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palermograd

Il pranzo al sacco di Mario Mineo

di Angelo Foscari

Avvertenza: nella migliore tradizione post-althusseriana, ho scritto quanto segue avendo letto poco di Mario Mineo e pochissimo di Lefebvre. D’altro canto, il ‘Modo di Produzione Statuale’ pone dei problemi evidenti, e qualcosa andava detto. Sempre alla maniera della scuola di pensiero di cui sopra, sono comunque disponibile a compiere una o due (massimo 3!) autocritiche. Perciò fatevi sentire.

2580xea1. On s’engage et puis on voit ?

Per parafrasare lo stesso Mineo: “Qualsiasi imbecille è oggi in grado di spiegarvi che Marx non scriveva ‘ricette per le osterie dell’avvenire’, rifiutandosi di definire a priori i caratteri della  futura società socialista”. Dato però che la strada della fuoriuscita dell’umanità dal sistema capitalista è lunga e impervia, né ci è data alcuna certezza riguardo alla conclusione di tale cammino, in attesa di raggiungere questo benedetto avvenire e scoprire cos’è che si mangia nelle sue osterie, all’inizio del 1987 – circa sei mesi prima dell’improvvisa scomparsa – il dirigente e teorico marxista rivoluzionario palermitano Mario Mineo volle fornire ai viandanti anticapitalisti un assai opportuno pranzo al sacco, sotto forma di Lo Stato e la Transizione. Un saggio sulla teoria marxista dello Stato, testo che costituisce una buona metà del volume che raccoglie gli Scritti Teorici di Mineo (a cura di Dario Castiglione, Enrico Guarneri e Piero Violante), da cui cito e sul quale ha relazionato per i seminari di PalermoGrad Giovanni Di Benedetto in questo articolo. Se l’interlocutore polemico cui Mineo si rivolge in prima battuta, Norberto Bobbio (che faceva notare l’assenza di una teoria marxista dello Stato) è scomparso da tempo, quasi tutti gli altri sono ben presenti nel dibattito attuale e seguitano a dire – più o meno - le stesse cose  di trent’anni fa, dal Mario Tronti dell’Autonomia del Politico al Claus Offe del Capitalismo Disorganizzato, fino a Toni Negri per cui, in seguito ad una rivoluzione anticapitalista   “il proletariato sarà sempre e in ogni caso capace di inventare le forme istituzionali della gestione del potere”: posizione questa che Mineo considera fuori dalla realtà, ma non più di quella dello stesso Bobbio, che spera “in un sostanziale avanzamento della democrazia rappresentativa in Occidente” a fronte invece di “tendenze involutive che sono in opera da parecchio tempo” (126-7). Strada facendo, il libro critica con efficacia altre parole d’ordine dal suono accattivante e dal dubbio valore, vuoi “autogestionarie”,  vuoi improntate ad un indebito ottimismo riguardo un rapido “deperimento dello stato”  (in base ad una certa lettura, di moda all’epoca,  del leniniano  Stato e Rivoluzione) nell’epoca della transizione al socialismo. Mineo non fa sconti a nessuno e dimostra rigorosamente la necessità, se si è seri nel voler cambiare le cose, di dar luogo ad istituzioni trasformative (“rivoluzionarie” scrive Mineo, con parola oggi inflazionatissima ed innocua, ma  che  nel 1987 suonava già “vetero” a sinistra  e ancora minacciosa a destra) rette dai lavoratori. L’attualità della questione dello “stato proletario”, che prima facie sembra buona al più per la soffitta, è dovuta ai motivi spiegati da Giovanni nella sua relazione: se intendiamo riproporre un progetto razionale di produzione e di società, è infatti inevitabile cercare di prefigurarsi meglio possibile quel quadro istituzionale atto a “rappresentare il dispositivo centralizzato attraverso il quale avviene la pianificazione economica”. Non mi dilungo sulla vera e propria trattazione di Mineo (che giudico peraltro in larga misura illuminante), rinviando in primo luogo all’intervento di Giovanni e poi allo studio vero e proprio di Lo Stato e la Transizione; mi limito a notare di sfuggita come proprio il tramonto, qui in Occidente, della centralità della classe operaia della grande fabbrica (il soggetto trasformativo cui fa riferimento il testo, cosa che solo in apparenza lo data irrimediabilmente) e l’emergere di un proletariato più diffuso e sparpagliato, in larga misura attivo nella distribuzione e nei “servizi” (quello studiato e “vissuto”, per dire, dai Clash City Workers, qui un articolo di Vincenzo Marineo), escludendo ormai certe scorciatoie “consiliariste” (per cui il nuovo assetto sociale si sarebbe retto in gran parte sulla solidità e combattività della classe “fordista”, con una certa dose di automatismo), renda oggi più, e non meno, credibile e appetibile  il discorso di Mineo.

 

2. Modo di Produzione Statuale?

Detto del valore di Lo Stato e la Transizione (come di tutti gli scritti del volume, vera e propria miniera di metodologia storico-materialista, nonché di spunti polemici più localizzati, sui quali sarebbe utile riflettere[1]) sul piano della teoria politica, e consapevole che  nell’affrontare il tema del “socialismo reale” politica ed economia sono in ultima analisi inscindibili, debbo spendere qualche parola in merito al tema specifico del nostro seminario, ovvero la struttura socio-economica dell’URSS e (nei limiti in cui è possibile generalizzare) del socialismo di stato. Qui devo invece misurare una certa distanza (è questo il mio modo di accogliere l’invito del compagno che ha proposto il testo in oggetto a “non chiudere Mario in un museo”), a partire proprio dalla formula con cui “flirta” (non si può dire infatti che la sposi  con tutti i crismi) Mineo, quella del “Modo di Produzione Statuale” (MPS). La formula è presa dal terzo volume (intitolato – non inaspettatamente – Il Modo di Produzione Statuale nella traduzione italiana di Ettore Catalano, 1977, da cui cito)  - della quadrilogia di Henri Lefebvre sullo Stato, ma la mia impressione è che Mineo ne faccia un uso alquanto differente, all’interno di una prospettiva teorico-politica che diverge anche nettamente da quella del francese. Tanto per cominciare, quella verso la produzione statuale è per Lefebvre una tendenza planetaria, la direzione che accomuna e dà senso ai più disparati processi politici novecenteschi, dalle gesta del Partito Rivoluzionario Istituzionale in Messico alla “normalizzazione” bolscevica post-Kronstadt, dalla vittoria della Maggioranza Silenziosa contro il Maggio francese fino alla sconfitta dell’ipotesi del “socialismo dal volto umano” in Cecoslovacchia: “L’istituzionalizzazione di tutte le attività, abituali o rivoluzionarie, ecco come si definisce il processo attraverso cui lo Stato attinge questa realizzazione: il modo di produzione statuale” (p.180, corsivo mio). L’intento di Mineo è invece più specifico, meno desideroso di grandi sintesi onnicomprensive[2]: se non altro perché a suo parere il concetto di MPS va rigorosamente limitato al socialismo reale. La diversità dei rispettivi approcci assume proporzioni macroscopiche quando Mineo e Lefebvre passano a delineare le tendenze del futuro prossimo ( ovvero di quei 30-35 anni che ci separano dai loro testi) : Mineo vede perfettamente la  marea montante neoliberista (pur rubricandola come controtendenza all’interno di un assetto ancora tutto sommato keynesiano e votato alla “mediazione” tra le classi) e l’importanza crescente degli organismi extra-statuali (come sottolineato da Giovanni),  ma insiste ripetutamente  sulla “stabilità della società sovietica” ; all’opposto Lefebvre (ipnotizzato da uno stato gestore che “si impadronisce della società intera”) è del tutto ignaro dell’approssimarsi dell’epoca della “centralità assoluta dell’impresa”, ma appare più convincente quando osserva – contro Mineo -  quel processo per cui il “socialismo di stato” trapassa in “capitalismo di stato” (al di là di quest’ultima etichetta, che come vedremo è sbagliata).

Ce n’è abbastanza, mi sembra, per definire limitata e congiunturale la convergenza di Mineo sulla parola d’ordine lefreviana del ‘Modo di Produzione Statuale’. Tant’è vero che non appena si giunge all’annosa questione della “natura sociale dell’URSS” (una formula, peraltro, che, come ho detto più volte nel corso dei seminari di PalermoGrad, considero ormai fuorviante), Mineo è lesto a divincolarsi dall’abbraccio con l’autore del De l’Etat, sorridere al Bruno Rizzi teorico della “burocratizzazione del mondo” e strizzare l’occhio nientepopodimeno che a Wittfogel (p.111), studioso del “dispotismo orientale” e della “società idraulica”. In merito va sì segnalato un progressivo raffreddarsi dell’entusiasmo di Mineo, che nel 1977 si dichiara “da tempo abbastanza convinto della validità scientifica dell’ipotesi per cui [la formazione sociale collettivistico-burocratica]sarebbe una nuova incarnazione di quello che Marx chiamava ‘il modo di produzione asiatico’”, laddove dieci anni dopo ripiega su di un ben più cauto: “penso che potrebbe essere proficua la ripresa degli accenni marxiani al cosiddetto modo di produzione asiatico, e che anche dallo studio del dispotismo orientale di quel folle geniale che è Wittfogel si potrebbero trarre utili spunti” (111); ma è anche vero che se si paragona l’URSS con antichi modi di produzione in cui merce e lavoro salariato (per quanto peculiare e “deformata” potesse essere la loro forma nel quadro della produzione sovietica) non giocavano alcun ruolo macroeconomico, nella migliore delle ipotesi si sta facendo un suggestivo utilizzo dell’analogia storica, con tutti i limiti del caso; in un’ipotesi meno felice, si rischia la propaganda (e sappiamo del ruolo giocato di Wittfogel nella “caccia alla streghe” del dopoguerra); nel peggiore dei casi si gira il film più soporifero e sopravvalutato della storia del cinema: Brazil  (1985) di Terry Gilliam.

Mineo peraltro imbocca questa strada (che a me sembra in definitiva un vicolo cieco) a partire da un’esigenza che è invece del tutto condivisibile: “Se si vuole affrontare scientificamente l’analisi delle società del socialismo reale (…) i marxisti debbono sottrarsi alla falsa alternativa tra ‘capitalismo di stato’ e ‘stato operaio degenerato’” (p. 110). Il primo termine dell’alternativa è infatti scarsamente scientifico, perché appiattisce le differenze tra “socialismo reale” e capitalismo occidentale (e anche perché – possiamo aggiungere col senno di poi – “capitalismo di stato” pare alludere ad una qualche “fase suprema” del modo di produzione capitalistico, le cui sorti sono perciò, se non magnifiche, comunque progressive); il secondo è l’eterna “secca”  di tanta scolastica troskista, per cui la burocrazia al potere in URSS era uno strato in fondo parassitario, il cui potere era debole e di necessità transitorio: e Mineo – che esce dalla Quarta Internazionale nel 1968 – ha voltato le spalle a questo culo di sacco teorico già da una ventina d’anni, ponendosi al contrario il problema di spiegare la stabilità e la durata del socialismo dei burocrati. Certo, appena un paio d’ anni dopo l’uscita di Lo Stato e la Transizione, cade il Muro di Berlino: ma qui davvero non si tratta di sfere di cristallo di cui né Mineo né nessun altro disponeva; e neppure di spaccare in quattro il capello delle definizioni astratte. Il punto è che tutta la variegata corrente di pensiero che fuoriesce dal troskismo all’insegna di parole d’ordine come “dispotismo” o “collettivismo burocratico”[3], non ha mai avuto granché da dire sugli imperativi economici presenti nel socialismo reale (e certo non interamente ascrivibili al ruolo di una onniesplicativa “burocrazia”) che tiravano quei sistemi produttivi verso dinamiche a vario titolo concorrenziali,  lontano dalla razionalità del piano socialista giustamente auspicata da Mineo. Cito soltanto tre tipi di dinamiche emerse chiaramente dallo studio che come PalermoGrad abbiamo condotto di autori quali Ellman e Bettelheim, e dalla discussione che ne è seguita: 1) La corsa agli armamenti; 2) La necessità di produrre merci anche per il mercato mondiale; 3) La concorrenza tra imprese nell’ambito dello stesso piano centralizzato (evidente ad esempio in fenomeni come l’accaparramento di risorse e di forza-lavoro). Logiche di competizione verosimilmente centrali nell’”aporia” sovietica, e che andranno indagate meglio nel prosieguo del seminario. Su questo punto l’apporto di Mineo è giocoforza minore che altrove, ma le pagine degli Scritti Teorici vanno comunque setacciate con la massima attenzione anche in quest’ottica specifica, dato il taglio originale e lo straordinario acume nell’impostare le questioni contemporanee da parte  di questo grande comunista e rivoluzionario.

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Note 
[1] Per esempio, ecco Mineo a proposito di un dirigente comunista che, fatte salve le innegabili doti di onestà, dedizione e simpatia personale, è stato oggetto di una indebita santificazione politica : “la teoria dei sacrifici di Lama e Berlinguer…è in fin dei conti il tentativo di combattere il consumismo a spese della sola classe operaia” (61).
[2] Non voglio, beninteso, sostenere che il discorso di Lefebvre sia sprovvisto di valore euristico ed attualità, tutt’altro: e ovviamente il ruolo dello Stato viene oggi riscoperto anche (se non soprattutto) a destra, ben oltre la caricatura del “poliziotto neo-con”: vedi per esempio l’attuale piattaforma programmatica di Salvini, presa assolutamente sul serio dal Sole 24 Ore (4 dicembre, p. 31). Resta però che in Lefebvre il grano va separato dal loglio della tendenza a vedere lo Stato in ogni dove.
[3] Manca lo spazio per diffondersi in particolare sulla tesi del “Collettivismo Burocratico”: rimando allo splendido libro di Peter Drucker, Max Schachtman and his Left (1994), che descrive la parabola del leader post-troskista americano del titolo, finito a teorizzare in nome di Carlo Marx la necessità di bombardare il Vietnam!

Comments

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Marco
Thursday, 07 January 2016 17:14
Non conoscevo Mineo. A proposito di teoria marxista dello Stato, si parva licet, potete dare un'occhiata a questo: www.scribd.com/doc/243542301 .
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