La dialettica tra “vecchio e nuovo”. Gramsci e la marcia dell’universalità nelle note di Domenico Losurdo
di Gianni Fresu (Universidade Federal de Uberlândia/Università di Cagliari)
Losurdo inscrive la transizione di Gramsci dal liberalismo al comunismo critico nella lunga marcia dell’univer- salità, in quella interminabile dialettica tra vecchio e nuovo all’interno della quale si situano contraddizioni e salti qualitativi immanenti al divenire storico. Le prospettive di trasformazione radicale della società, attorno all’idea di integrale emancipazione umana, sarebbero uno sviluppo del principio di universale dignità dell’uomo (in contrapposizione al particolarismo giuridico aristocratico-feudale) al centro dei rivolgimenti politici di fine Settecento e inizio Ottocento. Gramsci non intende fare del socialismo un becchino della società borghese ma il suo erede. In tal senso si pone in termini dialettici, concependo l’avvento del nuovo ordine come superamento del vecchio, non come la sua semplice negazione. Così, anche in una fase storica segnata dalla grave crisi del libera- lismo italiano, disposto a mettere da parte le proprie istituzioni e i suoi valori ideali pur di impedire il cambia- mento dell’ordine sociale, Gramsci concepisce il socialismo all’interno di un processo ascendente e progressivo apertosi con la distruzione del vecchio ordine feudale, trovando in Hegel il filosofo che con maggior sistematicità ha saputo concettualizzare il trapasso dal vecchio Stato patrimoniale per caste chiuse al moderno Stato etico
1. Tra rivoluzione e restaurazione.
Occupandosi di singoli autori o di intere tradizioni filosofiche, Domenico Losurdo non ha mai confinato le proprie ricerche a uno specifico campo disciplinare, né limitato le sue riflessioni all’insieme degli avvenimenti immediatamente riconducibili all’argomento trattato. Al di là del concepire il marxismo come visione unitaria e autosufficiente del mondo, i suoi studi sono caratterizzati da un approccio complesso che chiama in causa questioni estremamente articolate di carattere filosofico, storico, giuridico, sociale, economico e politico. In tal senso, per comprendere in profondità le sue riflessioni su Antonio Gramsci è necessario inserirle all’interno del discorso complessivo sviluppato da Losurdo nella sua vasta e ricca produzione intellettuale, avendo ben chiara la natura organica e unitaria delle battaglie filosofiche e politiche di cui è stato protagonista. All’interno di questo percorso intellettuale, Losurdo ha costantemente sottolineato l’importanza della filosofia di Hegel per comprendere premesse e eredità delle due più grandi rotture della storia moderna e contemporanea: la Rivoluzione francese e la Rivoluzione russa. Ciò ha significato anche porre in evidenza la stretta relazione tra dimensione teoretica e finalità normative nelle argomentazioni concettuali utilizzate dal vasto fronte ideologico contrappostosi alla funzione storica assolta prima dai giacobini e poi dai bolscevichi1.
Losurdo ha più volte sottolineato come, in tempi di Restaurazione trionfante, Hegel sia stato il primo filosofo a rapportarsi in termini razionali alla Rivoluzione francese, spiegandone le cause attraverso il disvelamento delle contraddizioni reali immanenti alla società di antico regime, svuotata della sua necessità storica da un processo molecolare di decadenza e decomposizione inarrestabile2.
Un anno dopo il Congresso di Vienna, Karl Ludwig von Haller scrisse la sua opera più nota, significativamente intitolata La restaurazione della scienza po- litica, con un obiettivo dichiarato: sconfiggere anche sul piano teorico le dottrine rivoluzionarie già battute, sul piano politico, dalla riaffermazione dei principi dinastici e patrimoniali in Europa. Senza una vigorosa battaglia ideologica, Haller intravvedeva il rischio di un possibile ravvivarsi dell’infezione rivoluzionaria e il diffondersi di nuovi focolai e sussulti insurrezionali tra i popoli europei3. Sul piano storico e filosofico la Restaurazione cercò di spiegare la Rivoluzione francese attraverso cause esterne al corpo sociale, mettendo sul banco degli imputati la speculazione filosofica in quanto tale e il razionalismo illuminista nello specifico. In tal senso, per Edmund Burke4, l’idea di palingenesi connessa al concetto di rivoluzione, ispirata alla convinzione di poter ricostruire su basi radicalmente nuove assetti giuridici e relazioni sociali esistenti, era il frutto avvelenato di un fondamentalismo razionalista che pretendeva di mettere in discussione su base logico-deduttiva tutto il passato, di cui veniva negato il significato più profondo, generato dall’esperienza storica accresciutasi di generazione in generazione5. Al contrario, per Burke come per Guizot sarebbe proprio questa processualità storica, incarnatasi nei capisaldi di una società (valori, tradizioni, costumi, leggi e istituzioni), a rendere l’organizzazione sociale e politica della vita umana molto più complessa e profonda di quanto la semplice razionalità intellettuale possa comprendere6. Con sfumature e diversità di approcci, argomentazioni simili si ritrovano anche nelle note polemiche contro la Rivoluzione francese di autori tra loro molto diversi come Constant, Hume, Bentham, ma pure nelle considerazioni critiche contro la Rivoluzione russa di intellettuali come Isaiah Berlin7 o Slavoj Žižek8.
Secondo Losurdo, in contrapposizione alla vulgata post-restaurazione, Hegel ha invece saputo riconoscere la storia del mondo come un processo unitario e dialettico in cui le trasformazioni non sono dominate da inaccessibili leggi divine o naturali, essendo piuttosto la conseguenza dello stretto intreccio di contraddizioni oggettive e soggettive generate nel corpo stesso del tessuto sociale scosso dal conflitto. La storia della rivoluzione filosofica tedesca è l'affermazione dei principi della ragione in tutti i campi, la trascrizione teorica dello sviluppo storico del mondo moderno, di quel progresso della libertà che ha trovato un autentico spartiacque nella Rivoluzione francese. La storia universale è così interpretata come un prodotto della ragione eterna, e la ragione ha determinato le sue grandi rivoluzioni. In tal senso, la modernità come realtà storicamente determinata sarebbe l'oggettivazione processuale dell'emancipazione umana, un processo ascendente e progressivo di cui Hegel era consapevole e a cui ha dato forma filosofica e fondamenti gnoseologici9. Difendere la Rivoluzione francese significava affermare la razionalità del “nuovo” in quanto necessario superamento dialettico del “vecchio” oramai svuotato della sua forza vitale e propulsiva, dunque, contrapporsi ai pensatori della Restaurazione che si rifiutavano di riconoscere la legittimità del mondo moderno, contrapponendo la nostalgica evocazione del “bel mondo antico” alla nuova realtà storicamente determinata. In questo modo, l’accusa rivolta a filosofi e rivoluzionari contrappostisi al vecchio mondo, voler negare la continuità e processualità del divenire storico, era da Hegel radicalmente ribaltata. Se liberali e teorici della conservazione contestano la Rivoluzione francese per la sua origine filosofica, mettendo nel banco degli imputati la speculazione e contrapponendola alla realtà concreta, Hegel fa l’esatto contrario:
«Si è detto che la rivoluzione francese sia partita dalla filosofia e non senza ragione si chiama la filosofia sapienza mondana, poiché la filosofia non è soltanto la verità in sé e per sé, bensì anche la verità che prende vita dalla mondanità. Perciò non bisogna dichiararsi contrari quando qualcuno afferma che la rivoluzione ricevette la sua prima sollecitazione dalla filosofia. (…) Il principio della libertà della volontà si è fatto dunque valere contro il diritto esistente. (…) L’intera condizione della Francia in quel periodo è un confuso aggregato di privilegi contrari a ogni pensiero e ragione in genere, una condizione insensata alla quale si accompagna la suprema corruzione dei costumi, dello spirito – un regno dell’ingiustizia che, non appena comincia a prendere coscienza, diviene un’ingiustizia spudorata. L’oppressione terribile, dura, che gravava sul popolo, l’imbarazzo del governo nel procurare alla corte i mezzi per lo sfarzo e la dissipazione, diedero la prima occasione al malcontento. Lo spirito nuovo entrò in azione, l’oppressione spinse all’indagine»10.
Nei suoi studi, Losurdo inscrive la transizione di Gramsci dal liberalismo al comunismo critico proprio nella lunga marcia dell’universalità, in quella interminabile dialettica tra vecchio e nuovo all’interno della quale si situano contraddizioni e salti qualitativi immanenti al divenire storico. In tal senso le prospettive di trasformazione radicale della società, attorno all’idea di integrale emancipazione umana, sarebbero uno sviluppo del principio di universale dignità dell’uomo (in contrapposizione al particolarismo giuridico aristocratico-feudale) al centro dei rivolgimenti politici di fine Settecento e inizio Ottocento. Il socialismo configura la propria funzione in continuità con tale processo, ma ponendo un’esigenza storica inedita, non contemplata fino in fondo dalle cosiddette rivoluzioni borghesi: il superamento delle contraddizioni sociali che, sul piano sostanziale, rendono inefficace o non operativo il principio dell’uguaglianza formale dei cittadini di fronte alla legge. La premessa di questa transizione (dalla questione politica alla contraddizione sociale) può essere rintracciata prima di tutto nell'opera di Rousseau, ma trova il suo punto fondamentale di svolta negli scritti giovanili di Engels sulla condizione della classe operaia inglese e sull’economia politica, in quelli del giovane Karl Marx tra il 1843 e il 1845: la Critica della filosofia hegeliana del diritto la Questione ebraica, quindi gli appunti dei Quaderni parigini poi conosciuti con il titolo di Manoscritti econo- mico-filosofici. L’idea gramsciana di emancipazione umana si pone perciò sulla scia di questa tradizione sviluppandola organicamente sino alle sue estreme conseguenze, mettendo in discussione non solo la struttura di classe delle società, ma anche la relazione tra governanti e governati in quanto tale. L'idea di «riforma intellettuale e morale», infatti, non è solo la prospettiva di superamento delle contraddizioni che impediscono l’effettiva uguaglianza generando lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ma il sovvertimento della gerarchia sociale che divide l’umanità in dirigenti e diretti, contrapponendo lavoro intellettuale e lavoro manuale.
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Il retroterra filosofico delle categorie gramsciane
Nello studiare un autore, secondo Losurdo, si possono utilizzare metodi ermeneutici diversi e contrapposti. Uno di questo consiste nel concentrare la nostra attenzione sulle letture e i testi che più lo hanno influenzato; un altro potrebbe svilupparsi richiamando la nostra attenzione sui problemi concreti posti dal periodo storico in cui egli si inserisce. Nel primo corriamo il rischio di pervenire a un «risultato tautologico», scoprendo che il nostro autore è stato influenzato dalla cultura del suo tempo; nel secondo, invece, potremmo arrivare a «risultati più fruttuosi» comprendendo meglio quanto gli approfondimenti teorici non abbiano necessariamente natura arbitraria, essendo invece frutto della presa di coscienza della realtà concreta. Nel caso di Gramsci, l’unico modo per cogliere l’originalità teorica e politica del suo pensiero consiste esattamente nel valutare come egli si sia rapportato a problemi concreti come l’arretratezza dell’Italia rispetto all’Europa, la guerra, il 1917 in Russia, il fallimento delle rivoluzioni in Occidente, la nascita e l’avvento del fascismo:
«Il discorso relativo all’influenza di un autore su un altro presenta l’ulteriore inconveniente di far pensare ad un approccio meramente individuale tra i due, ad un dialogo che si svolge non in un contesto storico concreto, bensì in uno spazio accademico e politicamente asettico. Se tale approccio è in generale discutibile e sterile, esso appare del tutto privo di senso per un autore fortemente politico come Gramsci, il cui confronto coi grandi intellettuali a lui contemporanei è sin dall’inizio mediato dal dibattito che in Italia e in Europa si sviluppa sul nesso esistente tra le elaborazioni teoriche di quegli intellettuali e i grandi problemi politici e sociali del tempo»11.
In tal senso la lotta per l’emancipazione, non solo dei subalterni della sua Isola, ma anche dei «“popoli infelici delle colonie”, bollati e trattati come “barbari” e “incivili” dalle periodiche “crociate” della “vecchia Europa”»12, cui rivolge la sua attenzione il giovane Gramsci, rappresenta sin dall’inizio il movente dei suoi interessi culturali. Ciò vale non solo per la fase nella quale Gramsci intraprende il suo cammino nel movimento socialista scegliendo il terreno ideologico del materialismo storico, ma anche per quella fase ancora fortemente influenzata da autori situati nel campo liberale.
All'interno di questo percorso intellettuale, avere chiarezza della formazione filosofica antipositivista e antideterminista del giovane rivoluzionario è fondamentale per comprendere il ruolo nella sua elaborazione teorica della filosofia idealista di Croce, quindi la centralità della concezione dialettica hegeliana, la stessa con cui Lenin interiorizza e sviluppa il pensiero di Marx. Ma anche quest’esigenza va assunta con molta cautela, evitando di appiattire un autore sulla genealogia filosofica da cui è scaturito il suo pensiero. Contro tale tendenza, nel paragrafo 27 del Quaderno 11, è lo stesso Gramsci a polemizzare, stigmatizzando la pretesa di ridurre il pensiero di Marx agli apporti filosofici che ne hanno caratterizzato la formazione. Uno studio sul retroterra filosofico di un simile autore è biograficamente importante per comprenderne la configurazione intellettuale, «ma ciò che più interessa è appunto il superamento delle vecchie filosofie, la nuova sintesi o gli elementi di una nuova sintesi, il modo nuovo di concepire la filosofia i cui elementi sono contenuti negli aforismi o dispersi negli scritti del fondatore della filosofia della praxis e che appunto bisogna sceverare e sviluppare. In sede teorica la filosofia della praxis non si confonde e non si riduce a nessun’altra filosofia»13. Secondo Gramsci, ogni filosofia sorge dalle intime contraddizioni storiche di cui è parte e ogni filosofia concepisce sé stessa come unità di storia e natura, ossia come sviluppo e superamento di ciò che l’ha preceduta; tuttavia, nella storia del pensiero filosofico, l’opera di Hegel rappresenta un caso a parte perché comprende cosa è la realtà in un solo sistema filosofico come coscienza delle contraddizioni:
«In un certo senso, pertanto, la filosofia della praxis è una riforma e uno sviluppo dello hegelismo, è una filosofia liberata (o che cerca di liberarsi) da ogni elemento unilaterale e fanatico, è la coscienza piena delle contraddizioni in cui lo stesso filosofo, inteso individualmente o inteso come intero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni ma pone se stesso come elemento della contraddizione, elevando questo elemento a principio di conoscenza e quindi di azione»14.
Questa è la premessa della concretezza del marxismo (inteso nella sua forma autentica e non brutalizzata dal determinismo positivista), ossia della sua capacità di sfuggire a ogni astratta generalizzazione sistemica. Per questo egli conclude: «l’uomo in generale, comunque si presenti, viene negato e tutti i concetti dogmaticamente unitari vengono dileggiati e distrutti in quanto espressione del concetto di ‘uomo in generale’ o di natura umana immanente in ogni uomo»15. La traduzione dal terreno filosofico a quello della praxis sarebbe l’essenza del materialismo storico e una delle ragioni della sua superiorità rispetto alle altre visioni filosofiche, ecco perché Gramsci adotta la definizione di Labriola: filosofia della praxis. Ma questo livello non esaurisce il campo della traducibilità della filosofia della praxis, al contrario l’ambito maggiore di sua attuazione si ha nella traduzione della teoria alle condizioni di ogni specifica e originale formazione economico-sociale nazionale. Secondo Gramsci il vero concetto di ortodossia, riferito al materialismo storico, non deve essere confuso con la difesa della rigidità dottrinale, dunque con l’apologetica ideologica, né tanto meno con la ricerca degli elementi di continuità o discontinuità nelle correnti successive a Marx. La filosofia della praxis va considerata come concezione unitaria del mondo, che non necessita degli apporti di questa o quella filosofia:
«la filosofia della praxis «basta a se stessa», contiene in sé tutti gli elementi fondamentali per costruire una totale e integrale concezione del mondo, una totale filosofia e teoria delle scienze naturali, non solo, ma anche per vivificare una integrale organizzazione pratica della società, cioè per diventare una totale, integrale civiltà»16.
Inteso in questi termini, il concetto di «ortodosso» servirebbe a spiegare meglio il contenuto rivoluzionario di una dottrina. Ad esempio, spiega Gramsci, il cristianesimo fu rivoluzionario rispetto al paganesimo rappresentando (con la sua comunità religiosa) un momento di rottura radicale tra vecchio e nuovo mondo. Non riconoscere l’autosufficienza del marxismo significa non aver rotto i ponti con il vecchio mondo o, peggio, essere egemonizzati dalla cultura tradizionale. Quest’operazione, tesa a incorporare il marxismo nella cultura tradizionale, non avviene solo con il revisionismo di Croce e Bernstein, ma anche all’interno del campo «ortodosso», come dimostrano le posizioni di figure come Bucharin criticate da Gramsci.
La ricerca di una filosofia originaria e generale alla base del materialismo storico è il segno evidente che non si riconosce a questo una originalità di contenuto e metodo. Così si fa confusione con la cultura filosofica di Marx, senza considerare la sua teoria un superamento di tutte le correnti filosofiche di cui si è nutrita la sua formazione. Il marxismo non si confonde o riduce a nessun’altra filosofia, al contrario rappresenta una sintesi dialettica dei linguaggi e delle concezioni alla base del suo processo di formazione; tuttavia, per quanto il materialismo storico non debba essere considerato una sua semplice prosecuzione invertita, Gramsci riconosce l’importanza (tra le fonti del marxismo) della filosofia hegeliana proprio perché questa già rappresentava un superamento di quelle precedenti:
«È certo che l’hegelismo è il più importane (relativamente) dei modi di filosofare del nostro autore, anche e specialmente perché l’hegelismo ha tentato di superare le concezioni tradizionali di idealismo e materialismo in una nuova sintesi che ebbe certo importanza eccezionale e rappresenta un momento storico-mondiale della ricerca filosofica. (…). La filosofia della praxis è lo «storicismo assoluto», la mondanizzazione e terrestrità assoluta del pensiero, un umanesimo assoluto della storia. In questa linea è da scavare il filone della nuova concezione del mondo»17.
Richiamate tali questioni metodologiche, poste dallo stesso Gramsci, conoscere il percorso di formazione intellettuale, al di là dell’interesse biografico, risulta importante per comprendere due aspetti centrali del suo pensiero: in primo luogo la funzione non puramente secondaria o subalterna della cosiddetta dimensione sovrastrutturale, dunque l’importanza delle questioni egemoniche in una società moderna e sviluppata: in secondo luogo, l’analisi critica della contraddizione strumentale tra lavoro spirituale (funzioni dirigenti) e lavoro materiale (funzioni subalterne) alla quale corrisponde la distinzione tra governanti e governati. Come si accennava, il minimo comun denominatore di questi due assi concettuali si trova nel rifiuto sistematico verso gli approcci deterministici del socialismo positivista; dunque, la convinzione di Gramsci secondo cui la politica di fatto non è sempre immediatamente riconducibile, in ogni suo aspetto, allo sviluppo della struttura come un suo riflesso meccanico.
Parlando dell’iniziale «bergsonismo di Gramsci», Prestipino ha sottolineato come il giovane intellettuale sardo si sia formato in un clima culturale nel quale la reazione all’ideologia scientista aveva finito per travolgere anche il marxismo, veicolato attraverso i canoni meccanicistici del determinismo della Seconda Internazionale. Il rifiuto del complesso di certezze progressive tipiche del positivismo «assunse i caratteri di una traduzione vitalistica dello scientismo (ad esempio Bergson) e di una ritraduzione idealistica del marxismo (specialmente in Croce, secondo l’interpretazione che ne propose lo stesso Gramsci)»18. Da ciò derivava l’originalità dell’approccio al marxismo di Gramsci nel panorama del socialismo italiano che, in controtendenza con le semplificazioni strutturaliste, riscattava il tema marxiano del rapporto complesso tra forze produttive e rapporti sociali.
Nuova era in Gramsci, soprattutto, la convinzione che i rapporti sociali non esaurissero il dominio delle forme, nelle quali si sviluppano le forze produttive, e che un’attenzione eguale o maggiore si dovesse rivolgere al mondo etico-istituzionale, in particolare alle forme «dello Stato, che è il corpo vivente e plastico della società», come egli scrive ne “L’Ordine Nuovo”19.
Secondo Losurdo quest’originalità si manifesta anche nel modo di interpretare il fascismo senza mai sottovalutare gli elementi nuovi che questa ideologia portava con sé innovando e sviluppando la forza operativa della rivoluzione passiva nella storia d’Italia, in un’epoca nuova e diversa come quella contraddistinta dalla cosiddetta “politica di massa”. All’interno di questa attenzione, gli studi attorno all’opera e alla funzione di Benedetto Croce assumono una centralità crescente nelle riflessioni gramsciane. Secondo Garin, nel parlare di Gramsci e Croce può configurarsi un parallelo fra i destini di due personalità nella cui produzione teorica è possibile rintracciare i segni profondi di uno dei periodi più drammatici della storia d’Italia.
Come è noto, nella formazione e negli scritti di Gramsci fino al 1920 è evidente se non esplicita, ma è negli anni del carcere che Gramsci conduce i suoi studi più rigorosi su Croce, nella convinzione che chiarirne le ombre e valorizzarne le acquisizioni più progressive sarebbe stato determinante nel quadro dell’Italia post-fascista. Come le testimonianze di Athos Lisa e Giovanni Cerasa hanno chiarito20, non solo Gramsci fu critico implacabile delle semplificazioni riconducibili al paradigma socialfascista, ma mai condivise l’ottimismo meccanicista di quanti consideravano prossimo il tramonto del fascismo e l’alba del socialismo. Al contrario, Gramsci prefigurò una transizione democratica, al cui interno i comunisti avrebbero dovuto assumere un complesso ruolo teso alla conquista egemonica21, per la cui prefigurazione era necessario aderire plasticamente alle peculiarità della specifica formazione sociale italiana con l’ambizione di comprendere e superare le sue più elevate manifestazioni culturali, tra le quali Gramsci collocava anzitutto la tradizione filosofica crociana. Come chiarito nelle famose note del Quaderno 7, «il compito era essenzialmente nazionale, cioè domandava una ricognizione del terreno e una fissazione degli elementi di trincea e di fortezza»22. In questa ricognizione, «la discussione con Croce è la discussione con l’ideologia che i marxisti troveranno dinnanzi nel periodo di transizione che terrà dietro alla crisi del fascismo»23. In questa sfida, che permea e innerva ogni pagina dei Quaderni del carcere, si configura il tentativo di mettere a fuoco la funzione degli intellettuali nella storia d’Italia e, al suo interno, la funzione centrale della filosofia di Benedetto Croce:
«analizzare criticamente l’opera del Croce indicata come la più rilevante nella cultura italiana prima del fascismo e destinata, con ogni probabilità, ad offrire i quadri intellettuali all’Italia post-fascista, se, come Gramsci pensava, la crisi del fascismo non sarebbe stata la rivoluzione socialista, ma un arretramento del fronte della lotta sulla linea delle libertà distrutte dal fascismo. È anzi probabile che proprio questa lucida previsione del futuro si collochi alla radice della doppia linea di sviluppo dell’indagine gramsciana: da un lato la critica serrata delle posizioni del Croce, presentate come sistematiche e interessate mistificazioni della filosofia della prassi; dall’altra, l’esigenza di fare i conti con la filosofia di Croce, ma per una resa dei conti, al di fuori di ogni alibi, e nel modo più ampio e approfondito possibile»24.
Come sappiamo, nelle Tesi del Congresso di Lione e nel saggio su La questione meridionale Gramsci indica in Croce il massimo rappresentante della rivoluzione passiva responsabile di aver ostacolato la democratizzazione reale del Paese, garantendo prima la conservazione dei vecchi equilibri contro il nuovo e poi, nel contesto di profonda crisi di egemonia del liberalismo successiva alla guerra, favorito l’avvento del fascismo. In proposito Frosini ha scritto che la posizione revisionistica assunta a fine Ottocento dal Croce, e conservata seppur con forme rinnovate nel nuovo secolo, assumeva per Gramsci una precisa funzione politica (ancora pienamente operativa durante il fascismo) di assoluta importanza per le dinamiche di modernizzazione passiva essenziali a ogni «rivoluzione-restaurazione»:
«Questa funzione può essere riassunta nell’esigenza di assorbire le spinte ribellistiche dei subalterni, decapitandone le organizzazioni grazie all’assimilazione dei loro intellettuali di riferimento. Con la critica a Marx, con la filosofia dello spirito, con la storia etico-politica e ora con la religione della libertà, Croce perseguiva sempre lo stesso scopo: il controllo dei tentativi di auto-organizzazione delle classi subalterne.
Tale scopo non era pertanto in contrasto con il fascismo, se non in modo superficiale»25.
L’anticomunismo, in sostanza, avrebbe spinto Croce verso il fascismo, concepito come una forma rivoluzione passiva rinnovata corrispondente al nuovo quadro storico, una diga di contenimento contro il pericolo bolscevico e una garanzia dei vecchi equilibri sociali passivi26. Tuttavia, come sottolinea Cingari nel suo denso e approfondito volume su Benedetto Croce recentemente pubblicato, nei Quaderni, Gramsci individua nel filosofo idealista la forma più elevata di cultura che andava «molecolarmente» svuotata della sua capacità di direzione, sostituendo una nuova egemonia, la filosofia della praxis, alla vecchia, in modo da rendere possibile una radicale riforma intellettuale e morale e dunque la sostituzione di un blocco sociale con un altro. Gramsci, insomma, sente la necessità di «sviluppare gli elementi immanentistici e storicisti del Croce, superandone le contraddizioni a esito “idealistico”, mosse dall’esigenza di sottrarre centralità alla questione sociale, ponendosi insomma il problema di un cambiamento che andasse al di là della sfera delle classi dirigenti»27.
Nonostante la sua importanza nella storia intellettuale italiana, secondo Mustè, il rapporto tra l’opera di Gramsci e quella di Croce è un nodo non del tutto sciolto e indagato per quanto meriterebbe. Le ragioni di questo insufficiente approfondimento sarebbero in parte riconducibili al mutamento del giudizio su Croce, palesatosi con la pubblicazione delle prime edizioni delle lettere e dei Quaderni, in un periodo storico (1947-1951) segnato da una crescente contrapposizione tra due blocchi in lotta che portò a «un’atmosfera ostile all’idealismo, presto ridotto ad “avversario di classe” o a “ideologia borghese”»28.
Tra il 1911 e il 1921 Croce è uno dei principali punti di riferimento filosofici di Gramsci, come testimoniato dalla lettera a Tatiana del 17 agosto del 1931 e dal passaggio del Quaderno 10 nel quale, parlando del numero unico de “La Città Futura” del 1917, definiva il suo approccio del tempo «piuttosto crociano»:
«La frequentazione del pensiero di Croce (che si accompagnò a quella di altri autori) crebbe, dunque, fin dal periodo liceale e certo si precisò con gli studi universitari a Torino, anche per la lezione di maestri come Annibale Pastore, Matteo Bartoli, Umberto Cosmo, Rodolfo Mondolfo. Con l’adesione al Partito socialista, maturata tra il 1913 e il 1914, Gramsci non congedò quel bagaglio culturale, ma (come è stato ben scritto) lo «incorporò» nel suo peculiare marxismo, cominciando ad attirarsi quelle accuse di idealismo da cui dovrà difendersi tra il 1924 e il 1926 e che, possiamo aggiungere, non lo abbandoneranno mai del tutto, neanche dopo la morte»29.
Dopo il 1921 l’influenza di Croce andò riducendosi sempre più, Gramsci tornerà a occuparsene solo ne La questione meridionale del 1926, saggio nel quale, secondo Mustè, il giudizio sul filosofo liberale appare incerto e quasi contraddittorio, perché per un verso gli si riconosce una «altissima funzione nazionale» per, come ha scritto Garin, «aver proposto una concezione laica del mondo»30, mentre per un altro egli è classificato come una delle figure più importanti della reazione italiana. La ragione di una simile interpretazione sarebbe secondo Mustè riconducibile a esigenze politiche, ossia al bisogno di non esporsi nuovamente alla critica di idealismo riemersa nuovamente al Congresso di Lione da parte dei bordighiani.
Dopo l’arresto, il primo riferimento al filosofo idealista si ritrova nella famosa lettera a Tania del 19 marzo 1927, in cui Gramsci espone il suo programma di lavoro per gli anni del carcere, dichiarando la volontà di approfondire il suo scritto sulla questione meridionale e sull’importanza di Benedetto Croce. Prima di poter iniziare questo lavoro passarono due anni, nei quali Gramsci ebbe modo di meditare e rivedere il giudizio espresso nel saggio del 1926, grazie alla rielaborazione dei concetti di egemonia e Stato integrale (società politica + società civile, etica e politica, forza+direzione, dominio+egemonia) rispetto ai quali l’influenza di Croce è evidente e dichiarata. Questo processo di revisione risulta decisivo sia per la definizione del marxismo come filosofia della praxis, sia per chiarire la portata della critica di Gramsci a Croce:
«La duplice critica al materialismo (Bucharin) e della posizione speculativa dell’idealismo (Croce) disegna la traiettoria del recupero della lezione di Antonio Labriola e di una nuova lettura dell’opera di Marx. È qui che la critica a Croce assume un contorno definito, con il rifiuto della dottrina delle categorie e con la negazione della tarda interpretazione di Marx come filosofi del «dio ascoso» della struttura economica. È qui che emergono le due categorie-chiave della riflessione di Gramsci, fra loro strettamente connesse: il blocco storico (che sarà abbandonata nelle note successive) e la traducibilità dei linguaggi scientifici e filosofici»31.
La stesura del Quaderno 10, iniziata nell’aprile del 1932, è preceduta da numerose riflessioni attorno alla figura di Croce di cui si ha traccia nei Quaderni precedenti e in diverse lettere in cui Gramsci sottolineava il suo interesse per un riordino sistematico di queste note, come avverrà appunto con il primo Quaderno speciale intitolato La filosofia di Benedetto Croce. Mustè chiarisce bene la travagliata genesi di questo Quaderno e della triangolazione tra Gramsci, Tania e Sraffa, dalla quale si evince che l’intellettuale sardo si occupò de La storia d’Europa prima ancora di ricevere l’opera, pertanto, non ci soffermiamo oltre, rimandando alle pagine di questo importante saggio recentemente pubblicato32.
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Dialettica e filosofia della praxis
Il diverso modo di intendere la dialettica costituisce uno dei più importanti snodi teorici nella storia del movimento operaio di ispirazione marxista. Se per intellettuali come Bernstein la concezione dialettica della storia sarebbe frutto di un metodo aprioristico e arbitrario (un'astuzia filosofica, un mero artifizio metafisico)33, per tutto un altro filone di pensiero (da Engels a Lenin, da Lukács a Gramsci) la dialettica è invece il cuore pulsante del materialismo storico ciò che lo rende una teoria viva e dinamica34. In altri tempi si arrivò ad affermare che solo chi ha studiato in profondità Marx può comprendere appieno Hegel35; come sappiamo Lenin arrivò invece alla conclusione opposta, disponendosi allo studio della sua filosofia mosso dalla convinzione che per comprendere organicamente Marx fosse necessario penetrare il pensiero del filosofo tedesco36.
Dentro questo lungo e denso dibattito, nel panorama del socialismo italiano, Antonio Labriola rappresenta un caso a parte sia per la sua peculiare formazione filosofica, sia per il suo ruolo teorico di rilievo al centro del dibattito più avanzato in seno alla Seconda Internazionale rispetto al tema del marxismo come visione organica e autonoma del mondo.
«Sotto l’aspetto teorico il Labriola considerava la concezione materialistica della storia come autosufficiente. Questa concezione aveva in sé tutte le forze necessarie per i suoi ulteriori svolgimenti senza levarsi il cappello alle altre filosofie, senza rivolgersi né a destre né a sinistra. Il Turati invece era di derivazione positivistica e così pure la gran parte dei socialisti italiani di quel tempo»37.
Labriola, allievo del grande filosofo Bertrando Spaventa, si formò nella Napoli protagonista della seconda fioritura dell’hegelismo. Egli si avvicinò a Marx avendo già nel suo bagaglio filosofico una profonda conoscenza della dialettica38. In questo processo di avvicinamento al marxismo vengono spesso indicate fasi significative e date di svolta, tuttavia, gli studi convergono nel ritenere che Labriola fosse approdato al socialismo anzitutto partendo da esigenze politiche, solo in un secondo momento rafforzate sul piano teorico. «La biografia di Labriola dice che il primo filosofo marxista italiano incontrò dapprima il socialismo come azione, come prassi politica disgiunta dalla “filosofia” quale egli l’aveva fino ad allora intesa; non certo senza esserne in qualche misura convinto, diceva nel 1886 a Carducci, di avere abbandonato, dedicandosi alla politica attiva, il passato e di non fare più il filosofo»39. Proprio per la sua peculiare formazione e concezione filosofica, Gramsci ritenne Labriola un costante punto di riferimento per il rinnovamento del marxismo, quasi un antidoto contro i limiti teorici del socialismo tra Ottocento e Novecento40.
Come è noto, l’hegelismo meridionale raggiunse il massimo della sua efficacia solo dopo la morte dei suoi protagonisti, «quando i loro maggiori discepoli ideali, Croce e Gentile, ne ripubblicano gli scritti e ne vanno ravvivando la memoria. Lo stesso Antonio Labriola stese le cose più significative sotto l’incitamento del Croce, che volle farsene addirittura editore»41. Secondo Eugenio Garin, la cultura filosofica meridionale in cui si formò Labriola affondava le sue radici oltre Vico e Telesio, arrivando sino a Tommaso Campanella. Dentro questa tradizione, la sintesi hegeliana pareva adattarsi perfettamente alla «robustezza speculativa»42 della tradizione meridionale; tuttavia, nella lettura di Augusto Vera, il più importante rappresentante dell’hegelismo in Italia, la stretta osservanza dell’ortodossia hegeliana finiva per perdere di vitalità dialettica esaurendosi nel terreno della teologia. Al contrario, secondo Garin, De Sanctis e Spaventa contribuirono al rinnovamento della tradizione hegeliana italiana, gettando le basi del suo futuro sviluppo nella filosofia della praxis di Labriola e Gramsci. Sebbene De Sanctis non possa essere ricondotto in maniera rigorosa all’hegelismo, la sua Storia della letteratura italiana si inseriva nel solco di una visione storico-politica che aveva profondi punti di contatto con la concezione del filosofo tedesco. A sua volta, Bertrando Spaventa, sempre problematicamente proteso verso le contraddizioni della realtà politica a partire da una sistematica e dialettica concezione della storia, fu il protagonista di un’autentica liberazione teorica dalle ingessature e «dalle linee sistemiche dell’hegelismo ortodosso»43, rimettendo nelle arterie del dibattito intellettuale italiano i fermenti più vitali di questa tradizione filosofica.
Alla storia dell’hegelismo napoletano, con le varie sue eredità filosofiche, Losurdo dedicò un efficace saggio di approfondimento sottolineando quanto, proprio sulla scia di questa tradizione, l’intellettuale sardo avesse contribuito a suscitare tra i giovani de «L’Ordine Nuovo» un vivo interesse sui rapporti di dipendenza tra la dottrina di Marx e l’idealismo filosofico. La convinzione attorno al legame organico tra Hegel e Marx trae sicuramente alimento nella lettura di Labriola, tuttavia, secondo Losurdo, «Il suo Hegel sembra presupporre anche quello dei fratelli Spaventa, i quali hanno svolto un ruolo di grande rilievo in una di quelle rivoluzioni liberali che i Quaderni del Carcere mettono in connessione con l’influenza del filosofo idealista»44:
«Discepolo dei fratelli Spaventa, Labriola esercita a sua volta una notevole influenza su Gramsci che da lui riprende la stessa definizione che dà del suo orientamento teorico e politico come «comunismo critico». Qualche altro spunto del pensiero di Silvio e Bertrando può aver ricavato Gramsci dall'assidua frequentazione dei testi di Croce e Gentile. Ci si deve porre però il problema di vedere se e in che misura può aver agito direttamente sul pensatore e dirigente comunista se non la lezione teorica dei due fratelli, in ogni caso l'esempio morale di un altro pensatore e dirigente rivoluzionario qual è Silvio Spaventa. (…) se Labriola dichiara di essersi “convertito lentamente al socialismo” grazie anche al “rifiorire napoletano dell'hegelismo”, Gramsci non si stanca di insistere, in tutto l'arco della sua evoluzione, sul fatto che “il socialismo critico poggia graniticamente sull'idealismo germanico” culminante in Hegel e che “il marxismo si fonda sull'idealismo filosofico”»45.
Ripercorrendo i momenti essenziali nella formazione del marxismo gramsciano, Togliatti, in una celebre intervista del 195346, affermò che per il materialismo storico italiano il pensiero di Spaventa avrebbe svolto la stessa funzione rinnovatrice di Feuerbach47. Per questa ragione, la transizione intellettuale dall’idealismo al materialismo di Labriola sarebbe analoga a quella di Marx e Engels. In questo solco Togliatti collocava pure il percorso di chiarificazione teorica di Antonio Gramsci, non casualmente ripetutamente accusato di essere un idealista dai suoi critici e avversari, tanto per i suoi trascorsi crociani quanto per la sua concezione antideterminista sulla centralità dei rapporti egemonici48.
Non solo l’iniziale influenza idealista, ma anche l’interesse per Lenin nel giovane Gramsci si spiegano con il rigetto della cultura positivista tipica del socialismo italiano49. Nelle note del Quaderno 10 è lo stesso Gramsci a ricordare l’importanza di questa influenza richiamando un suo corsivo del 1917 sullo scritto di Croce Religione e serenità50:
«(…) io scrissi che come l’hegelismo era stato la premessa della filosofia della praxis nel secolo XIX, alle origini della civiltà contemporanea, così la filosofia crociana poteva essere la premessa della filosofia della praxis nei giorni nostri, per le nostre generazioni. La quistione era appena accennata, in una forma certo primitiva e certissimamente inadeguata, poiché in quel tempo il concetto di unità di teoria e pratica non era chiaro in me ed io ero tendenzialmente piuttosto crociano»51.
Pur riconoscendo l’immaturità delle sue posizioni giovanili, Gramsci riteneva utile riprendere e sviluppare nuovamente in forma critica quell’esigenza, ossia: «rifare per la concezione filosofica di Croce la stessa riduzione che i primi teorici della filosofia della praxis hanno fatto per la concezione hegeliana». Al fondo di questa operazione, Gramsci segnalava l’esigenza di riscattare il marxismo dalle volgarizzazioni del positivismo edificando una nuova
«cultura integrale che abbia i caratteri di massa della Riforma protestante e dell’illuminismo francese e abbia i caratteri di classicità della cultura greca del Rinascimento italiano, una cultura che riprendendo le parole di Carducci sintetizzi Massimiliano Robespierre ed Emanuele Kant, la politica e la filosofia in una unità dialettica intrinseca ad un gruppo sociale non solo francese o tedesco ma europeo e mondiale»52. Secondo l’intellettuale sardo, per costruire una visione del mondo critica e coerente capace di contendere il terreno della lotta egemonica al liberalismo, era necessario elevare il marxismo italiano al punto più avanzato raggiunto dal pensiero filosofico, riscattandolo dalle semplificazioni del socialismo economicista53:
«Bisogna che l’eredità della filosofia classica tedesca sia non solo inventariata, ma fatta ridiventare viva e operante, e per far ciò occorre fare i conti con la filosofia di Croce, cioè, per noi italiani essere eredi della filosofia classica tedesca significa essere eredi della filosofia crociana, che rappresenta il momento mondiale odierno della filosofia classica tedesca»54.
Gramsci attribuisce alla filosofia di Croce una grande importanza tanto da suggerire sulla sua opera un lavoro analogo a quello compiuto da Marx ed Engels su quella di Hegel e, contemporaneamente, la stesura di un Anti-Croce capace di svolgere la stessa funzione che l’Antidühring assunse per le nuove leve del marxismo prima della guerra. Il limite maggiore di Croce, secondo Gramsci, consisteva nel ritenere che il marxismo non riconoscesse il momento dell’egemonia arrivando, pertanto, a trascurare o eludere il tema della direzione culturale. Nella sua giustificata reazione al determinismo economico, Croce avrebbe finito per confondere il materialismo storico con la sua forma volgarizzata. La sua vis polemica nichilista verso il materialismo storico è per Gramsci una reazione al meccanicismo fatalista del determinismo; tuttavia, al di là di equivoci e forzature interpretative strumentali, egli ebbe il merito di aver rivalutato sul terreno della lotta e dell’organizzazione politica il “fronte di lotta culturale”, elaborando la dottrina dell’egemonia e ampliando il campo concettuale della scienza politica oltre la semplice identificazione del rapporto Stato-forza.
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Dal liberalismo al comunismo critico
Se Losurdo definisce il percorso di formazione di Gramsci nella transizione dal liberalismo al comunismo critico, secondo Rapone «non si può concludere che Gramsci inizi il suo percorso intellettuale e politico da liberale; il ricavato dei prestiti che egli contrae con l’idealismo dei pensatori liberali del primo Novecento italiano viene messo a frutto per elaborare una visione politica socialista che rivela certamente spiccate peculiarità, ma pur sempre all’interno della prospettiva di azione e delle finalità strategiche del movimento operaio di classe»55.
Scrive Rapone che la stessa adesione al socialismo di Gramsci trova il suo snodo teoretico in una concezione del divenire storico nella quale, contro ogni determinismo meccanicista, viene riscattato il ruolo protagonistico dell’uomo attivo e cosciente, inteso come prodotto e forza propulsiva del movimento storico. A questa considerazione ne aggiunge un’altra: questo insistere sulla funzione dell’uomo soggetto creatore della storia si sviluppa nel giovane Gramsci in antitesi non solo con il positivismo, ma anche e soprattutto con ogni concezione provvidenziale e trascendentale, in tal senso il socialismo si pone come stimolo al rinnovamento del pensiero capace di ricollocare l’uomo con il suo concreto operare sul trono del divenire storico. In tal senso, la modernità teoretica in opposizione alla visione del mondo cattolica, e con essa contro ogni forma di apriorismo, trova un suo punto di riferimento essenziale nello storicismo e nell’idealismo inteso come emancipazione dell’uomo dalla trascendenza divina. Tale esigenza, chiarisce Rapone, mai avvicina le posizioni di Gramsci all’anticlericalismo militante, né alle banalizzazioni della questione religiosa ampiamente presenti nel movimento socialista.
«I riferimenti all’idealismo non segnalano dunque un’inclinazione di carattere meramente accademico o speculativo, ma si legano alle dinamiche di lotta politica in cui Gramsci è impegnato (…) Per questa ragione l’idealismo tedesco, avendo rivelato l’energia racchiusa nel pensiero e il potenziale di autodeterminazione dell’individuo, è per Gramsci il fondamento su cui poggia graniticamente il socialismo critico: in questo senso e per questo aspetto esso costituisce il retroterra della posizione socialista»56.
Il tema del rapporto tra Gramsci e il liberalismo, oltre a essere abbastanza controverso, non ha dato luogo ad approfondimenti sistematici totalmente soddisfacenti. In proposito, nel suo intervento al Convegno Internazionale Gramsci e il Novecento, svoltosi a Cagliari nel 1997, Paolo Bonetti richiamò la reazione provocata dalla pubblicazione nel 1980 del suo saggio Gramsci e la società liberaldemocratica. In un quadro segnato dalla crisi tanto dell’eurocomunismo quanto del socialismo reale sovietico, il trionfo del paradigma liberaldemocratico condusse la nuova scolastica liberale a presentare Gramsci come un autore impresentabile e inattuale, catalogandolo tra i relitti totalitari di un tempo storico superato. In tal senso, sottolineò Bonetti, ci si prese la briga di andare a vedere i testi di Gramsci per concludere che egli non si occupò degli intellettuali liberali, eccezion fatta per Einaudi e Croce. Il suo «rifiuto dell’individualismo economico», la sua «filosofia della storia», la sua concezione degli intellettuali e il disinteresse per il costituzionalismo rendevano Gramsci un autore, in quanto illiberale, totalmente inadeguato. Tuttavia, al di là del generale scarso interesse della cultura italiana verso la tradizione del pensiero liberaldemocratico, la sua analisi critica dello Stato liberale italiano dal Risorgimento al fascismo, con le sue contraddizioni congenite, le debolezze immanenti, l’incompleta transizione verso la modernità (istituzionale, parlamentare ed economica), era tutt’altro che meccanica o superficiale e non si limitava alla contrapposizione fra liberalismo e comunismo. Dunque, un’indagine condotta non da un punto di vista estrinseco, ma dall’interno della stessa tradizione liberale, a partire dai suoi valori, in modo da «aprire la strada a una rivoluzione che si presenta spesso, nonostante il suo carattere dichiaratamente totalitario, come il tentativo di realizzare, in una dimensione collettivistica e non più individualistica, un’integrale applicazione dei principi liberali»57.
Gramsci, come Marx del resto, non intese fare del socialismo un becchino della società borghese, ma il suo erede. In tal senso si pose in termini dialettici, concependo l’avvento del nuovo ordine come superamento del vecchio, non la sua semplice negazione. Così, anche in una fase storica segnata dalla grave crisi del liberalismo italiano, disposto a mettere da parte le proprie istituzioni e i suoi valori ideali pur di impedire il cambiamento dell’ordine sociale, Gramsci concepisce il socialismo all’interno di un processo ascendente e progressivo apertosi con la distruzione del vecchio ordine feudale, trovando in Hegel il filosofo che con maggior sistematicità ha saputo concettualizzare il trapasso dal vecchio Stato patrimoniale per caste chiuse al moderno Stato etico. In questo senso, secondo Bonetti, il problema del nuovo ordine si pone come «rovesciamento-prosecuzione» di quello vecchio:
«Al disfacimento morale della borghesia e alla perdita della sua funzione storica progressiva, Gramsci contrappone un’altra strada verso la libertà, non quella anarchico nichilista della decadenza borghese, l’avventurismo irresponsabile dei “dilettanti della vita”, ma la costruzione paziente, per opera della grande massa e delle sue organizzazioni, di un comunismo inteso come “umanismo integrale”, vale a dire un tipo di società e di civiltà in cui l’organizzazione collettiva diventa strumento di liberazione anche individuale, mezzo per costruire una vita più sicura, espansione della personalità e incremento delle forze produttive “per il benessere e la felicità e non per l’avventura e la perversione”»58.
In contrapposizione tanto al meccanicismo determinista nelle sue varianti riformiste e radicali quanto al sovversivismo reazionario della piccola borghesia, Gramsci inscrive la sua complessa concezione del rapporto tra «vecchio» e «nuovo» nei processi di transizione storica a partire dalla centralità della dialettica hegeliana tra le fonti del marxismo:
«giudicare tutto il passato filosofico come un delirio e una follia non è solo un errore di antistoricismo, perché contiene la pretesa anacronistica che nel passato si dovesse pensare come oggi, ma è un vero e proprio residuo di metafisica perché suppone un pensiero dogmatico valido in tutti i tempi e in tutti i paesi alla cui stregua si giudica tutto il passato. L’antistoricismo metodico non è altro che metafisica. Che i sistemi filosofici passati siano stati superati non esclude che essi siano stati validi storicamente e abbiano svolto una funzione necessaria: la loro caducità è da considerare dal punto di vista dell’intero svolgimento storico e della dialettica reale; che essi fossero degni di cadere non è un giudizio morale o di igiene del pensiero, emesso da un punto di vista «obbiettivo», ma un giudizio dialettico-storico. Si può confrontare la presentazione fatta da Engels della proposizione hegeliana che «tutto ciò che è razionale è reale e il reale razionale», proposizione che sarà valida anche per il passato»59.
Secondo Bonetti, se non è corretto fare di Gramsci un liberale, «non c’è dubbio che i suoi rapporti con la società liberaldemocratica sono di rovesciamento-prosecuzione»60, assumendo nel suo processo di formazione intellettuale una enorme serie di temi caratteristici delle tradizioni culturali e filosofiche borghesi per reinterpretarle e superarle dialetticamente attraverso una nuova e originale visione del mondo, la filosofia della praxis. Gramsci fu sempre «nettamente contrario al protezionismo»61: non casualmente il suo primo formale atto di partecipazione politica fu proprio l’adesione al Gruppo sardo della Lega antiprotezionista di Attilio Deffenu nel 191362. Dietro al protezionismo l’intellettuale sardo intravedeva la moneta di scambio e il fondamento organico su cui si reggeva il «blocco storico» garante dell’ordine sociale tradizionale, con tutte le sue forme insane di dominio e sfruttamento della miseria agraria.
Secondo Losurdo, «Gramsci inizia in qualche modo da liberale»63, tuttavia, pur partendo dalle stesse premesse teoriche, Gramsci supera il neoidealismo dei suoi primi punti di riferimento filosofici sul piano politico:
«Tanto più fascinosa appare questa evoluzione dal liberalismo al «comunismo critico» per il fatto che essa fa da oggettivo contrappunto all’evoluzione di non pochi intellettuali che, sempre sull’onda dei medesimi avvenimenti e a partire dalle medesime sfide teoriche, intraprendono una marcia di avvicinamento al fascismo, talvolta aderendovi (è il caso di Gentile), talaltra fermandosi alla soglia dell’adesione, talaltra partecipando comunque all’elaborazione di temi e motivi ideologici successivamente ereditati dal fascismo»64.
Nuovamente, la differenza riguarda il modo il modo di filosofare di fronte alle questioni concrete poste dalla storia. In tal senso, Losurdo ha sottolineato il rapporto simpatetico, non puramente intellettuale, tra Gramsci e le masse subalterne frutto delle esperienze concrete che lo hanno segnato nella sua terra di origine. La lotta per l’emancipazione, non solo dei subalterni della sua Isola, ma anche dei «popoli infelici delle colonie, bollati e trattati come barbari e incivili dalle periodiche crociate della vecchia Europa», cui rivolge la sua attenzione il giovane Gramsci65, rappresenta sin dall’inizio il movente dei suoi interessi culturali. Ciò vale non solo per la fase nella quale Gramsci intraprende il suo cammino nel movimento socialista scegliendo il terreno ideologico del materialismo storico, ma anche per la sua iniziale forte attrazione verso autori situati nel campo liberale come Croce e Salvemini e quella immediatamente successiva nei confronti di Gentile.
La tesi di Losurdo è che, prendendo le mosse dal Risorgimento e dalle polemiche contro il Sillabo in difesa di Hegel e della modernità, Gramsci intraprende il suo cammino da liberale senza che ciò risulti contraddittorio con il suo crescente interesse per Marx, la cui lettura iniziale risulta fortemente mediata proprio dall’interpretazione crociana66. Tuttavia, il dato importante risiede nel fatto che il rapporto con l’idealismo italiano non risponde a esigenze di tipo accademico, ma «rinvia a reali lotte politico-sociali»:
«Croce e Gentile sono da Gramsci messi in rapporto con l’Italia scaturita dal Risorgimento: ad osteggiarli sono gli ambienti clericaleggianti, che nella Sardegna (e nell’Italia) del tempo costituiscono una forza decisiva della conservazione con la paura che essi stimolano nei confronti d’ogni mutamento sociale, bollato in anticipo come un pauroso salto nel buio. Questi ambienti vedono in Hegel la loro bestia nera e, assieme alla sua filosofia, intendono respingere il moderno. Senonché nella lotta tra il sillabo e Hegel, è Hegel che ha vinto. È la vittoria non semplicemente di un filosofo bensì di uno sviluppo storico e di un mondo storico reale che nel sistema del pensatore tedesco ha trovato la sua espressione teorica. (...) È soprattutto la vittoria della coscienza storica che nella situazione data rifiuta di vedere e subire una natura immodificabile»67.
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La lotta per la modernità e contro la conservazione
L’iniziale influenza della filosofia liberale non impedì a Gramsci di cogliere il salto storico provocato dalla Rivoluzione russa. Se nel clima infuocato delle polemiche clericali legate al Sillabo, Hegel e il liberalismo rappresentavano la premessa per addivenire alla sovversione dell’ordine tradizionale delle cose, ora, nel nuovo contesto segnato dall’assalto al cielo del 1917, è Lenin a rappresentare la lotta della modernità contro la conservazione: «il motto di due anni prima Hegel contra il Sillabo! ha assunto ora una nuova configurazione: Lenin contra il Sillabo! (…) chi continua a raccomandare la sottomissione delle masse agli Stati borghesi che le immolano come vittime sacrificali sull’altare della guerra è ancora impregnato di metafisica e di teologismo, è ancora al di qua della modernità nel suo senso più alto e più forte. Attraverso tappe successive, e attraverso un processo complesso e contraddittorio, la modernità si configura come una gigantesca rivoluzione contro il Sillabo. È una rivoluzione che vede l’affermarsi della soggettività libera, e questa soggettività libera afferma pienamente sé stessa nella lotta contro la fatalità della guerra e del suo rito sacrificale»68. Il comunismo è così interpretato come compimento della modernità, dunque può essere inteso come socialismo o «comunismo critico». L’allontanamento da Croce avviene secondo Losurdo proprio rispetto al giudizio sulla Rivoluzione d’Ottobre e sul ruolo del suo principale protagonista, che s’impongono nell’animo del giovane Gramsci spazzando via le ossificazioni dogmatiche del determinismo e la pretesa linearità storica, tradotta dalle scienze naturali, in ragione della quale si sarebbe passati dal modo sociale di produzione feudale a quello capitalistico e, solo dopo questo, al socialismo, come nell’evoluzione della specie si passa dalla scimmia all’uomo, per contraddizioni tutte interne alle leggi dell’economia, non per l’intervento attivo e consapevole delle grandi masse popolari. Secondo Losurdo «all’evoluzionismo positivistico Gramsci contrappone implicitamente uno Hegel che in quegli anni è al centro di un dibattito anche politico»69, essendo il bersaglio di un’offensiva che, a partire da Bernstein, lo vede responsabile dell’apriorismo immanente alla visione storica marxista. «In questi anni, dunque scrive ancora Losurdo -, la valutazione positiva o negativa della Rivoluzione d’ottobre passa attraverso la valutazione positiva o negativa della dialettica hegeliana»70. In tal senso, nel celebre La rivoluzione contro il Capitale del dicembre 1917, Gramsci coglie con sorprendente lucidità il dato saliente del primo “assalto al cielo” del Novecento presentandolo dentro una linea di continuità con la rivoluzione francese e la visione dialettica della storia di Hegel71.
Ma proprio su questo punto Losurdo segnala il paradosso, perché se per comprendere e giustificare la svolta dell’ottobre 1917 «Gramsci pensa di far intervenire il pensiero idealistico italiano»72, Croce e Gentile, sin dalla rivoluzione di febbraio, non perdono invece tempo né lasciano spazio ai dubbi, condannando senza appello i rivolgimenti russi definendoli in contraddizione con lo stesso materialismo storico:
«Se già prima della rivoluzione bolscevica, Hegel tende ad essere per Gramsci il filosofo che non solo esprime la modernità ma che teorizza anche il salto qualitativo e la dialettica rivoluzionaria, per Croce e Gentile Hegel è in realtà il teorico della guerra: le categorie dialettiche di discontinuità, salto qualitativo, lotta, eccetera, vengono impiegate dai due neoidealisti italiani sempre in relazione ai rapporti internazionali, al fine di negare l’ideale di pace perpetua, non già per pensare lo sviluppo all’interno della società e dello Stato e meno che mai per pensare una rivoluzione come quella bolscevica nata sull’onda della lotta contro la guerra»73.
Se Croce attribuisce a Marx il merito di aver stimolato la riscoperta antimetafisica di Hegel, egli trasferisce il concetto di lotta come forza motrice della storia dal terreno marxiano della dialettica tra le classi sociali a quella tra gli Stati. «Il conflitto e la guerra tra gli Stati sono l’analogo a livello internazionale della lotta di classe e della rivoluzione all’interno di un singolo paese. Croce e Gentile non nascondono la loro preferenza per la guerra»74. Una concezione che li avvicina alle posizioni che, con il retroterra salveminiano e quello nazionalista di Corradini, caratterizzano la svolta interventista di Mussolini e la sua transizione dal socialismo al fascismo. La lotta tra “nazioni proletarie” e “nazioni capitalistiche”, che avrebbe dovuto portare le “nazioni giovani” a sostituire le “nazioni decrepite” nella guida dell’umanità. Un concetto mutuato, in forma trasfigurata, dalla teoria del conflitto di classe di Marx, e traslato sul proscenio della politica internazionale in chiave nazionalista. Nel vivo della Prima guerra mondiale, all’ancora venticinquenne Gramsci (Lotta di classe e guerra, “Avanti!” ed. piemontese, 19 agosto 1916) non sfugge la pericolosità di tale operazione – premessa indispensabile della categoria di “spazio vitale” – che esprime la lotta politica attraverso la guerra, la conquista dei mercati, il «subordinamento economico e militare di tutte le nazioni a una sola, a quella che attraverso il sacrifizio del sangue e del suo benessere immediato, ha dimostrato di essere l’eletta, la degna»75.
Con la guerra e gli appetiti imperialistici che travolgono ogni resistenza politica e intellettuale, si scava un fossato tra Gramsci e il liberalismo, che considera le masse popolari materiale grezzo a disposizione delle classi dominanti, così come non riconosce ai popoli coloniali nessuna soggettività e capacità di autodeterminazione, ritenendo legittime l’occupazione delle loro terre, lo sfruttamento, e l’uso del dispotismo più brutale per il loro governo:
«Il discrimine tra borghesi e liberali da un lato e socialisti dall’altra viene individuato nell’assenza nei primi di un concetto di uomo veramente universale»76.
Al contrario, la Rivoluzione russa, tra i suoi tanti significati, ha rappresentato un punto di non ritorno nella storia mondiale proprio per il suo contenuto e impegno anticoloniale. In ciò, come spiega diffusamente Domenico Losurdo nell’ultimo lavoro della sua vita, si colloca il discrimine tra marxismo orientale e marxismo occidentale dopo Marx77. Così, in continuità con una elaborazione che trovò in Imperialismo fase suprema del capitalismo la sua sintesi più efficace, Lenin sottolinea la relazione strettissima e indissolubile tra la lotta per l’emancipazione dal dominio coloniale dei Paesi “orientali” e la sopravvivenza dello stato socialista, collocando nello stesso fronte e nella stessa sfera contro-egemonica le due realtà, in un contesto dominato dal fallimento delle rivoluzioni in Occidente78.
Secondo Losurdo, nel parteggiare incondizionatamente per l’emancipazione dal dominio coloniale, Gramsci mette in stato d’accusa la borghesia liberale del tempo non solo sul piano politico, ma filosofico-antropologico per la totale incapacità simpatetica e indisponibilità a fare i conti con «i problemi, le sofferenze e i diritti degli esclusi dalla civiltà e dall’Occidente. (…) La marcia del comunismo è in un certo senso la marcia dell’universalità»79. La rivoluzione borghese rappresenta una tappa fondamentale nel processo storico di emancipazione, ma solo nel comunismo essa assume carattere integrale e dunque il principio di universalità diventa reale e sostanziale. La presupposta eticità dello Stato liberale si scontra cioè con la sua poca propensione espansiva-inclusiva.
Ciò che distingueva maggiormente la borghesia nella sua fase rivoluzionaria era per Gramsci la sua capacità di includere altre classi sociali e dirigerle attraverso lo Stato, di esercitare l’egemonia politica e sociale. Mentre nel feudalesimo l’aristocrazia, organizzata come “casta chiusa”, non si poneva il problema di inglobare le altre classi, la borghesia si rivela ben più dinamica e mobile puntando all’assimilazione del resto della società al suo livello economico e culturale80. Questo muta profondamente la funzione dello Stato rendendolo “educatore”, anche attraverso la funzione egemonica del diritto nella società. La borghesia storicamente opera al fine di rendere omogenee (per costumi, morale, senso comune) le classi dirigenti e creare un conformismo sociale capace di consolidarne il potere, attraverso una combinazione di forza e consenso, in modo da tentare di irreggimentare e dirigere con schemi culturali propri anche le classi dominate. Ogni Stato è etico nella misura in cui opera per elevare l’insieme della popolazione a un livello culturale e morale confacente allo sviluppo delle forze produttive e agli interessi delle classi dominanti. Ma, per Gramsci, la effettiva eticità di uno Stato può realizzarsi solo raggiungendo la condizione di integrale “emancipazione umana”, ossia, con il sovvertimento delle relazioni tradizionali tra dirigenti e diretti e la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo81:
«La concezione di Hegel è propria di un periodo in cui lo sviluppo in estensione della borghesia poteva apparire illimitata, quindi l’eticità o universalità di essa poteva essere affermata: tutto il genere umano sarà borghese. Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominanti ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale»82.
Secondo Losurdo, la categoria di contraddizione oggettiva assume un ruolo centrale nella definizione della concezione di filosofia della praxis, mentre non ne aveva alcuno nella filosofia di Croce e Gentile. Ciò spiega perché la dialettica hegeliana è per Gramsci punto di riferimento irrinunciabile, mentre non lo è il neoidealismo dei due filosofi italiani, per quanto la loro funzione nella formazione intellettuale di Gramsci sia innegabile. Losurdo sottolinea come, di fronte alla delusione suscitata dalla filosofia di Croce, incapace di comprendere «la rivoluzione contro Il Capitale», Gentile sembrava inizialmente fornire più strumenti in grado di riaffermare il valore della politica di fronte alle riduzioni positivistiche del marxismo83. Ma non tarderà a manifestarsi in Gramsci, come nel giovane Togliatti, pure la disillusione verso Gentile, rispetto al quale rimaneva comunque una distanza in rapporto al significato della contraddizione oggettiva. «Il tener conto in modo corretto delle contraddizioni oggettive è il criterio per distinguere tra reale sapere storico da una parte e utopia/ideologia dall’altra»84. Per Gramsci la rivoluzione non può scaturire dalla pura iniziativa del soggetto, trovando la sua condizione preliminare indispensabile nella contraddizione oggettiva. Per questa ragione Losurdo respinge con forza il tentativo di ricondurre Gramsci e il gruppo dell’Ordine Nuovo a Giovanni Gentile o a Benedetto Croce, fino a «presentare gentilianesimo (fascismo) e gramscianesimo (comunismo) come due fratelli gemelli»85. In ragione della sua battaglia contro gli approcci deterministici e positivisti nel movimento socialista, Gramsci ha finito per essere considerato come un «metafisico del soggetto e della prassi soggettiva»86, tuttavia, secondo Losurdo, in Marx e Gramsci il tema della prassi non può in alcun modo essere pensato astraendo dal tema dell’oggettività materiale. Una questione non sufficientemente compresa nelle recenti interpretazioni culturaliste e postmoderne delle categorie di Gramsci.
È privo di senso ridurre a filosofia della soggettività creatrice la gramsciana filosofia della praxis, la quale si è costituita sì nella lotta contro la versione positivistica e meccanicistica del marxismo (contro coloro che condannavano la rivoluzione d’Ottobre agitando Il Capitale), ma anche nel corso della lotta intrapresa da Lenin contro le tendenze estremistiche e volontaristiche largamente presenti nella III Internazionale87.
Se, per un verso, Gramsci indica nella dialettica di Hegel la premessa filosofica più importante della filosofia della praxis, per un altro, egli denuncia lo snaturamento strumentale di questa concezione da parte della tradizione neoidealista italiana. Per questo, nelle note 41 del Quaderno 10, l’intellettuale sardo si fa beffe dello storicismo fasullo di Croce e di tutta quella lunga tradizione (liberale e conservatrice) che presenta la Rivoluzione francese come una fanatica e irrazionale negazione della storia88. Uno storicismo, che secondo Gramsci di scientifico non ha nulla, la cui unica funzione si riassume essenzialmente nelle esigenze della Restaurazione, riproposto integralmente in tutti i canoni ideologici del revisionismo che tentano di espungere la Rivoluzione dell’ottobre 1917 dalla storia del Novecento.
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Stato e questione nazionale
Secondo Losurdo, all’interno del marxismo novecentesco, Gramsci è un autore che si distingue per il suo approccio critico delle tendenze anarchiche ed escatologiche che farebbero coincidere meccanicisticamente la fine del dominio borghese con la distruzione del suo Stato:
«D’altro canto, l’attesa del dileguare dello Stato, del conflitto e, in ultima analisi, della politica rende privo di senso il problema dell’eredità che sta invece a cuore a Gramsci. Non stupisce allora che, pur tra tante oscillazioni e contraddizioni, egli si sia sforzato di ridimensionare, reinterpretare o mettere in discussione la tesi dell’estinzione dello Stato»89.
Nei Quaderni Gramsci scrive che la stessa retorica liberista dello Stato minimo e del primato del mercato si baserebbe su «un errore teorico» perché trasforma una «distinzione metodica» in «distinzione organica»90. Tuttavia, nemmeno questa riduzione elimina la regolazione statale, semplicemente la trasferisce alla società civile, ma, dato che questa e lo Stato si identificano, le funzioni di irreggimentazione e repressione del secondo continuano a sussistere e a essere operative anche quando sono esercitate dagli apparati privati e non direttamente da quelli statali91.
Il mito dell’estinzione statale accomuna il liberalismo all’anarchismo, ma è ampiamente presente pure nella tradizione del marxismo, tra le cui fila non è certo raro imbattersi in semplificazioni e condanne degli accidentati processi reali di transizione al socialismo proprio a partire da questa concezione92. Non solo nel mondo liberale, ma anche a sinistra, la principale accusa alla Rivoluzione d’ottobre (il suo presunto “tradimento”) sarebbe da ricercare nella mancata estinzione dello Stato. Al contrario, il moltiplicarsi delle sue funzioni e attività, necessarie a dirigere questo inedito processo storico, sarebbe l’origine della natura liberticida del «socialismo storico»93.
Contro tale concezione, Gramsci rifiuta l’identificazione del comunismo, della «società regolata» per usare la definizione dei Quaderni, con l’anarchia. In tal senso, scrive Losurdo, «i Quaderni del carcere sembrano riconoscere il debito nei confronti di Hegel allorché fanno risalire questa immagine di “Stato senza Stato” ovvero di “Stato etico”, il quale ha preso il posto dello Stato come organizzazione della violenza di classe, e in cui consiste il comunismo, ai maggiori scienziati della politica e del diritto e anche esplicitamente a Hegel. Il comunismo viene allora visto come la realizzazione di quella immagine che nell’autore della Filosofia del diritto rimane al livello di pura utopia, dato che prescinde dai colossali sconvolgimenti colossali che soli possono conferire concretezza»94.
Ma Gramsci non si limita a ridimensionare la tesi dell’estinzione dello Stato; egli ritiene che sul piano della battaglia delle idee la concezione in merito dell’anarchismo rappresenti un’estensione del liberalismo, più che del socialismo. In tal senso, Losurdo definisce le idee di Bakunin come «la radicalizzazione del liberalismo post-quarantottesco» che insiste con la stessa fobia del «dispotismo di Stato» con argomentazioni antigiacobine assai prossime a quelle di autori liberali come Tocqueville95. L’antigiacobinismo presente in Bakunin e Proudhon arrivò in gioventù a influenzare lo stesso Gramsci, attraverso Sorel. Tuttavia, una volta emancipatosi da qualsiasi legame teorico con quest’ultimo, l’intellettuale sardo criticherà radicalmente l’impostazione dei due teorici francesi, esattamente per loro ossessione verso i giacobini e il dispotismo statale.
L’insieme di questi problemi ha modo di palesarsi quando, con il fallimento delle rivoluzioni in Occidente e lo scatenamento dell’offensiva dei Paesi occidentali, la società sovietica si troverà di fronte al bivio tra due prospettive: consolidare il socialismo in URSS rafforzando la sua organizzazione statale o procedere sulla via della «rivoluzione permanente»96. Una biforcazione destinata a provocare la lacerazione del gruppo dirigente bolscevico e una frattura insanabile nel movimento comunista internazionale che, come è noto, spinse Gramsci a scrivere la famosa lettera al CC del PCR nella quale venivano censurati i metodi usati per liquidare l’opposizione a Stalin, pur affermando al contempo di riconoscersi nelle posizioni espresse dalla maggioranza97. Rispetto al dibattito, Gramsci condivideva le questioni di merito, prendendo tuttavia nettamente le distanze dai metodi “amministrativi” utilizzati dal gruppo dirigente capeggiato da Stalin e richiamando il Partito sovietico alla necessaria unità, indispensabile per il movimento comunista internazionale specie in una fase di riflusso come quella. Al di là della polemica sulle questioni di metodo nella conduzione della dialettica interna al gruppo dirigente bolscevico, Gramsci riteneva la linea di Trockij incompatibile con le prospettive del «Fronte unico» e ancora di più con il compito della conquista egemonica in Occidente. Sebbene sia estremamente diffusa la tendenza a presentare l'opera dei Quaderni, e segnatamente le teorie sull'egemonia, come un punto di profonda discontinuità tra Gramsci e Lenin, nelle note relative al passaggio dalla «guerra manovrata» alla «guerra di posizione» del Quaderno 7, l'intellettuale sardo attribuisce proprio a Lenin il merito di aver compreso la complessità degli assetti di dominio delle società occidentali capitalisticamente avanzate, indicando per primo alle classi subalterne il grande compito storico della conquista egemonica. Al contrario, la teoria della «rivoluzione permanente» di Trockij era, per Gramsci, il riflesso della teoria della guerra manovrata, dell'assalto immediato, vale a dire, il riflesso di un Paese nel quale le condizioni generali economiche, culturali e sociali, erano embrionali e poco sviluppate e dunque la classe dominante non era in grado di esercitare una sua egemonia politica e sociale.
La formula della «rivoluzione permanente» è sorta prima del 1848 come espressione scientificamente elaborata delle esperienze giacobine, e più in generale corrisponde a una fase di forte arretratezza della società, nella quale si ha un limitato sviluppo della società civile e degli apparati egemonici delle classi dominanti. In questa fase ancora non esistono i grandi partiti politici e i sindacati e si ha una maggiore autonomia nazionale delle economie e degli apparati statali-militari. Questa fase muta radicalmente nel 1870 con l'espansione coloniale europea, quando i rapporti organizzativi interni e internazionali degli Stati divengono più complessi e articolati; in questa fase, nella politica, si determina lo stesso mutamento avvenuto nell'arte militare e la formula della «rivoluzione permanente» viene superata dall'egemonia civile, vale a dire, si passa dalla guerra di movimento alla guerra di posizione. L'articolazione sia statale, sia di società civile, delle democrazie moderne è per l'arte politica paragonabile alle “trincee” e alle fortificazioni permanenti della “guerra di posizione” e si può dire che uno Stato vince una guerra in quanto la prepara tanto sul piano tecnico-militare, quanto su quello politico negli anni della pace. Ovviamente questo discorso riguarda solo gli Stati moderni ed avanzati e non i Paesi arretrati e le colonie.
La teoria di Trockij era dunque per Gramsci frutto di un’impostazione superficiale, sia sul piano nazionale, sia europeo, e solo la sua ostinazione gli fece credere che quanto da lui teorizzato al tempo della rivoluzione del 1905 si fosse poi realizzato quindici anni appresso98. Lenin aveva invece compreso che in Occidente, nel marzo 1921, dopo il fallimento delle prospettive rivoluzionarie e l'aprirsi di una fase di offensiva reazionaria, occorreva un mutamento dalla guerra manovrata alla guerra di posizione. La prima aveva avuto successo nella Rivoluzione russa del 1917, ma la seconda era a quel punto la sola possibile in Occidente, dove la società civile era assai sviluppata e le capacità egemoniche della classe dominante molto forti. Questo è per Gramsci il significato più immediato e importante della teoria del «fronte unico». Lenin era stato capace dell'intuizione ma non ebbe il tempo di svilupparla, anche perché secondo Gramsci avrebbe potuto farlo solo sul piano teorico, mentre il compito era essenzialmente “nazionale”, vale a dire, spettava ai partiti dei Paesi occidentali operare una profonda ricognizione del terreno e una fissazione degli elementi di trincea e di fortezza:
«In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell'Occidente tra Stato e società civile c'era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un'accurata ricognizione di carattere nazionale»99.
Nel paragrafo 68 del Quaderno 14, dedicato a Machiavelli100, Gramsci scrive che il compito della «classe internazionale», era pertanto studiare esattamente «la combinazione di forze nazionali» (quel che in altre note egli definisce gli elementi di trincea e casematte) sviluppandole anche in funzione delle esigenze internazionali. Può definirsi tale solo la classe dirigente capace di interpretare questa combinazione; per questo, conclude Gramsci, le accuse di nazionalismo di Leone Davidovici (Trockij) a Bessarione (Stalin) «sono inette se si riferiscono al nucleo della quistione»101. Se si studia tutto lo sforzo tra il 1902 e il 1917 dei «maggioritari» (i bolscevichi), prosegue Gramsci, si comprende come la loro originalità risiedesse esattamente nel «depurare l’internazionalismo di ogni elemento vago e puramente ideologico (in senso deteriore) per dargli un contenuto di politica realistica»102. L’egemonia si sostanzia nelle esigenze di carattere nazionale, pertanto una classe internazionale, per guidare strati sociali strettamente nazionali, deve nazionalizzarsi, perché secondo l’intellettuale sardo (anche a causa della sconfitta delle rivoluzioni in Occidente) non si erano oggettivate le condizioni mondiali per il socialismo, dunque sarebbero occorse molteplici fasi nelle quali le singole combinazioni nazionali potevano essere le più differenti. È interessante notare come Gramsci ricolleghi atteggiamenti «non nazionali» agli errori già compiuti dal meccanicismo determinista nella Seconda Internazionale, che produssero inerzia e passività nel movimento operaio, quando nessuno si riteneva nelle condizioni internazionali per dare l’avvio al processo rivoluzionario, e nell’attesa che anche gli altri lo fossero il movimento si limitava ad accumulare forze. Ora lo stesso atteggiamento «non nazionale» si ripresentava nella teoria della rivoluzione permanente, che egli definisce frutto di un «napoleonismo anacronistico e antinaturale»:
«Le debolezze teoriche di questa forma del vecchio meccanicismo sono mascherate dalla teoria generale della rivoluzione permanente che non è altro che una previsione generica presentata come dogma e che si distrugge da sé, per il fatto che non si manifesta effettualmente»103.
Per Gramsci, non solo la linea del «socialismo in un Paese solo» era doppiamente corretta, tanto per salvaguardia della realtà sovietica quanto per le prospettive delle rivoluzioni in Occidente, ma, in generale, al di là di questo dato ineludibile, essa imponeva il compito strategico della edificazione dello Stato socialista, non certo della sua estinzione.
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Conclusioni
Che la storia del campo ideologico in cui Gramsci ha militato per tutta la sua vita abbia palesato contraddizioni e limiti è fuori discussione, altrimenti i nostri ragionamenti sarebbero diversi e tratterebbero altre problematiche, senza dover partire da un dato di fatto ineludibile: la sconfitta storica del socialismo. Tuttavia, al di là dell’aderire o meno ai paradigmi di questa visione del mondo, il crescente interesse verso Gramsci testimonia una ricchezza di categorie e chiavi di lettura capaci di andare ben al di là delle finalità normative del suo pensiero. La diffusione internazionale delle categorie gramsciane scaturisce infatti da esigenze di comprensione della realtà concreta. Non si tratta, dunque, di uno studio finalizzato solo alla pura erudizione, bensì di un utilizzo finalizzato a comprendere e dare risposte ad alcune contraddizioni storiche fondamentali soggiacenti alla vita culturale, sociale e politica di realtà geografiche estremamente diversificate.
Anche tenendo conto di questo dato, tuttavia, una maggiore storicizzazione tanto del socialismo in generale quanto dei processi rivoluzionari che hanno infiammato l’Occidente nel Novecento aiuterebbe a comprendere meglio questo secolo segnato da grandi drammi, ma anche da conquiste epocali nella storia della lotta per l’emancipazione dell’umanità. Ogni rivoluzione, scontrandosi con la realtà concreta (con le azioni e reazioni previste o impreviste), finisce per creare un quadro nuovo sempre differente da quanto era stato precedentemente teorizzato e idealizzato. È inevitabile, così è stato per la Rivoluzione francese (ciò nonostante continuiamo a considerala un fondamentale atto di liberazione universale), così è per tutte le rivoluzioni liberali che, al di là dei principi, hanno finito per istituzionalizzare forme di povertà sconfinata, esclusioni e marginalizzazioni sociali aberranti e inumane, non certo messe in conto dai vari Constant, Locke, Smith e Bentham104. Esiste però una profonda differenza, sulla quale Domenico Losurdo più volte ha sollecitato la nostra attenzione: quando si dibatte dei teorici e dei protagonisti delle rivoluzioni socialiste inevitabilmente ci si concentra solo sulle contraddizioni dei processi reali da loro generati, mai sugli aspetti progressivi; quando facciamo riferimento invece ai teorici del pensiero liberale (“i classici”) parliamo dei valori universali di fratellanza e libertà individuale da loro teorizzati, mai della miseria, delle guerre di rapina e del dominio coloniale o della rigida divisione in classi, caratteristiche delle società liberali reali. Nel primo caso ci si sofferma solo sui limiti dei processi storici reali, nel secondo sulle petizioni di principio e le spinte ideali dei suoi pensatori105. Già nell’accettazione acritica di questa inversione dei termini del ragionamento si nasconde una chiara vittoria egemonica del pensiero liberale, sulla quale non si riflette mai abbastanza. Così, come ha scritto ancora Losurdo, non è assolutamente un caso se gli autori più amati a sinistra dopo il crollo del socialismo storico siano figure di rivoluzionari sconfitti, che non hanno avuto modo di partecipare alla gestione del potere, assumendosi la responsabilità di scelte non facili connesse alla transizione socialista. In questo modo si rimane fedeli ai valori del socialismo e critici del capitalismo, senza però prendere posizione sulle controverse vicende dei processi rivoluzionari del XX secolo. Per quanto Gramsci faccia parte di questo Pantheon, insieme a figure come Che Guevara e Rosa Luxemburg, per tutte le ragioni fin qui esposte, non possiamo che concludere con le parole di Losurdo, sottolineando i problemi di interpretazione del pensiero gramsciano che una simile collocazione inevitabilmente sollecita e, concretamente, ha generato negli ultimi decenni:
«Un tale approccio si rivela del tutto incapace di comprendere il pensiero e la personalità di Gramsci. Questi è stato anche un dirigente comunista di primo piano e non può essere trasformato in una sorta di Horkheimer o di Adorno italiano, impegnato a costruire una teoria critica senza rapporto o con un rapporto esclusivamente polemico col movimento comunista e col “movimento reale di trasformazione della realtà. (…) Gramsci s’impegna in uno sforzo di comprensione simpatetica del nuovo anche quando, agli occhi di un osservatore superficiale e ignaro della terribile complessità del processo rivoluzionario, esso appare tradire le ragioni stesse della sua nascita”»106.
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Auguri a tutti i compagni per ieri nel 104° dell'Anniversario del Grande Ottobre!
Paolo