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Marx ha vinto Heidegger ha perso

di Leo Essen

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Nell’Austro-marxismo, con autori come Adler e Hilferding, si sviluppa una forma di idealismo in cui lo Stato acquisisce una propria autonomia: la politica determina l’economia e la violenza diventa il motore della storia. Da questa prospettiva nasce la convinzione che, poiché la violenza è cieca e i suoi esiti imprevedibili, uno sviluppo regolato da leggi sia inconcepibile. Ne consegue una rivalutazione del momento soggettivo e individuale, considerato una dimensione irriducibile alla generalizzazione e, quindi, refrattaria sia alla legge sia alla conoscenza scientifica.

Questo orientamento richiama Weber, che cercò l’essenza del capitalismo non nella sua anatomia e fisiologia economica, ma nella pluralità di atteggiamenti mentali e comportamenti umani sintetizzati nella nozione di spirito del capitalismo, ovvero nella calcolabilità che caratterizza l’impresa capitalistica. Così il capitalismo venne identificato con la razionalità e la scienza. Secondo Colletti, si tratta di un modo per catturare alcuni temi del marxismo: la realtà sociale viene ridotta ai significati che i membri della società attribuiscono al mondo.

L’Austro-marxismo, reagendo al positivismo della Seconda Internazionale, sviluppò quindi la teoria dell’autonomia della politica: la politica determina l’economia, e la violenza determina la storia.

Weber, nel tentativo di conciliare criticismo e marginalismo, elaborò il concetto di tipo ideale, cercando allo stesso tempo di confutare e assimilare alcuni nuclei fondamentali del pensiero di Marx. Questa operazione contribuì alla fortuna di giovani marxisti come Lukács, ma ne evidenziò anche i limiti: Weber cercò il capitalismo non nei luoghi indicati da Marx – storia, società, economia, classi – ma negli atteggiamenti mentali e comportamenti che sintetizzò nello spirito del capitalismo, ossia in una generica nozione di calcolabilità tipica della gestione d’impresa. Così il capitalismo finì per identificarsi con la razionalità tecnica della scienza.

Da allora divenne comune attribuire i mali del mondo alla scienza, alla tecnica e alla razionalità, una prospettiva che influenzò Lukács, Heidegger e l’intera compagine della Scuola di Francoforte.

Sul versante opposto si collocano Bernstein e Plechanov, che mostrano una profonda venerazione per l’economia, per i rapporti sociali di produzione e per la cosiddetta sfera economica, intesa come produzione di beni e, contemporaneamente, produzione di idee, comunicazione intersoggettiva e rapporti sociali. In questa prospettiva, i rapporti sociali diventano una tecnica della produzione, e l’oggetto dell’economia si trasforma in oggetto tecnologico. La produzione materiale in senso stretto viene separata dalla produzione simultanea dei rapporti sociali tra gli uomini. La tecnica materiale determina la forma di tutte le istituzioni sociali, e ogni mutamento istituzionale è visto come risultato di mutamenti tecnici. Così, osserva Colletti, la storia diventa un epifenomeno del cambiamento tecnico, e la base economica si riduce a una sfera puramente materiale, che esclude i rapporti sociali e la comunicazione intersoggettiva.

Questa distinzione – che corrisponde a quella tra struttura e sovrastruttura, rara e più che metaforica in Marx – acquisisce enorme peso nel marxismo successivo. Parte di questo successo, nota Colletti, deriva dalla Prefazione a Per la critica dell’economia politica, dove formulazioni come «Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita» sembrano autorizzare, se prese alla lettera, l’idea di una produzione materiale separata dalla dimensione sociale.

Su questo terreno si consuma la separazione tra produzione e società, tra materialismo e storia, tra uomo e natura. Le circostanze materiale-pratiche diventano cause, e l’uomo semplice effetto. Alla causalità finale – in cui l’oggetto è lo scopo posto dall’uomo nel suo progetto – viene contrapposta e privilegiata la causa efficiente o materiale. Tuttavia, secondo Colletti, il prodotto del lavoro è un’oggettivazione: l’esteriorizzazione dell’idea del lavoratore, il divenire reale del concetto o programma con cui egli agisce. Lavorare significa quindi agire in modo finalistico; la produzione non è solo rapporto meccanico con la natura, ma anche rapporto con il linguaggio. E questo rapporto è reciproco: la produzione genera non solo un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l’oggetto.

Secondo Colletti, tutte le correnti del marxismo della Seconda Internazionale derivano dalla difficoltà di comprendere questa compenetrazione tra causalità e finalismo. In tale contesto, l’uomo è concepito come un semplice anello della concatenazione materiale oggettiva, un essere il cui agire è necessario. La base economica diventa materia, e il materialismo la scienza di questa materia. Ma, conclude Colletti, una Materia concepita in questo modo non esiste: non ci sono, da una parte, la Materia che viene lavorata, e dall’altra l’uomo che la lavora. Se questa polarizzazione esiste, esiste solo all’interno della scienza economica, dove il processo produttivo è fissato in Materia prima e Lavoro.

 

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La trasformazione congiunta della natura in Materia e dell’uomo in Lavoro conduce a una riduzione della teoria del valore di Marx a quella di Ricardo e impedisce di comprendere, o anche solo sospettare, che la teoria del valore marxiana coincide con la teoria del feticismo. Proprio per questo principio, la Critica di Marx si distingue nettamente da tutta l’economia politica classica.

L’Economia politica ha il merito di aver riconosciuto che il valore della merce deriva dal lavoro incorporato. Il suo limite, osserva Colletti, sta però nel non aver mai indagato il perché tale contenuto assuma quella forma. Ci si è così concentrati sul valore di scambio – sulla proporzione in cui le merci si scambiano tra loro – trascurando il valore in sé. Al contrario, Marx ha cercato di capire perché, in un determinato momento, il lavoro assume la forma della merce e la merce si carica di connotati umani e sociali, presentandosi come cosa sensibilmente sovrasensibile – animata. Da qui l’importanza in Marx dell’analisi del feticismo, dell’alienazione o della reificazione (verdinglichung).

Il feticismo, ossia l’inversione in cui la merce appare come soggetto e l’uomo come oggetto, è spiegato da Marx attraverso il concetto di Lavoro astratto o Lavoro umano eguale. Il Lavoro astratto, dice Colletti, rappresenta ciò che è comune alle diverse attività concrete (falegnameria, tessitura, filatura, ecc.) prescindendo dagli oggetti effettivi da esse prodotti (i valori d’uso) e in funzione dei quali si diversificano. Astraendo dai prodotti effettivi, si astrae anche dai lavori concreti che li hanno generati. Questo lavoro umano eguale o astratto – considerato come erogazione e oggettivazione di forza lavoro indistinta, indipendente dalle forme concrete di attività in cui si realizza – è, secondo Marx, ciò che produce valore.

Considerati come prodotti del lavoro astratto, tutti i prodotti concreti perdono le loro qualità sensibili o i valori d’uso, rappresentando ormai solo il fatto che nella loro produzione è stata spesa forza lavoro umana e accumulato lavoro umano.

Colletti osserva che nessuno, tra marxisti e non, ha inteso appieno il concetto di lavoro astratto. È apparso come una nozione chiara e pacifica, ma né Hilferding, né Kautsky, né Luxemburg, né Lenin hanno affrontato questo nodo centrale della teoria del valore. Neanche Sweezy, che si è spinto più avanti, ha fornito una spiegazione soddisfacente: per lui, il lavoro astratto è semplicemente ciò che rimane quando si ignorano tutte le caratteristiche specifiche che differenziano un lavoro dall’altro. In sostanza, il lavoro astratto equivale al lavoro in generale: è ciò che è comune a ogni attività produttiva umana, una generalizzazione mentale dei molteplici lavori concreti e utili. È la classe dei lavori concreti. Realmente effettivi sono solo i lavori concreti, mentre il lavoro astratto è un’idea, un mero fatto mentale. Allo stesso modo, reali sono solo i lavori utili, mentre il valore è un’entità teorica.

Questa interpretazione è la stessa adottata da Bernstein, per il quale il lavoro astratto è ein Gedankenbild, una costruzione del pensiero. Anche per Sombart il valore non è un fatto empirico, ma logico; Schmidt arriva a definire la legge del valore addirittura una finzione, pur teoricamente necessaria.

Il ripudio della teoria del valore di Marx, o al massimo la sua reinterpretazione ricardiana, è l’effetto della critica Böhm-Bawerk. Senza entrare nei dettagli, basta dire che egli formula una critica giusta alla teoria del valore-lavoro, scambiando però la teoria di Marx con quella di Ricardo. La sua critica, in effetti, colpisce più Ricardo che Marx. Già in Miseria della filosofia, Marx aveva mostrato come in Proudhon agisse una concezione del lavoro come identità astratta, ed è proprio contro questa identità astratta che Böhm-Bawerk muove le sue riserve.

La teoria di Marx è tutt’altra cosa. Se si assume il valore come espressione del lavoro astratto e il lavoro astratto come classe dei lavori concreti, l’identità tra valore e prezzo non si realizza se non accidentalmente, poiché il prezzo è un fatto mentre il valore è un nome. Solo se si equipara lavoro a lavoro – alla Proudhon – il conto torna; altrimenti, non torna. Sospinti da questo problema, osserva Colletti, molti finiscono per aderire alle posizioni di Sombart, Schmidt o persino di Bernstein. Costatato che il valore non coincide con i concreti valori di scambio o prezzi di concorrenza, si tende ad attribuirgli un significato essenzialmente astratto.

Tipico, in questo senso, è il caso di Dobb, che, dopo aver affermato che il valore è solo un’approssimazione astratta ai concreti valori di scambio, conclude che ogni astrazione resta sempre un’approssimazione alla realtà, e che ripetere questa constatazione non costituisce alcuna critica effettiva della teoria del valore.

 

3

Colletti sottrae la teoria del valore alla logica astratta e la restituisce alla logica concreta. La logica astratta – la logica dell’intelletto – produce concetti e principi fissi, riducendo la realtà a leggi generali. Per esempio, essa deve dimostrare che ogni lavoro concreto è uguale a ogni altro, quando è evidente che ogni lavoro concreto è diverso da ogni altro. Ma ha bisogno di dimostrarlo perché i prodotti del lavoro hanno smesso di essere scambiati direttamente. In una famiglia patriarcale contadina, dice Colletti, i membri si ripartiscono i compiti da svolgere senza che i prodotti di quei lavori diventino merce e senza che si comprino o vendano reciprocamente ciò che producono. Lo scambio non richiede alcuna astrazione dai lavori concreti: esso si articola proprio in base alla loro diversità, seguendo criteri gerarchici, di sesso o di età. Il vino bevuto dal marito non è lo stesso vino bevuto dalla moglie, anche se proviene dalla stessa botte; così come il pane spezzato dal prete non è lo stesso pane spezzato dal contadino.

Nella produzione di merci, dice Colletti, i lavori individuali non sono attività svolte per incarico della società, bensì lavori privati e autonomi, compiuti indipendentemente gli uni dagli altri. Non sono immediatamente parti del lavoro sociale complessivo, e riescono a valere come tali solo mediante lo scambio, solo attraverso il mercato.

I prodotti del lavoro, afferma Marx, assumono la forma di merce quando sono frutto di lavori privati e autonomi, svolti indipendentemente. Come Robinson, il produttore di merci decide da sé cosa e quanto produrre; ma, a differenza di Robinson, egli vive in società e dentro una divisione sociale del lavoro, nella quale il suo lavoro dipende da quello altrui e viceversa. Robinson compie da solo tutti i lavori necessari, mentre il produttore di merci svolge un lavoro determinato, i cui prodotti sono destinati agli altri, come i prodotti degli altri sono destinati a lui.

La tesi essenziale di Marx, dice Colletti, è che nella società borghese, per scambiare i loro prodotti, gli uomini devono eguagliarli: devono cioè astrarre dall’aspetto fisico-naturale, dal valore d’uso, che distingue un oggetto dall’altro. E astraendo dagli oggetti concreti del lavoro, essi astraggono automaticamente anche dalle differenze concrete tra i loro lavori. Questa forma di astrazione è la stessa che opera nella logica formale. Perciò la logica formale è un momento della logica dialettica: non è un errore, non è falsa, ma corrisponde alla forzatura con cui il lavoro concreto viene messo tra parentesi, negato ma non annullato. Ne consegue, dice Colletti, che il processo attraverso cui si giunge al lavoro astratto non è innanzitutto un’astrazione mentale del ricercatore: è un’astrazione reale, che si compie ogni giorno nello scambio stesso. Il lavoro concreto diventa il corpo, il soma, che trasporta il lavoro astratto. Tra i due non c’è un buon rapporto: l’uno è il servo e l’altro il padrone; e l’uno non può esistere senza l’altro.

In una società in cui le attività individuali sono private e i singoli hanno interessi divisi e contrapposti – in concorrenza –, il momento dell’unità sociale può valere solo come eguagliamento astratto, che prescinde dagli individui stessi. Nel nostro caso, ciò prende la forma dell’identificazione della forza-lavoro come eguale o sociale non perché sia davvero di tutti, ma perché è di nessuno: ottenuta astrattamente, prescindendo dalle disuguaglianze reali. Quando compratore e venditore scambiano i loro prodotti, e così eguagliano i loro lavori, essi stanno in quel rapporto solo perché il loro lavoro individuale viene negato: diventa lavoro di nessuno, diventa denaro. La società è divisione. Reclamare la vera società significa reclamare la solitudine. La società è la divisione del lavoro, dice Colletti.

Il lavoro concreto è determinato e finito, particolare, differente nella sua differenza da altri lavori concreti. È mutevole, instabile, soggetto alla corruzione, dunque non afferrabile, opinabile. Non può essere la base del valore, non può aspirare alla stabilità e alla dignità. Il lavoro astratto invece stabilizza, eguaglia, compara, collega, mette in comune e in società. Perciò il lavoro concreto è merda, mentre tutto ciò che si innalza dal lavoro concreto verso l’ozio e la nullafacenza, verso il pensiero, la parola, l’idea e l’astrazione, ha la dignità che un tempo era propria del divino.

La filosofia, dice Colletti, ha sempre considerato il finito come caducità e non essere, e dunque la filosofia degna del nome è sempre stata idealismo. Ma l’idealismo non si è potuto realizzare perché ha creduto che, proprio essendo caducità e disvalore, il finito dovesse restare separato dall’infinito, e quest’ultimo puro e lontano dal primo. Questa separazione intellettualistica è, secondo Hegel, all’origine di ogni errore. Poiché se il finito non può unirsi all’infinito, esso rimane assoluto da sé; la sua caducità non ha sbocco; il non-essere, preso come negazione fissata in sé, si irrigidisce di fronte al suo opposto. Così l’intelletto finisce per prendere il finito come imperituro e assoluto: la finità, non finendo mai di finire, diventa eterna.

Il lavoro concreto è ciò che non dura, destinato a svanire. La vera filosofia è stata idealistica: ha visto l’essere vero non nel lavoro utile ma nel lavoro astratto, nella ragione, nel concetto, nel divino. Considerando il lavoro concreto inferiore, lo si è separato da quello astratto. Ma il lavoro concreto, abbandonato a sé, diventa qualcosa di autonomo, un’isola o un bosco in cui rifugiarsi, senza avvedersi che quell’isola e quel bosco restano luoghi protetti proprio dalla civiltà da cui si crede di fuggire: si può viverci isolati, ma solo col permesso di quella civiltà. Separato dal lavoro astratto, il lavoro concreto si fissa in ciò che non può essere superato, brillando del fascino di ciò che sembra eterno. Da qui il fascino per la campagna e per la vita isolata del contadino o del cacciatore-allevatore.

Hegel adotta una strategia diversa. Non dice solo che il finito è privo di realtà e valore, che è merda. Dice che il finito ha valore, e che il suo valore è il suo opposto: l’infinito, l’immateriale, il pensiero. L’innovazione, commenta Colletti, è semplice ma decisiva. Hegel trascende il finito, ma invece di dirlo apertamente afferma che considera il finito per ciò che esso non è, che il finito ha per essenza il suo contrario. Così l’atto con cui egli astrae dal finito può essere presentato come un movimento oggettivo compiuto dal finito stesso per passare oltre sé e giungere all’essenza. Come l’essenza del finito è nell’infinito, così l’infinito ha la sua esistenza nel finito. Il finito non è più il non-vero: passa dall’aldilà nell’aldiquà. L’infinito si incarna nel finito; il mondo si idealizza, l’idea si realizza. Il finito diventa il mezzo attraverso cui l’assoluto si es-pone e prende forma terrena.

Un mondo materiale indipendente, dice Colletti, non c’è più. Il lavoro concreto, come entità autonoma, non esiste più. Ma non per questo è scomparso: serve ancora come mezzo per realizzare il lavoro astratto. Il compratore vuole proprio quel corpo finito prodotto dal lavoro concreto. Per questo il finito è trattenuto nel suo svanire: è negato, non annientato; è restaurato come altro da sé. Pane e vino non significano più se stessi, ma lo spirito; diventano oggetti mistici, sensibili e insieme sovrasensibili. Così il lavoro concreto non significa il suo prodotto determinato – pane e vino – ma significa lavoro astratto, valore, denaro. Tutto rimane com’era, dice Colletti, ma assume il significato di una determinazione dell’idea. Il mondo c’era prima e c’è anche dopo, solo che l’ostia non è più acqua e farina: l’idealismo si è realizzato. Ma non è avvenuta una rivoluzione: solo una transustanziazione. Il fatto di partenza non è inteso come tale, ma come risultato mistico.

Se questa è la dialettica hegeliana, e se essa descrive perfettamente il passaggio dal lavoro concreto al lavoro astratto, mostrando che la materia è sempre anche il suo contrario – un oggetto sensibile e insieme sovrasensibile –, allora, conclude Colletti, sia il materialismo dialettico del diamat sia l’autonomia del politico di Adler e Hilferding sono inconsistenti: pongono la materia da una parte e l’idea dall’altra, separata. E se alcuni marxisti continuano a non capire questo immanentismo, cioè questa insidenza del sovrasensibile nel sensibile, possono rasserenarsi: Marx stesso ha provveduto per loro. La definizione più rigorosa che egli dà della merce, in Per la critica e nel Capitale, è infatti questa: una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezze metafisiche e capricci teologici.

 

4

I testi di Colletti che qui commento sono raccolti in Ideologia e società e furono scritti perlopiù tra il 1967 e il 1969. I bersagli polemici indiretti sono l’esistenzialismo e la fenomenologia, introdotti in Italia dal gruppo riunito attorno alla rivista Aut-Aut diretta da Enzo Paci. Il bersaglio diretto è invece Marcuse, e attraverso Marcuse si intendono colpire i giovani marxisti eretici emersi dalle lotte studentesche del Sessantotto: il gruppo del Manifesto, Lotta Continua, Potere Operaio e così via. Il nome di Marcuse si era legato alle lotte studentesche, all’antagonismo afroamericano (Black Panther Party), al radicalismo dell’SDS, al femminismo, al pacifismo e alla rivolta hippy.

Secondo Colletti, Marcuse legge Hegel in chiave di idealismo soggettivo (alla Fichte): la ragione è l’io. Su questo tema liberal-radicale innesta il motivo hegeliano della distruzione del finito, un tema – dice – smarrito nella tradizione hegeliana, salvo che in Stirner e Bakunin. A differenza di Hegel, che collega tale tema alla transustanziazione e all’incarnazione, in Marcuse la distruzione del finito assume un significato letterale e quotidiano. Ciò che in Hegel è dialettico viene spezzato: da un lato c’è il positivo, l’esistenza del mondo, l’autorità e la realtà dei fatti; dall’altro il pensiero negativo, il pensiero che nega i fatti. Il finito, fuori dell’infinito, non possiede vera realtà: la sua verità è la sua idealità. I fatti, in sé, non hanno alcuna autorità; tutto ciò che è dato deve giustificarsi di fronte alla ragione.

In Marcuse, dice Colletti, il vecchio disprezzo spiritualistico per il finito e per il mondo terreno risorge come filosofia della rivoluzione o, meglio, della rivolta. Non si lotta contro istituzioni storico-sociali determinate (il profitto, il monopolio, o magari la burocrazia socialista): si lotta contro gli oggetti e le cose. Saremmo schiacciati dal potere oppressivo dei fatti. Soffochiamo nella schiavitù di riconoscere che esistono cose. «Son lì, grottesche, caparbie, gigantesche, e… io sono in mezzo alle Cose, le innominabili. Solo, senza parole, senza difesa, esse mi circondano, sotto di me, dietro di me, sopra di me. Non esigono nulla, non s’impongono. Son lì» (Sartre, La nausea). Dinanzi a questo spettacolo delle cose, commenta Colletti, l’indignazione ci prende alla gola e diventa Nausea. Si fa presto a dire: le radici di un albero! «Ero seduto, un po’ chino, a testa bassa, solo, di fronte a quella massa nera e nodosa, del tutto bruta, che mi faceva paura.» Ecco l’assurdità che grida vendetta al cielo: «masse mostruose e molli in disordine — nude, d’una spaventosa e oscena nudità.» L’assurdo, dice Colletti, non è che Roquentin trascini nei giardini pubblici la sua povera débauche da piccolo borghese, console Daladier o addirittura Laval: l’assurdo sono le radici dell’albero. «L’assurdità non era un’idea nella mia testa, né un soffio di voce, ma quel lungo serpente morto che avevo ai piedi, quel serpente di legno. Serpente o radice o artiglio d’avvoltoio, poco importa. E senza nulla formulare nettamente capivo che avevo trovato la chiave dell’Esistenza, la chiave delle mie Nausee, della mia vita stessa.»

Il Manifesto di questa distruzione delle cose – che è anche ciò che Marcuse intende per Rivoluzione – egli lo individua negli scritti giovanili di Hegel. L’emancipazione dalla schiavitù dei fatti coincide con la Notte e il Nulla evocati da Hegel nella Differenz. In questi primi scritti filosofici, nota Marcuse, Hegel sottolinea intenzionalmente la funzione negativa della ragione: la sua capacità di distruggere il mondo stabile e sicuro del senso comune e dell’intelletto. L’assoluto è descritto come la notte e il nulla, in contrasto con gli oggetti definiti della vita quotidiana. Ragione significa annientamento assoluto del mondo del senso comune. E non è difficile vedere, dice Colletti, che si tratta di antichi temi romantici. La Differenz è piena di echi schellinghiani. Ma, dato il retroterra heideggeriano di Marcuse, in questa celebrazione della Notte e del Nulla (proprio dove ci si era abituati a intravedere il Sol dell’avvenire) si può forse riconoscere anche un’eco di Was ist Metaphysik?

In definitiva, osserva Colletti, il nucleo della posizione di Marcuse affonda le sue radici nella cosiddetta critica della scienza. Si tratta di una critica di matrice hegeliana e romantica, riemersa alla fine dell’Ottocento con la reazione idealistica contro la scienza, che Croce riassume così: tutte queste critiche non sono nuove a chi conosce Jacobi, Schelling, Novalis e gli altri romantici, e in particolare la grande critica hegeliana dell’intelletto astratto — empirico e matematico — che attraversa l’intera opera di Hegel, dalla Fenomenologia dello spirito alla Scienza della logica, arricchendosi di esempi nelle osservazioni alla Filosofia della natura. Questa stessa merce, dice Colletti, riproposta anche da Heidegger e ormai priva di qualsiasi potere d’illusione, oggi viene venduta a sinistra, al punto che Horkheimer e Adorno possono affermare che la scienza, priva di coscienza di sé, è solo uno strumento, e che l’illuminismo — identificando la verità con il sistema scientifico — finisce col sancire l’inutilità del pensiero, riducendo la scienza a semplice esercizio tecnico, estraneo alla riflessione sui propri fini quanto qualunque altro lavoro imposto dal sistema.

Questa critica della scienza, nota Colletti, si presenta immediatamente come critica della società. Dalla critica della tecnica si passa a quella della scienza e da lì a quella della società industriale, sostenuta dalla tecno-scienza. L’intelletto ha una funzione essenzialmente pratica: rappresenta stati di cose, non processi. Il mondo naturale che la scienza ci offre come realtà sarebbe solo un artificio; la materia, una creazione dell’intelletto; gli oggetti, cristalli in cui si solidifica la nostra tendenza a cosificare. L’uomo stesso, di conseguenza, diventa una cosa.

Tutto è già qui, dice Colletti: la scienza come reificazione e la società come esistenza alienata.

Un ruolo decisivo in questo percorso, dice Colletti, è svolto dal libro di Lukács del 1923, Storia e coscienza di classe. L’opera, afferma Colletti, si fonda sulla sostituzione della teoria marxiana dell’alienazione con quella hegeliana. La critica del feticismo capitalistico viene riformulata nei termini della critica hegeliana al materialismo del senso comune e dell’intelletto scientifico: il feticcio non è la merce o il capitale, ma l’oggetto naturale esterno al pensiero. La separazione prodotta dal capitale tra lavoratore e condizioni oggettive del lavoro viene confusa con la distinzione, introdotta dall’intelletto, tra soggetto e oggetto; così un problema storico-sociale è trasformato in un problema ontologico. La reificazione capitalistica diviene il prodotto dell’intelletto scientifico, la cui visione analitica viene denunciata come positivistica e borghese; mentre il proletariato è identificato con la ragione filosofica, capace di unificare ciò che intelletto e senso comune separano. L’esito, osserva Colletti, è che, confondendo Marx con Hegel, Storia e coscienza di classe finisce per riproporre, sotto forma di critica rivoluzionaria alla società borghese, i contenuti oscurantisti della critica idealistica della scienza. Formatosi nella scuola di Rickert e Lask e influenzato dal vitalismo di Simmel, Lukács finisce così per iscrivere il marxismo nella tradizione della reazione idealistica contro la scienza, le cui radici più lontane risalgono alla critica hegeliana dell’intelletto.

In questo quadro, dice Colletti, il feticcio diventa l’oggetto naturale indagato dalla scienza; la reificazione — o, per dirla con Bergson, lo choséisme — il prodotto dell’intelletto che ritaglia e frammenta (morcelage) l’unità fluida del reale in sagome fittizie utili all’agire tecnico. Alienazione significa, in breve, scienza e tecnica. Accogliendo questi temi, Lukács li diffonde ulteriormente, arricchendoli di nuove suggestioni: la vecchia repulsione dello spiritualismo filosofico verso produzione, tecnica e scienza — l’orrore per la macchina — si ammanta ora del prestigio della critica alla società borghese.

È qui, dice Colletti, che si trova il nucleo della filosofia di Marcuse: oppressione e scienza; reificazione come riconoscimento dell’esistenza delle cose esterne; la dialettica del qui e ora — cioè la dialettica dello scetticismo antico — con cui Hegel, nella Fenomenologia, dissolve la certezza sensibile dell’esistenza degli oggetti, diventa per Marcuse una forma di emancipazione.

La conseguenza, dice, è un atto d’accusa indiscriminato contro scienza e tecnica, o, nella formula marcusiana, contro la società industriale. L’argomento, dice, è lo stesso che sta alla base della Krisis di Husserl e degli attacchi di Horkheimer e Adorno a Bacone e Galilei, ed è diventato il motivo dominante della riflessione sulla Crisi della civiltà. Il male non è una specifica organizzazione sociale, ma l’industria e la tecnica in quanto tali. La scienza non è il capitale, ma la macchina. Marcuse — piaccia o no —, dice Colletti, è il prodotto della stessa tradizione che oggi teme.

Per lui, alienazione e feticismo non derivano dal lavoro salariato o dal mondo delle merci, ma dall’industria, dalla tecnica, dalla scienza. L’uomo a una dimensione, dice Colletti, resta interamente prigioniero di questa impostazione. Il libro è brillante e ricco di osservazioni acute, ma nella sostanza costituisce un atto d’accusa non contro il capitalismo, bensì contro la tecnologia. Marcuse, che si oppone al pensiero integrato, finisce col ragionare come il più integrato dei sociologi borghesi: ciò che combatte è l’industria in sé, non la macchina come capitale, non il suo uso capitalistico, ma la macchina pura e semplice.

L’identificazione del capitale con la macchina, dice Colletti, consente di dissolvere le contraddizioni storiche generate dall’uso capitalistico delle macchine. La posizione di Marcuse, pur diversa da quella degli economisti, ne ripete l’operazione in forma rovesciata: identifica macchina e capitale per imputare alla macchina l’oppressione di cui è responsabile il capitale. Nell’economia volgare l’esito è l’apologia del sistema; in Marcuse è la critica romantica della società borghese, che giudica il presente alla luce delle nostalgie del passato. Per l’economista, chi vuole le moderne forze produttive deve volere anche i rapporti capitalistici; per Marcuse, chi vuole liberarsi dall’oppressione deve rigettare industria e tecnica.

In ultima analisi, il caso Marcuse, dice Colletti, è quello del culto del primitivismo e della barbarie in cui può sfociare lo spiritualismo astratto dell’intellettuale borghese. Il suo — e quello di Horkheimer e Adorno — è, come ha osservato Lukács, un caso di luddismo: se la manipolazione nasce dallo sviluppo tecnico, combatterla significa lottare contro la tecnica stessa.

Il richiamo alla critica romantica della società borghese può sorprendere, ma la scena non si divide solo tra marxismo e ideologia borghese: il confronto è tripolare, dice Colletti. E il marxismo combatte questa concezione romantica non meno dell’ideologia borghese. L’industria e la tecnologia opprimono ovunque, in Russia come in America: l’unione tra soviet ed elettrificazione è un’illusione. Se si vuole sfuggire all’oppressione, il socialismo non serve. Il rimedio proposto da Marcuse è proporzionale alla fragilità dell’analisi: basta opporre il Grande rifiuto e magari salpare verso Tahiti. Tutto il suo discorso mira a dimostrare che Marx è superato: superata la teoria della rivoluzione proletaria, superata la nozione di composizione organica del capitale, e con essa la teoria del plusvalore.

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