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Tensioni Iran-Arabia Saudita: nemmeno qui è religione

by Simone Benazzo

Saudi.economic.city1 Il 2 gennaio l’Arabia Saudita ha giustiziato 47 detenuti accusati di “terrorismo”. Nonostante le vittime fossero perlopiù sunnite, l’uccisione del religioso sciita Shaykh Nimr Baqr al-Nimr, leader delle proteste contro il governo di Riyadh nel 2011, ha scatenato violente reazioni in Iran, stato di riferimento della comunità sciita globale. A Teheran è stata assaltata l’ambasciata saudita (qui il video) e dalla capitale iraniana sono giunte dure condanne dell’azione intrapresa dal governo saudita: la massima autorità religiosa, l’ayatollah Khameini ha parlato di una “vendetta divina” che si abbatterà sui politici sauditi per aver sparso sangue innocente e il vice-ministro degli esteri iraniano ha colto l’occasione per accusare espressamente l’Arabia Saudita di promuovere il terrorismo in Medio Oriente, dando alla vicenda i contorni di una crisi diplomatica.

La reazione saudita è stata immediata: il ministro degli esteri Adel al-Jubeir ha annunciato che le relazioni diplomatiche con Teheran sono interrotte, i diplomatici iraniani hanno 48 ore per lasciare il paese. A poche ore dall’annuncio ufficiale anche Sudan e Bahrein si sono accodate alla decisione saudita. Questa “crisi dei missili di Cuba” mediorentale ha rinfocolato la tensione tra i due stati, finora, più stabili del Medio Oriente. Il parallelismo con lo scenario pre 1989 trae ulteriore legittimazione dalla contrapposizione indiretta tra i due paesi nella guerra in Yemen,  dove già dall’inizio del conflitto in marzo si è parlato proprio di “guerra fredda”.

Nonostante re Salman sembri essere più incline all’uso della pena capitale (a queste 47 si aggiungono le 157 esecuzioni capitali comminate nel 2015) rispetto al suo predecessore Abdullah (47 in tutto il 2014), l’eclatante scelta di eseguire un numero di condanne così elevato in una sola giornata non pare essere un’improvvisazione estemporanea, quanto una mossa premeditata. Non solo nei confronti di Teheran: il governo di Riyadh sembra aver voluto mandare un messaggio chiaro alla comunità internazionale, in un momento in cui la sua secolare egemonia regionale sembra essere messa in discussione. Lo Stato Islamico, il crollo dei prezzi del petrolio e il riavvicinamento tra l’Iran e le potenze occidentali obbligano i sauditi a confrontarsi con uno scenario a cui non sono abituati. Dagli accordi Skies-Picot del 1916 sono sempre stati gli interlocutori musulmani privilegiati di Nato e Usa nella regione, ma la situazione è ora in furiosa evoluzione.

Qui proponiamo un’analisi che contrasti i tentativi di ridurre anche questa questione, una storia di geopolitica ed equilibri di potere interni ai due paesi, ad uno scontro interreligioso.

La guerra civile in Siria è uno scenario complesso, dove si muove un florilegio di attori che, a loro volta, hanno dietro di sé differenti sponsor. Come è naturale attendersi, i principali sono gli stati limitrofi o più prossimi alle aree in cui avvengono gli scontri. Quella che per le potenze occidentali è l’ennesimo capitolo di un epico scontro di civiltà di huntingtonghiana memoria, per le potenze della regione è, più prosaicamente, una guerra regionale, dove ogni stato segue la propria agenda, come dimostra la tolleranza della Turchia, nominalmente membro della Nato, verso lo Stato Islamico in funzione anti-curda. Uno scenario non dissimile in questo senso dalla guerra che sta appunto sviluppandosi in Yemen. Qui come in Iraq e Siria la maggioranza degli scontri sono tra milizie musulmane. Risulta difficile parlare di conflitto interreglioso, quando, per esempio, il primo avversario dello Stato Islamico sul campo sono i curdi, a loro volta musulmani. Non per mere contingenze belliche, ma come elemento concettuale cardinale della filosofia dello Stato Islamico. Come ha spiegato Alessio Aringoli su Pandora,

Il principale obiettivo dei wahabiti-salafiti è il dominio e l’oppressione degli altri islamici in tutto il mondo. La maggioranza delle vittime degli jihadisti sono islamiche. I nemici più immediati e rilevanti degli jihadisti sono islamici. Il progetto totalitario wahabita-salafita passa ineluttabilmente per la sconfitta di tutte le altre possibili e esistenti declinazioni dell’Islam, laiche e religiose, sciite e sunnite.

A loro volta, con buona pace dei riduzionisti nostrani, se Riyadh e Teheran dovessero mai arrivare ad un conflitto militare diretto, non lo farebbero per jihad intrareligiose, bensì per motivazioni più terrene di egemonia regionale e interessi economici. Il pluri-secolare scontro sciiti-sunniti servirebbe anche in questo caso da serbatoio ideologico, una riverniciatura morale da vendere alla propria popolazione e ai culturalisti occidentali. Non sarebbe la miccia.

Riyadh ha fatto una mossa di notevole gravità e ha messo di fronte gli storici alleati occidentali ad una spinosa presa di posizione: cadere o non cadere nella provocazione? La sensazione che la rilevanza nello scacchiere occidentale dell’Arabia Saudita stia decrescendo è forte e, inoltre, il fatto che al-Nimr fosse un leader non violento, i cui rapporti diretti con Teheran non siano mai stati provati, sembra confermare la finalità provocatoria di questo gesto platealmente truculento.

Monarchia assoluta su base tribale da quasi un secolo, stabilmente al livello minimo (7 pieno su 7) delle classifiche di Freedom House sui diritti civili, l’Arabia Saudita è da sempre l’epitome di una contraddizione nella narrazione occidentale che sembra ora viaggiare verso l’implosione. Non ha mai dovuto subire introduzioni di democrazia per via aerea o embarghi. I fastidi di qualche appello della comunità internazionale ad un rispetto almeno minimo delle libertà di base non si sono mai rivelati troppo minacciosi, permettendo, nel settembre scorso, al suo ambasciatore ONU di ritrovarsi a presiedere un gruppo di lavoro sui diritti umani. La Libia di Gheddafi, l’Iraq di Saddam, la Siria di Assad: per tutti sembra tuttavia arrivare un momento si passa dall’essere considerati alleati fedeli e strategici a regni del terrore, necessariamente da combattere e liberare. Se è vero che le liasion di Riyadh sembrano essere ancora molto solide, considerati vincoli decennali e accordi commerciali, è anche vero che le recenti esperienze insegnano come questo vento sia particolarmente volubile, in grado di stravolgere e ribaltare le amicizie di una vita in pochi mesi. Sembra ieri che l’allora senatore del Massachusetts John Kerry cenava in un ristorante di Damasco con Bashar al-Assad (era il 2009) o che Gheddafi auspicava nella Roma vaticana che l’Islam diventasse la religione d’Europa (era il 2011), accolto in pompa magna dal governo Berlusconi, di cui faceva parte anche la Lega Nord, oggi sempre più proiettata ad un’islamofobia senza quartiere di stampo lepenista. Per quanto riguarda il messaggio ad Ovest, con questa azione l’Arabia Saudita sembra aver voluto ingaggiare una prova di forza: ribadire di essere quella di sempre e così gli alleati la devono accettare. Le apparenti aperture, come la possibilità data ad alcune donne di candidarsi ad elezioni locali lo scorso dicembre, sono azioni di marketing, più vicine a quelle a noi familiari di pink-washing che a prodromi di una tardiva democratizzazione top-down.

Infatti, il rapporto che la monarchia saudita vuole mantenere con il dissenso e le minoranze non potrebbe essere più cristallino. Uno sguardo alla composizione delle vittime della pena capitale risulta particolarmente illuminante: a fianco di membri di al-Qaeda e ISIS, sotto l’etichetta generica di “terroristi” dal boia sono finiti anche leader di proteste politiche e esponenti sciiti, persone che non avevano commesso reati gravi. Ma Riyadh, forse, sente ora più forte che mai il pericolo che la sua longeva illiberalità strutturale inizi a costituire un problema. La creazione dello Stato Islamico ha avuto una funzione enzimatica: la comparsa di un altro stato sunnita che rivendica di voler utilizzare la shari’a come suprema fonte giuridica ha permesso a qualcuno di notare somiglianze importanti tra il sistema penale applicato (da un anno) nello stato creato dagli jihadisti e quello applicato (da sempre) in Arabia Saudita. Somiglianze non casuali, in quanto sia Arabia Saudita che Stato Islamico si rifanno all’ideologia wahabita.

In questo scenario in fieri potrebbe essere la Russia a beneficiare dei tentennamenti occidentali e a porsi come mediatrice tra i due contendenti, certificando ulteriormente la sua vocazione egemonica nell’area, dopo la scelta del sostegno palese ad Assad in ottica anti-Isis. Nel gioco delle tre sedie tra Iran, Arabia Saudita, USA e Russia, potrebbe capitare che l’Arabia Saudita rimanga fuori dai giochi per la prima volta.

Infine, non sono solo i fattori esterni a minare le fondamenta del potere assoluto saudita. A questi esposti sopra, si aggiungono fattori interni a completare il quadro delle preoccupazioni della petro-monarchia del Golfo. Come sintetizza Il Caffè Geopolitico,

l’Arabia Saudita oggi è overstretched (combatte in Yemen, ha problemi in casa, coinvolta in Bahrein e Siria, la famiglia reale è in conflitto interno, il prezzo del petrolio sta facendo ridurre sussidi prima considerati intoccabili, ecc.) e non è in posizione così rosea come sembra a prima vista.

Proprio l’elemento che ha permesso a Riyadh di mantenere inalterato e fluido il suo sistema di potere rischia di rivelarsi il punto debole: il petrolio. Annus horribilis, il 2015 ha sancito che l’Arabia Saudita non ha più il monopolio de facto che era riuscita a mantenere negli ultimi anni. Lo Stato Islamico punta sulle esportazioni di greggio come principale fonte di finanziamento e proprio la riammissione dell’Iran nel cerchio degli esportatori ammessi rappresenta un guanto di sfida nemmeno troppo velato lanciato verso Riyadh. Analizzando come e perché il prezzo del petrolio stia calando, Linkiesta scrive:

La notizia che l’Arabia Saudita ha ritirato 73 miliardi di dollari dai suoi asset internazionali per fare cassa, sostenere la propria economia interna e finanziare la sua campagna militare nello Yemen è un indizio significativo delle difficoltà che stanno attraversando i paesi OPEC, ma evidenzia che il calo del prezzo del petrolio sta iniziando a destabilizzare il Medio Oriente.

La monarchia saudita è infatti uno stato rentier, ovvero la sua economia interna è interamente sostenuta dalle esportazioni petrolifere. Abbinate a modalità repressive dittatoriali, le ricadute in politica interna di questa felice configurazione finanziaria sono notevoli: permettendo la redistribuzione di prebende alla popolazione, ostacola la creazione di una borghesia imprenditoriale che funga da contrappeso allo stato e irregimenta la già rarefatta società civile. Il regime si garantisce pace sociale e apatia politica generalizzata. Questa redistribuzione è favorita dal clientelismo su base clanica del sistema tribale saudita. Qualora queste entrate dalla vendita del greggio venissero a mancare, questa redistribuzione verrebbe alterata, con conseguenze pericolose per la finora placida stabilità del regno, ovvero la possibilità che riesplodano nuove e virulente proteste sociali. Se l’opinione pubblica internazionale iniziasse a non chiudere più gli occhi di fronte alle violenze statali saudite e gruppi di pressione, economici e politici, dessero il la alle ben oliate campagne di lobbying per demonizzare il paese, sarebbe ancora più arduo per Riyadh rispondere alle crescenti tensioni sociali imprigionando e giustiziando i dissidenti. Obbligata allora a confrontarsi con le rivendicazioni di piazza, potrebbe capitare che giunga anche per questa nazione araba il tempo della primavera.

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