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Karl Marx, le revenant.

Appunti e riflessioni sulla marx renaissance

di Alfonso Gianni

Si ricorderà che la Bbc4 organizzò un sondaggio, cui parteciparono più di 30mila persone, per definire quale fosse il miglior filosofo di tutti i tempi. Vinse Marx, ma non di misura. Doppiò infatti il secondo arrivato, David Hume; ricevette voti pari a quattro volte il terzo, Ludwig Wittengstein. Il sondaggio non passò inosservato fin da subito. Man mano che risultava chiaro che Marx avrebbe rischiato di stravincere, come poi avvenne, i maggiori giornali inglesi presero posizione e invitarono i loro lettori a esprimere le loro preferenze, nel tentativo di contrastare la marcia vittoriosa del pensatore di Treviri. Al punto che l’autorevole Economist, che all’inizio aveva puntato le sue carte su John Stuart Mill, poi incitò a votare per Hume, avendo percepito che solo il grande empirista scozzese avrebbe potuto intercettare la vittoria di Marx. Così non fu. Era l’anno 2005 e il successo del Moro fu tanto più significativo perché bissava quello precedente del 1999, quando in un analogo sondaggio, ma allargato agli scienziati e non solo ai filosofi, Marx risultò primo davanti a Einstein e Newton.

Giochi di società? Non solo. In realtà quei sondaggi rivelavano una percezione diffusa. Di Marx non brillava solo il fascino di un mondo antico che si può solo rimpiangere ma si è certi che non tornerà - come commentò qualcuno, visto che il suo successo si registrava dopo il crollo dell’impero del socialismo reale - ma dimostrava che Marx veniva percepito come un pensatore utile a comprendere il presente.



La fortuna popolare di Marx e il disinteresse della politica


Eravamo alla vigilia della più grande crisi economica dopo quella degli anni Trenta. Ma ora sappiamo che per l’Europa essa è peggiore, per durata, intensità e disastri sociali provocati di quella che originò dal crollo di Wall Street nell’ottobre del ‘29. Se quei sondaggi venissero ripetuti oggi è molto probabile che la vittoria di Marx diventerebbe travolgente. Intanto la sua immagine – sopra una scritta del tipo I told you so! - fa quasi concorrenza a quella del Che sulle magliette, malgrado che il secondo sia diventato un’icona del pubblico giovanile statisticamente più interessato all’acquisto delle T-shirt. Basta rovistare sui banchi dei mercatini londinesi di Portobello o di Camden per rendersene conto.

Ci si dovrebbe dunque porre la domanda: a tale successo popolare corrisponde una uguale fortuna nel cielo della politica? La risposta non potrebbe essere più negativa. Resta più che mai valido quanto Boris Nikolaevskij e Otto Maenchen-Helfen scrivevano in un loro saggio comparso più di quaranta anni orsono: “Su mille socialisti forse solo uno ha letto un’opera economica di Marx, su mille antimarxisti neppure uno ha letto Marx”. Anzi si può e si deve osservare che con la netta separazione intervenuta in particolare dagli anni Ottanta in poi tra politica e cultura, almeno in Europa, tale giuliva ignoranza viene coltivata in modo persino sfrontato. Anzi, volendo, si potrebbe escogitare un nuovo singolare misuratore della distanza fra la politica e il sentire comune, proprio calcolando il maggiore favore che incontra il personaggio Marx a livello popolare rispetto a quello incontrato nel ceto politico, sia quello di vertice che quello diffuso.


Il fiorire degli studi marxisti negli anni Sessanta e Settanta

Eppure quando Nikolaevskij e Maenchen-Helfen scrivevano il loro saggio su Marx, si era nel pieno di un fiorire di studi marxiani e del sorgere di diversi marxismi, intesi questi ultimi come tentativi di dare una originale lettura organica e soprattutto una implementazione politica all’opera del pensatore di Treviri. Così indubbiamente accadde, non solo nel bene ma anche nel male, non solo nella buona , ma anche nella cattiva qualità delle interpretazioni e delle costruzioni politico-ideologiche, lungo gli anni Sessanta e Settanta. La diffusione del pensiero di Marx avvenne soprattutto per merito della profonda riflessione innestatasi sulla e attorno alla sua opera in Occidente. E fu la culla del ’68, anche se sarebbe errato – ma non è qui il luogo per approfondire questo tema – restringere il background culturale e ideologico di quel grande movimento mondiale antisistemico e rivoluzionario solamente alla rilettura di Marx e alla nascita di nuovi marxismi. Ma ancora più errato sarebbe leggere il ’68 in contrapposizione al pensiero marxiano, quasi che la lezione francofortese, alla quale certamente i movimenti del ’68 si abbeverarono, fosse estranea e non invece a tutti gli effetti parte integrante della lettura novecentesca di quel pensiero. Proprio i nuovi studi filologici su Marx, su cui torneremo tra poco, chiariscono quanto l’antiautoritarismo e l’egualitarismo, indubbiamente i due motori ideologici del ’68, siano stati presenti non solo nel giovane Marx, ma in tutta la sua opera, che va quindi letta come un tutt’unico difficilmente separabile.

Naturalmente bisogna distinguere, e con il senno di poi ci è facile farlo, fra l’influenza sui movimenti reali del pensiero di derivazione marxiana sbocciato nel contesto di un conflitto ideologico, culturale e materiale, cioè nella lotta di classe in tutti i suoi aspetti e derivazioni, dagli apporti che giungevano dalla marxistologia ufficiale. Dai paesi del “socialismo reale” il contributo ad una rivivificazione del pensiero marxiano, fu minimo, anche quando il primo si muoveva coraggiosamente in senso contestativo al potere esistente in quei paesi, e ciò per comprensibili motivi. Naturalmente le eccezioni non mancano, ma non sono numerose, come quel libro di Eval’d Vasil’evic Il’enkov La dialettica dell’astratto e del concreto nel Capitale di Marx, comparso nel nostro paese agli albori degli anni Sessanta per i tipi dell’editore di riferimento del marxismo non sempre ortodosso, Gian Giacomo Feltrinelli, e preceduto da una indimenticabile prefazione di Lucio Colletti, un vero libro nel libro, titolata Dialettica scientifica e teoria del valore.

Chi ha avuto la fortuna di condurre un’esperienza formativa in quegli anni ben ricorda come nel nome di Marx si pubblicasse di tutto, anche ciò che non lo meritava davvero, e come l’intero dibattito culturale, sia quello di ispirazione marxista che quello antimarxista, ruotasse attorno a figure come quelle di Baran e Sweezy, di Althusser e Della Volpe, di Colletti e Napoleoni per citarne solo alcune volutamente alla confusa.


Il grande vuoto degli anni Ottanta


Negli anni ’80 - con la vittoria su scala mondiale del neoliberismo, nel campo della politica e della economia, e del postmodernismo in campo artistico e filosofico, ovvero di quella particolare “logica culturale del tardo capitalismo”, secondo la celebre definizione che ne diede il suo massimo studioso, Fredric Jameson – quella felice temperie culturale subisce una brusca interruzione. Gli studi su e per Marx si diradano, ma soprattutto la sinistra nella sua prevalenza si separa dal marxismo. Nel 1985 esce in Italia un piccolo ma densissimo libro Discorso sull’economia politica. Ne è autore Claudio Napoleoni e può dirsi il suo testamento spirituale. In esso sono trattati temi assai rilevanti, quali un giudizio sulla riflessione marxiana dopo Sraffa, la assai vexata quaestio della trasformazione del valore in prezzi e del carattere estensivo del concetto di lavoro produttivo in Marx, nonché una riflessione sulla sopravvivenza della scienza economica affidata alla necessità di trasformarla da economia della scarsità a economia dell’abbondanza come si poteva configurare nelle società a capitalismo maturo, proponendo quindi il vincolo ecologico e un ben diverso rapporto fra valori d’uso e valori di scambio nel campo della produzione. Tutti argomenti, come ben si può vedere, in anticipo sulle discussioni dei decenni seguenti, che, se ben e a tempo sviluppati, ci avrebbero risparmiato, ad esempio, confusi dibattiti sulle teorie della decrescita molti anni dopo. Di lì a poco, nel suo ultimo discorso pubblico, nel gennaio del 1988, Napoleoni giungerà a dire, con intuizione profetica, che se non si affrontano tali questioni è inutile dirsi comunisti. Solo su questo venne accontentato, ma la parte innovativa e propositiva dell’opera di Napoleoni cadde nel vuoto. Lo lamenta lui stesso in una intervista che venne inclusa in Cercate ancora. Lettera sulla laicità e ultimi scritti, edito dopo la sua morte. Riferendosi al Discorso Napoleoni, sollecitato dai suoi interlocutori, afferma che “il libro ha avuto molta attenzione e alcune recensioni in sede accademica. In sede politica poca, effettivamente. Alcuni dibattiti si sono fatti, ma insomma la sua risonanza non è stata molto ampia. La ragione può anche essere che nella sinistra non c’è più l’abitudine a ragionare in grande, cioè per grandi problemi, per grandi impostazioni, per grandi prospettive…”

Possiamo dire, a distanza di un quarto di secolo, che le cose stanno ancora nel modo con cui le descriveva Claudio Napoleoni. Nel frattempo, infatti, la crisi della sinistra, che una forma specifica e prevalente della crisi della politica, è sprofondata in un vortice senza fondo. Nulla ora è più lontano da quella definizione della politica che Napoleoni dava nel 1986 come avente “un obiettivo generale e comprensivo, che si riferisce cioè al destino dell’uomo e non ai suoi particolari problemi”.


Le prime mosse della Marx renaissance


La Marx renaissance, ovvero quel complesso e articolato movimento intellettuale che da più parti del mondo si è manifestato a partire dagli anni Novanta attorno alla rivisitazione del pensiero marxiano, si è fin qui sviluppata con contributi di grande qualità scientifica in un ambito sostanzialmente accademico. Come sempre sono riscontrabili e in qualche caso evidenti i nessi tra questo movimento intellettuale e i movimenti sociali che si sono sviluppati dagli anni Novanta in poi, da quelli contro la guerra e la globalizzazione, fino a quelli di prevalente impronta ecologica e di difesa dei beni comuni o per converso di tipica critica alla sfrenata finanziarizzazione del moderno capitalismo, come Occupy Wall Street,. Ma credo che, almeno allo stato attuale delle cose, il grado di influenza diretta tra la Marx renaissance e la società in lotta e in movimento ci appare oggi nettamente inferiore a quella che si manifestò tra la cultura marxista e i movimenti sessantottini. Laddove non c’è aperto contrasto rischia di prevalere una reciproca indifferenza. Mi rendo perfettamente conto di non essere in grado di esprimere qui un giudizio compiuto e tanto meno definitivo su una questione di tale portata, ma più semplicemente di indicare un possibile terreno di ricerca e di analisi da esplorare con una qualche utilità.

Questa constatazione, che intende indicare, pur nella prudenza appena detta, un limite attuale di un movimento intellettuale, non vuole affatto disconoscere la sua rilevanza e le sue potenzialità intrinseche. Rispetto al grande vuoto degli anni Ottanta il vento è decisamente cambiato. Vi hanno contribuito in diversi, sia figure intellettuali singole che organizzate in ricorrenti incontri e discussioni collettive. Al punto che non è certamente facile individuare un preciso atto di nascita.


Spettri, revenants di Marx


Se guardiamo il fenomeno dal punto di vista dei grandi contributi individuali, non si può non ricordare in primo luogo quel libro singolare e straordinario che fu Spettri di Marx di Jacques Derrida, filosofo che non può certo essere ascritto ad una militanza marxiana. Il 22 e il 23 Aprile si tiene alla California University (Riverside) un convegno internazionale organizzato da Bernd Magnus e Stephen Cullemberg, apprezzato studioso del pensiero nietchiano il primo, economista il secondo, dal titolo semanticamente ambiguo “Whither marxism?”, ovvero “Dove va il marxismo?”, ma anche, visto che il verbo to wither si pronuncia allo stesso modo, “Il marxismo sta appassendo?”. Jacques Derrida si presenta con una lunga conferenza, pronunciata nel corso di due sedute, che poi diventerà il corpo del suo celebre libro Spettri di Marx.

Derrida dedica la sua conferenza a Chris Hani, un comunista membro dell’African National Congress che dopo la vittoria contro l’Apartheid rinunciava a probabili incarichi governativi per tornare a militare a pieno tempo nel piccolo partito comunista sudafricano. Dice Derrida: “ricordo che è un comunista come tale, un comunista in quanto comunista colui che…hanno messo a morte pochi giorni fa…Gli assassini hanno dichiarato esplicitamente che se la prendevano con un comunista…” Chris Hani avrebbe potuto, ci dice Derrida, mimetizzarsi nella foto di gruppo dei vincitori. Ha voluto invece tornare a fare il comunista. Gli è costata la vita.

Gli spettri di Marx hanno i loro eroi. Infatti non sono semplici spettri, ma revenants, ossia, più che fantasmi, redivivi, interpreti e portatori di una sopra-vivenza. Per cui la domanda è “non solo da dove viene il ghost, ma innanzitutto sta per tornare? Non sta già forse arrivando e dove va? E che ne è dell’avvenire? L’avvenire non può che appartenere ai fantasmi. E così il passato”.

Marx compare nel libro di Derrida in un doppio ruolo, quello di spettro, di revenant con più esattezza, ma anche in quello di ghostbuster, di chi, ossessionato dagli spettri, li combatte senza fine sperando nella loro scomparsa definitiva. “Marx non avrebbe forse dovuto cacciare troppo in fretta così tanti fantasmi”. Questo è il nocciolo della critica che Derrida fa allo stalinismo, al socialismo reale, alla sua versione della fine della storia come fine della storia della lotta di classe, seppure vista dal punto di vista del proletariato trionfatore. Che invece non può avere luogo, perché non è vero che la storia può finire, e con essa non finisce il marxismo. Derrida affronta direttamente la tesi che aveva reso famoso Fukuyama, la decostruisce quindi la confuta compiutamente.

Perché dunque i revenants ritornano? Perché continuano a farlo? Perché lo hanno fatto in passato e lo rifaranno nell’avvenire? Perché “The time is out of joint” ci ricorda Derrida in esergo al suo libro, così come dice l’Amleto di Shakespeare parlando allo spirito paterno affannato (perturbed Spirit), ovvero, come tradusse Eugenio Montale, “il mondo è fuor di squadra”. Ed è in effetti così che appariva il mondo alle intelligenze più critiche agli inizi degli anni Novanta. Nel punto più alto dello slancio della globalizzazione, quando più forti si levavano le laudi servili per le sue sorti magnifiche e progressive, la critica radicale all’ordine delle cose esistenti non poteva che avere come uno dei suoi punti di partenza, benché non esclusivo, la ripresa del marxismo come strumento di lettura della realtà.


La sfida di Rawls al marxismo


Ma vi era un altro modo di pensare che trovava insopportabile sottomettersi al pensiero unico che si stava strutturando lungo quegli anni. Era il pensiero liberale radicale, quello che muoveva in modo particolare dall’insegnamento di John Rawls, da quella sua Teoria della Giustizia, comparsa agli inizi degli anni Settanta e che da allora aveva rimesso in discussione non pochi assunti del liberalesimo e quindi a maggior ragione di quello che sarebbe poi negli anni Ottanta diventato il neoliberismo.

Si pensi solo a due temi come quelli della libertà e dell’eguaglianza. Rawls riprende la distinzione che Isaiah Berlin pose al centro della sua riflessione, tra libertà negativa, come libertà da, e libertà positiva, come libertà di. L’opzione di Rawls va verso la seconda, ovvero verso la possibilità per ognuna e ognuno di realizzare pienamente la propria persona e quindi il tipo di vita prediletto. Per Rawls il merito o le capacità individuale, punto cruciale nella giustificazione liberale classica delle diseguaglianze, essendo essi stessi in qualche modo il prodotto di un fenomeno sociale, non danno di per sé il diritto a nessuno di pretendere e di avere una maggiore quota di beni prodotti dal lavoro collettivo di una società. Al massimo questa, secondo Rawls, può trovare qualche legittimazione se funziona da incentivante ad uno sviluppo generale della economia, tale da aumentare la torta dei beni da suddividere in modalità e quantità tali che alla fine anche una distribuzione ineguale possa avere degli effetti migliori per chi sta peggio di una distribuzione egualitaria. Certamente questa variante è una concessione a quella che diventerà il leitmotiv della propaganda tesa a magnificare il processo di globalizzazione, come “la marea che fa alzare contemporaneamente tutte le barche”.

Ma comunque in Rawls è evidente la critica radicale all’idea che possa essere la competizione di mercato l’elemento automaticamente regolatore della distribuzione della ricchezza e che quest’ultima possa essere il premio conferito al merito individuale. E ciò lo avvicina certamente di più al socialismo che non al neoliberismo. Tanto che si può parlare di una specifica critica al capitalismo post-rawlsiana basata sull’analisi di quanto il capitalismo in quanto tale non sia in grado di soddisfare i due criteri di libertà e di uguaglianza prima richiamati.

Questa critica ha naturalmente un punto debole. Poiché infatti Rawls esplicitamente non considera nell’elenco di quelle che lui considera le libertà fondamentali, “il diritto a possedere certi beni (diciamo i mezzi di produzione) e quella di scambiare, come già accadeva nel liberalismo di Mill”, ne consegue logicamente, come giustamente ha osservato Stefano Petrucciani, che la libertà di mercato si sgancia dalle libertà fondamentali. La prima dunque non è parte integrante delle seconde né le garantisce, ma allo stesso tempo non è affatto detto che le contraddica. La distanza da Marx è qui evidente, poiché per quest’ultimo non è possibile affrontare il tema della distribuzione delle risorse separatamente da quello della loro produzione. “La struttura della distribuzione è interamente determinata dalla struttura della produzione” afferma il pensatore di Treviri nella celebre Introduzione del 1857 a Per la critica dell’economia politica.


Il carattere unitario dell’opera marxiana


Nello stesso tempo a Rawls e ai suoi seguaci non può essere disconosciuto il merito di avere offerto al marxismo nuovi terreni di sfida, che lo stesso ha poi saputo efficacemente esplorare, come quelli della libertà e della giustizia. Per ridare voce al marxismo in entrambi i campi era necessario operare una critica ad una lettura economicista e puramente strutturalista del complesso dell’opera marxiana.

Ancora prima era ed è necessario ristabilire una sostanziale unità nel percorso teorico di Marx. Ovvero contestare fino in fondo il lascito di Althusser per il quale i Manoscritti economico-filosofici del 1844 erano da considerarsi come “il testo più lontano che ci sia, teoricamente parlando, dell’alba che stava per spuntare”, poiché non si potrebbe assolutamente dire che la “giovinezza di Marx appartiene al marxismo”. In realtà, a volere essere marxiani fino fondo, si dovrebbe dire che mai Marx è appartenuto al marxismo, per sua esplicita ammissione.

Ma se si separa nettamente il Marx giovane da quello maturo; se addirittura si ritiene il primo in aperta contraddizione nei confronti del secondo, come un ostacolo alla sua comprensione; se si dipinge , come in parte fa Roberto Finelli, il Marx giovane come totalmente prigioniero di Hegel per via di un “parricidio mancato”, o se, al contrario, si mitizza il Marx giovane quale interprete di un umanesimo libertario scisso dalla critica dell’economia politica, si perdono i connotati sostanzialmente unitari e progressivamente acquisitivi dell’opera marxiana e si svalorizza il carattere di pensatore della libertà che è proprio del Moro.

La minuziosa ricostruzione filologica in corso, con la nuova pubblicazione delle opere complete di Marx ed Engels, nota come Mega2, aiuta invece a ricostruire, credo in modo definitivo, la figura di Marx nella sua complessità. Non si può intendere appieno il famoso periodo sul “vero regno della libertà” inserito quasi a sorpresa nel capitolo quarantottesimo del Terzo libro del Capitale, senza quanto abbiamo potuto leggere nei Manoscritti economico-filosofici o nella Questione ebraica: “ A mano a mano che egli (l’uomo civile) si sviluppa il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi del regno della necessità”.


Il marxismo analitico


Sempre nel Terzo libro del Capitale, all’improvviso, anche se riferendosi ad una questione specifica, ma di grande rilevanza, come quella che concerne la questione dell’interesse nel capitale produttivo (Capitolo ventunesimo), Marx afferma che “E’ assurdo parlare qui di giustizia naturale”. La distanza quindi con teorie rawlsiane non potrebbe essere maggiore.

Eppure sarebbe fuorviante dare una lettura puramente oggettivizzante della critica marxiana al capitalismo. Non è difficile leggere una grande tensione e indignazione morale nella descrizione del processo di accumulazione originaria contenuta nel capitolo ventiquattresimo del Primo libro del Capitale, per non parlare delle denunce delle profonde ingiustizie del capitalismo in scritti minori. Non si può non condividere la grande impressione che desta, ad esempio, la famosa lettera a Ruge del settembre del 1843, quella che tanto piacque a Pier Paolo Pasolini da prenderla in prestito per titolare uno dei suoi libri più noti: Il sogno di una cosa.

Dobbiamo a quel filone particolare del marxismo contemporaneo, il “marxismo analitico”, se il confronto tra Marx e Rawls si sia risolto in modo positivo e acquisitivo, potrei dire per entrambi. Ciò è potuto avvenire non solo per la particolare cultura dei suoi protagonisti, prevalentemente di matrice anglosassone, ma per il metodo con il quale essi si sono accostati ai testi con un’attenzione privilegiata ai nessi interni, ai concetti contenuti, alle definizioni usate per mettere a prova di resistenza la loro tenuta e la loro coerenza. Ed è questo metodo, aiutato dalla moderna ricostruzione filologica dei testi, che pone in dubbio una chiave di lettura immoralistica e “machiavellica” dell’opera marxiana, tale in fondo da giustificare una visione positivistica dello sviluppo storico, ove i passaggi da una fase all’altra sarebbero rigidamente dettati dal grado differente di sviluppo delle forze produttive.

In questo modo i seguaci del marxismo analitico giungono a separare nettamente il marxismo dal marxismo-leninismo, ossia dalla curvatura leniniana e quindi terzinternazionalista del marxismo, quanto da quella della classica socialdemocrazia europea. Gerald Cohen, che del marxismo analitico e del September Group (che ricava il nome dal mese in cui periodicamente gli aderenti al gruppo si incontravano per le loro discussioni e seminari) fu uno degli animatori e dei principali esponenti, che scrisse nel 2000 un libro dal titolo provocatorio “Se sei egualitario, come fai a essere così ricco?”, prese congedo da questo mondo producendo un libretto che ebbe un enorme successo mondiale. Why not socialism?, questo è il titolo dell’ultima fatica di Cohen, chiude con queste parole che meritano di essere riportate: “Certi socialisti di mercato contemporanei e ultraentusiasti tendono a dimenticare che il mercato è intrinsecamente ripugnante, perché sono accecati dalla scoperta tardiva del valore strumentale del mercato”. In questo modo Cohen ha inteso recuperare anche la dimensione etica e non solo scientifica del marxismo, con tutta la conseguente carica di indignazione che essa porta con sé. Quella appunto che vive in un libriccino altrettanto famoso di Stephane Hessel e soprattutto nei movimenti reali degli Indignados di tutto il mondo.


Il marxismo oltre Marx?


Da quanto fin qui detto, sembrerebbe uscire pienamente confermata l’opinione di Stefano Petrucciani, secondo cui “la ripresa del dibattito su temi marxiani non ha avuto un’origine per così dire endogena, e cioè non si è sviluppata nell’ambito del “marxismo” per sue necessità interne, ma è stata suscitata in modo preminente dalla volontà di istituire un confronto tra l’approccio di tipo marxiano e quello dei nuovi filosofi politici venuti alla ribalta negli anni Settanta del Novecento”. La realtà a me pare però più complessa e articolata.

Innanzitutto perché anche dall’interno del marxismo militante è stato compiuto un balzo oltre Marx e verso altri rilevanti contributi filosofici, anteriori e posteriori allo stesso Marx. E’ evidente che qui faccio riferimento soprattutto all’opera teorica di Antonio Negri. Qualunque sia il giudizio critico che su di essa si voglia dare, sono evidenti due caratteristiche della medesima che la inquadrano e allo stesso tempo assai mal la contengono entro quel processo di rilancio degli studi e delle interpretazioni marxiane di cui ci stiamo qui occupando.

La prima è che, a differenza di altri laboratori intellettuali, qui la connessione con movimenti sociali anche di vasta portata e di carattere internazionale è stata fertile e duratura. Non intendo minimamente riferirmi qui alla tragica seconda parte degli anni Settanta (così continuo a considerarla, se riferita ovviamente al nostro paese, malgrado alcuni assai poco convincenti tentativi di rivalutarla). Ma alla crescita del movimento no-global e dei movimenti sociali sorti nell’ambito del lavoro intellettuale e del crescente precariato diffuso. In ciascuno di questi è fin troppo evidente l’influenza diretta degli scritti di Negri, da Marx oltre Marx - che raccoglie le lezioni sui Grundrisse, tenute all’Ecole normale superieure, su invito di Althusser, nel 1978 - fino alla fortunatissima, almeno per quanto riguarda il primo volume, trilogia uscita lungo gli anni Zero, Impero, Moltitudine, Comune, scritti in collaborazione con Michael Hardt. E questo può essere un altro elemento da aggiungere a quel terreno di ricerca che si è proposto poco sopra. E’ comunque evidente che quei movimenti per ragioni più o meno fondate, per responsabilità forse più dei marxisti che del marxismo, non hanno trovato e forse neppure cercato in quest’ultimo risposte analitiche descrittive della loro condizione e soprattutto soluzioni per il loro avvenire.

La seconda caratteristica sta nell’approccio di Negri al testo marxiano. Qui Marx non è più un classico, come è nel marxismo analitico, cioè colui che continua a parlarti, avendo attraverso il tempo sempre qualcosa da dirti, ma diventa l’interlocutore vivente. Solo che Marx effettivamente non lo è. La metafora del revenant non può spingersi fino a questo punto. Così il suo pensiero viene per forza di cose forzato e anche manipolato. E ogni commistione con altri pensieri diventa possibile.

Per Negri, come scrive nella introduzione alla nuova edizione di Marx oltre Marx venti anni dopo le lezioni di Parigi, i Grundrisse erano stati negli anni Settanta il “testo chiave per orientarsi nei dibattiti di quel fosco e bel periodo di sovversione”. Per Negri i Grundrisse non sono solo il primo riuscito tentativo di dare corpo ad una teoria generale del capitale, che segna in questo senso un salto di qualità nell’intero corso della elaborazione marxiana, senza però scindersi da ciò che la precede e soprattutto da ciò che la seguirà da lì a poco, ovvero Il Capitale, ma sono “ben altra cosa” ovvero “una straordinaria anticipazione teorica della società capitalistica matura”. Per cui lì si può trovare ciò che oggi serve: la teoria della centralità del lavoro immateriale, poiché “il lavoro operaio industriale (in quanto lavoro immediato) è ormai solo un elemento secondario nell’organizzazione del capitalismo” . Con quest’ultimo evapora la teoria del valore-lavoro. I nuovi protagonisti non sono più le classi, ma le moltitudini, idea che Negri mutua da Spinoza (e la rivalutazione di quest’ultimo è certamente una delle parti più interessanti del lavoro di contaminazione negriano, se ci si limita al lato squisitamente filosofico) e che però e non a caso sfugge, persino a lui, ad una precisa definizione. Il lavoro immateriale, sottomesso al capitalismo cognitivo, si estende in ogni angolo della società, anche in modo inconsapevole da parte dei soggetti che ne sono investiti, poiché praticamente tutto, ogni manifestazione vitale, come l’agire comunicativo-relazionale, entra a fare parte direttamente del processo di valorizzazione del capitale; il che porta a considerare come stramatura la rivendicazione di un reddito universale che più che di cittadinanza diventa di esistenza. Tutto questo porrebbe “con urgenza la questione del comunismo come distruzione del capitale da parte di una comunità di individui liberi e ricchi” , soltanto che il punto d’attacco non è la proprietà dei mezzi di produzione quanto la determinazione di nuovi commons, ovvero luoghi liberati dal predominio del capitale e della stessa proprietà pubblica.

Lungo questa ardita costruzione, Negri rivista il pensiero di Spinoza, sottolineandone giustamente il carattere eversivo rispetto alla società del suo tempo, ma proiettandolo in una ultrattività che lo trascina fino ai giorni nostri; si mischia con le elaborazioni sulla biopolitica e sulla governamentalità dell’ultimo Foucault e con il pensiero del molteplice di Deleuze e Guattari. E’ evidente la dipendenza dalla ricerca negriana delle attuali teorie sul capitalismo cognitivo o quelle sui beni comuni.

Il prodotto finale è davvero qualche cosa che va oltre Marx, ma grazie alla sostituzione di alcuni fondamenti decisivi della sua teoria del capitale e della società da questo dominata. Quindi più che un attraversamento, che comporterebbe una sostanziale metabolizzazione, siamo di fronte a un sorpasso.


La ricerca marxista su Marx


In questo senso l’opera negriana entra oggettivamente in collisione sia con il progetto di una “ricostruzione del marxismo” tentata da Jacques Bidet, sia con quel complesso lavoro di approfondimento critico e filologico che si fonda sulla nuova MEGA, che tende a riportare il pensiero marxiano nei suoi confini, partendo dal presupposto, come ha scritto Marcello Musto, “che la ricerca su Marx presenti ancora tanti sentieri inesplorati” e proprio in ciò e perciò trovando le ragioni della sua straordinaria vitalità e attualità.

In Altermarxisme, uscito in Francia nel 2007, Jacques Bidet e Gerard Duménil accettano una sfida non da poco. Evitando di glissare le dure repliche della storia, come si diceva un tempo, si interrogano sul perché un pensiero di emancipazione ha invece dato luogo a spaventose forme di oppressione, una volta che si è incarnato in un potere statale. E’ evidente che la risposta: “ma quello non fu vero socialismo” e le sue infinite e patetiche varianti non sono sufficienti, perché in ogni caso rimane in piedi la questione se veramente un altro socialismo sia possibile. Vale la pena di notare che per quanto Bidet e Dumenil occupino una posizione originale nel panorama marxista attuale, il nesso con altri filoni di ricerca sono evidenti.

E’ sempre Musto, nella introduzione al suo Marx for Today, a ricordarci che in particolare sono due “ i Marx” che ci sono indispensabili, quello della critica al modo di produzione capitalistico e quello del teorico del socialismo, cioè l’autore “che ripudiò l’idea del socialismo di stato, propalata nel suo tempo da Lassalle e Rodbertus; il pensatore che concepì il socialismo come una possibile e completa trasformazione delle relazioni produttive e sociali, e non come un insieme di blandi palliativi ai problemi della società capitalista”.

Solo che la riflessione di Bidet e Duménil si spinge molto avanti. Attraverso l’elaborazione di una teoria della modernità, una rivisitazione della storia dell’intero ventesimo secolo, un tentativo di delineare un’originale teoria delle classi giungono a conclusioni che possono avere un forte impatto con la realtà mondiale attuale. I due autori riflettono sul ruolo dello Stato come regolatore del mercato in tutto l’arco novecentesco, dalla pianificazione sovietica al dirigismo nazista, dal New Deal roosveltiano alle varie forme di keynesismo più o meno “bastardo” che si sono succedute, nonché sulla tendenziale separazione della proprietà delle imprese dalla gestione, anche sulla scorta del celebre passo sul “capitalismo dei manager” contenuto nel Terzo libro de Il Capitale, nonché, ovviamente, del celebre libro di Berle e Means degli anni Trenta (The Modern Corporation and Private Property). Ne emergono spunti convincenti e altri molto meno.

Fra questi ultimi va posta certamente l’accentuazione, in particolare di Duménil, sul cosiddetto cadrisme, ovvero l’analisi del presente come di una società di classe dominata dai dirigenti e dai manager. Una simile interpretazione posta come generale non regge all’analisi degli stessi fenomeni che vorrebbe inquadrare, primo fra tutti il crollo del sistema sovietico. Diventa invece più interessante se la si considera come un elemento che aiuta a pensare la molteplicità delle forme che il capitalismo ha saputo assumere lungo la sua inconclusa esistenza e come il dominio e l’egemonia - concetti come ben si sa da tenere separati, ma che coesistono nella realtà - del modo di produzione capitalistico nella società si articoli in una molteplicità di forme, ben adattandosi alle specificità storico-culturali dei singoli paesi. Da questo punto di vista un simile spunto analitico potrebbe essere prezioso per valutare la specificità del sistema cinese, sottraendola alla secca alternativa fra socialismo e capitalismo, e orientandola invece verso una variante innovativa di quest’ultimo caratterizzata da un dominio dello stato sul mercato, ma, al contempo, di un’egemonia di quest’ultimo sulla società. Come si vede, un equilibrio assai fragile.

Più convincente, ma solo come abbozzo di una ricerca tutta da fare, appare invece la critica all’ossessione collettivista e la necessità di orientare una prospettiva pienamente emancipativa e socialista nell’ambito della coesistenza di sistemi proprietari diversi. Il pubblico, il comune e il privato potrebbero quindi convivere, ove il primato dei primi due sia garantito, e ogni volta difeso e conquistato, dall’effettiva partecipazione al processo democratico di formazione delle decisioni. In questo quadro la democrazia non solo non sarebbe di impaccio ai sistemi socialisti, ma non dovrebbe avere limiti, neppure quelli che potrebbero derivare dalla non desiderabilità del ritorno di forme di organizzazione produttiva e sociale sconfitte dalla volontà popolare. D’altro canto, e qui si ritorna direttamente a Marx, se effettivamente il loro abbandono è strutturalmente diventato maturo grazie allo sviluppo delle forze produttive, non sono affatto indispensabili strutture statuali e legislazioni repressive per allontanare il pericolo di un loro ritorno


Le nuove frontiere della ricerca


Torniamo quindi alla centralità del tema del modo di produzione capitalistico. Il cuore della teoria marxiana sta lì, non altrove. I Grundrisse hanno un’importanza decisiva perché segnano l’apparire in Marx della prima grande sistemazione teorica in questo senso – che certo non poteva nascere tutto ad un tratto come Minerva dalla testa di Giove, e in ciò sta la ovvia differenza fra un Marx giovane e uno più maturo - cui il Moro lavorerà fino alla fine dei suoi giorni, lasciandola incompiuta. Non sono altro da Il Capitale, ma ne costituiscono un punto di avvicinamento. Ma la questione economica non può essere separata dal resto. Ha ragione Petrucciani quando scrive che la grandezza di Marx sta nel fatto che “egli ha inaugurato un nuovo tipo di riflessione che prima di lui non esisteva: Marx, per primo, ha cercato di conferire alla critica della società una forma scientifica, cioè sostanziata di tutto il sapere più avanzato della sua epoca: filosofia, storia, diritto, economia”.

Il rinascimento marxiano non può quindi essere unilaterale né monodisciplinare. Infatti le migliori esperienze in questo campo si avvalgono di una pluralità di competenze e le mettono a confronto. E’ il caso dell’International Symposium on Marxian Theory, sorto nel 1991, proprio sulla base della necessità di chiamare a raccolta in discussioni e convegni periodici economisti e filosofi. Fred Moseley, il suo animatore, ci dice che l’idea di dare vita a un simile gruppo nasce dall’osservazione di una insopportabile lacuna nei rarefatti studi marxiani degli anni Ottanta: “la mancanza di rapporti e di dialogo fra economisti e filosofi”. I primi si erano dedicati a problemi “quantitativi”, quali la caduta del saggio di profitto o la trasformazione del valore in prezzi, i secondi si erano impantanati sul tema della dialettica e della relazione fra Marx e Hegel.

Del gruppo di ricerca , ovviamente ristretto e ben selezionato, fanno oggi parte tra gli altri studiosi italiani come Riccardo Bellofiore e Roberto Fineschi, al secondo dei quali dobbiamo la nuova edizione filologica del primo libro del Capitale, fondata sui testi originali della seconda Marx–Engels-Gesamtausgabe (MEGA2), uscita proprio in questi giorni per i tipi de La Città del Sole.

I membri dell’ISMT ritengono la teoria marxiana del valore sostanzialmente valida, pur insistendo gli uni più sulla formulazione originaria della stessa, gli altri sui successivi apporti ricostruttivi. Per alcuni membri, dice Moseley, “Marx non è riuscito a dare un’adeguata spiegazione del perché abbia indicato il lavoro come proprietà comune delle merci che determina il loro valore di scambio, o che non è riuscito a chiarire come il lavoro qualificato possa essere ridotto a lavoro semplice”. Per alcuni il problema della trasformazione dei valori in prezzi trova già risposta in Marx, per altri è “questione derivata e sostanzialmente non problematica”. O ancora, se per alcuni la definizione di “lavoro socialmente necessario” è una determinazione tecnica nell’ambito della produzione immediata, per altri essa fa riferimento al bisogno sociale. Ancora più intricato, se si vuole, è il dibattito sul terreno filosofico, che si avviluppa attorno al legame tra Hegel e Marx. Come si vede, in tutti i casi, questioni non da poco. Ma il fatto che il dibattito sia aperto dimostra proprio la vitalità del lascito marxiano.

Insomma, per concludere con le parole di Roberto Fineschi: “La teoria marxiana del capitale è più attuale che ai tempi di Marx. … Il suo livello di astrazione è però molto alto. Per avere una politica e un’analisi del contemporaneo non basta applicarla…ma è necessario scendere verso livelli di astrazione più bassi che tengano conto …di sistemazioni analitiche ulteriori (in campo economico per esempio) tutte da scrivere o da aggiornare rispetto a quelle svolte da Marx…La conclusione è che c’è molto da fare e da studiare per portare avanti quello che Marx ha ‘solo’ iniziato”.

Testi, non di Marx, cui si è fatto direttamente o indirettamente riferimento

Marcello Musto Ripensare Marx e i marxismi, Carocci editore, 2011

Marcello Musto Marx for Today, Toronto, 2012

Stefano Petrucciani A lezione da Marx, Manifestolibri, 2012

Stefano Petrucciani Marx, Carocci editore, 2009

Diego Fusaro Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario, Bompiani 2010

Nicolao Merker Karl Marx, Vita e Opere, Laterza 2010

Roberto Finelli Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Bollati Boringhieri 2004

Roberto Fineschi Ripartire da Marx.Processo storico ed economia politica nella teoria del “capitale”. La Città del Sole, 2001

Roberto Fineschi Introduzione a Karl Marx, Il capitale, libro primo, Tomo I, La Città del Sole, 2012

Riccardo Bellofiore e Roberto Fineschi ( a cura di) Marx in questione. Il dibattito “aperto” dell’International Symposium on Marxian Theory, La Città del Sole, 2009

Riccardo Bellofiore La crisi capitalistica, la barbarie che avanza, Asterios, 2012

Antonio Negri, Fabbrica di porcellana. Per una nuova grammatica politica, Feltrinelli, 2008

Antonio Negri Marx oltre Marx , Manifestolibri, 1998

Michael Hardt, Antonio Negri Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli 2001

Michael Hardt, Antonio Negri Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, 2004

Michael Hardt, Antonio Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, 2010

Isaiah Berlin, Due concetti di libertà, Feltrinelli, 2000

John Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, 1997

G.A. Cohen, Socialismo, perché no?, Ponte alle Grazie, 2010

Fredric Jameson Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi editore, 2007

Jacques Bidet, Gérard Duménil Altermarxisme. Un autre marxisme pour un autre monde, Puf, 2007

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