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Mario Mineo e il modo di produzione statuale

di Giovanni Di Benedetto

Entierro del Conde de OrgazÈ probabile che le profonde contraddizioni interne al capitalismo precipiteranno l’intero pianeta in una crisi sempre più drammatica, segnata da un intensificarsi ulteriore di guerre, terrorismi, oppressione e sfruttamento. Gli sviluppi dell’aggressione militare in Medio Oriente per il controllo delle risorse energetiche e della guerra al terrorismo dell’Isis non promettono nulla di buono. La natura costituente della crisi, che sta originando una radicale riorganizzazione dei processi produttivi, è dimostrata dall’impossibilità, da parte degli interessi delle forze dominanti, a operare, a livello nazionale e internazionale, forme di mediazione sul terreno della redistribuzione della ricchezza sociale o della stessa gestione dei rapporti di potere economico e politico. D’altra parte, è pur vero che possono aprirsi, all’interno di questo scenario catastrofico, tenui spiragli alla critica al sistema capitalistico, sebbene i rischi di derive reazionarie e regressive (si veda il voto tributato a Marie Le Pen alle ultime elezioni regionali in Francia) non possano essere per nulla sottovalutati. A patto che, una volta elaborata l’analisi sulle cause della crisi economica e di civiltà, si sia in grado di avanzare un progetto alternativo di società capace di unificare i conflitti, le lotte e i numerosi focolai di rivolta per dare luogo a forme nuove e vitali di aggregazione sociale.

Si tratta allora di lavorare alla costruzione di un progetto razionale che prenda atto, in primo luogo, della necessità di uno sforzo conoscitivo, per così dire di lunga durata, con il fine di costruire un’ipotesi di lavoro che sappia proporre uno sbocco produttivo, da una prospettiva democratica e comunista, alla questione del che fare. E dunque, è ancora possibile pensare a un’uscita dal capitalismo e alla costruzione di formazioni sociali che possano vivere e realizzare un processo di transizione verso il socialismo? E se sì, non è forse doveroso porre come condizione preliminare quella di riconoscere, senza per questo ricadere in attese messianiche come quelle in auge ai tempi della Seconda Internazionale, che questa urgenza deve essere un’ipotesi strategica capace di interessare tutta un’epoca storica? Gli scritti teorici di Mario Mineo (1920-1987), intellettuale di vaglia del panorama politico siciliano e palermitano della seconda metà del Novecento, si rivelano, da questo punto di vista, di inaspettata attualità.

Il campo di interessi e il raggio di azione occupati dalla riflessione di Mineo è ricco e articolato, spazia dall’analisi delle problematiche relative al Mezzogiorno e alla questione meridionale alla produzione di scritti più direttamente politici e all’analisi di temi di natura prettamente economica (si pensi ad un suo saggio importante sui rapporti tra la teoria di Schumpeter dello sviluppo economico e quella di Marx). Questo intervento si soffermerà, operando un’arbitraria e riduttiva scelta selettiva, sugli Scritti teorici (Flaccovio Editore) relativi alla natura sociale e politica dell’Urss e dei paesi del cosiddetto socialismo reale. Mineo, infatti, sulla scorta degli studi di Henri Lefebvre, teorizza l’esistenza di un modo di produzione definito “statuale”, differente dal modo di produzione capitalistico e caratterizzante le cosiddette società di transizione verso il socialismo. Lo spirito che anima la necessità di riaprire una riflessione sulla natura del socialismo reale dovrebbe essere oramai manifesto: si tratta di capire se in quell’elemento della realtà storica che si sviluppa a partire dalla rivoluzione leninista del ’17 sia possibile, pur non tacendo i drammatici e catastrofici esiti di quell’esperienza, rintracciare fattori adeguati a potere prefigurare, almeno sul piano dell’astrazione, indicazioni utili a formulare un modello di società alternativa a quella presente. D’altra parte, dice Mineo, anche se si volessero respingere i tentativi delle società di transizione come primi e rozzi modelli di società collettiviste, resta il fatto che queste fanno parte, nel bene e nel male, della storia del movimento comunista mondiale e del pensiero marxista. Una discussione seria e meditata su questo tema dovrebbe essere, oggi come oggi, non solo possibile, non dovendo noi sottostare a eventuali preoccupazioni sulla necessità di prendere posizione a favore o contro quell’esperienza storica, ma pure necessaria, in considerazione del fatto che la crisi devastante del capitalismo ci mette di fronte ad angoscianti prospettive. Ancora oggi, infatti, l’alternativa tra socialismo e barbarie non è un anacronismo della storia.

La teorizzazione del modo di produzione statuale, da distinguere rigorosamente, con le sue differenze specifiche, dal capitalismo di Stato occidentale, visto che in esso mancano la libertà di impresa e il motivo del profitto individuale, chiama in causa, innanzitutto, il ruolo del metodo marxista. In un tempo che sembra essere segnato dalla crisi del marxismo, l’autore invita a farne un uso ad un tempo scientificamente rigoroso ma anche fortemente creativo, calibrandolo sulle questioni decisive e scottanti del tempo presente. Un tale appello, di fronte alla vulgata dominante che ha decretato la morte del marxismo, può valere anche per la nostra contemporaneità, che vive un drammatico e fino a qualche tempo fa imprevedibile, balzo all’indietro. Il ricorso al metodo marxista significa innanzitutto l’autentico disprezzo per ogni esercitazione di stampo accademico. Da qui, inoltre, procede la considerazione che il marxismo, essendo un metodo scientifico applicato alle società umane e alla storia attraverso lo sviluppo di leggi tendenziali oggetto di costante revisione, non è né una religione, né una metafisica, né un dogma. Non si tratta qui di ribadire un’inesistente neutralità o oggettività della scienza marxista ma, viceversa, di riconoscere che non esistono dottrine, nel campo delle scienze umane come in quello delle scienze naturali, “immuni dal preconcetto ideologico” (pag. 250). L’obiettività scientifica risiede esclusivamente nella coscienza del presupposto ideologico e nella chiara esplicitazione di esso. 

Questo modo fecondo di utilizzare il metodo marxista permette a Mineo di avanzare, già fin dagli anni ’70, una raffigurazione degli scenari politici ed economici globali che è di notevole interesse e attualità: “la cosiddetta civiltà occidentale, con il suo consumismo, la sua democrazia, le sue libertà borghesi etc. riposa sullo sfruttamento e sul saccheggio del Terzo Mondo, con tutte le pesanti implicazioni che ciò comporta, in termini di responsabilità storica, per il movimento operaio dei paesi capitalistici avanzati (…). L’Africa, l’Asia e l’America semicoloniale sono la base, e l’Europa, il Nordamerica e il Giappone il vertice della piramide che è il mondo capitalistico”(pag. 246). “Ciò che mi sembra necessario sottolineare è, comunque, che nel quadro del modo di produzione capitalistico la costruzione di un sistema imperiale non comporta necessariamente la conquista territoriale, le annessioni, la creazione di colonie. (…) I rapporti di dominazione vengono meglio stabiliti imponendo ai paesi subordinati e periferici le istituzioni economico-sociali e politiche proprie del centro dominante, e costruendo una rete di rapporti e di organismi di coordinamento e controllo attraverso cui il centro stabilisca le linee della divisione internazionale del lavoro, ovviamente in funzione dei propri interessi fondamentali, ed ogni stato assuma le sue specifiche funzioni economiche, politiche e militari, in un certo inquadramento gerarchico” (pagg. 178-179). 

E ancora: “È più probabile (…) che lo sviluppo crescente delle multinazionali, le loro manovre (più o meno coordinate) in vista di una ristrutturazione dell’economia mondiale che comporta, come è ovvio, una nuova divisione internazionale del lavoro, una strategia di dislocazioni spaziali, ecc., rappresentino la risposta del grande capitale privato, sempre più internazionale, alle tendenze degli stati nazionali interventisti a straripare sulla linea del welfare state e della difesa dei livelli di occupazione. L’effimero rilancio in questi ultimi anni di formule neoliberiste si può configurare, in questo contesto, come l’abile copertura ideologica delle manovre attraverso le quali un’oligarchia capitalistica internazionale cerca di determinare una congiuntura economica e politica favorevole a quei piani di ristrutturazione”(pag. 106). Infine: “Mi sembra che il problema da affrontare sia piuttosto di vedere in quali modi e fino a che punto l’interpenetrazione fra Stato nazionale e capitale multinazionale (ma pur sempre a base nazionale) negli Usa, in Germania e in Giappone può essere controllata e condizionata da intese dirette ed eventualmente anche da organismi autonomi dagli Stati stessi: penso soprattutto ad organismi monetari – fra multinazionali” (pagg. 196-197).         

È vero, in alcuni casi, penso alla speranza di una imminente rivoluzione in Italia o allo scetticismo sulla costituzione dell’Unione Europea, le aspettative e le previsioni non si sono avverate. Ma è indubbio che, per quanto riguarda lo scenario generale, la diagnosi elaborata quarant’anni fa è lucida e perspicace. Mineo coglie nel segno quando fa riferimento alla internazionalizzazione del capitalismo mondializzato come aspetto fondamentale della fase di riorganizzazione globale dei processi produttivi. Nel quadro dell’unione monetaria europea tali processi hanno determinato il restringimento dello spazio di intervento subito dagli Stati relativamente al governo della valuta e alla gestione dei bilanci pubblici, l’adozione di politiche di austerity per rimediare all’esplosione del debito pubblico e la subordinazione alla camicia di forza di un’unica valuta che impedisce il ricorso alla svalutazione e, per reggere la concorrenza, costringe a politiche di deflazione salariale. Su questo piano della riflessione le posizioni teoriche di Mineo, quando pone la necessità di un controllo statale dell’economia e, attraverso esso, di una ridefinizione delle forme dello Stato, della partecipazione e del controllo delle masse e della gestione del potere, possono risultare utili e produttive.

In Mineo è evidente e chiara la condanna dello stalinismo, soprattutto quando si tratta di rilevare la sua assenza assoluta da legami con il marxismo, dato che esso sembrerebbe essere un’ideologia che esprime, ancor prima di una falsa coscienza della realtà, la coscienza di una realtà falsa. Nonostante questo legittimo giudizio, giustamente impietoso, la pianificazione e la collettivizzazione, prodotte fondamentalmente dalla gestione staliniana, rendono l’economia delle società di transizione diversa da quella del capitalismo. La necessità di un’organizzazione razionale del processo sociale della produzione come questione pubblica in vista degli interessi generali della società intera: è questa l’istanza che dovrebbe caratterizzare il modo di produzione statuale come modo specifico che si realizza, eliminando la proprietà privata dei mezzi di produzione, in seguito ad una rivoluzione socialista. Si tratta di un modo di produzione fondato sulla nazionalizzazione dei mezzi di produzione, sul monopolio del commercio estero e sulla pianificazione centralizzata. Tutte condizioni necessarie ma non sufficienti alla costruzione di una società e di una economia socialiste. E infatti, correlativamente al modo di produzione statuale, emerge una formazione sociale collettivistico burocratica nella quale si assiste, piuttosto che all’abolizione dello Stato, al rafforzamento delle sue funzioni e delle sue competenze amministrative, alla gerarchizzazione piramidale dei rapporti sociali e alla burocratizzazione. Il punto è che in questa divaricazione tra istanze collettivistiche e gestione burocratica risiede l’aporia strutturale delle società di transizione. Il problema è quello del controllo del potere da parte del partito e dei suoi funzionari invece che del controllo diretto dei produttori immediati. È dunque il problema della democrazia e della libertà.

In questo orizzonte di riferimento, caratterizzato da rapporti di produzione definiti come statali, il partito, in quanto rappresentante della classe operaia e di tutto il popolo lavoratore, diventa “l’organo fondamentale che detiene la sovranità e che quindi si identifica con lo Stato (…). È l’organo che in realtà gestisce l’economia e che non si serve dei così detti organi rappresentativi che vengono eletti (soviet supremo) altro che per alcune ratifiche molto formali” (pag. 389). A partire dalla lettura de I pericoli professionali del potere di Christian Rakowskij, viene condotta un’impietosa denuncia della mutazione genetica che l’istituzionalizzazione di ogni movimento reale proveniente dalla società ha determinato, trasformando, una volta consolidata la presa del potere, gli apparati in ossificazioni burocratiche. La corruzione, i privilegi e i favori di un gruppo dirigente contrapposto alla massa popolare, tuttavia, non devono fare dimenticare il fatto che la burocrazia, nella fase di transizione, gioca un ruolo funzionale determinante. La sua funzione, cioè, essendo quella di rappresentare il dispositivo centralizzato attraverso il quale avviene la pianificazione economica.

Da qui l’opposizione alle istanze consiliari e della socializzazione (la riflessione di Bettelheim e Korsch per capirci) e la necessità di sviluppare la teoria di una Convenzione operaia. Secondo Mineo un conto è parlare di autogestione, altra cosa è puntare, attraverso meccanismi istituzionali e giuridici tutti da inventare, sul controllo operaio della produzione. Alla constatazione che nel socialismo reale il rapporto di lavoro salariato non cessa di esistere e che la burocrazia dirigenziale e gestionale si erge come una sfera separata, estranea e sovrapposta alla classe lavoratrice (è la rappresentanza organica del Pcus), si doveva obiettare che l’economia pianificata dal centro si trovava a dover affrontare problemi molto complessi e che eventuali consigli di fabbrica avrebbero avuto poteri molto limitati. Solo un controllo istituzionale sulla produzione e sulla gestione complessiva dell’economia avrebbe permesso alla classe, attraverso un’effettiva supervisione democratica, di individuare, all’interno del piano, obiettivi e criteri funzionali agli interessi e ai bisogni della collettività.

In conclusione, Mineo ci indica una strada che prospetta, di fronte al dispregio in cui è precipitato, nell’opinione comune, negli ultimi trenta anni il comunismo, l’esigenza di ripartire dalla costruzione di un modello di socialismo adeguato alla realtà del tempo presente. Non ci si può ridurre, ovviamente, “alla semplice proposizione della conquista rivoluzionaria del potere statale” (pag. 43); in società capitalistiche molto complesse come quelle attuali, occorre prendere in considerazione le condizioni di possibilità che possano assicurare la partecipazione del più ampio spettro possibile di forze sociali capaci di contrastare eventuali involuzioni burocratiche. È pur vero però che il controllo del potere statale, attraverso il quale procedere alla nazionalizzazione e al controllo pubblico dell’economia, resta condizione necessaria per l’uscita dal capitalismo. D’altra parte lo Stato non si riduce solo ai suoi apparati repressivi e di manipolazione del consenso. Esso è “una forma di organizzazione sociale dialetticamente legata al modo di produzione dominante, e come tale un fattore di coesione (…) che assicura  l’unità di una formazione sociale data” (pag. 74). Se questo è vero il suo controllo non si riduce alla conquista del governo ma alla capacità, attraverso la direzione, per esempio, dei centri finanziari principali, delle infrastrutture strategiche e dell’esercito, delle banche e dell’amministrazione centrale, di esercitare un potere egemonico e contribuire non solo al conseguimento della giustizia sociale ma anche all’elaborazione, come dice Mineo, di una nuova gerarchia di valori. 

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