La guerra e la moneta
di Stefano Lucarelli
Un programma per l’alternativa dovrebbe sottolineare che le condizioni economiche per la pace passano per una riprogettazione del sistema monetario internazionale
Marco Bertorello e Giacomo Gabbuti nel loro appello su Jacobin Italia invitano a riflettere su un percorso possibile che dalla critica dell’economia conduca a un programma per l’alternativa. Un invito nobile e urgente che ho visto ciclicamente riproporsi negli ormai 36 anni che separano la nostra esistenza dall’evento che simbolicamente ha segnato il passaggio da un assetto mondiale a un altro. La caduta del Muro di Berlino, con il suo portato di speranze tradite, ha infatti accelerato quei processi istituzionali che hanno visto il trionfo della privatizzazione globale che, passando per guerre volte a esportare la democrazia, crisi finanziarie, reali, ecologiche, pandemie, reazioni protezionistiche da parte della potenza egemone e nuove guerre, ha amplificato sempre più gli squilibri economici fra paesi.
Il nodo del sistema monetario internazionale
Tutte le volte che viene sollevato il problema dell’alternativa, ci si rivolge anzitutto agli economisti, come se fossero depositari di saperi se non salvifici, quanto meno utili per aprire nuovi orizzonti di analisi. In effetti gli economisti dovrebbero sapere che il sistema economico internazionale del dopoguerra, il gold-exchange standard, il rapporto di cambio tra valute agganciato al dollaro e non più all’oro come stabilito a Bretton Woods, sorge da un peccato originale: fare di una valuta nazionale, il dollaro, la valuta di riserva internazionale. Com’è noto, quel sistema venne sospeso nel Ferragosto del 1971, unilateralmente, dal Presidente Nixon per realizzare un sistema di cambi flessibili in cui l’accettazione del dollaro come valuta di riserva internazionale non poggia più su ragioni economiche ma su ragioni politiche, o, per meglio dire, su rapporti di forza. Qui stanno i motivi principali della tendenza agli squilibri globali che, date certe condizioni, possono condurre a profonde tensioni finanziarie e commerciali, favorite dalla deregolamentazione finanziaria, fino a sfociare in vere e proprie guerre.
Ne era consapevole John Maynard Keynes che tentò, fallendo, di realizzare a Bretton Woods un altro piano: «La proposta è quella di istituire un’Unione monetaria, qui definita International Clearing Union, basata su una moneta bancaria internazionale, chiamata per esempio bancor […]. Le banche centrali di tutti gli Stati membri (e anche dei non membri) aprirebbero dei conti presso di essa, tramite i quali avrebbero la facoltà di pagare rispettivamente i propri saldi con l’estero, secondo le parità delle rispettive valute in termini di bancor. I paesi con una bilancia dei pagamenti favorevole nei confronti del resto del mondo si troverebbero in possesso di un conto di credito presso la Clearing Union, mentre quelli con una bilancia sfavorevole avrebbero un conto in debito. Per evitare l’accumulazione indefinita di crediti e debiti sarebbero necessarie opportune misure» (Keynes, Proposte per una International Clearing Union, aprile 1943). Un sistema dei pagamenti internazionale in cui nessuno è incentivato ad accumulare saldi attivi in perpetuo proteggerebbe il mondo dalle tendenze mercantilistiche e la presenza di una vera valuta internazionale pensata a partire dal piano di Keynes eviterebbe che il paese che emette la valuta di riserva internazionale sia destinato a un deficit commerciale crescente, quindi all’esigenza di attrarre finanziamenti dal resto del mondo (come spiegò bene Robert Triffin nel 1978).
Un programma per l’alternativa dovrebbe innanzitutto sottolineare che le condizioni economiche per la pace passano necessariamente per una riprogettazione del sistema monetario internazionale. Tema immane che rischia di confinare l’operato di noi tutti all’inazione e che quindi lascio sullo sfondo per entrare nel merito di alcune proposte che possono assumere un respiro vitale almeno nei confini nazionali.
Scardinare il sistema di guerra
Anche così facendo, la gamma di problemi che si dipanano dinanzi è molto vasta ed estremamente preoccupante: l’attuale modello economico produce disuguaglianze, distrugge l’ambiente, mette in crisi la democrazia, incentiva la diffusione di innovazioni che possono danneggiare il benessere collettivo, si disinteressa sostanzialmente delle condizioni in cui si trovano i lavoratori, tende a sottostimare l’importanza di una piena occupazione che possa garantire l’accesso alle risorse fondamentali che garantiscano una vita dignitosa a ogni essere umano. Lo confermano i seguenti dati: secondo l’ultimo rapporto Oxfam il numero assoluto di persone che vivono con meno di 6,85 dollari al giorno è lo stesso del 1990 (circa 3,5 miliardi) mentre nell’ultimo anno analizzato (2024) la ricchezza dei 10 uomini più ricchi al mondo è cresciuta di quasi 100 milioni di dollari al giorno. L’indice globale della fame al 2025 mostra che gli eventi climatici estremi hanno amplificato l’insicurezza alimentare: 96 milioni di persone in 18 paesi si trovano in una situazione di insicurezza alimentare estrema. L’ultimo rapporto di Freedom House segnala per il diciannovesimo anno di seguito un calo dei diritti politici e delle libertà civili a livello mondiale: 60 paesi hanno registrato un chiaro peggioramento, mentre solo 34 hanno registrato dei progressi significativi. L’ultimo rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) stima che più di 2,4 miliardi di lavoratori e lavoratrici su un totale complessivo di 3,4 miliardi sono esposti a calore eccessivo in qualche momento della loro attività lavorativa; 22,87 milioni di infortuni sul lavoro sono attribuibili al caldo eccessivo; sono 870 milioni, secondo le stime, i lavoratori e le lavoratrici del settore agricolo esposti ai pesticidi e 300.000 decessi sono attribuibili ogni anno ad avvelenamento. Un rapporto di Research Nester indica che al 2024 il mercato delle tecnologie per armi di nuova generazione ha un valore pari a 20,3 miliardi di dollari, e prevede che tale valore cresca a un tasso annuo composto del 6,7% nel periodo compreso tra il 2025 e il 2037. Secondo gli ultimi dati Ilo (2024) la percentuale di working poors – le persone che sebbene lavorino non riescono con il loro reddito a emergere dalla soglia della povertà grave (2,15 dollari al giorno) – è pari a 6,9%, ma sale al 39,7% se si considerano solo i paesi a basso reddito.
Emanuele Felice, nella sua intervista sempre su Jacobin Italia relativa a questo dibattito, evoca l’immagine apocalittica del tecno-fascismo. Nominato e rappresentato in diversi modi dagli anni Trenta a oggi, il tecno-fascismo può essere rintracciato in vari contesti culturali e grazie a riflessioni che si reggono su linguaggi anche molto lontani tra loro, a partire dal romanzo Il mondo nuovo di Huxley (1932), passando per la denuncia a opera di Herbert Marcuse della razionalità tecnologica a servizio del capitalismo (1964), sino al celebre film cyberpunk di Lana e Lilly Wachowski, The Matrix (1999). Ed è forse questo l’orizzonte da scongiurare o, per i più pessimisti fra i quali mi annovero, il presente su cui agire, un presente che vorrei definire in un modo meno affascinante ma forse più preciso utilizzando il concetto di «sistema di guerra» invece che l’espressione tecno-fascismo.
Per «sistema di guerra» intendo «un sistema dove le armi non sono solo strumenti militari di difesa, accessori e subordinati alla volontà generale, ma sono di fatto la massima struttura di potere della società, ciò che ne esprime e determina la vera natura; un sistema dove le armi non hanno solo una funzione militare, ma ancor più hanno una funzione politica; esse di fatto determinano la natura del regime politico, ne producono la costituzione materiale, segnano limiti rigidi alla possibilità di alternative e di mutamenti interni al sistema politico, fissano i confini di compatibilità dei suoi rapporti esterni e della sua politica internazionale, si impongono come fonte normativa primaria e architrave del sistema». Sono parole scritte da Raniero La Valle e Claudio Napoleoni nel 1986. Per poter immaginare un’alternativa di politica economica, lavorando almeno su alcune delle proposte che Emanuele Felice ha sollevato nel suo intervento su questa rivista, occorre scardinare il «sistema di guerra».
Un nuovo dibattito pubblico
Per farlo è importante agire all’interno dei luoghi in cui si riproduce il sapere tanto teorico, quanto applicato (le università innanzitutto) evitando che vengano trasformati in una struttura eterodiretta dagli interessi di un governo che, nel migliore dei casi, sta dirigendosi su una strada sbagliata e dannosa (si pensi all’influenza inaccettabile dell’industria bellica sui finanziamenti alla ricerca, come ha recentemente segnalato AltraEconomia, e che sembrerebbe legittimare il nuovo bando europeo Horizon). La critica dell’economia, in questo caso, può servire innanzitutto a riportare alla luce delle verità fondamentali che possono contribuire a sviluppare un discorso pubblico su un’alternativa consapevole al «sistema di guerra». Ne possiamo elencare alcune:
- In un momento di stagnazione economica e di vincoli stringenti alla finanza pubblica, l’aumento degli acquisti di armi da parte dell’Europa rischia di ridurre lo spazio per gli investimenti pubblici sociali e ambientali. In un recente lavoro pubblicato su Peace Economics, Peace Studies and Public Policy, Marco Stamegna, Chiara Bonaiuti, Paolo Maranzano e Mario Pianta stimano l’impatto economico e occupazionale dell’aumento della spesa per la produzione di armi in Germania, Italia e Spagna, confrontandolo con gli effetti dell’aumento della spesa pubblica per la protezione dell’ambiente, per l’istruzione e per i servizi sanitari. I risultati delle stime mostrano che l’attuale tendenza ad aumentare la spesa militare europea ha conseguenze economiche nefaste: il finanziamento pubblico delle spese militari comporta un aumento delle importazioni di armi e componenti high-tech, principalmente dagli Stati uniti; riduce la disponibilità di risorse pubbliche per le priorità ambientali e sociali; e ha un effetto significativamente inferiore in termini di crescita interna della produzione e dell’occupazione rispetto ad altre possibili destinazioni della spesa pubblica. Gli investimenti nella protezione dell’ambiente, nell’istruzione e nella sanità generano da due a quattro volte più posti di lavoro rispetto agli investimenti nell’acquisto di armi.
- Le scelte relative alla ricerca e sviluppo – dunque alla programmazione delle politiche industriali e delle innovazioni che impattano sulle traiettorie evolutive di un sistema economico nazionale – non possono essere appannaggio del mercato, né possono legittimare relazioni internazionali in cui si consolidino vincoli esteri di natura tecnologica che possono incidere sui divari di produttività soprattutto all’interno dell’Euro-area, men che meno concentrandosi sulle innovazioni a fini militari. Si dovrebbero invece introdurre missioni di medio-lungo termine per le imprese pubbliche – senza vincolarle a forme di finanziamento che incentivino spese su un orizzonte di breve-medio periodo (come è stato nel caso del Pnrr). È quanto proposto, già cinque anni fa, dal Forum Disuguaglianze e Diversità: «L’intervento che la Commissione ha proposto raggiunge tre obiettivi: maturare missioni strategiche orientate a promuovere l’innovazione tecnologica e lo sviluppo inclusivo e sostenibile del paese, chiare e tecnicamente rigorose, fissate in atti programmatori di medio-lungo termine, e maturate attraverso un confronto fra azionista pubblico e imprese; promuovere e rendere sistemico, ancorché informale, il confronto e quindi la cooperazione strategica fra le stesse imprese pubbliche; rendere coerente l’azione delle amministrazioni pubbliche statali e regionali con le strategie delle imprese pubbliche, nell’ambito di un’unica visione-paese. Questi obiettivi vengono raggiunti: costruendo un forte ponte tecnico, un Consiglio degli Esperti, che consenta un continuo dialogo e di fare squadra fra imprese e azionista Stato; elaborando missioni strategiche condivise dal Parlamento e fissate nel medio-lungo periodo in atti europei, relative alle sfide della società nell’immediato futuro: innovazione tecnologica e digitale, cambiamento climatico, invecchiamento della popolazione; dando un nuovo r più pronunciato profilo tecnico ai Consigli di Amministrazione».
- Occorre riproporre le strategie di sviluppo «rivolte ai luoghi» facendo tesoro di una vera valutazione degli esiti ottenuti con la Strategia Nazionale delle Aree Interne. Infatti, i problemi di redistribuzione demografica fra città e aree periferiche, soprattutto in un paese come l’Italia, sono aspetti troppo trascurati che, se ben governati, possono invece incidere notevolmente anche sulla riduzione delle diseguaglianze. Combinare il miglioramento dei servizi fondamentali con le opportunità per un utilizzo consapevole, giusto e sostenibile delle nuove tecnologie è una prospettiva che potrebbe riportare ad abitare luoghi periferici ma ricchi di salubrità, patrimoni paesaggistici, artistici e culturali che, se lasciati in balia dello svuotamento demografico, comporteranno costi sociali crescenti oltre alla perdita di ciò che resta di una pratica della sussidiarietà orientata ai beni collettivi che cozza profondamente con la sussidiarietà artificiosa utilizzata come arma impropria per rafforzare i processi di privatizzazione. Anche su questi temi le università possono svolgere un ruolo di grande rilevanza agendo sui territori per compensare le carenze delle competenze prodotte da anni di sottodimensionamento delle pubbliche amministrazioni, e stimolando al loro interno ricerche sul campo e collaborazioni fra scienziati sociali provenienti da diversi ambiti disciplinari – non solo economisti dunque.
- Gli scienziati sociali, soprattutto nel nostro paese, agiscono sempre più all’interno di compartimenti stagni – probabilmente su questo hanno inciso i criteri di valutazione scientifica delle Asn e della Vqr (entrambe, peraltro, al centro degli attuali progetti di riforma governativa). Così quegli studiosi contribuiscono loro malgrado al decadimento del dibattito pubblico, dove imperversano giornalisti che intervistano altri giornalisti o sedicenti esperti di varie discipline appartenenti a think-tank più o meno formalizzati, tutti riconducibili alla cultura neoliberista media che si è formata su sintesi inaffidabili della smithiana Ricchezza delle nazioni o su critiche dei grandi del pensiero economico (da Marx a Keynes) condotte con la trascuratezza culturale che trionfa in questa epoca di influencer. Anche questo tema va riportato all’attenzione di chi ha a cuore un programma per l’alternativa. Come regolare il dibattito pubblico? Come far sì che esso non venga orientato da gruppi di interesse che assumono la forma di oligopoli dell’informazione che replicano rapporti gerarchici? E che ruolo in questo può avere l’Accademia?
Queste mie note sono senza dubbio insufficienti e non coprono temi importanti per una politica economica alternativa a quella preferita dal gruppo di interessi che sembra esprimere cinicamente la classe dirigente che oggi guida in gran parte l’Occidente. Sono pezzi di un ragionamento che potrà essere efficace solo in una forma collettiva. A questo potrebbero tornare utili le modalità di confronto partecipato che caratterizzavano l’Italia della mia infanzia, dove in ogni paese si parlava di mondi diversi possibili, nelle parrocchie quanto nelle sezioni di partito, o nei dopo-lavoro. Lì dove le persone prendevano la parola negli anni che precedettero la caduta del muro di Berlino.







































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