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Karl Marx, la comune rurale e la questione russa

di Alessandro Visalli

S. V. Ivanov. Yuris Day. 1908Un interessante saggio di Pier Paolo Poggio, direttore della Fondazione Luigi Micheletti, pubblicato su Sinistrainrete, dal titolo “Marx sulla Russia”, consente di tornare sulla valutazione che il Marx maturo compie sul vasto movimento rivoluzionario russo che di lì a qualche decennio porterà alla rivoluzione del 05 e poi del 17. Ci sono da trenta a quaranta anni tra la lettera alla «Otecestvennye Zapiski», che è del 1877, e gli eventi rivoluzionari; una distanza pari a quella che ci divide da eventi come “via Fani”, o il compromesso storico che questa interrompe.

Nella lettera (che viene pubblicata solo dopo un decennio) e nella successiva lettera a Vera Zasulic, di cui abbiamo parlato nella lettura del libro di Marcello Musto “L’ultimo Marx” che è del 1881, prende posizione per la obšcina e la proprietà collettiva della terra. Ovvero, sposando anche tatticamente (contro Bakunin) la posizione di Cernyševskij, Marx tenta di connettere comunità ed individualità.

Il tema era, ed è, di enorme difficoltà, e viene infatti rimosso completamente dal “marxismo” che comincia a formarsi già negli ultimi anni di vita del filosofo di Treviri e si consoliderà nel marxismo-leninismo dopo l’esperienza di radicale rottura del ‘17.

Quel che Marx vede sorgere ad est, dal paese debole e lontano dal pieno sviluppo delle forze produttive, è incompatibile con la vulgata formata intorno alla semplificazione lineare del “Manifesto del Partito Comunista”. I protagonisti non sono più i proletari lavoratori industriali, ma i contadini delle comuni; dunque una formazione sociale ‘arcaica’. L’intera assialità arretrato-avanzato è messa in questione.

Scriverà a Friedrich Sorge nel settembre del 1877 che «La rivoluzione comincia questa volta in Oriente», ovvero comincia da lotte e contraddizioni che non sono create dal pieno sviluppo del modo di produzione borghese, ma lo precedono.

Ma c’è molto di più: in questo snodo faticoso (non completamente pensato, e certo non maturato adeguatamente, anche a causa della morte) la Russia potrebbe evitare di ripercorrere le orme della classe lavoratrice inglese. Quindi non passare, dolorosamente, per la privatizzazione e l’individualizzazione, la riduzione a forza-lavoro astratta, ovvero per il modo di produzione capitalistico. L’idea che si affaccia nella sua mente, mentre osserva (imparando anche faticosamente la lingua, per accedere ai testi) ciò che si muove nella vasta Russia è che un paese nel quale non si era ancora data la trasformazione sociale ed antropologica che fa nello stesso ambiguo movimento l’uomo libero e assoggettato alla forma astratta del capitale (si può leggere su questo il lavoro di Lohoff, ad esempio “Crisi”), che quindi lo separa dalla natura, facendo del suo lavoro “un valore d’uso del capitale”, rappresenta negli anni ’80 a ben vedere un’opportunità. La Russia è l’opposto, cioè, degli Stati Uniti, nei quali si intravede invece la forma pura del capitale all’opera.

La prospettiva cristallizzata negli scritti degli anni cinquanta (di cui il più famoso è il “Manifesto”) vedeva una certa lineare logica nello sviluppo di forme di produzione e assetti sociali connessi, il cui sviluppo per movimento interno e spontaneo produce una liberazione progressiva di energie e capacità la quale, inevitabilmente, produce contraddizioni tra forme giuridiche di potere e possibilità. Questa contraddizione determina, al fine, l’inevitabile rottura dell’involucro borghese (ormai non più adatto alla possibilità inscritta nella tecnica e nella società) e la rivoluzione socialista, che termina la storia. Questa potente idea, non a caso contenuta in un documento di lotta e mobilitazione come l’opuscolo che la Lega dei Comunisti affidò per la stesura a Karl Marx, con Friedrich Engels, in effetti continua, in qualche modo rovesciandola, la straordinaria intuizione che si fa strada nel settecento e viene variamente espressa da autori di tradizione religiosa prima (come l’abate Genovesi a Napoli o Adam Smith a Edimburgo) e poi, via via, secolarizzati, secondo la quale è all’opera una sorta di nascosta provvidenza nella interazione apparentemente caotica tra gli uomini agenti per i propri fini; così la esprime Ferdinando Galiani nel 1750: “questo equilibrio e la giusta abbondanza dè commodi della vita ed alla terrena felicità maravigliosamente confà, quantunque non dall’umana prudenza o virtù, ma dal vilissimo stimolo di sordido lucro derivi: avendo la provvidenza, per lo suo infinito amore per gli uomini, talmente congegnato l’ordine del tutto, che le vili passioni nostre spesso, quasi a nostro dispetto, al bene del tutto sono ordinate. … benedico al contrario la Suprema Mano, ognora che contemplo l’ordine, con cui il tutto è a nostra utilità costituito”. La “mano invisibile” è dunque una idea che “si sviluppa parassitariamente dal cristianesimo” (dirà Walter Benjamin), e sostituisce la ricerca del paradiso. Lo abbiamo provato a leggere sia attraverso Hirschmann, poi Weber, ma anche Genovesi, ma lo riconosce anche Marx, quando nel terzo volume del Capitale, improvvisamente, scrive che “il sistema monetario è essenzialmente cattolico, il sistema creditizio è essenzialmente protestante. <The Scotch hate gold>. Come carta l’esistenza monetaria delle merci ha soltanto una esistenza sociale. E’ la fede che rende beati [rif. alla dottrina di Lutero]. La fede nel valore monetario come spirito immanente delle merci, la fede nel modo di produzione e nel suo ordine prestabilito, la fede nei singoli agenti della produzione come semplici personificazioni del capitale autovalorizzantesi. Ma come il protestantesimo non riesce ad emanciparsi dai principi del cattolicesimo, così il sistema creditizio non si emancipa dalla base del sistema monetario” (Editori Riuniti, p.690).

Se si resta in questa idea di progressiva affermazione della provvidenza attraverso le interazioni umane, e di ordine prestabilito all’emancipazione (ovvero al “paradiso”), è coerente immaginare una progressiva, ma inevitabile in quanto affermazione della tecnica, una dissoluzione completa delle formazioni storico-sociali che frappongono ostacolo allo “spirito del capitalismo”. E quindi, a ben vedere, anche all’affermazione, parimenti inevitabile, ed anzi parusia (presenza ed avvento) di questo, del socialismo.

Muoversi dentro questa idea è stare nella tradizione occidentale per come si è formata, anzi per come si è rivoltata, nei secoli che ci separano dal crogiuolo medioevale. Inquadra, anzi, tutte le forme di vita e produzione che vi sono ascrivibili come scorie, arretrate, da superare.

Come evidenzia l’autore, un lungo travaglio, innervato da insistiti studi storici ed antropologici, comincia invece, a partire dagli anni settanta, a incrinare la perfezione di cristallo di questa idea: Marx comincia a dare attenzione alle lotte di resistenza che forme di vita e modi di produzione non coerenti con lo “spirito del capitalismo” oppongono a questo. La Russia ha un ruolo cruciale (come, diversamente, l’attenzione alla brutale colonizzazione del west americano), in questo mutamento di prospettiva: al tempo della “Neue Reinische Zeitung” e dei moti del ’48, l’impero zarista è semplicemente letto come bastione della controrivoluzione, memore della esperienza napoleonica (che, in fondo, era distante allora solo di poco più di un trentennio, era storia contemporanea), della Santa Alleanza e quindi dell’effettiva, attiva e brutale, repressione di ogni movimento progressista. Ogni ondata rivoluzionaria, quella dell’89, poi del ’20, e del ’48 (per dire delle maggiori) era stata repressa dalle armate russe e austriache. Questa posizione arriva fino a contrastare (contro altre correnti, come gli anarchici e Bakunin) anche i movimenti di indipendenza dei paesi slavi perché, come scrive Engels: hanno la pretesa di “soggiogare l’occidente civilizzato all’oriente barbaro, la città alla campagna, il commercio, l’industria all’agricoltura primitiva dei servi slavi” (in “Rivoluzione e controrivoluzione in Germania”, p. 72).

Non appena entro il grande ventre della madre Russia, però, inizia quello che Marx chiama un “movimento interno”, tutto cambia e “l’incanto viene spezzato”, e con esso si indebolisce l’eurocentrismo della posizione prima condivisa con Engels. Come scrive Poggio: “Negli anni seguenti, a differenza di Engels, è sempre più interessato agli sviluppi che si manifestano in Russia sino a individuare nell’arretrato e autocratico impero zarista l’anello debole dell’assetto capitalistico mondiale, non più il bastione della controrivoluzione ma il paese della rivoluzione, e non una rivoluzione borghese, impossibile per la sua composizione sociale, ma una rivoluzione socialista o comunista, che facendo leva sul radicamento delle comunità contadine avrebbe potuto abbreviare i tempi storici, saltare la fase capitalistica innescando una rivoluzione su scala europea e mondiale. In un percorso certamente non rettilineo, Marx arriva a conclusioni che coincidono con quelle del populismo rivoluzionario, in rottura esplicita con ogni variante del marxismo”.

Come si troverà a dire lui stesso, Marx non era marxista.

Alla fine si schiera con i populisti (si potrebbe dire con Alessandro Ul’janov, che di Marx è traduttore e che ne conosce l’opera maggiore, contro suo fratello minore Vladimir Il’ic), per la rigenerazione delle comuni contadine e contro la loro dissoluzione nella proprietà privata “borghese” come necessario passaggio al socialismo; non è necessario che il contadino comunitario diventi un proletario e si concentri nelle città rese industriali, e solo di qui si riscatti dal suo sfruttamento. Sembra quasi più vicino al Tolstoj di “Guerra e rivoluzione”, libro del 1905, nel punto in cui propone i rapporti “sociali e spontanei” dei Mir (certo idealizzati) come via di uscita dai malanni della modernità, ovvero del capitalismo, in favore di “un’unica libertà, vera, completa, naturale” (p.125) in vece delle “libertà particolari” del liberalesimo.

Certo, se il discorso del Conte Tolstoj ha tratti teocratici e fortemente conservatori tuttavia l’idea che nella vita comune, nella sua forma di umanità, sia un valore è accarezzata anche da Marx, mentre il modernismo di Vladimir Il’ic, detto Lenin, è radicalmente avverso. Nell’articolo “Il proletariato e i contadini”, del 12 novembre 1905, pubblicato nel Novaia Gizn (Opere complete, vol. 10, pp. 30-32), ad esempio, è indicata la necessità che “i contadini operino come artefici consapevoli di un nuovo ordinamento della vita russa”, e che dunque il vecchio slogan “terra e libertà”, si manifesti certamente attraverso l’abolizione della grande proprietà terriera, ma anche della piccola. Come dice “fino alla confisca di tutte le terre di proprietà privata” (corsivo nell’originale). La “completa libertà”, si legge, significa certo essere liberi dallo Stato, nella misura in cui il suo potere “non emani per intero ed esclusivamente dal popolo, sia eletto dal popolo, sia responsabile davanti al popolo e revocabile dal popolo”, ma significa anche “lotta contro ogni sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, lotta contro la miseria delle masse popolari, lotta contro il dominio del capitale”. Polemizzando con in “Socialisti rivoluzionari”, che avevano preso il posto del Narodnik, ovvero partito populista, e che nella loro storia complessa e combattuta arrivarono infine a cercare di assassinare lo stesso Lenin (con Fanya Kaplan) e a combattere per i bianchi, il capo bolscevico nel 1905 sostiene che pur essendo “amici sinceri dei contadini” essi non afferrano l’importanza del problema della proprietà dei mezzi di produzione e per esso del capitale. Infatti, “solo chi possiede capitali, solo chi ha attrezzi, bestiame, macchine, scorte di sementi, denaro liquido in genere ecc. può gestire un’azienda in maniera indipendente. Ma chi nulla possiede, all’infuori delle sue braccia, rimane senza dubbio schiavo del capitale, anche in una repubblica democratica, anche se la terra appartiene a tutto il popolo”. Dunque occorre socializzare il capitale, “fino che esistono il capitale e l’economia mercantile, il governo ugualitario della terra è un’idea sbagliata”. La vera lotta è quindi quella contro il dominio del capitale, e la combattono “innanzi tutto gli operai salariati, che dipendono direttamente e interamente dal capitale”.

Un’impostazione che si ritrova anche in un altro articolo dall’identico titolo di marzo, nel quale analizza tre classi di contadini, “che si differenziano per i loro scopi prossimi e lontani”, i contadini ricchi, i piccoli proprietari (che stima in circa dieci milioni) e i veri proletari agrari. Verso i secondi si possono compiere alleanze, ma restando “diffidenti” e, se del caso, lottare contro di loro “nella misura in cui operano come reazionari o come antiproletari” (cfr. Opere complete, vol 8, pp. 209-14).

Rispetto a queste posizioni, assunte nel fuoco della lotta, la posizione di Marx si trova ad essere eccentrica. Nell’analisi che conduce Poggio, lo studio delle comunità contadine lo porta in sostanza ad individuare due forme idealtipiche contrapposte: la prima vede la sottodeterminazione del contadino entro la comunità che media il rapporto con la terra comune; la seconda determina la proletarizzazione agraria, nel quale il contadino resta individualmente possessore solo della sua forza-lavoro e, nello stesso modo del proletario urbano, è messo di fronte al capitale di cui diventa salariato. La forma del contadino-proprietario (la classe di mezzo che Lenin stima essere significativa, ma vede come avversaria) sarebbe invece fragile e instabile, sottoposta al dominio superiore del capitale e sempre a rischio di essere assorbita di fatto come anello nel modo capitalistico di produzione. Questa è in fondo l’obiezione ai narodnik che avanza Lenin.

L’unione dei membri della comunità di produzione agricola tra di loro e insieme con il loro ambiente, ovvero con la natura, viene quindi dissolta dall’incontro con la forma denaro, con la generalizzazione di un modo di produzione e distribuzione che prevede lo scambio, la specializzazione e l’accesso al mercato come suo centro. Con le parole prese dallo studio sulle forme economiche precapitaliste, viene riconosciuto che non è il Mir Russo ad essere una specificità orientalista, ma una forma generale antecedente all’affermazione del capitale e necessariamente dissolta da questo. Samir Amin, tra l’altro in “Crisi”, sosterrà oggi qualcosa del genere quando, in riferimento all’Africa ed alle aree interne ed agrarie dell’Asia, sostiene la necessità di rallentare il processo di dissoluzione del modo di produzione tradizionale, proteggendolo precisamente dal commercio e dalla penetrazione del capitale, che otterrebbe nel medio termine solo la proletarizzazione di centinaia di milioni di persone che non è in grado di riassorbire e sarebbero costrette a scegliere tra emigrazione e vita negli slums (ovvero riduzione ad uno stato di sotto-proletariato urbano in megalopoli ingovernabili).

La sussunzione dell’uomo, ridotto a forza-lavoro, nel capitale è insomma intrinseca al modo di produzione capitalistico, nel quale questo acquista in qualche modo una sua autonomia. Esso diventa valore che si valorizza di per sé, per proprio moto, incorporando il lavoro nella sua forma astratta; la libertà che questo produce è, insomma, la stessa mossa della snaturalizzazione che presume.

Porre la cosa in questi termini, però, la rende indisponibile a semplici soluzioni lineari.

La forma della comunità agraria, in quanto tale detentrice della relazione con la terra ed i mezzi di produzione, disloca diversamente lo scopo economico: nella produzione di valore d’uso e nella “riproduzione dell’individuo considerato nei suoi rapporti determinati” (Marx, “Grundisse”, p. 452). La comunità è quindi “non risultato ma presupposto dell’appropriazione e dell’utilizzazione del suolo”, dunque qui l’uomo, o meglio “il singolo”, è solo un elemento, della comunità che è il vero possessore. Anche dove si ha il passaggio alla forma “tributaria”, ad esempio per gestire opere idrauliche complesse, il nucleo originario presupposto è comunitario, anche quando si ha il distacco di elementi proprietari individuali. Abbiamo letto alcuni saggi di Marcel Mauss, come il suo “Saggio sul dono”, del 1923, e “La nozione di persona”, del 1938, che sviluppano questi temi seminali inclusi negli studi antropologici e storici di Marx; per come la mette emerge un “io” da un “me” immerso nelle forze del cosmo e della comunità. Ma anche il saggio di Sahlins “Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana”, che individua una lunga linea genealogica da Tucidide a Hobbes, Adams, che tende a vedere l’uomo come isolato dalla natura, come ad essa opposto, e lo pensa come individuo.

Le società moderne, dove l’economico acquista una sua autonomia in qualche modo schiacciante, non sono quindi il destino di una linea necessaria di progresso, come vorrebbe una vulgata legata allo scientismo positivistico ed all’industrialismo secondo ottocentesco nel quale si consolida l’ideologia marxista, ma una possibile evoluzione, che peraltro ha pesanti conseguenze sull’umano stesso. In queste società (ancora i “Grundisse”), si manifesta il capitale e con esso il lavoro: “per il capitale, condizione della produzione non è il lavoratore, ma soltanto il lavoro. se può farlo svolgere dalle macchine, o addirittura dall’acqua, dall’aria, tanto di guadagnato. E il capitale non si appropria del lavoratore, ma del suo lavoro – non immediatamente, bensì in forma mediata dallo scambio” (ivi, p. 468). Il capitale, in altre parole, ci lascia tutti soli davanti a lui, riconosce dell’uomo che vi è incorporato solo ciò che può essere qualificato, dallo scambio, come “lavoro”. Cioè solo la sua “forza-lavoro”.

La questione è posta subito dopo, e resta aperta: questo è il presupposto storico (ovvero non necessario, ma fattualmente realizzatosi nella storia) necessario “per trovare il lavoratore come lavoratore libero, come capacità lavorativa priva di oggetto, puramente soggettiva, che si trova di fronte alle condizioni oggettive della produzione come alla sua non proprietà. Proprietà altrui, valore per se stante, capitale”. O, subito dopo (p.484): “il processo che ha separato un gran numero di individui dai loro tradizionali rapporti positivi – in un modo o nell’altro- con le condizioni oggettive del lavoro, che ha negato questi rapporti e in tal modo ha trasformato questi individui in lavoratori liberi, è lo stesso processo che ha liberato queste condizioni oggettive del lavoro – terra, materia prima, mezzi di sussistenza, strumenti di lavoro, denaro, o tutto questo – dal loro tradizionale legame con gli individui che ne sono stati poi distaccati”.

Questo discorso è, certo, in qualche modo “ignoto a se stesso” (come dice Finelli), ed embrionale, tanto è vero che subito prima di questi passi in cui il processo è descritto come intrinsecamente ambivalente e storicamente dato, Marx scrive che “a considerare le cose più attentamente, si vedrà anche che tutti i rapporti dissolti erano possibili solo a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive materiali (e quindi anche spirituali)”. Frase di densissima costruzione e profondamente ottocentesca.

L’insieme di dilemmi nei quali la costruzione teorica si impiglia in questo snodo sono bene descritti da Paolo Poggio in questo modo: “le sue analisi sulla comunità contadina e la rivoluzione russa rappresentano il tentativo più interessante per spezzare la doppia gabbia del capitale e di un’alternativa ad esso subalterna. Un tentativo rimasto ignoto alla generalità dei marxisti, che ha al centro la sorprendente (o sconcertante) valorizzazione delle potenzialità anticapitalistiche dell’obšcina, senza che ciò implichi un cedimento in senso organicistico, dato che viene costantemente ribadito il valore universale e irrinunciabile della libera individualità, inteso come esito della modernità. Il tema dell’individualità è cruciale nel Marx della maturità che ha abbandonato l’organicismo comunitario feuerbachiano, mentre anche l’assunzione del proletariato come classe universale che rappresenta l’intero genere umano secondo la costruzione teleologica del materialismo storico è revocata in dubbio. Ciò senza mai abbandonare il tema originario della critica all’individualismo borghese, in cui l’individuo non è libero ma sottomesso al primato dell’economia, cioè del capitale”.

Se in Russia, dunque, non si è ancora formata una vera e propria classe sociale libera dai rapporti comunitari e consuetudinari, e quindi un vero e proprio capitale pervasivo (dato che parte dei mezzi di produzione erano ancora incorporati nella società), indipendente dal mondo-ambiente, ciò ostacolava anche la formazione dell’agente della liberazione finale, della parusia. Questo è il problema davanti al quale si pone Lenin, alla fine incitando all’industrializzazione e proletarizzazione (sull’industrialismo e il taylorismo come orizzonte non pensato del leninismo si può leggere anche l’ultimo Trentin in “La città del lavoro”).

Lo scandalo del Marx degli anni ottanta, della lettera a Vera Zasulic, è insomma che esso incoraggia a pensare che la liberazione possa passare per la via comunitaria e non per quella della dissoluzione-individualizzante dei legami; per la natura e non per la tecnica, in qualche modo.

Per Poggio negli ultimi anni di vita Karl Marx si lega alle posizioni dei Narodnaja Volja, ovvero del gruppo populista che organizza l’assassinio dello zar Alessandro II il 1 marzo 1881 e che poi, a seguito delle feroci repressioni (nella successiva, del 1887, morì il fratello maggiore di Lenin Aleksandr Il'ič Ul'janov) confluì nel Partito dei Socialisti Rivoluzionari di cui abbiamo già parlato.

Questo scandalo è chiaramente inaccettabile per il marxismo per come si consolida durante gli eventi del ’17, il Partito dei Socialisti Rivoluzionari, con la sua tradizione di lotta anche terroristica, è di fatto il principale avversario del Partito Comunista, vince le elezioni per la Duma (poi sciolta) e si radicalizza in posizioni sempre più avverse.

Ma ci sono conseguenze molto più radicali, l’accettazione della tesi populista che vedeva la possibilità di un’evoluzione in senso socialista delle strutture comunitarie, senza passare per la “dissoluzione” ad opera del capitale, ma sfruttando le conquiste tecniche di questo, rompe con un caposaldo essenziale del marxismo: la scienza della storia, ovvero la centralità della contraddizione in rerum tra le forze produttive e ed i rapporti di produzione. E quindi anche la classe operaia come agente generale della rivoluzione, capace di riassumere in sé l’intera umanità.

Insomma, la via che anche Amin a tratti intravede nei suoi testi (una pluralità di forme di accesso alla modernità che non passino per l’interconnessione dominata dal capitale), e quindi la rottura dello schema sviluppo-sottosviluppo, è contemplata dall’anziano filosofo ed economista che si sta facendo antropologo e storico. 

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