezza e più recentemente la controriforma della giustizia), a quelle ambientaliste (preoccupate, e con ragione, di un nuovo fallimento delle trattative in corso alla Cop 30 di Belem), a quelle riguardanti la lotta contro il patriarcato e i femminicidi, a quelle che toccano le condizioni materiali di vita della popolazione. La convergenza di queste tematiche ha dato vita ad una nuova forma di lotta, ovvero alla trasformazione dello sciopero generale in sciopero sociale, offrendo la possibilità a diversi soggetti sociali, di diverse generazioni, di trovarsi in manifestazioni il cui carattere spontaneo prevaleva su quello organizzato. Il concetto di “intersezionalità”, la cui fortuna dobbiamo al movimento femminista e quello che si esprime nel termine più semplice di “convergenza” sono gli elementi, di teoria di critica sociale e di modalità aggregative, che hanno permesso l’incontro tra diverse esperienze, obiettivi e bisogni.
Al contempo, pur con tutte le difficoltà e le interne contraddizioni, di classe e non solo di pensiero, il delinearsi di uno schieramento internazionale dei paesi Brics+ testimonia che il tentativo degli Usa di riconquistare un primato sul resto del mondo, non da oggi investito da un processo di crisi, può incontrare una resistenza attiva non solo da parte dei movimenti sociali, ma anche da governi e interi paesi.
Resta aperto e del tutto irrisolto, particolarmente nel nostro paese, il compito della (ri)costruzione di una sinistra di alternativa, ovvero di una sinistra che non sia solo animatrice e partecipe di movimenti di lotta – cosa peraltro indispensabile e irrinunciabile -, ma anche capace di dare vita ad un pensiero articolato e a un conseguente programma per la costruzione di un’alternativa di società. Che non possono prescindere dall’analisi concreta del moderno capitalismo e da un lavoro di inchiesta per una conoscenza reale di bisogni e di aspirazioni delle popolazioni. Se guardiamo alle nostre spalle, cioè al Novecento, vediamo che è nei periodi di grande incertezza e di burrasca, di cui le due guerre mondiali sono state il culmine e l’esito, che sono nate nuove forze di sinistra sulla base della capacità di affrontare quelle difficili situazioni. Ma simili condizioni non sono ovviamente riproducibili, né tanto meno auspicabili, poiché una nuova guerra mondiale e/o un totale disastro ecologico provocherebbero, date le loro dimensioni e intensità, una distruzione totale. Perciò è dentro questa lotta di resistenza contro la guerra, l’invivibilità del pianeta, lo svuotamento e la negazione della democrazia e l’assoggettamento, nelle diverse forme e gradi, allo sfruttamento di parti sempre più grandi di società, che si devono trovare le leve per la costruzione di una sinistra di alternativa. Per farlo bisogna, come sempre, evitare frazionamenti, isolamenti e inutili divisioni, sia per quanto riguarda il livello dei movimenti che quello della elaborazione politica.






































Add comment