Print Friendly, PDF & Email

oltreilcapitale

L'automazione digitale: come liberarsi da un'impostura

di Roberto Ciccarelli*

banchetto sul fiume. mosaico i sec. a.c. Qualsiasi tecnologia sufficientemente avanzata basta per generare una rappresentazione del futuro simile alla magia. Ogni like su Facebook, ogni acquisto su Amazon, ogni ricerca su Google sembrano vendere un sogno per cui droni, servizi online e automi possono soddisfare i desideri dei consumatori e diventare più umani degli umani. Quanto agli uomini saranno liberati dai loro errori, contraddizioni e conflitti, ovvero da loro stessi. A questi esseri si assegna il ruolo di trasformare la società in un mercato ideale senza forza lavoro. L’esempio che, più di altri, viene fatto per rappresentare la fine della forza lavoro come produttrice di ricchezza è la macchina Google che si guida da sola. Le sue imprese sono raccontate periodicamente al pari del miglioramento della ricerca sui droni. Il congegno è la promessa simbolica per i guidatori della classe media di essere sollevati dalla fatica di viaggi di ore verso l’ufficio all’altro capo della città, ottenendo in cambio l’accesso allo stile di vita dei ricchi e dei famosi che possono contare su uno chauffeur personale. Solo che questi “ricchi” sono meno dell’1% della popolazione mondiale e saranno sempre di meno, mentre la classe media che dovrebbe usufruire delle prestazioni di questo veicolo è spinta sempre più in basso. Si prefigura così un futuro dove le macchine si guideranno da sole, mentre la maggioranza degli umani andranno a piedi perché non saranno in grado di acquistarle. Questo dettaglio sfugge molto spesso alla futurologia della Silicon Valley. Più forte è la suggestione di un’automazione depurata dai limiti umani.

Lo chauffeur di Google è un esempio delle automazioni che sostituiranno la forza lavoro: perché far lavorare una persona in carne e ossa se un robot svolge le stesse mansioni senza obiezioni?

Questo approccio non fornisce alcuna certezza sulla capacità dei sistemi “intelligenti” di produrre meno errori rispetto ai sistemi “umani” che intendono sostituire. Le Google Car potrebbero anche farlo, ma ciò non esclude la possibilità di farne altri che gli umani non fanno1. Ammesso, e non concesso, che un automa possa effettivamente svolgere un lavoro come un umano, la possibilità incombente dell’errore produrrà nuove competenze e posti di lavoro nel settore del controllo, dei servizi e della programmazione, oltre che in quello giuridico, per prevenire o rimediare ai danni compiuti dalla Google Car. Questi veicoli hanno fatto quattordici incidenti in sei anni di sperimentazione e ci sono stati i primi feriti a causa di un veicolo guidato da un umano. Solo quando non ci saranno più macchine guidate da umani la Google Car mostrerà i suoi vantaggi. Il programma è vasto, come il sogno di onnipotenza che lo ispira.

L’automazione non è esente da contraddizioni. I computer possono rompersi o essere hackerati, il pilota automatico può portare un aereo a sfracellarsi contro una montagna. Inoltre, le macchine funzionano fino a quando il programmatore decide di staccargli la spina. Senza contare che l’intelligenza di una macchina si dissolve nell’obsolescenza programmata dalle aziende che hanno bisogno di immettere nuovi prodotti sul mercato. Contro queste anomalie si schiera un imponente apparato ideologico il cui obiettivo è ridurre la forza lavoro a una categoria prevedibile negandole un rapporto con la conoscenza. Esistono due tipi di conoscenza: tacita o implicita ed esplicita o operativa2. La conoscenza tacita esercita la forza lavoro in attività singolari che il corpo e la mente hanno appreso ed esercitano senza avere bisogno di uno spartito: guidare una bicicletta o una macchina, praticare una lingua, tenere una relazione o eseguire virtuosamente un compito non standard alla luce di regole apprese e praticate in maniera indipendente e molto spesso slegate da un compenso. Le abilità maturano in un campo dove il soggetto pratica facoltà non oggettivabili, libere di innovare procedure e produzioni. Questo è il campo della forza lavoro, la cui facoltà non risponde a un rigido prontuario. È un sapere singolare e posizionato che non si presta ad astrazioni universalizzanti. La conoscenza esplicita riconduce questo sapere pratico all’organizzazione dell’impresa e a codici trasmissibili secondo formule replicabili. Nella teoria del management della conoscenza questi saperi sono inseriti in un sistema informatico-cibernetico che abilita il soggetto a convertire una conoscenza tacita in una esplicita e permette alla gestione delle risorse umane di assorbire il movimento della forza lavoro nell’organizzazione dell’impresa3.

Il mito dell’automazione si incaglia nella difficoltà delle macchine di produrre improvvisazione, usare la conoscenza tacita per creare lo sviluppo non programmato di una conoscenza operativa, incorporare la cultura materiale o la memoria corporea in un gesto non definibile a priori4. Gli algoritmi dipendono dall’uso che ne fanno i proprietari e i loro utenti. Da soli, sono muti. Vivono nell’interazione tra umano e macchina e nella loro reciproca incorporazione e individuazione. Invece di immaginare una sostituzione totale, è necessario concepire una complementarietà reale con le macchine cominciando dalla condivisione della proprietà intellettuale sui brevetti. In una società capitalistica questo è impossibile.

L’automazione è il prodotto di questa società e non di un destino irreversibile. La sua storia risale al controllo delle acque del terzo secolo avanti Cristo, ha trovato nella rivoluzione industriale una prima applicazione con l’invenzione del mulino e il motore a vapore, il telaio, il termostato, fino ai trasmettitori pneumatici per il controllo del processo industriale5. La creazione del motore a vapore generò una crisi del controllo prodotta dall’incompatibilità tra il flusso della produzione e la capacità di contenerlo. L’automazione permise di consolidare il controllo sui tempi di produzione, trasformando il lavoro operaio da assemblatore dei pezzi in controllore del processo. L’idea che l’automazione possa sostituire integralmente la forza lavoro è nata dopo la Seconda guerra mondiale con la nascita dei moderni computer. È stata applicata al lavoro manuale e intellettuale, al trattamento dei dati e all’organizzazione dell’impresa, diventando l’obiettivo dei progetti sull’Intelligenza Artificiale che imitano le forme più astratte di pensiero umano nella risoluzione dei problemi matematici, teoremi di geometria e il gioco degli scacchi.

Le ambizioni dell’Intelligenza Artificiale sono state frustrate da molti fallimenti. Si è pensato che gli ostacoli incontrati dalle sue sperimentazioni potessero essere aggirati dalla simbiosi tra l’uomo e il computer capace di aumentare l’intelligenza umana6. Le macchine sono state considerate uno strumento capace di accompagnare il cervello umano, ma non di sostituirlo in tutte le aree dell’attività professionale7. È un approccio più realistico rispetto alle illusioni dell’automazione totale, anche se non è privo di suggestioni cibernetiche e, in più, non contempla l’interrogazione sulla proprietà e sull’uso pubblico e comune dell’automazione. Nonostante il desiderio di rendere accessibili a tutti le cure, professato in nome dei diritti umani, l’accesso alle tecnologie non è distribuito equamente, esclude i poveri, i non-bianchi e le donne, la parte maggioritaria di popolazione che non può permettersi la tecnologia, una carta di credito e un’assicurazione sanitaria8. Oggi l’automazione contribuisce alla creazione delle diseguaglianze e al loro governo, non alla loro prevenzione.

Al di là delle differenze tra il paradigma cibernetico e quello interazionista, entrambe le ipotesi ragionano a partire dall’assunto perentorio secondo il quale l’automazione cancellerà il lavoro.

Questa convinzione è derivata dal dibattito sulla “polarizzazione dei posti di lavoro” [Job polarization] alla base di quasi tutte le profezie apocalittiche sull’automazione totale. La possibilità riguarderà 702 occupazioni negli Stati Uniti dove il 47% dei lavoratori rischierebbero di perdere il lavoro entro dieci anni9. In particolare saranno gli impieghi medio-bassi più ripetitivi a sparire, mentre quelli a più alto contenuto di competenze [skill] saranno di meno e più ricercati. Questo processo di polarizzazione accentuerà le già macroscopiche differenze tra i redditi. Rispetto ad altre ondate dell’automazione, quella digitale sarebbe inoltre caratterizzata dal basso tasso di sostituzione tra vecchi e nuovi impieghi. La tecnologia avrà sempre meno bisogno di lavoro umano e l’avvento dei personal computer dal 1980 ad oggi ha acuito il rischio di perdite potenziali di lavoro.

Nonostante la grande popolarità che gode a livello mediatico, questa è una tesi contestata. Esistono altre proiezioni che dimostrano il contrario. Non tutti i lavoratori con basso salario possono essere sostituiti dalle macchine, mentre i lavori a elevata remunerazione sono suscettibili di un certo grado di automazione. Solo il 5% di tutte le professioni sarà sostituito integralmente dalle macchine10. Queste e altre confuse proiezioni sono ispirate dalla teoria sulla cosiddetta fallacia del lavoro-massa [lump of labour fallacy]11: l’idea che il lavoro sia scarso in natura e sia il risultato di una somma di posti di lavoro determinati. L’automazione ne distrugge una quantità e quella che resta dovrebbe essere distribuita tra una popolazione sovrannumeraria di disoccupati e inoccupati. È lo stesso ragionamento che si fa nel caso dell’immigrazione: i sostenitori del lavoro-massa ritengono che essa riduca la disponibilità dei posti di lavoro ai lavoratori nativi. È la congiunzione degli opposti: l’idea del lavoromassa accomuna i fautori dell’automazione, liberali praticanti dei diritti costituzionali, ai razzisti che recitano il rosario degli “immigrati ci rubano il lavoro”.

Il lavoro è un flusso, non un blocco, la sua produzione dipende da cause multifattoriali. Lo dimostra il settore agricolo che occupava all’inizio del XX secolo il 41% della forza lavoro negli Stati Uniti. Un secolo dopo occupa solo il 2%. Nonostante questa trasformazione epocale, la disoccupazione non è aumentata sul lungo periodo, mentre il rapporto tra occupazione e popolazione è cresciuto12. È presumibile che l’automazione replicherà la stessa dinamica, anche se non va trascurata un’altra caratteristica peculiare: la produzione di innovazione tecnologica e l’automazione non aumentano la produttività del lavoro. È il paradosso della produttività13. Questa situazione è l’esito di una riduzione dei tassi di crescita accompagnata dalla dismissione del welfare, della cronica precarizzazione del mercato del lavoro, della polarizzazione tra i redditi da lavoro e quelli prodotti dalle rendite, dell’instabilità finanziaria e della mancata proporzionalità del prelievo fiscale.

L’automazione dipende dal rapporto tra economia e politica, non è un dispositivo che impone la sua volontà al mercato e allo Stato14.

Se la rivoluzione fordista era fondata sul lavoro pagato degli uomini fatto con le macchine, quella post-fordista non fa a meno del lavoro, ma punta sulla forza lavoro e sulla sua riproduzione15. La forma attuale del capitalismo assume il fatto che la forza lavoro non sia più determinabile in una quantità standard, ma sia riproducibile in quanto facoltà umana e in base agli obiettivi della produzione. Oggi non si ragiona a partire da una quantità fissa di lavoro, ma dalla produttività di una forza lavoro ottenuta anche attraverso la robotica o le piattaforme digitali. L’aumento della produttività avviene a condizione di negare il suo legame con la forza lavoro di cui tuttavia si riconosce la priorità. La forza lavoro affronta un dilemma: da essa si pretende una qualificazione sempre più alta di lavoro vivo pagato sempre di meno. Questa contraddizione è al centro di tutte le manifestazioni della forza lavoro, risultato della crisi della classe media, della trasformazione di quella operaia e della diffusione del lavoro povero.

 

La forza lavoro non cresce sugli alberi

Nelle piattaforme digitali che organizzano il mercato delle micro-prestazioni online si ritiene che siano gli algoritmi a svolgere un lavoro in un sistema con il pilota automatico. Questo è il cuore dell’uberizzazione del lavoro. Così come la multinazionale americana Uber con un fatturato di oltre 50 miliardi di dollari all’anno sta facendo con i taxi, le nuove piattaforme hanno il potere di dividere il lavoro tradizionale in mansioni specifiche che possono essere assegnate a una “folla” di lavoratori anonimi, nel momento in cui sono richiesti. I compensi sono determinati in base alla domanda e l’offerta mediate dagli algoritmi, mentre le performance fisiche e mentali dei lavoratori sono tracciate, recensite e soggette alla soddisfazione dei clienti e dell’azienda. La vita lavorativa è più che flessibile: è imprevedibile. Dipende dalla volontà di un terzo invisibile, incarnato in un algoritmo, mai da quella della forza lavoro. La moltitudine di lavoratori sottopagati sarà organizzata attraverso questo sistema di reclutamento gestito da una manciata di lavoratori, manager e tecnici regolarmente assunti.

Il capitalismo delle piattaforme16 anticipa il futuro del mercato del lavoro all’epoca dell’automazione: il lavoratore metterà a disposizione i propri mezzi di produzione (la macchina privata, ad esempio) per realizzare gli scopi del datore di lavoro occasionale. Apparentemente è il rovescio di una legge del capitalismo moderno in cui il lavoratore vende la propria forza lavoro, mentre il capitalista mette a disposizione i propri mezzi di lavoro. Oggi è il lavoratore che mette a disposizione i propri mezzi di produzione (il cervello, le competenze, un appartamento, un’auto o una bicicletta) per realizzare il valore per un altro, ottenendo in cambio un piccolo compenso o far valere una rendita. In realtà, l’azienda possiede l’algoritmo, il vero mezzo di produzione. Oltre alla gig economy, e alla sharing economy, ci sono la on-demand economy, app economy, l’economia dell’attenzione e l’economia della sorveglianza. Queste definizioni derivano da un uso particolare dei supporti digitali, le piattaforme, che mettono in rapporto due o più persone, in particolare nei settori della produzione di servizi, dell’e-commerce, dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

Esistono 6 piattaforme: le piattaforme pubblicitarie come Google e Facebook che estraggono informazioni dai loro utenti per rivenderle i loro profili sotto forma di spazi per la pubblicità; le piattaforme cloud come Amazon Web Services che creano hardware e software per i mercati dipendenti dal digitale e li affittano alle imprese di ogni tipo e creano un monopolio sulla conoscenza; le piattaforme industriali: General Electric o Siemens che costruiscono l’hardware e il software per abbassare i costi della produzione manifatturiera e trasformare i beni in servizi (la cosiddetta Industria 4.0); le piattaforme dei prodotti: Spotify genera profitti a partire dall’uso di altre piattaforme che trasformano una merce come la musica in un servizio e guadagnano attraverso la percentuale o la quota di sottoscrizione versata per abbonarsi al suddetto servizio; le piattaforme agili: Uber Airbnb, le food tech Deliveroo o Foodora che organizzano la forza lavoro attraverso un algoritmo e mettono in collegamento clienti e attività commerciali traendo profitto attraverso la riduzione dei costi del lavoro; le piattaforme logistiche, o hub, che governano il commercio e lo spostamento delle merci su strada, in aria e in mare (Amazon, Walmart o le grandi multinazionali del mare17).

In questo modo di produzione si affitta una forza lavoro indipendente e la si assoggetta a mansioni ripetitive e in molti casi umili18. La forza lavoro è soggetta a un’alienazione così radicale da far impallidire il sistema inventato dall’ingegnere Frederick W. Taylor. Oggi le sue idee sono applicate nella manifattura, nella logistica, nelle piattaforme digitali. Il taylorismo di prima generazione doveva stabilire il merito del lavoratore-macchina e la qualità del suo lavoro. Sul controllo del processo di produzione e sulla misurazione del salario necessario per retribuire l’operato degli umani alla catena di montaggio si è giocato anche una buona parte delle lotte operaie del secolo scorso. Nel taylorismo di nuova generazione gli algoritmi realizzano una raccolta dati sul rendimento degli umani e la inseriscono in un’organizzazione industriale delle mansioni. In questa organizzazione si distinguono tre categorie di micro-lavoro digitale: oltre al lavoro folla [crowd work], dove la mansione non è assegnata a un individuo specifico ma a un gruppo di persone o a piccole unità che cooperano alla sua realizzazione, esiste il lavoretto a prestazione [gig work]. In questo caso, la mansione è svolta da una persona in un determinato spazio-tempo. Esiste un’altra tipologia: il lavoro nella nuvola [Cloud work]: è svolto da freelance su mercati online19. Ciascuna di queste tipologie si incrocia sulle piattaforme digitali, un supporto ibrido che mette in crisi la classica partizione tra lavoro dipendente e autonomo e organizza la nuova forza lavoro. Lo stesso soggetto può eseguire mansioni nel campo del crowd work o del gig work e lavorare come freelance sul mercato del cloud work, e viceversa. Questo non esclude che continui a lavorare in tutti gli altri settori dove può trovare un reddito.

Il taylorismo 2.0 coesiste con le piattaforme digitali che promuovono l’attivazione del soggetto che risponde all’obbligo di essere “creativo”, responsabile e innovativo20. Queste tendenze contraddittorie coesistono in una forza lavoro dove si registra un conflitto tra la tendenza alla centralizzazione del comando e la sua disseminazione attraverso piattaforme che favoriscono la decentralizzazione e l’autodeterminazione. Da un lato, la forza lavoro sembra essere programmata nell’esecuzione di un cottimo digitale; dall’altro lato, l’automazione dipende dalle sue potenzialità immaginative e relazionali, dalle capacità professionali, oppure dal corpo e dalla sua resistenza. Sistemi organizzativi eterogenei, fondati sulla radicale individualizzazione della forza lavoro, coesistono in maniera contraddittoria in un soggetto diviso che deve realizzarsi nell’incertezza. Si ritiene che la sottomissione della forza lavoro al controllo di un’applicazione permetta di raggiungere un rendimento superiore rispetto a un’organizzazione gestita dai manager che risente delle idiosincrasie personali e dipende dalle rivendicazioni dei dipendenti. L’algoritmo lavora sulla disponibilità volontaria dei soggetti, non sulla violenza che ha spinto al grande internamento nelle fabbriche. Il potere coercitivo del datore di lavoro sembra disincarnarsi e deterritorializzarsi. Quando è un algoritmo il capo promette di garantire un’oggettività e imparzialità che manca nei rapporti di lavoro subordinati o autonomi21. A questo personaggio immateriale è affidato il compito di determinare l’equità di una paga e la gestione della competizione al ribasso sul mercato del lavoro. Il sogno del capitalismo delle piattaforme non è diverso da quello dell’industrialismo. I tratti del cottimista contemporaneo sono quelli di un primate tecnologico che ricorda il “gorilla ammaestrato”, l’operaio addestrato ai ritmi di produzione progettati dall’ingegner Taylor.

Oggi le piattaforme digitali sono gli strumenti per governare l’esistenza produttiva di milioni di persone. Nella sua idea di economia automatizzata si è affermata la tendenza a creare giganteschi cluster della logistica. Queste concentrazioni di ferrovie, tir, trasporti e magazzini costituiscono reti infrastrutturali ed elettroniche che compongono le catene di fornitura [supply chain]22. L’impresa è stata inglobata nelle catene globali del valore governate attraverso l’uso intensivo di tecnologie informatiche e modelli matematici di software specializzati. Questi processi influiscono sia sul controllo dei prodotti delle aziende sia sull’innovazione che ha perso il lato romantico agganciato alla figura dell’imprenditore “creativo”, acquisendo invece il ruolo di funzione della produzione che non è limitata alla creazione di un prodotto o alla sua vendita. L’automazione interessa il trasporto e la distribuzione dei prodotti - l’hardware e non solo il software - al punto che uno dei grandi poli della produzione capitalistica come gli Stati Uniti si sono trasformati da produttori di merci in creatori di logistica e movimentazione di merci23. Si è così scoperto che il nuovo modo di produzione ha bisogno di milioni di turchi meccanici. Negli Stati Uniti esistono almeno sessanta clusters logistici, tre dei quali occupano almeno 100 mila persone ciascuno: il porto di New York e del New Jersey, quello di Los Angeles e Long Beach e Chicago24.

Siamo stati abituati all’idea che la concentrazione di masse di corpi al lavoro riguardasse un tempo antico: il lavoro operaio nelle grandi fabbriche. La realtà è diversa: come si può verificare nei poli della logistica in Emilia Romagna, Veneto o Lombardia. Le grandi compagnie non rinunciano a concentrare le masse negli stessi luoghi e a gestirle attraverso le reti flessibili degli appalti e dei subappalti. L’automazione non è data semplicemente dalle macchine che svolgono il lavoro degli uomini, ma da un’organizzazione informatizzata che ha bisogno di lavoro vivo in ogni punto di questa rete. Negli Stati Uniti Walmart è una compagnia che gestisce in primo luogo dati. La sua specializzazione è la logistica: spostare merci, venderle nei giganteschi mall. Operazioni realizzabili creando posizioni oligopolistiche sul mercato. Chi lavora è incorporato in un’infrastruttura gestita da programmatori che disegnano algoritmi. Nell’internet delle cose la forza lavoro è ridotta a un feed-back cibernetico di dati da cui gli algoritmi estraggono valore, ottimizzano la sua produttività. Il lavoro è reso indistinguibile dagli oggetti prodotti: è un segno creato da uno scambio ad alta frequenza senza soggettività25.

La trasformazione tecnologica convive con grandi masse di lavoratori. La prima è rappresentata come imminente ed esclusiva; la seconda non viene citata, se non quando ci sono licenziamenti, recessioni o fallimenti che spingono i lavoratori a emergere, in carne ed ossa, con scioperi, blocchi o picchetti. Nelle piattaforme logistiche migliaia di umani sorvegliano le macchine, spostano merci, coordinano le attività computerizzate delle gru, agganciano un algoritmo alle traiettorie di una nave cargo. Per l’ufficio federale del lavoro degli Stati Uniti nel prossimo decennio sono attesi milioni di posti di lavoro solo nell’industria dei servizi: cassieri, lavoratori di supermercati, lavoro di cura. Nonostante la perdita del 25% della potenza produttiva, in questo paese esistono dodici milioni di lavoratori solo nel settore manifatturiero. Un altro campo dove la forza lavoro è rimossa a favore delle macchine è il lavoro digitale e in particolare il giornalismo. È diffusa la convinzione per cui i produttori di notizie false in rete, le fake news, siano programmi che rispondono ai messaggi in automatico (bot) o sono usate per creare malware (botnet). La realtà è completamente diversa: sono i freelance e gli operai delle fabbriche del click in tutto il mondo che, pur di guadagnare un reddito che altrove non c’è, inventano “bufale” utili araccogliere pubblicità e introiti dalle pubblicità online. I bucanieri del Web sono diventati strumenti e attori consapevoli delle campagne elettorali. Offrono al mercato le loro prestazioni. Il caso più clamoroso è stato quello dei siti macedoni, georgiani, statunitensi o canadesi a sostegno della campagna elettorale che ha portato alla Casa Bianca Donald Trump nel 201726. Tacere sull’esistenza di queste persone, ignorando l’opportunismo digitale e attribuendo la loro produzione alle macchine, non significa solo confermare la logica della governamentalità algoritmica, ma anche trascurare la realtà materiale del capitalismo delle piattaforme: l’automazione è accompagnata dalla disintegrazione del salario, mentre la ricerca di un reddito prende strade impensabili, approfittando degli strumenti che offre la politica postdemocratica.

Il tentativo di cancellare la forza lavoro è un momento di una battaglia il cui oggetto è la definizione del concetto di “lavoratore” e la creazione della forza lavoro. Nell’economia digitale questa controversia può essere considerata come parte di una nuova lotta di classe. È il caso della sentenza di primo grado emessa a fine 2016 da un tribunale del lavoro inglese che obbliga Uber ad assumere 40 mila autisti britannici in quanto workers, cioè dipendenti privi comunque privi del diritto a non essere licenziati.

I giudici hanno accusato il gigante americano di ricorrere a “finzioni, linguaggio contorto e a una terminologia nuova di zecca” per occultare la natura subordinata del lavoro prestato dai suoi autisti. In questa neo-lingua essere dipendente si dice “fornitore indipendente”; assumere si dice “fare salire a bordo”; il contratto di lavoro è un “accordo di fornitura”; assenza ingiustificata “inattività”; lo stipendio è una “tariffa”; la busta paga è una “fattura”27. L’evidenza fornita da questa sentenza storica non cancella l’esigenza di determinare la specificità del lavoro autonomo e il suo diritto al compenso su altre piattaforme o in contesti diversi dal digitale. Nell’economia digitale, come in quella dei servizi tradizionali, nell’agricoltura o nella manifattura, il lavoro non cresce sugli alberi28.


* Filosofo e giornalista, scrive per Il manifesto.

Note
1Cfr. L. Bainbridge, Ironies of Automation, Automatica 19, 1983: pp. 775-779; cfr. R. Parasuraman-V. Riley, Humans and Automation: Use, Misuse, Abuse, Human Factors, 39, n° 2, giugno 1997, pp. 230-253; cfr. R. Caio, The Case for a Federal Robotics Commission, Brookings Institute, 6-8, 2014.
2Cfr. M. Polanyi, La conoscenza inespressa, (1966) Armando, Roma 1979.
3Cfr. I. NonakaH. Takeuchi, The Knowledge Creating Company, Guerini e Associati, Milano 1997.
4Cfr. A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola. Tecnica e linguaggio. La memoria e i ritmi, (1964-5) Einaudi, Torino (1977) 1990.
5Cfr. D. Landes, Prometeo liberato. Trasformazioni tecnologiche e sviluppo industriale nell’Europa occidentale dal 1750 ai giorni nostri, Einaudi, Torino 2000.
6Cfr. J.C.R. Licklider, Man–computer symbiosis, IRE Transactions on Human Factors in Electronics, volume HFE–1, 1960, pp. 4–11. Cfr. H.A. Simon, Two heads are better than one: The collaboration between AI and OR, Interfaces, volume 17, number 4, 1987 pp. 8–15.
7Cfr. M. Dertouzos, Individualized automation, in M. Dertouzos-J. Moses, a cura di, The computer age: A twenty–year view, MIT Press, Cambridge, Mass. 1979, pp. 38–55.
8Cfr. Kaiser Family Foundation, Health Coverage by Race and Ethnicity: The Potential Impact of the Affordable Care Act, Report, Washington, 2013; cfr. J. Ayanian, The Costs of Racial Disparities in Health Care, Harvard Business Review, 1 ottobre 2015.
9Cfr. C. B. Frey-M. Osborne, The Future of Employment: How Susceptible are Jobs to Computerisation? Oxford Martin School, paper, settembre 2013.
10Aa. Vv., Harnessing automation for a future that works, McKinsey Global Institute, gennaio 2017.
11Cfr. T. Walker, Why economists dislike a lump of labor, Review of Social Economy, 2007, vol. 65, 3, pp. 279-291.
12Cfr. D. Autor-D. Dorn, How Technology Wrecks the Middle Class, New York Times, 24 aprile 2013. Cfr. S. Bologna, Ceti medi senza futuro? DeriveApprodi, Roma 2007.
13Cfr. Ocse, OECD Compendium of Productivity Indicators 2016: How far that little candle throws his beams, 26 maggio 2016.
14Cfr. J. Stiglitz, Il prezzo della diseguaglianza, Einaudi, Torino 2012.
15Cfr. Lessico post-fordista, a cura di U. Fadini-A. Zanini, Feltrinelli, Milano 2001.
16Cfr. N. Srnicek, Platform capitalism, Polity, Londra 2016.
17Cfr. S. Bologna, Le multinazionali del mare. Letture sul sistema marittimo-portuale, Egea, Milano 2010; cfr. Id., Tempesta perfetta sui mari. Il crack della finanza navale, DeriveApprodi, Roma 2016.
18Cfr. L. Iran-M.S. Silberman, Turkopticon: Interrupting worker invisibility in Amazon Mechanical Turk, in Proceedings of the SIGCHI Conference on Human Factors in Computing Systems, 2013, pp. 611–620.
19F. A. Schmidt, Digital Labour Markets in the Platform Economy. Mapping the Political Challenges of Crowd Work and Gig Work, Friedrich-Ebert-Stiftung, 2016, pp. 9-23.
20Cfr. P.-M. Menger, Le travail créateur. S’accomplir dans l’incertain, Gallimard-Seuil, Parigi 2009.
21S. O’ Connor, When Your Boss is an Algorithm, Financial Times, 8 settembre 2016.
22Cfr. G. Grappi, Logistica, Ediesse, Roma 2016.
23Cfr. J. Slaughter, Warehouse Strategies Squeeze Walmart’s Pressure Points, Labornotes, 23 gennaio 2013, http://www. labornotes.org/2013/01/warehouse-strategies-squeezewalmart%E2%80%99s-pressure-points.
24Cfr. Chris Brooks, Kim Moody, Interview: Busting the Myths of a Workerless Future, Labornotes, 26 luglio 2016, http://www. labornotes.org/2016/07/interview-busting-myths-workerlessfuture.
25Cfr. S. Zehle-N. Rossiter, Mediations of Labor: Algorithmic Architectures, Logistical Media and the Rise of Black Box Politics, The Routledge Companion to Labor and Media, Routledge, New York 2016.
26Cfr. R. Ciccarelli, La fabbrica del fake, Prismo, 12 dicembre 2016.
27Cfr. S. O’Connor, Deliveroo pedals the new language of the gig economy, Financial Times, 5 aprile 2017.
28Cfr. R. Ciccarelli, Fare l’autista per Uber non è un hobby, è un lavoro, Il Manifesto, 30 ottobre 2016.

Add comment

Submit