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la citta futura

La teoria marxiana del valore. Seconda parte

di Ascanio Bernardeschi

III. Capitale e plusvalore

Il Capitale è un rapporto sociale camuffato da cosa, da denaro in costante frenesia di autoespandersi. In realtà si tratta di lavoro non pagato che si accresce grazie al lavoro non pagato. Date la sua potenza sociale e la sua smania di accumulazione, straripa, sussumendo sotto di sé ambiti sempre nuovi e distruggendo progressivamente ogni forma di socialità non mediata dal mercato

b7bca45bde7511e36d009c009edb72be LNella circolazione della merce (M-D-M), il denaro funziona solo da medium dello scambio fra merci. Il primo e l'ultimo termine del ciclo sono due merci di uguale valore. Il movente dello scambio è l'appropriazione di un diverso valore d'uso. Anche nella produzione capitalistica questo è un aspetto inevitabile del processo di scambio. Però non spiega il fondamento dell'accumulazione e con essa dei principali fenomeni tipici de modo di produzione capitalistico.

Con il capitale si sviluppa ulteriormente la contraddizione della merce. Il denaro, come rappresentante generale della ricchezza astratta, diventa denaro in perenne smania di accrescersi. Questo è il fine ultimo del movimento, mentre lo scambio fra merci diviene il mezzo.

La circolazione del capitale si presenta nella seguente forma

Denaro – Merce – Denaro (D-M-D').

Col denaro si acquistano delle merci (D-M), costituite dai mezzi di produzione e dalla forza-lavoro, e dopo la produzione si rivende il prodotto (M-D').

All'inizio e alla fine del ciclo c'è quindi la stessa merce, il denaro, e lo scopo non può essere la trasformazione qualitativa, il cambio fra due valori d'uso, ma solo l'incremento quantitativo del denaro. D', quindi ha il significato di D più un delta, un suo incremento. Questa forma espone correttamente l'anima della produzione capitalistica, quale accrescimento ricchezza astratta fine a sé stessa.

Visto che anche D' è una quantità limitata, mentre la pulsione è all'accrescimento illimitato, la fine del ciclo non rappresenta la soddisfazione del nostro bisogno, come era nella metamorfosi della merce, ma deve rappresentare l'inizio di un nuovo ciclo. Altrimenti il denaro incassato non potrebbe più funzionare come capitale. Anche ciò spiega perché con l'affermazione del modo di produzione capitalistico si sia generalizzata e diffusa la produzione di merci.

Ma dietro questa potenza sociale del denaro in espansione c'è la potenza sociale del suo possessore, il capitalista, agente consapevole del movimento di circolazione. Egli è il punto di partenza e di ritorno del denaro e la valorizzazione del valore è il suo fine soggettivo. Egli funziona come capitale personificato, dotato di volontà e di consapevolezza. Per lui non conta il valore d'uso e neppure il singolo guadagno, ma il moto incessante del capitale.

La regola aurea dello scambio è lo scambio di equivalenti, di merci aventi uguale valore. Chi guadagna acquistando la merce sotto costo, lo fa a scapito di chi la vende. Il guadagno del primo coincide con la perdita del secondo, né più e né meno di quello che avviene quando il ladruncolo sottrae beni al derubato. Chi guadagna vendendo la merce a un prezzo superiore del suo costo sociale, ugualmente lo fa a scapito del compratore. Sembrerebbe quindi impossibile la valorizzazione nell'ambito della circolazione, dello scambio di equivalenti. Com'è possibile che il capitalista compra e vende merci al loro valore eppure alla fine si ritrova nelle tasche più valore di quanto ne abbia speso all'inizio? Qui entra in gioco una merce particolare, la forza-lavoro, la cui distinzione dal lavoro erogato è stata la principale scoperta di Marx, secondo la sua stessa affermazione.

In base alla regola dello scambio fra equivalenti, la forza-lavoro viene acquistata al suo valore, cioè al costo che la società deve sostenere per la sua riproduzione. Si tratta in media del valore dei mezzi di sussistenza per il lavoratore e per sua famiglia secondo gli standard di vita storicamente determinati, che assume la forma fenomenica di salario. Supponiamo che tale valore corrisponda a quello messo in atto in tre ore giornaliere di lavoro. La forza-lavoro viene acquistata per il suo valore d'uso, per il fatto che si impegna a lavorare per un tempo determinato dal contratto di lavoro, per esempio otto ore. È come se il lavoratore ogni giorno dedicasse tre ore a riprodurre i propri mezzi di sussistenza e le altre cinque gratuitamente per il capitalista.

Questa merce davvero miracolosa deve essere reperibile sul mercato. Caratteristica specifica della produzione capitalistica sta nella disponibilità di lavoratori “liberi” in quanto non in possesso dei mezzi di produzione e di sussistenza e che quindi sono costretti a vendere la loro forza-lavoro al capitalista per tirare a campare. Al termine del ciclo il lavoratore ha riprodotto la propria esistenza, ma si trova nuovamente privo dei mezzi di produzione e di sussistenza per il prossimo ciclo. Deve quindi nuovamente vendere la sua forza-lavoro. D'altro lato il capitalista ha recuperato il valore del capitale anticipato e incamerato un plusvalore che, se debitamente investito, gli permette di avviare un nuovo ciclo su scala allargata. Così il capitale, producendo merci, riproduce anche i propri presupposti.

Il risultato dello scambio fra capitalista e lavoratore è la trasformazione del lavoro in un elemento del capitale in quanto conferisce al primo il diritto di appropriarsi del lavoro del secondo, sottoposto al controllo del capitalista. Cade così la rappresentazione delle società mercantili, secondo cui ognuno è proprietario del prodotto del proprio lavoro.

Quindi fra la fase D-M, acquisto degli elementi del capitale produttivo, e la fase M-D', vendita del prodotto, sta in mezzo il processo produttivo. Il ciclo del capitale può, più esaustivamente, essere rappresentato come

D-M...P...M'-D'

ove P sta per produzione e M' è il nuovo prodotto che si distingue da M, le merci costituenti il capitale produttivo impiegate nella produzione, non solo per la qualità, ma anche per il loro valore.

Il processo produttivo presenta due aspetti. Se lo guardiamo come processo naturale, comune a tutti i tipi di società, volto a creare valori d'uso, applicando le proprietà naturali, le tecnologie ecc. per mettere in atto il “ricambio organico fra l'uomo e la natura”, è processo lavorativo. Nella produzione capitalistica tale processo assume la forma storicamente determinata di processo di valorizzazione, che, trasformando le materie prime, conferisce un surplus di valore al prodotto rispetto alla spesa iniziale di capitale. Anche in questo caso Marx si distanzia dagli economisti classici che identificavano il contenuto materiale con la forma sociale in cui esso si presenta nelle diverse società.

Il lavoro concreto, utile a realizzare un nuovo valore d'uso, consente di trasferire il valore delle materie prime e degli strumenti di produzione consumati in un oggetto utile e in quanto tale vendibile. Se non producesse beni utili, tale valore andrebbe perduto. Mentre la produzione richiede l'effettuazione di lavoro utile, richiede contemporaneamente dispendio di un quantum di lavoro astratto, il quale aggiunge nuovo valore che si deposita nella merce prodotta, aggiungendosi a quello dei mezzi di produzione.

La forza-lavoro, la stessa corporeità del lavoratore presa in affitto per un determinato orario di lavoro e consumata in maniera produttiva, permette quindi, nello stesso tempo, di: a) conservare il valore dei mezzi di produzione trasferendolo nei prodotti, b) mettere in atto una quantità di lavoro corrispondente a quello necessario per la riproduzione del lavoratore (il lavoro oggettivato nel salario del lavoratore) e c) mettere in atto una quantità di lavoro eccedente, o pluslavoro che al capitalista non costa niente ma che gli consente, se riesce a vendere la merce, di incamerare un plusvalore.

Poiché il valore dei mezzi di produzione è destinato a trasferirsi pari pari nel prodotto, senza nessuna variazione, è definito da Marx capitale costante (C).

La spesa per l'acquisto di forza-lavoro viene invece definita capitale variabile (V), in quanto mette in moto una quantità di valore superiore a quello in esso contenuto.

Il nuovo lavoro aggiunto a quello cristallizzato nei mezzi di produzione si distingue in lavoro necessario, che serve a reintegrare il capitale variabile, e pluslavoro (Pv), che dà luogo a un plusvalore, unica fonte dei profitti.

Il valore complessivo di una merce è dato quindi da

capitale costante + capitale variabile + plusvalore (C+V+Pv)

Due rapporti cruciali per lo svolgimento successivo dell'analisi sono la composizione del capitale, cioè il rapporto fra capitale costante e variabile (C/V). Questo rapporto tende a storicamente a crescere in relazione alla progressiva sostituzione dei lavoratori con le macchine.

L'altro è il saggio del plusvalore, cioè il rapporto e tra il plusvalore e il lavoro necessario (Pv/V) che esprime il grado di sfruttamento del lavoro. È un rapporto che tende a essere uniforme in tutte le industrie in quanto tendono ad essere uniformi sia il costo di riproduzione della forza lavoro, dipendente solo dalle industrie che producono i mezzi di sussistenza, sia la durata della giornata lavorativa. Si tratta ovviamente solo di una tendenza e non di una identità assoluta. Nel contempo il saggio del plusvalore tende a crescere con la crescita della produttività del lavoro nei comparti che producono i beni di consumo dei lavoratori.

Concludendo, il processo lavorativo, non è altro che il mezzo per la valorizzazione del capitale che invece è il vero fine della produzione. Il lavoro interessa solo in quanto eroga plusvalore, sorgente unica della valorizzazione del capitale, e non in quanto produca singoli beni utili, valori d'uso. L'eccedenza del lavoro erogato rispetto a quello necessario alla riproduzione del lavoratore, il plusvalore, è l'elemento strategico.

Il lavoratore perde ogni autonomia, è assoggettato al dispotismo del capitalista.

Marx inoltre individua due metodi per accrescere il plusvalore. Uno è quello di prolungare la durata della giornata lavorativa. In tal modo, rimanendo fissa la parte di lavoro necessario, si espande la parte destinata a produrre il plusvalore. Si parla in questo caso di plusvalore assoluto. Le storiche lotte fra i lavoratori e i capitalisti per determinare gli orari di lavoro sono una dimostrazione dell'importanza di questo fattore.

L'altro metodo consiste nel ridurre il lavoro necessario, cioè la parte della giornata lavorativa destinata alla riproduzione del lavoratore, di modo che, a parità di orario complessivo, residui una maggiore eccedenza di pluslavoro. Questo è il plusvalore relativo. L'aumento incessante della produttività consente appunto di poter riprodurre i mezzi di sussistenza dei lavoratori con meno lavoro. Tale aumento si realizza intensificando i ritmi di lavoro ma anche con accorgimento organizzativi o con soluzioni tecnologiche appropriate. L'organizzazione della fabbrica è stato il metodo classico che ha consentito sia di intensificare il lavoro, riducendo i pori in cui il lavoro non viene erogato, come per esempio le pause per passare da un lavoro all'altro, sia automatizzando in grandi complessi la produzione e riducendo il lavoratore ad appendice delle macchine. In tal modo non è più il lavoratore che utilizza i fattori oggettivi della produzione (materie prime e strumenti di produzione), ma il capitale, cioè il lavoro trascorso, cristallizzato nel capitale, che utilizza e “succhia” il lavoro vivo. Il lavoro è nuovamente un elemento del capitale. Questa volta non solo formalmente, per i rapporti giuridici che si instaurano fra capitale e lavoro, ma anche realmente per le caratteristiche materiali del processo produttivo.

Il capitale, nella sua frenetica espansione, tende a sussumere sotto di sé non solo il lavoratore, ma anche molti altri aspetti della vita sociale, impossessandosi di elementi precedentemente sottratti al mercato (beni comuni, informazione, servizi utili alla riproduzione dei lavoratori), plasmandoli a propria immagine – Marx, per esempio, descrive in maniera toccante le trasformazioni urbane, le condizioni abitative dei lavoratori e lo sfruttamento dei bambini – e distruggendo progressivamente ogni forma di socialità non mediata dal mercato. Oggi le privatizzazioni e l'aggressione del capitale nei confronti dell'ambiente sono una precisa esemplificazione di questa tendenza.

* * *

IV. Concorrenza, saggio del profitto e i prezzi di produzione

Quando nell'analisi si introducono i molti capitali in concorrenza fra di loro alla ricerca della massima valorizzazione, la legge del valore si afferma, redistribuendo fra i vari capitalisti, nella forma di profitto, il plusvalore prodotto. Cambiano i singoli prezzi, ma a livello aggregato si conservano le leggi formulate nel precedente livello di astrazione, quello del capitale in generale.

Il metodo di Marx consiste nel partire dai dati caotici della realtà fenomenica per scoprire i nessi tra di loro in una discesa verso rappresentazioni sempre più schematiche, semplici e astratte, fino a giungere al nocciolo analitico elementare, la merce. Da qui inizia la sua esposizione, un percorso a ritroso per risalire per gradi, introducendo sempre nuove complicazioni, verso la complessità del reale, verso la forma con cui si presentano le categorie economiche alla superficie della società, questa volta non come descrizione di un insieme caotico di dati, ma come un sistema ordinato secondo una determinata struttura logica, “come una totalità ricca di molte determinazioni e rapporti” [1].

Nei precedenti articoli si è riferito l'esposizione di Marx, dalla “cellula elementare” della nostra società, la merce, fino al capitale in generale (libro I della sua opera principale).

Nel libro III [2], pubblicato postumo da Engels, vengono introdotti i vari capitali in concorrenza fra di loro, che si muovono alla ricerca del massimo profitto. In questo nuovo quadro la legge del valore si afferma attraverso una mediazione complessa, e una procedura per derivare i prezzi di produzione da una trasformazione dei valori.

Per la coscienza del capitalista, il costo della merce prodotta corrisponde al valore del capitale consumato per la sua produzione. Cioè al valore del capitale costante consumato più quello del capitale variabile (C+V). Marx denomina prezzo di costo tale importo. Nel prezzo di costo rientrano quindi il valore delle materie trasformate, la quota di strumenti di produzione consumati (per esempio il 10% del valore dei macchinari ecc. se ogni anno viene consumato un decimo del loro valore iniziale) [3] e il costo della forza-lavoro sotto forma di salario. Il plusvalore invece non vi figura, in quanto non costa niente al capitalista. Se poniamo il prezzo di costo K=C+V, allora il valore della merce sarà K+Pv. Il plusvalore appare quindi agli occhi del capitalista come l'incremento di valore del suo capitale che si verifica per effetto della produzione effettuata spendendo produttivamente K, a prescindere dalla distinzione tra capitale costante e capitale variabile.

In tale veste, il plusvalore assume la forma fenomenica di profitto, cioè di una crescita del valore del capitale anticipato. Se la merce viene venduta al suo valore, il profitto sarà pari a Pv, che scaturisce dal lavoro non pagato, ma tale circostanza non emerge nella coscienza del capitalista. Per poter mettere in atto il lavoro creatore di plusvalore, egli deve anche impiegare i necessari mezzi di produzione e il profitto è come se scaturisse dall'impiego di tutto il capitale e non solo dall'uso della forza-lavoro.

Non è il saggio del plusvalore Pv/v, ma il saggio del profitto, Pv/(C+V), che rappresenta l'indice di valorizzazione del suo capitale, l'eccedenza di valore del prodotto rapportata al valore del capitale impiegato.

“Poiché il capitalista può sfruttare il lavoro soltanto anticipando il capitale costante, e poiché può valorizzare quest'ultimo soltanto anticipando il capitale variabile, tutti questi elementi del capitale si presentano nella sua concezione come equivalenti, e ciò tanto più in quanto la misura reale del suo guadagno è determinata dal rapporto non con il capitale variabile, ma con il capitale complessivo, non dal saggio del plusvalore ma dal saggio del profitto”

Nella concorrenza fra capitali, inoltre si verifica che in generale i prezzi di mercato si differenziano dai valori, pur oscillando intorno ad essi. Al singolo, che può conseguire profitti anche acquistando sottocosto o vendendo a sovrapprezzo, appare che il profitto scaturisca dalla circolazione, perfino “dal vicendevole raggiro” fra capitalisti e non “dal diretto sfruttamento del lavoro”.

Viene offuscata quindi la sua natura di lavoro non pagato. Tanto più che concorre alla determinazione del saggio del profitto anche la velocità di circolazione del capitale [4].

Sappiamo invece che l'unica fonte del profitto dei capitalisti è il plusvalore, che dalla circolazione non può scaturire nessun valore ma tutt'al più una sua redistribuzione. I prezzi di mercato determinano questa redistribuzione fra capitalisti sulla base del movimento della concorrenza fra capitali e della legge della domanda e dell'offerta.

Supponiamo ora che due rami di industria, producenti rispettivamente smartphone e acciaio, abbiano una stessa dotazione complessiva di capitale, ma una diversa composizione: il settore dei telefonini un capitale costante pari a 600 e un capitale variabile pari a 400, e il settore dell'acciaio un capitale costante di 800 e uno variabile di 200. Entrambi i settori hanno quindi una dotazione di capitale di 1.000, nonostante che la composizione di tali capitali C/V sia rispettivamente pari a 1,5 e 4.

Se il saggio del plusvalore è uniforme, poniamo uguale al 100 per cento (cioè metà della giornata lavorativa serve a riprodurre i salari e l'altra metà a produrre plusvalore), il valore degli smart sarà 600C+400V+400Pv=1.400 e i capitalisti di quel ramo si vedranno ricompensati con un plusvalore di 400 e un saggio del profitto pari a 400/1000=40%, mentre il valore dell'acciaio sarà 800+200+200=1.200, il plusvalore in quel ramo 200 e il saggio del profitto del 20%.

Ma il saggio del profitto è l'elemento strategico per le scelte dei capitalisti. Le merci vengono scambiate come “prodotti di capitali” che “pretendono una partecipazione alla massa del plusvalore” in proporzione alla rispettiva grandezza, e si attendono un rendimento non inferiore a quello medio della società. Così un certo numero di produttori di acciaio, vista la maggiore redditività della produzione di telefonini, si sposterà verso quel settore, incrementandone l'offerta e determinandone una riduzione del prezzo di mercato e con essa dei profitti. Contemporaneamente diminuirà l'offerta di acciaio e quindi crescerà il suo prezzo di mercato. I capitalisti avranno interesse a proseguire tale movimento fintanto che i prezzi non raggiungeranno un livello tale da uniformare tendenzialmente il saggio del profitto. Anche se vi fossero degli ostacoli alla migrazione dei capitali da un ramo all'altro, è da supporre che le cessazioni di attività per fallimento o altro saranno maggiori nell'industria meno profittevole, mentre gli ingressi di nuovi capitali saranno maggiori in quella più redditizia, determinando ugualmente modifiche dell'offerta tali da avvicinare, sia pure più lentamente, i rispettivi saggi del profitto a un profitto medio. I prezzi di mercato tenderanno ad oscillare attorno a questi nuovi centri di gravità denominati prezzi di produzione, in grado di eguagliare i saggi settoriali del profitto.

La procedura indicata da Marx per la loro determinazione è la seguente.

In primo luogo si determina il saggio medio del profitto in tutto il sistema, rapportando il plusvalore complessivamente prodotto, nel nostro caso 400+200=600, al capitale complessivamente impiegato, 1.000+1.000=2.000. Il saggio medio nel nostro caso sarà pari a 600/2.000=30%.

Se questa è la retribuzione media del capitale, i capitalisti del primo settore riceveranno un profitto pari al 30% di 1.000, cioè 300. Ugualmente i capitalisti del secondo.

Il prezzo di produzione dei telefonini sarà quindi pari a 600+400+300=1.300. Analogamente il prezzo di produzione dell'acciaio sarà 800+200+3000=1.300. In questo modo il prezzo di costo resta invariato, mentre il plusvalore complessivo prodotto 400+200, pare ripartito fra i capitalisti in proporzione al capitale complessivo investito, come avverrebbe in una società per azioni. Alcuni capitalisti realizzeranno un profitto inferiore al plusvalore prodotto, mentre altri uno superiore, in un gioco a somma zero, nel senso che ciò che alcuni capitalisti guadagnano, è perduto da altri. Nel nostro caso da una parte si produce un plusvalore di 400, ma se ne realizza solo 300. La perdita di 100 va a favore dell'altra industria in cui si produce 200 ma si realizza 300.

Il saggio generale del profitto, e quindi anche il profitto medio dei singoli capitalisti, dipende perciò oltre che dalle condizioni specifiche di sfruttamento del lavoro nelle rispettive imprese, anche da quelle generali. Se un capitalista è più bravo della media a sfruttare i lavoratori o a imbrogliare gli altri capitalisti con cui è in relazione d'affari, realizzerà un extraprofitto, se è meno bravo realizzerà un profitto inferiore a quello medio. Anche le variazioni di prezzo del capitale costante, pur non incidendo sul plusvalore e sul saggio del plusvalore, incidono sul saggio del profitto.

Si eclissa così la circostanza che il plusvalore è prodotto solo dal lavoro non pagato, e si determina l'illusione che i profitti si spieghino con l'abilità dell'imprenditore o come un contributo del capitale investito, una sua retribuzione. “Il plusvalore, una volta assunta la sua nuova forma di profitto, rinnega la sua origine e diviene irriconoscibile”, pur essendo i profitti solo una forma fenomenica del plusvalore che, attraverso la mediazione del mercato, viene ripartito fra i capitalisti in proporzione al rispettivo capitale investito.

I manoscritti per il Libro III del Capitale vanno oltre, introducendo, oltre al capitale industriale, il capitale commerciale, quello finanziario e la proprietà fondiaria, quindi le relazioni fra capitalista e lavoratore e fra i vari tipi di capitalisti giungendo alla conclusione che anche i profitti dei commercianti, l'interesse e la rendita non sono altro che una redistribuzione del plusvalore fra i vari capitalisti.

Gli agenti economici ritengono che il profitto sia originato non dalla loro partecipazione al plusvalore complessivo, ma da un'aggiunta che essi fanno al prezzo di costo delle merci e percepiscono solo le categorie economiche a loro visibili (prezzi, profitti, salari, interessi, rendita), ignorando che tali categorie non sono altro che forme fenomeniche trasfigurate del valore e del plusvalore. La coscienza del capitalista volgare coincide con la coscienza dell'economista volgare il quale pertanto nega che il valore delle merci sia determinato dal tempo di lavoro.

La teoria del valore è uno strumento per svelare i rapporti sociali antagonisti e una formidabile arma contro l'economia politica borghese. Non c'è da stupirsi quindi se un enorme fuoco di fila è stato aperto per confutare questo scandaloso impianto, il cui l'aspetto più contestato, per mettere in questione la consistenza complessiva del sistema di analisi marxiano, è proprio la trasformazione dei valori in prezzi di produzione. Ma di questo parleremo nel prossimo numero.

Qui la prima parte.

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Riferimenti:

K. Marx, Il Capitale, libro I, ed Riuniti, Roma, 1964, sezioni seconda, terza e quarta.
[1] K. Marx, Introduzione alla critica dell'economia politica, a cura di Marcello Musto, trad. di Giorgio Backhaus, ed. Quodlibet, 2010.
[2] K. Marx, Il Capitale, libro III, ed Riuniti, Roma, 1965.
[3] Per semplicità di esposizione d'ora in poi non tratteremo il capitale fisso, quello cioè che viene utilizzato in più cicli produttivi e ogni volta cede solo una frazione del suo valore al prodotto. Presupporremo che tutto il capitale costante viene consumato e reintegrato in un processo produttivo. Marx mostra che ciò non altera i risultati dell'analisi.
[4] Per comprendere quanto asserito facciamo un esempio. Poniamo che per mettere in movimento un certo numero di lavoratori, che costano 100 di capitale variabile e producono 100 di plusvalore (saggio del plusvalore uguale al 100%), occorra una dotazione di capitale costante di 200. Se in un anno metto in atto un solo ciclo di produzione e vendita, il mio profitto annuo sarà di 100Pv/(200C+100V)=33,3% circa. Se il prodotto invece viene lavorato e venduto in un mese, al termine di quel mese ho riprodotto i fattori di produzione (mezzi di produzione e salari) senza dover ricorrere a una nuova anticipazione di capitale e ho ugualmente una produzione di 200C+100V+100Pv=400. Però con lo stesso capitale anticipato posso ripetere il ciclo produttivo 12 volte in un anno. Il plusvalore complessivo prodotto ogni anno è 100*12=1.200, e il saggio del profitto è 1.200/(200+100)=400% pur restando il 100% il saggio del plusvalore. Nell'illustrazione che segue, per semplicità, si prescinde dalla velocità di circolazione.

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