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György Lukàcs: Storia e coscienza di classe ha 100 anni. Ma non li dimostra

di Laura Pennacchi

Laura Pennacchi, sullo sfondo di un suo viaggio memorabile a Budapest a fine anni ‘60 per conoscere Lukàcs, ci mostra la perdurante attualità di Storia e coscienza di classe, a 100 anni dalla pubblicazione, restituendoci la figura di un grande maestro e intellettuale. Da tenere a mente ancora oggi: la dimensione spirituale del potere; il ruolo della conoscenza e della soggettività; la progressiva reificazione del sociale e del naturale nel capitalismo, favorita dal convincimento della calcolabilità di tutto, dal dominio dell’economico e dall’alienazione degli individui da sé

7586bcdd7a745d843a3897512742ccdb XL.jpgSono passati cent’anni dalla pubblicazione, nel 1923, di Storia e coscienza di classe di György Lukàcs e a me sembrano un nulla, così come mi sembra un nulla il tempo trascorso da quando scopersi, alla fine degli anni ’60, quella che si era rivelata una delle più controverse, ma anche più influenti, opere del marxismo del Novecento. La sua straordinarietà derivava dal fatto che in quel testo il giovane Lukàcs aveva condensato elementi della comune riflessione con Rosa Luxenburg – la dialettica di movimento e scopi, la coscienza luogo privilegiato di maturazione, la prassi strumento in primo luogo educativo – in una teoria della storia e della società come totalità costruita attorno alla generalizzazione della “forma merce” (dalla cui concettualizzazione rimase influenzato anche l’Heidegger di “Essere e tempo”) e ai processi di “feticizzazione”, “reificazione”, “alienazione” che ne erano scaturiti, dando un rilievo cruciale agli elementi sovrastrutturali rispetto a quelli strutturali e facendo saltare la stessa distinzione tra struttura e sovrastruttura. L’enigma della merce sta nel fatto che un rapporto, una relazione tra persone viene reificata, riceve cioè il carattere della cosalità e quindi “un‘oggettualità spettrale’ che occulta nella sua legalità autonoma, rigorosa, apparentemente conclusa e razionale, ogni traccia della propria essenza fondamentale: il rapporto tra uomini”. Dall’ambito produttivo la struttura di merce si estende all’intera vita della società, diventa una categoria universale dell’essere sociale e le leggi che regolano il mondo delle cose e i rapporti tra le cose “pur potendo a poco a poco essere conosciute dagli uomini si contrappongono ugualmente ad essi come forze che non si lasciano imbrigliare e che esercitano in modo autonomo la propria azione”.

Il dispositivo della reificazione e dell’alienazione nasce dal lavoro (reificato e alienato) ma non si ferma ad esso, va al rapporto con la natura (che finisce con l’apparire un corpo estraneo da usare e saccheggiare) e con la specie umana, giacché è la vita stessa dell’uomo, trattata non più come fine ma come mezzo, a subire una drammatica amputazione e, assoggettata all’utilità in quanto legge che governa le merci e le cose, a contrapporsi al vivente.

In me la curiosità per Lukàcs era maturata seguendo nel 1969 il lungo seminario su “Il sinistrismo teorico degli anni ‘20” organizzato a “La Sapienza” da Alberto Asor Rosa, con Massimo Cacciari, Toni Negri, Mario Tronti. Il contatto con l’incandescente “materia storico-spirituale” contenuta in “Storia e coscienza di classe”(l’espressione è di G. Cesarale che introduce la nuova edizione di Storia e coscienza di classe, Pgreco, Milano 2022, mentre tutte le mie citazioni sono tratte dalla prima edizione italiana, Sugar Editore, 1967) mi spinse a dedicarvi la mia tesi di laurea in “Lettere e Filosofia” (erano tempi in cui all’Università ci si entusiasmava di tutto e si poteva fare di tutto …), nonostante le perplessità dei già citati organizzatori – “troppo eticismo”, dissero – e dello stesso Asor (mio relatore) che, tuttavia, da “buon cattivo maestro” quale amava definirsi, dopo aver verificato la solidità del mio convincimento, fu prodigo nel sostenermi. Fu così che, partita in treno da Roma uno dei primi giorni di agosto del 1970, mi ritrovai a Budapest, al tempo stesso spaventata e felice per la borsa di studio che grazie a un interscambio tra il Ministero degli Esteri italiano e quello della Cultura ungherese avevo avuto per incontrare Lukàcs in preparazione della tesi. Spaventata avrei dovuto esserlo molto di più: in realtà non mi rendevo bene conto che, per quanto l’Ungheria a quei tempi avesse fama di essere un paese del socialismo reale più aperto degli altri, avevo pur sempre varcato la vasta e temibile “cortina di ferro”. All’ufficio competente del Ministero della Cultura apparvero stupiti e imbarazzati dalla lettura delle carte della mia borsa di studio e, non sapendo cosa fare, mi tennero in attesa per tutta la giornata in una stanzetta buia e disadorna e, alla fine, si risolsero a dirmi che non avrei potuto incontrare Lukàcs il quale, in Germania per ricevere il premio Goethe, non sarebbe tornato a Budapest se non a settembre, quando, scaduta la mia borsa che durava 40 giorni, avrei dovuto essere già rientrata a casa. Mi dissero inoltre che sarei stata inviata per venti giorni all’Università di Keszthely sul Balaton per seguire un corso di “economia agraria”.

Nel lungo viaggio in treno attraverso l’Europa orientale avevo guardato alberi e case e fili della luce succedersi gli uni agli altri, pianure sterminate intervallate da montagne viola e colline verdi, cittadine colorate seguite da villaggi scuri e poveri. L’atmosfera sul Balaton non era diversa, un che di triste sembrava aleggiare su tutto, gli operai dalla DDR, in ferie con le loro famiglie, si gettavano silenziosi nelle acque torbide del lago che sembrava in molte parti un grande acquitrino. L’agosto fresco e il cielo spesso plumbeo mi riportavano continuamente alla mente il clima che doveva aver vissuto Lukàcs negli anni ’20 del primo dopoguerra quando esperienze decisive erano state ormai compiute e altre, ancora più terribili, si preparavano. Mi diveniva progressivamente chiaro che ciò che più mi attraeva del magma rielaborato da Luckàcs era proprio quanto era più criticato dai marxisti dell’”autonomia del politico”: nella sua rielaborazione la convinzione originaria secondo cui “il potere di ogni società è essenzialmente un potere spirituale e da esso ci può liberare soltanto la conoscenza” (p. 325) era stata portata fino ad estreme conseguenze, consistenti nell’identificare il fondamento di un processo rivoluzionario in futuro vittorioso nella “riforma della coscienza” (p. 321), Qui, con la riabilitazione della coscienza e della soggettività, avvertivo che si era giocata una partita decisiva intorno a quella che già agli esordi del Novecento aveva voluto configurarsi come un’esaltazione della “morte del soggetto”. Non per caso, grosso modo nello stesso arco di tempo, Rosa Luxemburg, in carcere per la Rivoluzione spartachista dei consigli del 1919, poco prima di essere assassinata aveva scritto che “la cosa principale è essere buoni, semplicemente essere buoni, è ancora più importante di avere ragione …” e Lukàcs aveva vagheggiato il miracolo della bontà, “qualcosa come una conoscenza degli uomini che irradia penetrando in tutto e in cui soggetto e oggetto vanno a coincidere”

Tornata a Budapest feci amicizia con dei giovani studenti i quali, messi al corrente della infruttuosità fin lì della mia ricerca, senza tanti complimenti mi spiegarono che i burocrati ungheresi si erano presi gioco di me, nascondendo sotto la falsità di un suo impossibile viaggio in Germania, la loro precisa volontà di impedirmi di incontrare Lukàcs e di mantenerlo nell’isolamento a cui da molti anni lo avevano condannato. Fu così che, trovato con l’aiuto dei ragazzi su un semplice elenco telefonico l’indirizzo dell’abitazione di Lukàcs, la raggiunsi con un taxi, salii al quinto piano, e suonai al campanello, inaspettatissima ospite. L’anziana governante che mi venne ad aprire ascoltava senza capire le mie convulse parole in francese, quando, dal fondo del corridoio, un omino piccolo e canuto mi venne incontro, ascoltò quel che dicevo, lesse le lettere di presentazione che avevo con me, e concluse serafico: “io il pomeriggio lavoro e studio, ma la mattina la dedico a discutere con gli studenti, venga domattina e poi per vari giorni avremo modo di parlare, dans notre mauvais francais, di tante cose”. Il francese mauvais era il mio, non certo il suo, ma questo non impedì a me per tutta una settimana di fargli una miriade di domande e a Lukàcs di rispondere con tenace pacatezza e incredibile serenità. Manifestando il suo appassionato interesse ai movimenti giovanili che in quegli anni riempivano le piazze di tutto il mondo e il suo instancabile autointerrogarsi sulla fase che stavamo infine vivendo, manteneva ferma la autocritica all’idealismo di “Storia e coscienza di classe” pervaso da un “messianismo etico”, ma non gli sfuggiva quanto la sua teoria della “forma merce” avesse influenzato, insieme a L’uomo a una dimensione di Marcuse, l’esplosione del ‘68 e quelle successive.

Il Lukàcs ormai talmente anziano da essere prossimo alla morte – morì nel 1971, l’anno successivo – non disconosceva le problematiche del feticismo, della reificazione e dell’alienazione nate dalla sua giovanile teoria della merce. Il giovane Lukàcs aveva derivato direttamente da Marx la sua teoria del feticismo della merce, così come aveva mutuato da Weber la sua visione della razionalizzazione quantitativa capitalistica, la sua intrinseca “calcolabilità” (anche se con me l’anziano Lukàcs minimizzò l’importanza di Weber per la sua formazione: “non c’è nulla di Weber – mi disse – che non ci sia già in Marx che mi abbia influenzato”). Aveva compiuto, però, una mossa in più: aveva correlato “feticismo” e “calcolabilità” dando a entrambi un carattere più ampio. Il connubio operato tra Marx e Weber, infatti, gli aveva consentito lo slancio per investire pienamente della forza della razionalizzazione quantificatrice, oltre alla sfera produttiva, quella riproduttiva: la sovrastruttura ideologica, la letteratura, il diritto, l’economia politica, la filosofia. È tutto ciò che aveva suscitato grande scandalo nei marxisti ortodossi dell’epoca e nei successivi: questo tipo di modello interpretativo vedeva luxenburghianamente la contraddizione fondamentale del sistema di produzione capitalistico come contraddizione del capitale stesso e poneva l’elemento portante della socializzazione capitalistica non nel rapporto antagonistico di classe tra capitale e lavoro, ma nella struttura di merce in sé, la quale porta a una fortissima integrazione tra “economico” e “sociale” e al dominio dell’“economico”.

Nel compiere questa analisi Lukàcs aveva fatto emergere fin dagli anni ’20 elementi importanti anche per il presente. Infatti, tanto più oggi il senso della sua teoria della reificazione consiste nella scoperta delle “forme mediatrici della coscienza” all’interno della “costruzione di una società articolata in senso puramente economico”, posto che il capitalismo è “il primo ordinamento di produzione che tende ad una completa assimilazione economica della società nella sua interezza”. Il processo di razionalizzazione da una parte provoca una perdita di connessione tra esperienze empiriche diverse, dall’altra “si trasforma in una riunione obiettiva di sistemi razionalizzati parziali, la cui unità è determinata soltanto calcolisticamente e che debbono quindi presentarsi in una reciproca accidentalità”. La divisione sociale del lavoro fa saltare la differenza “tra l’operaio di fronte alla singola macchina, l’imprenditore di fronte a un certo tipo di evoluzione delle macchine, il tecnico di fronte allo stato della scienza”, differenza “puramente quantitativa, e non direttamente una differenza qualitativa nella struttura della coscienza” (p.127/128). Pertanto, il giovane Lukàcs aveva colto sia il soggiacimento di tutte le classi alla reificazione, sia un elemento fondamentale di quel processo di proletarizzazione che contraddistingue la società del capitalismo moderno, vale a dire che anche il lavoro più spirituale è ridotto a merce. Al tempo stesso non aveva deviato dalla sua ricerca umanistica: “la vita dell’uomo come uomo nel suo riferirsi a sé stesso, agli altri uomini, alla natura, può diventare vero contenuto di vita dell’umanità. L’uomo come uomo è socialmente nato” (p. 315).

Nella grande e vecchia casa in riva al Danubio l’aria immota di agosto faceva risuonare le parole con cui Lukàcs si chiedeva dove mai fosse finita nella nostra contemporaneità la “figura della crisi”: “Gli ultimi trent’anni del secolo – diceva – sono stati gli anni del capitalismo senza crisi e, quel che più conta, senza spiegazione da parte marxista del perché non ci sia crisi. Si può forse dire – aggiungeva – che viviamo una situazione preideologica come la viveva la classe operaia prima di Marx. La differenza tra oggi e allora è che però Marx è effettivamente esistito: se con Blanqui non era possibile costituire un forte movimento operaio, oggi, dopo Marx, questa possibilità esiste e tuttavia non diviene reale”. A quel tempo io non avevo ancora capito la grandezza di Beveridge, di Keynes, del welfare state, non seppi quindi fornirgli il materiale argomentativo relativo alla incredibile capacità dinamica di morfogenesi del capitalismo, non contradditoria con le sue pulsioni autodistruttive e anzi alimentata da esse. Del resto, di lì a poco, nel 1974, arrivò il primo shock petrolifero restituente la sua pregnanza alla parola “crisi”, ma Lukàcs non fece in tempo a vederlo. La sua analisi, però, racchiudeva molti strumenti per interpretare l’incipiente neoliberismo, che tuttavia, caduto il suo pensiero nell’oblio, rimasero inutilizzati. Vedemmo poi che la tarda modernità genera una ulteriore forma di alienazione, basata sullo sfaldamento dei confini tra reale e virtuale, la confusione tra vero e falso, la seduzione di un consumo infinito, il primato attribuito all’apparire e la separazione dai propri bisogni autentici. Ma capimmo anche che l’alienazione ha profondamente a che fare con il valore, il significato, la libertà, la vita sociale e istituzionale: dunque, nel suo legame con il concetto e la prassi della libertà, quello di alienazione continua a proporsi come concetto squisitamente moderno, anzi, per riprendere le parole di Rahel Jaeggi, come “autocritica del moderno” in quanto ridotto a “relazione in assenza di relazione”.

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Franco Trondoli
Wednesday, 20 September 2023 09:53
Gilles Deleuze:
Spinoza Materialista.
"Spinoza propone ai filosofi un nuovo modello: il corpo. Egli propone di istituire il corpo come modello: «Nessuno sa ciò che può il corpo…». Questa dichiarazione di igno­ranza è una provocazione: noi parliamo della coscienza e dei suoi decreti, della volontà e dei suoi effetti, dei mille mezzi per muovere il corpo, per dominare il corpo e le pas­sioni ‒ ma non sappiamo affatto ciò che può un corpo. Parliamo a vuoto, invece di conoscere. Come dirà Nietzsche, ci si stupisce di fronte alla coscienza, ma «ciò che è sorprenden­te è piuttosto il corpo…».

Tuttavia, una delle più celebri tesi teoriche di Spinoza è conosciuta sotto il nome di parallelismo: essa non consiste soltanto nel negare ogni rapporto di causalità reale fra la mente e il corpo, ma vieta ogni eminenza dell’una sull’al­tro. Se Spinoza rifiuta ogni superiorità dell’anima sul cor­po, ciò non è per instaurare una superiorità del corpo sul­l’anima, che d’altronde non sarebbe affatto più intellegibile. Il si­gnificato pratico del parallelismo appare nel rovesciamento del principio tradizionale sul quale si fonda la morale come impresa di dominio delle passioni da parte della coscienza: se il corpo agisse l’anima patirebbe, si sosteneva, e l’anima non potrebbe agire senza che il corpo non patisca a sua vol­ta (regola del rapporto inverso, cfr. Descartes, Trattato delle passioni, artt. 1 e 2). Al contrario, secondo l’Etica, ciò che è azione nell’anima è anche necessariamente azione nel cor­po, ciò che è passione nel corpo è anche necessariamente passione nell’anima. Nessuna eminenza di una serie sul­l’altra. Che cosa intende dire, dunque, Spinoza quando ci invita a prendere il corpo come modello?

Si tratta di mostrare che il corpo va oltre la conoscenza che se ne ha, e che nondimeno il pensiero oltrepassa la coscienza che se ne ha. Non vi sono meno cose nella mente che oltrepassa­no la nostra coscienza che cose nel corpo che sorpassano la nostra conoscenza. È dunque per un solo e medesimo mo­vimento che arriveremo ad afferrare la potenza del corpo al di là delle condizioni date della nostra conoscenza e a co­gliere la potenza della mente al di là delle condizioni date della nostra coscienza. Si cerca di acquisire una conoscenza delle potenze del corpo per scoprire parallelamente le capacità della mente che sfuggono alla coscienza, per poter comparare le potenze. In breve, il corpo, secondo Spinoza, non impli­ca alcuna svalorizzazione del pensiero in rapporto all’e­stensione, ma, cosa assai più importante, una svalorizza­zione della coscienza in rapporto al pensiero, una scoperta dell’inconscio, e di un inconscio del pensiero, non meno pro­fondo che l’ignoto del corpo.

Il fatto è che la coscienza è naturalmente il luogo di un’il­lusione. La sua natura è tale che essa accoglie degli effetti, ma ignora le cause. L’ordine delle cause si definisce in que­sto modo: ogni corpo nell’estensione, oppure ogni idea od ogni mente nel pensiero, sono costituite da certi rapporti caratteristici che sussumono le parti di questo corpo, le par­ti di quell’idea. Quando un corpo «incontra» un altro cor­po, un’idea un’altra idea, talvolta accade che i due rapporti si compongano per formare un tutto più potente, talora ac­cade che l’uno decomponga l’altro e distrugga la coesione delle sue parti. Ed ecco ciò che è prodigioso nel corpo come nella mente: questo insieme di parti viventi che si compon­gono e si decompongono secondo leggi complesse. L’ordi­ne di queste cause è dunque un ordine di composizione di rapporti, che affetta all’infinito l’intera natura. Ma noi, in quanto esseri coscienti, non comprendiamo mai altro che gli effetti di queste composizioni e decomposizioni: provia­mo gioia quando un corpo incontra il nostro e si compone con esso, quando un’idea incontra la nostra e si compone con essa, e proviamo tristezza quando, al contrario, un cor­po o una idea minaccia la nostra propria coerenza. Siamo in una situazione tale che afferriamo solamente «ciò che ac­cade» al nostro corpo, «ciò che accade» alla nostra anima, cioè l’effetto di un corpo sul nostro, l’effetto di un’idea sul­la nostra. Ma ciò che è il nostro corpo sotto il suo proprio rapporto, e la nostra anima sotto il suo proprio rapporto, e gli altri corpi e le altre anime o idee sotto i loro rispettivi rapporti, e le regole secondo le quali tutti questi rapporti si compongono o si decompongono ‒ di tutto questo noi non sappiamo nulla all’interno dell’ordine dato della nostra conoscenza e della nostra coscienza. In breve le condizioni al­l’interno delle quali conosciamo le cose e prendiamo co­scienza di noi stessi ci condannano a non avere che delle idee inadeguate, confuse e mutile, effetti separati dalle loro pro­prie cause. È questo il motivo per cui non dobbiamo asso­lutamente immaginare che i neonati siano felici, o che il primo uomo fosse perfetto: ignoranti delle cause e delle na­ture, ridotti alla coscienza degli eventi, condannati a subire degli effetti la cui legge sfugge loro, essi sono schiavi di qualsiasi cosa, angosciati e infelici, a misura della loro im­perfezione (nessuno più di Spinoza si è scagliato contro la tradizione teologica di un Adamo perfetto e felice).

In che modo la coscienza placa la propria angoscia? Co­me può Adamo immaginarsi felice e perfetto? Attraverso l’operazione di una tripla illusione. Poiché non raccoglie che degli effetti, la coscienza va colmando la propria igno­ranza rovesciando l’ordine delle cose, prendendo gli effetti per cause (illusione delle cause finali). La coscienza fa, dell’ef­fetto di un corpo sul nostro, la causa finale dell’azione del corpo esterno; e fa, dell’idea di questo effetto, la causa fi­nale delle sue proprie azioni. Di conseguenza, essa pren­derà se stessa per causa primaria e invocherà il suo potere sui corpi (illusione del libero arbitrio). E quando la coscienza non può più immaginarsi causa primaria, né organizzatri­ce dei fini, essa invoca un Dio dotato di intelletto e volon­tà, operante secondo cause finali o decreti liberi, per pre­parare all’uomo un mondo a misura della sua gloria e dei suoi castighi (illusione teologica). Non è sufficiente dire che la coscienza si fa delle illusioni: essa è inseparabile dalla triplice illusione che la costituisce, illusione della finalità, il­lusione della libertà, illusione teologica. La coscienza è sol­tanto un sogno ad occhi aperti. «È così che un bambino crede di desiderare liberamente il latte, un giovane in col­lera di volere liberamente la vendetta, un pauroso la fuga. Così, persino l’ubriaco crede di dire per libera decisione della mente quelle cose che, fuori da quello stato, vorrebbe aver taciuto».

Inoltre occorre che la coscienza stessa abbia una causa. Capita a Spinoza di definire il desiderio come «l’appetito con coscienza di se stesso». Ma precisa che si tratta sola­mente di una definizione nominale del desiderio, e che la coscienza non aggiunge nulla all’appetito («noi non tendia­mo ad una cosa […] per il fatto che la riteniamo buona, ma, […] al contrario, giudichiamo che una cosa sia buona, perché tendiamo ad essa»). Occorre dunque pervenire ad una definizione reale del desiderio che mostri, al tempo stesso, la «causa» da cui la coscienza è come scavata nel processo dell’appetito. Ora, l’appetito non è nient’altro che lo sforzo con cui ogni cosa cerca di perseverare nel suo esse­re, ogni corpo nell’estensione, ogni anima od ogni idea nel pensiero (conatus). Ma poiché questo sforzo ci spinge ad agire differentemente secondo gli oggetti incontrati, dicia­mo che si tratta di un istinto determinato dalle affezioni che ci vengono dagli oggetti. Sono queste affezioni determinan­ti che sono necessariamente cause della coscienza del conatus. E dato che le affezioni non sono separabili dal movimento con cui esse ci fanno passare da una perfezione più gran­de a una minore (gioia, tristezza), a seconda che la cosa incontrata si componga con noi oppure, al contrario, ten­da a decomporci, la coscienza appare come il sentimento continuo di un tale passaggio, dal più al meno, dal meno al più, testimone delle variazioni e determinazioni del co­natus in funzione degli altri corpi o delle altre idee. L’og­getto che conviene con la mia natura mi determina a for­mare una unità superiore che ci comprenda, lui ed io. Quello che non si accorda con me compromette la mia coesione, e tende a dividermi in sottoinsiemi che, al limi­te, entrano sotto certi rapporti inconciliabili con il mio rapporto costitutivo (morte). La coscienza è come il pas­saggio, o meglio il sentimento del passaggio, da queste to­talità meno potenti a totalità più potenti, e inversamente. Essa è puramente transitiva. Ma non è affatto la proprie­tà del Tutto, né di alcun tutto in particolare; essa non ha che un valore di informazione, necessariamente confusa e mutila. Qui, di nuovo, Nietzsche è strettamente spinozista quando scrive: «La grande attività principale è inconscia; la coscienza di solito non appare che laddove il tutto desideri subordinarsi ad un tutto superiore; essa è princi­palmente la coscienza di questo tutto superiore, della real­tà esteriore a me; la coscienza nasce in rapporto all’essere di cui noi potremmo esser funzione, essa è il mezzo di incorporarlo".
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Michele Castaldo
Monday, 18 September 2023 17:21
Cara compagna Laura,
da operaio autodidatta e appassionato degli ideali del comunismo ho speso una vita nell'impegno politico e nello studio fra le classi proletarie e nello studio. Di Luàcs ho letto solo commenti e citazioni e confesso che il tuo articolo potrebbe fare da sfondo per promuovere un seminario per una seria discussione sulla fase e - innanzitutto - questa crisi.
Ho qui appuntato solo alcuni concetti chiave che non trovano spazio in una sinistra ormai allo sfilacciamento totale e perciò allo sbando.
Se diciamo che «[...] i rapporti tra le cose “pur potendo a poco a poco essere conosciute dagli uomini si contrappongono ugualmente ad essi come forze che non si lasciano imbrigliare e che esercitano in modo autonomo la propria azione” » vogliamo ammettere che le leggi del modo di produzione capitalistico si impongono alla volontà dell'uomo e lo rendono vittima di intessere rapporti tra merci fino a mercificare l'uomo stesso. In questo modo tutta la teoria sulle classi e la lotta di classe si nullifica. E dovremmo a lungo riflettere, perciò.
Sicché «il fondamento di un processo rivoluzionario in futuro vittorioso nella “riforma della coscienza” » è metafisica pura, l'abbia detto Lukàcs o chiunque altro. Se poi diciamo con Gramsci e Lukàs che « aveva vagheggiato il miracolo della bontà, “qualcosa come una conoscenza degli uomini che irradia penetrando in tutto e in cui soggetto e oggetto vanno a coincidere” » rimaniamo nell'ambito della volontà che nega l'impersonalità dei ruoli del modo di produzione e conseguentemente l'ipotesi rivoluzionaria fondata su una classe come soggetto portante.
Se diciamo che «“il primo ordinamento di produzione che tende ad una completa assimilazione economica della società nella sua interezza”. » vogliamo affermare che il capitalismo è un moto universale in cui tutto si tiene o niente si tiene. Ma allora dobbiamo deciderci a definire bene cosa è realmente questo benedetto moto storico che Marx definì modo di produzione capitalistico neo Grundrisse.
E quando Lukàcs dice che «La divisione sociale del lavoro fa saltare la differenza “tra l’operaio di fronte alla singola macchina, l’imprenditore di fronte a un certo tipo di evoluzione delle macchine, il tecnico di fronte allo stato della scienza”, differenza “puramente quantitativa, e non direttamente una differenza qualitativa nella struttura della coscienza” » non riesce ad andare fino in fondo, ovvero ad assorbire la tesi di Hegel sulla doppia (tripla, quadrupla, quintupla e ecc.), ovvero a sistematizzare un sistema fatto di interrelazioni. Esattamente quello che tu qui dici: «Pertanto, il giovane Lukàcs aveva colto sia il soggiacimento di tutte le classi alla reificazione, sia un elemento fondamentale di quel processo di proletarizzazione che contraddistingue la società del capitalismo moderno, vale a dire che anche il lavoro più spirituale è ridotto a merce. ».
Pertanto affermare che « La differenza tra oggi e allora è che però Marx è effettivamente esistito: se con Blanqui non era possibile costituire un forte movimento operaio, oggi, dopo Marx, questa possibilità esiste e tuttavia non diviene reale”. » oggi andrebbe spiegato perché un movimento del proletariato non esiste.
E visto che citi Cacciari, Tronti - discorso a parte meriterebbe Asor Rosa - dovremmo appuntare la nostra attenzione sulla differenza tra la lotta degli operai di piazza Statuto a Torino e quella dei quarantamila quadri nel 1980 sempre a Torino per stabilire il comportamento durante una di espansione dell'accumulazione capitalistica - Piazza Statutp 1962 - e una fase di crisi e ristrutturazione capitalistica in cui gli operai si comportano come i girasoli che guardano il sole. Altrimenti non riusciamo in alcun modo a uscire dalla nostra attuale crisi.
Attenzione cara compagna Laura perchè c'è un terreno molto scivoloso sul quale il mondo del liberismo ci invita a scendere, quello del sostantivo che viene sbandierato come emblema dell'Occidente: la Libertà. Perché il Comunismo è stato sempre attaccato e criminalizzato in quanto « negazione della Libertà » con riferimento ai paesi trascinati nel vortice di un moto-modo di produzione che per sottrarsi saòlle grinfie colonialiste e cercare di entrare a pieno titolo nell'agone del mercato, dovettero centralizzare le risorse, mentre i paesi colonialisti e imperialisti poterono sviluppare una straordinaria accumulazione schiavizzando i propri simili mentre il Comunismo diede la terra ai propri simili e si illuse - questo si - di poter sviluppare un'economia sociale, una produzione e distribuzione di tipo comunistico. E allora che vuol dire « [...] la prassi della libertà, quello di alienazione continua a proporsi come concetto squisitamente moderno, [...].?
Oggi è il liberismo che si ripropone ancora una volta sotto l'insegna della Libertà dell'individuo e dell'individualismo fino a concedere anche che ....si il capitalismo ha commesso crimini, ma è il migliore dei mondi possibili proprio quando si sta avviando verso la catastrofe grazie alle sue leggi.
Michele Castaldo
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