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Marx, l’ecologia e il comunismo per Kohei Saito

Il ritorno dell’alternativa socialismo o barbarie

di Matteo Pirazzoli

saito.jpgKohei Saito è uno studioso marxista giapponese che con i suoi scritti su Marx e l’ecologia ha venduto centinaia di migliaia di copie nel suo paese. Il libro pubblicato in Giappone non è al momento disponibile in lingue europee, ma molti dei saggi principali dell’autore sono presenti nel testo Marx in the Anthropocene: Toward the Idea of Degrowth Communism (Cambridge: Cambridge University Press, 2023). Pubblichiamo in anteprima la recensione al libro, parte del numero 6 di Egemonia che uscirà nelle prossime due settimane. Questo lavoro non parla direttamente dell’importanza strategica della classe lavoratrice per il movimento ecologistica, ma rappresenta un’indagine delle condizioni di possibilità teoriche e metodologiche di tale alleanza. Esse non sono per nulla scontate, soprattutto se si considera la storia del movimento comunista del secolo scorso e i suoi difficili rapporti con concetti quali «crescita» e «ambientalismo».

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Soggetto e oggetto nella prassi trasformativa della natura

A partire dallo studio degli appunti di Marx posteriori all’edizione del primo libro del Capitale Saito indaga come il Moro abbia approfondito studi scientifici e naturalistici, conferendo alla questione ecologica un’importanza rilevante nell’analisi del capitalismo, in un panorama di parziale revisione del suo metodo che lo ha portato a studi più attenti delle società pre-capitalistiche da un lato e, dall’altro, a un approfondimento sulle implicazioni ideologiche e non puramente tecniche dello sviluppo delle forze produttive sotto il dominio del capitale.

Tali studi sono tanto più importanti se si pensa alle critiche delle istanze ecologiste portate avanti da studiosi che si rifanno al marxismo come Harvey (Saito 2023:110-11), Zizek (Ivi:117) o Moore (Ivi:118). Pur partendo da punti di vista differenti, questi studiosi criticano quel che pensano essere il catastrofismo ecologico di molti marxisti, individuando in tale atteggiamento un dualismo inconciliabile tra società e natura, escludendo l’uomo più o meno storicamente determinato. Contro un preteso dualismo società/natura proprio del marxismo, gli autori appena menzionati risentono tutti in maniera differente della letteratura post-marxista di intellettuali come Castree e Latour che tentano di dissolvere la differenza “natura-cultura” attraverso un’ontologia peculiare e dai risvolti politici controversi. Se il primo «nega l’esistenza di una natura indipendente dall’essere umano» (Ivi:73) affermando l’unilaterale rapporto società-natura secondo cui le nuove tecnologie oggi permetterebbero la produzione della natura da parte dell’uomo, il secondo pensa che il soggetto agente sulla natura non possa più essere considerato l’uomo, bensì che «l’agency dev’essere ridistribuita tra le “cose”» (Ivi:116) equiparando macchine, uomini e anche agenti “naturali” in un concetto ibrido e indifferenziato di soggetto agente. Le conseguenze politiche di tali punti di vista sono evidenti: nella misura in cui la natura è prodotta dall’uomo, allora i cambiamenti climatici possono essere controllati da uno sviluppo tecnologico futuribile che almeno possa modificare i limiti naturali. Moore crede così di rifarsi a Marx, se non di correggerlo, riprendendo Latour e cercando di affermare la storicità di società umana e natura eliminandone la differenza contro ogni dualismo, senza tuttavia arrivare all’unilateralismo di Castree, istituendo un rapporto pseudo-dialettico attraverso la sua world ecology che «vuole analizzare il processo storico mondiale in cui uomini e natura incessantemente si co-producono vicendevolmente» (Ivi:114). Contro ogni neo-malthusianesimo, tale rapporto biunivoco di co-produzione tra uomo e natura porrebbe la possibilità secondo Moore di pensare a una natura flessibile e adattabile e, con essa, l’uomo. Sempre a questo genere di monismo e possibilità infinita/indefinita di allargare le maglie del metabolismo naturale si rifarebbero Harvey e Zizek impauriti dallo spettro di Malthus, come anche gli accelerazionisti di sinistra e del comunismo opulento e anti-lavorista per cui, secondo le parole di un loro teorico, Bastiani, «le nostre ambizioni devono essere prometeiche poiché la tecnologia a nostra disposizione già ci fa dèi» (Ivi:137). Questi ultimi in particolare ricavano una visione prometeica del marxismo a partire dal famoso «frammento delle macchine» dei Grundrisse, da cui effettivamente lo sviluppo delle forze produttive del capitale appare come l’elemento che di necessità porterebbe al comunismo, dato che una progressiva automazione renderebbe inutile il lavoro umano, dunque la produzione di merci a partire dall’estrazione di plusvalore (Ivi:144-45). Ora, non solo è evidente a tutti che lo sviluppo tecnologico capitalista non allenta le maglie dello sfruttamento del capitale, restringendole piuttosto a causa dell’aumento della sovrappopolazione operaia, ma si vedrà a breve come Saito analizzi le modalità con cui il pensiero di Marx si modifica radicalmente, abbandonando ogni prometeismo tecnologico nella stesura de Il Capitale, dove si sottolinea come invece lo sviluppo della tecnologia sia influenzato dai rapporti di produzione entro cui essa viene utilizzata. Ciò che importa ora sottolineare è come a partire da un’ontologia post-moderna (Latour, Castree) che elimina ogni distinzione uomo/natura, dunque ogni vincolo naturale allo sviluppo delle forze produttive, siano germinati anche in campo marxista elementi prometeici che o radicalizzano istanze anti-malthusiane negando ogni indipendenza dell’oggetto/natura dal soggetto/uomo-tecnologico, o si legano a certi passaggi dei Grundrisse per postulare l’univocità della causalità tecnologia-cambiamenti sociali (e naturali). Contro queste teorie Saito si rifà alla scuola marxista del metabolic rift (rottura metabolica) ancorando lo studio del rapporto uomo-natura anche ad una seria ricerca filologica dei testi di Marx.

 

La rottura metabolica: un’analisi marxista del rapporto società/natura

I tentativi unilaterali appena riassunti per ricomporre l’unità tra società/storia umana e natura, per quanto criticabili e assolutamente insufficienti, non sono storicamente casuali: essi esprimono le difficoltà in cui il marxismo si è imbattuto nel tracciare la dinamica storia/natura. L’opera di Saito inizia cercando di analizzare le reali distanze tra Engels e Marx su questo punto, esagerate dalla tradizione interpretativa del marxismo occidentale per distanziarsi dal dogmatismo del Diamat sovietico. Ora, per Marx l’uomo non produce ex nihilo, ma a partire da una materia naturale che è il suo habitat e che egli può trasformare, non creare: questo processo è comune a ogni società umana ed è necessario per la riproduzione biologica della specie, ma le modalità sociali con cui il mondo materiale viene trasformato attraverso il lavoro mutano storicamente e, con esse, le strutture sociali che accompagnano i differenti modi di produzione. Saito nota così che già Mészáros si era accorto che tra uomo e natura vige una doppia mediazione: «il metabolismo tra uomini e natura è […] a un tempo un processo storico-sociale, di cui le forme concrete variano sostanzialmente in accordo al rapporto strutturale [di produzione] che esiste in differenti tempi e luoghi» (Ivi:20). Da un lato vi è la riproduzione biologica di trasformazione della natura per mezzo del lavoro, una prima mediazione, mentre dall’altro vi sono le forme storiche concrete in cui tale lavoro è organizzato socialmente. Mészáros può parlare così di un secondo ordine di mediazione storico-culturale dell’uomo con la natura, ma si potrebbe dire in realtà che di ciò si erano già accorti autori come Hegel che a proposito della storicità dei costumi sociali umani parlavano di “seconda natura”. In questa relazione a più livelli si inserisce il concetto di rottura metabolica di Marx. Attraverso la lettura dei quaderni di appunti scientifici redatti dal Moro presi in considerazione dalle Mega 2, Saito studia come la lettura di scienziati e di storici che hanno preso in considerazione i disastri naturali nelle società antiche siano importanti. In particolare, a partire dagli anni ’80 del XIX secolo, Marx legge con attenzione gli studi Liebig sul consumo del suolo da parte dell’agricoltura intensiva, chiamata «agricoltura predatoria [robbery agricolture]» (ibid.), o le analisi di storici come Fraas che evidenziano come già nelle civiltà antiche gli eccessivi disboscamenti avessero causato locali cambiamenti climatici con conseguenze problematiche per la popolazione (Ivi:62). Liebig introduce il concetto di metabolismo per spiegare le tempistiche con cui la terra può rigenerarsi per non perdere la sua fertilità, di contro alla necessità capitalistica di una produzione intensiva in vista della continua accumulazione e che non solo non rispetterebbe il metabolismo naturale, ma cercherebbe di alterarlo attraverso dei fertilizzanti chimici che, se nel breve periodo possono dare risultati, tuttavia nel lungo impoveriscono ancor di più i terreni. Tale processo sociale e naturale è chiamato metabolic shift, che non è altro che un tentativo di evitare la rottura metabolica da parte della società, ottenendo però il risultato inverso, quello di peggiorarla. Da qui nasce il metabolic rift del capitale con la natura: i tempi di riproduzione del capitale non rispettano i tempi metabolici della natura e nella misura in cui la seconda mediazione storico-sociale è feticizzata, non vista nei suoi risvolti storici ma naturalizzata, il capitalismo non può accorgersi costitutivamente di tale rottura, riproducendo le ideologie di cui sopra e che riducono la natura alla società, perdendo di vista la dinamica dialettica tra le due.

Qui sta la differenza tra Engels e Marx, secondo Saito, non tanto nella distinzione netta tra natura e uomo, come vorrebbe il marxismo occidentale: se Marx dà valore al concetto di metabolismo ripreso da Liebig, conferendogli un valore dialettico generale, Engels lo critica. Engels tende a feticizzare il rapporto negativo dell’uomo con la natura proprio del capitalismo, pensando che tale sia la configurazione di ogni rapporto allorquando le leggi sociali siano agite senza coscienza da parte della popolazione: di qui la necessità della pianificazione economica e della coscienza delle leggi che regolano natura e società, tutti elementi che può garantire solo il socialismo (Ivi:209). A partire dallo studio delle società pre-capitalistiche teutoniche di Maurer (Ivi:64), Marx sottolinea invece come si siano date nella storia sia società in grado di conciliare il proprio metabolismo sociale con quello naturale, come le società comunali contadine tedesche, sia popolazioni che anche nell’antichità sono arrivate alla rottura metabolica (Fraas): la rottura metabolica non è una condizione a-storica dell’uomo che lasciato a sé distruggerebbe la natura e sé stesso, bensì è frutto di condizioni storicamente e spazialmente determinate e che vanno studiate attraverso il metodo della relazione dialettica tra metabolismi. Di ciò ne era ben cosciente Lukács che in Storia e coscienza di classe, lungi dall’affermare una netta separazione tra storia sociale e natura, si interessa piuttosto di studiare come il fenomeno storicamente determinato del feticismo delle merci, dell’estraniazione capitalistica, riduca tutto al carattere quantitativo/cumulativo della produzione, perdendo di vista la qualità della stessa, dunque anche il rapporto con l’oggetto/natura. Ciò porta a confondere il metabolismo sociale con quello naturale e alla feticizzazione di certe caratteristiche della cultura capitalista che, come visto, sono trappole in cui in parte cade anche lo stesso Engels. Lukács segnala come quest’ultimo non sempre si accorga di utilizzare metodi di misurazione e valutazione storicamente determinati (Ivi:85) che portano le tracce del “metabolismo capitalista”. In questo senso Engels tende ad assumere una teoria del metodo dell’esperimento scientifico, che porta le tracce del produttivismo capitalistico proprio della grande industria, come oggettiva valutazione dei fenomeni naturali, senza accorgersi che così facendo si riduce il metabolismo naturale a quello sociale, rompendo quel metodo dialettico che invece assicura la dinamica tra metabolismi individuata da Marx.

 

La critica allo sviluppo delle forze produttive di Marx e il comunismo della decrescita di Saito

Il metodo di Marx, dunque, non separa nettamente natura e società: esse sono un tutt’uno. Lo sviluppo sociale allorquando arrivi a un grado storico di sviluppo tale da modificare essenzialmente l’ambiente circostante dev’essere trattato come un elemento a sé, in certa misura autonomo, seppur sempre all’interno di una totalità comprendente anche il metabolismo naturale. Ciò che importa è la storicità della relazione società-natura viste in una totalità in sé articolata, dove la distinzione tra gli elementi è necessaria da un punto di vista analitico, ma solo per averne chiaro l’intreccio. Vale del resto per il metabolismo il metodo dialettico utilizzato da Marx per studiare la relazione tra produzione-distribuzione-consumo in cui la distinzione analitica ha un ruolo epistemologico ben definito e prende il nome di verständliche Abstraktion (“astrazione concreta”)

Nei Grundrisse Marx critica da un lato l’economia politica dell’epoca che distingue produzione, scambio e consumo come i termini di un sillogismo, dando priorità al termine universale (la produzione), dall’altro compie la critica dei critici dell’economia politica che, pur rimproverando agli economisti di disarticolare la realtà sociale, ne riproducono gli schemi, ad esempio con la «concezione economica secondo cui la distribuzione si colloca, in quanto sfera autonoma e indipendente, accanto alla produzione» (Marx 2012:43). Per Marx, al contrario, «il risultato a cui perveniamo non è che produzione, distribuzione, scambio e consumo siano identici, bensì che essi sono tutti momenti di una totalità, differenze all’interno di un’unità» (Ivi:50). Quando il Moro qui parla dell’articolazione di produzione, scambio e consumo non intende trattare delle peculiarità di un sistema storicamente determinato, come quello capitalistico, ma della produzione in generale intesa come un’astrazione concreta: «questo generale, ossia l’elemento comune selezionato attraverso il confronto, è esso stesso qualcosa di molteplicemente articolato […]. Parte di esso è comune a tutte le epoche; un’altra parte è comune solo ad alcune» (Ivi:40). Pur facendo parte di una totalità, per Marx non si può tuttavia negare che sia il momento della produzione quello dominante su distribuzione, scambio e consumo poiché «da essa il processo ricomincia sempre di nuovo» (Marx Ivi :50): ciò non toglie che la produzione stessa «nella sua forma unilaterale», cioè presa astrattamente dall’articolazione della totalità di cui fa parte, «è a sua volta determinata dagli altri momenti» (Ivi:51). Insomma, per Marx la predominanza del momento della produzione è colta solo nel complesso dell’articolazione della struttura sociale, cioè nel movimento di produzione e riproduzione: è proprio per questo che la differenza tra un rapporto di produzione e un altro qualifica essenzialmente la differenza tra una società e un’altra, almeno dal punto di vista economico, specificando di volta in volta la produzione in generale oggetto dell’utile astrazione sopra citata. Allo stesso modo studiare separatamente società e natura è un’astrazione per comprenderne i meccanismi in dettaglio, senza tuttavia perdere la prospettiva scientifica che il significato di entrambe si ha solo nella loro mutua relazione, evitando ogni unilateralità, che è invece difetto caratteristico della letteratura post-marxista.

Proprio in virtù di tale storicizzazione Marx compie la sua critica al concetto di sviluppo delle forze produttive sopra accennato, a partire dalla distinzione tra sussunzione formale e sussunzione reale del capitale (Saito 2023:145). Se nel frammento delle macchine dei Grundrisse Marx sembra vedere lo sviluppo delle forze produttive come fattore neutro e tecnologico che assicura l’evoluzione sociale e l’estinzione dei rapporti capitalistici di produzione, a partire dall’approfondimento dell’elaborazione del concetto di sussunzione del lavoro egli cambia sensibilmente idea in direzione eminentemente dialettica e storico-materialista, eliminando ogni unilateralismo. Per Marx il capitalismo dapprima si appropria formalmente dei metodi di produzione precedenti, utilizzandone le tecnologie per cominciare a produrre sulla base della legge del valore. Solo successivamente il capitale inizia a produrre le macchine per la grande industria nell’ottica di aumentare la produzione ma non in senso astratto, bensì per ottimizzare la valorizzazione, dunque il processo di estrazione del plusvalore. Ciò si traduce in uno sviluppo delle forze produttive che non libera, bensì irretisce ancor di più il proletariato all’interno dei rapporti di produzione capitalistici. Per Marx nel capitalismo «lo sviluppo della forza produttiva del lavoro ha lo scopo di abbreviare la parte della giornata lavorativa nella quale il lavoratore deve lavorare per sé stesso» (Marx 2011:151), aumentando il plusvalore assoluto e relativo prodotti in una giornata. L’evoluzione dei macchinari e le continue rivoluzioni tecniche che il capitale compie nell’ammodernare i processi di produzione hanno come propria legge l’aumento di estrazione di plusvalore, al punto che il mezzo di lavoro di proprietà del capitalista, e opposto all’operaio, «diviene subito concorrente del lavoratore stesso» (Ivi:470). Il macchinario serve al capitale per aumentare il plusvalore: tale è la legge che ne determina lo sviluppo nel capitalismo e che caratterizza la sussunzione reale del lavoro al capitale. Il capitalismo, cioè, smette di assimilare semplicemente la realtà a esso preesistente per iniziare a plasmarla secondo le sue leggi.

Se è così, segnala Saito, tale sviluppo del pensiero marxiano è strettamente legato alla valutazione differente dei metodi asiatici di produzione del Marx più maturo. Il Moro non solo trova tendenze socialiste nell’equilibrio metabolico proprio di alcune civiltà precapitalistiche (Saito 2023:61-62), ma inizia a valutare positivamente i metodi di produzione agricoli della Russia zarista, preconizzando che quelli avrebbero potuto diventare la base per uno sviluppo socialista, senza passare per la barbarie capitalista, una volta vittoriosa la rivoluzione proletaria internazionale (Ivi:190). Per Marx diviene così necessario lo studio non solo dello sviluppo tecnologico di per sé, ma anche il suo rapporto con le relazioni sociali e il metabolismo naturale. La dialettica multifattoriale che ne deriva toglie ogni meccanicismo o finalismo aprioristico alla storia, aprendo possibilità politiche inedite ma che, appunto, rimangono possibilità e in ultima analisi determinate praticamente solo dall’agire politico cosciente e soggettivo delle masse organizzate e giammai necessitate da inesorabili meccanismi tecnico-sociali. In questo senso il concetto di ricchezza cambia storicamente e se nel capitalismo appare come inesauribile accumulazione di merci, come si legge nelle prime pagine de Il Capitale (Ivi:221), in una società diversa essa può essere considerata in maniera differente. Anzi, se nel capitalismo l’appropriazione privata inesauribile di merci costituisce la ricchezza, nel socialismo (Ivi:231) essa può e deve essere considerata secondo i termini dell’appropriazione sociale e non privata di beni e ciò esclude un’accumulazione indefinita, permettendo il ripristino del metabolismo tra società e natura. In questo senso Saito parla di comunismo della decrescita, nell’ottica della dinamica tra metabolismo sociale (legato alla storia del diritto di proprietà dei mezzi di produzione) e metabolismo naturale: la decrescita che egli intende da un lato è speculare alla crescita irrazionale propria del capitalismo e al significato capitalistico di “ricchezza” e, dall’altro, non esclude di per sé una crescita del benessere materiale in un’epoca futura, posto che al centro debba rimanere l’equilibrio razionale tra metabolismi sociale e naturale.

 

Alcune considerazioni finali

Il merito di Saito è senza dubbio quello di fornire strumenti analitici per considerare da un punto di vista marxista la questione ecologista oggi all’ordine del giorno, criticando ogni visione più o meno borghese e che comunque ricade nelle unilateralità d’analisi provocate dal fenomeno dell’estraniazione capitalistica. Se Saito individua nel socialismo il futuro di un equilibrio tra uomo e natura e offre strumenti per un’alleanza tra il Verde e il Rosso (Ivi:15), manca tuttavia un’adeguata considerazione del ruolo della classe lavoratrice come soggetto rivoluzionario e le sue analisi rimangono così “senza gambe” e prive di un piano d’azione. Certo, si potrebbe dire, l’interesse del libro di Saito è teorico, ciononostante è necessario segnalare questa mancanza politica, poiché non è propria solo dello studioso giapponese. Non è questo il luogo per discuterne approfonditamente, ma anche un altro autore molto letto tra la sinistra ecologista, Andreas Malm (2020:69), pur rendendosi conto che il capitalismo non è strutturalmente in grado di rispondere alla crisi ecologica e che la strada necessaria è quella della concentrazione delle leve dell’economia nelle mani di uno stato che si muova secondo un piano economico contro i monopoli, parlando addirittura di «ecological Leninism» (Ivi:100), tuttavia non individua il soggetto rivoluzionario e la politica per arrivare a quegli obiettivi. Malm critica le sue vecchie posizioni anarchiche (Ivi:84) invocando il potere statale pianificante contro il capitale e rifacendosi al marxismo antiburocratico di Trotzki (Ivi:103), tuttavia non menziona la classe operaia. È chiaro che tale debolezza delle analisi più marxiste e preziose sulla crisi ecologica, per quanto intelligenti e assolutamente rilevanti manifestano la provenienza accademica e il distacco dal movimento operaio dei loro autori. Sarebbe però sbagliato considerarne i limiti come meramente soggettivi. Lo hanno segnalato Roberts e Carchedi in questo numero: l’accademia borghese pone limiti flessibili, ma solo fino a un certo punto, nei confronti dell’espressione di posizioni coerentemente rivoluzionarie. Con Gramsci, c’è inoltre da considerare come gli attuali rapporti di forza tra classi vedano un proletariato ancora troppo debole sul piano organizzativo e ideologico per attrarre a sè organicamente gli intellettuali. D’altronde non possiamo pensare che ciò avvenga spontaneamente; al contrario, è necessario impegnarsi attivamente per sviluppare l’organizzazione politica e l’auto-coscienza della classe lavoratrice. In questo senso, un approccio critico, ma aperto, a contributi accademici profondi come il libro di Saito da parte dei militanti rivoluzionari crediamo possa aiutare a fare passi avanti.


Bibliografia
Malm A (2020) Corona, Climate, Chronic emergency: war communism in the twenty-first century, London/New York: Verso.
Marx K (2011) Opere complete. Volume XXXI: Il capitale. Napoli: La città del sole.
Marx K (2012)[1941] Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica. Roma: Manifestolibri.

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