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volerelaluna

Per un bilancio critico del neoliberismo

di Salvatore Bianco

neoliberismo jacobin italia.jpgTramite una vera e propria rivoluzione politica e sociale, sia pure apparentemente incruenta, sul finire degli anni Settanta del secolo scorso si è affermata una nuova visione generale del mondo sulle già travagliate società occidentali. Essa ha demolito in un decennio, o poco più, lo Stato sociale keynesiano, egemonico nel trentennio precedente, i cosiddetti «trenta gloriosi» (1945-1975), istituendo via via, in forme sempre più compiute, una «sovranità globale di mercato» (C. Galli, Sovranità, Il Mulino, 2019, p. 111). Come sempre, sono le contingenze storiche che si incaricano di propiziare quello che è risultato essere un sommovimento venuto e voluto «dall’alto», da parte dei gruppi economicamente e politicamente dominanti, in evidente stato confusionale perché mai prima di allora sfidati dai «subalterni», al termine del ciclo storico di lotte, quello degli anni Sessanta, forse più favorevole in termini di acquisizioni di diritti sociali e di libertà individuali. Quella che è stata con ogni evidenza una controffensiva scatenata «dall’alto» contro «il basso» e che sta proseguendo tuttora, il grande sociologo e studioso Luciano Gallino ha molto opportunamente riassunto nella nota formula della «lotta di classe dopo la lotta di classe» (La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, 2012, pp. 11-12). In pratica, nei primi anni Settanta il capitalismo occidentale vive la sua crisi più drammatica, che corrisponde a un crollo del saggio di profitto e a una fase economica di prolungata stagnazione nella crescita e, inoltre, a una simultanea esplosione incontrollata dei prezzi – quello che nei manuali di economia è ricordato come il fenomeno della «stagflazione». Tra i fattori scatenanti di quella che si presenta come una tempesta perfetta, sicuramente va annoverata la sciagurata e interminabile guerra in Vietnam, con tutto il suo strascico di squilibri finanziari conseguenti, dovuti agli incontrollati quantitativi di dollari stampati e immessi nel sistema valutario per fare fronte alle sempre più ingenti necessità militari.

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sinistra

La crisi della Grande Distribuzione Organizzata e la falsa alternativa

di Eros Barone

ebe2497a9810ac1c751277b6aacb6b9b1. La crisi della GDO nel quadro del capitale commerciale e della concorrenza intercapitalistica

La cronaca riferisce che Carrefour sta ridefinendo la sua strategia e la sua presenza in Europa e valuta l’ipotesi dell’uscita dall’Italia. Il gruppo francese si è pertanto affidato a Rothschild per sondare il mercato alla ricerca di potenziali compratori. Secondo quanto ha ricostruito il «Corriere della Sera», al momento ci sarebbero già alcune aziende della grande distribuzione interessate a rilevare i negozi del gruppo francese. Stando ai risultati finanziari dell’anno scorso, l’Italia rappresenta per Carrefour il quinto mercato dopo la Francia, il Brasile, la Spagna e il Belgio. La penetrazione del gruppo francese in Italia risale al 1993, quando Carrefour aprì il primo negozio e dette avvio a un’espansione che lo ha portato a gestire attualmente 1.185 negozi, dai minimarket e supermercati agli ipermercati, generando 3,7 miliardi di euro di vendite nette. L’eventuale cessione dei negozi italiani rientrerebbe nell’ambito di una strategia più ampia relativa alla revisione di tutte le risorse produttive. Al momento la direzione dell’azienda ha formulato più ipotesi. La prima, e probabilmente quella favorita dai francesi, sarebbe quella di una cessione a un unico compratore. Ma non viene esclusa anche la possibilità di vendite frazionate oppure l’adozione di un modello in ‘franchising’. Del resto, l’azienda francese negli ultimi anni, a livello globale, ha già condotto operazioni per ridurre i costi, dirigendosi progressivamente sul ‘franchising’, che oggi rappresenta il 75% dell’intera rete. Qualsiasi eventuale operazione di cessione avrebbe comunque bisogno del sostegno degli azionisti di riferimento di Carrefour, tra cui la famiglia Moulin, proprietaria del gruppo francese di grandi magazzini Galeries Lafayette.

Nelle settimane scorse Carrefour Italia ha annunciato un piano di riorganizzazione della sede centrale di Milano con 175 esuberi. L’obiettivo dell’operazione, secondo quanto riportato in una nota del gruppo diffusa in occasione dell’annuncio degli esuberi, sarebbe di “accelerare ulteriormente il percorso di trasformazione del business, incentrato sul modello del franchising, e rilanciare la sostenibilità finanziaria e commerciale dell’azienda”.

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fuoricollana

Capitalismo crepuscolare. Fate presto

di Salvatore Bianco

L'odierno "capitalismo crepuscolare" non è in grado di offrire lavoro dignitoso e benessere diffuso. Pubblichiamo un estratto del libro di Salvatore Bianco “Fate Presto. Emergenzialismo come fase estrema del neoliberismo” (Roma, Rogas, 2025)

Riders.jpgQui conviene ritornare sia pur celermente alla crisi del 2007 e alla sua frettolosa e interessata interpretazione, da parte dell’establishment e dei vari ammennicoli mediatici, nei termini riduttivi di una semplice crisi finanziaria. Di contro, una più convincente letteratura critica recente l’ha poi correttamente inquadrata come Terza grande depressione del capitalismo moderno, dopo quelle di fine Ottocento e l’altra arcinota crisi del ’29 nello scorso secolo. Secondo questa analisi, essa si sarebbe aperta nel biennio 2007-2008 per mai più richiudersi e pertanto dopo oltre quindici anni ne saremmo completamente pervasi. In realtà, lo stesso pensiero mainstream ha finito con il reinterpretarla piuttosto cinicamente, utilizzando a sua volta le categorie del «pensiero negativo»: il negativo, cioè la crisi, è parte dell’ordine, non ci può essere ordine privo di negazione interna, con buona pace del «razionalismo moderno» e della sua pretesa di trattare la crisi con strumenti risolutivi. In effetti, si è constatato sul piano fattuale che la crisi si era dilatata e intensificata oltre misura. Si è cominciato allora a gestirla, governando non più sulla crisi ma attraverso di essa. E per questo è divenuta nel discorso pubblico, alimentato ad arte dall’élite dominante, «permacrisi»: la cui gestione non può che essere all’insegna dell’emergenza permanente, per l’appunto emergenzialismo. Tutto ciò con l’obiettivo di preservare quello che rimane del proprio ordine e delle gerarchie politiche e sociali in esso incorporate. Ironia della sorte, quella vita biologica che la politica moderna in Occidente aveva elevato a bene supremo da proteggere, come illustrato precedentemente, appare ora sempre più ostaggio, tramite i continui avvertimenti recapitati ad esempio dalla natura, del «modo di produzione capitalistico», che nella sua forma assoluta annichilisce l’ambiente e disumanizza la società, come le guerre più recenti con il loro carico di distruzione e di morti attestano. La crisi deve ritornare a essere nel discorso politico di chi sta in basso quella che è sempre stata in epoca moderna dopo la cesura dalla Rivoluzione francese: un’occasione per agire il conflitto nel vuoto di legittimità che si determina all’indomani della perdita di consenso, con una robusta battaglia di idee a fare da apripista.

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paroleecose2

Social media, realismo capitalista e post-fascismo

di Alberto Remonato

analysis 680572 640.jpg1. Esternalizzazione dell’intrattenimento

Nella raccolta di frammenti pubblicata postuma col titolo Pensieri, Pascal scrive che gli uomini non avendo potuto rimediare alla morte, alla miseria, all’ignoranza, hanno risolto, per vivere felici, di non pensarci[1]. Aggiunge che questa funzione del non-pensare è delegata al divertissement:

La sola cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertissement, che pure è la nostra più grande miseria. Infatti proprio questo, principalmente, c’impedisce di pensare a noi stessi e ci porta inavvertitamente alla distruzione. Senza di questo saremmo nel tedio, e il tedio ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Invece la distrazione ci diverte e ci fa arrivare inavvertitamente alla morte[2].

L’intrattenimento, dunque, ‹‹ci porta a perderci››, a fuggire, ad alienarci da noi stessi, dagli altri, dal tempo. L’essere umano, per paura delle ‹‹proprie miserie››, rimuove la coscienza dalla propria condizione e della propria mortalità.

Nella nostra contemporaneità la funzione dell’intrattenimento è stata completamente esternalizzata. Il compito di produrre divertissement viene gestito integralmente da quella che Adorno e Horkheimer chiamano ‹‹industria culturale››, i cui prodotti appunto, ci consolano dalle nostre miserie e costituiscono la più grande delle nostre miserie; detto altrimenti: ‹‹il piacere del divertimento promuove la rassegnazione che vorrebbe dimenticarsi in esso››[3].

Come sapeva Platone, non può esserci pensiero senza eros. In una società del desiderio esausto, in cui le passioni sono sostituite da impulsi da assecondare in una coazione ossessiva e soffocante – ciò che Mark Fisher chiama ‹‹edonia depressa››, ossia ‹‹l’incapacità di non seguire altro che il desiderio››[4] – il pensiero non può costituirsi. Ne consegue l’impossibilità di immaginare un mondo altro e, dunque, il bisogno della sua messa in forma, appunto il racconto di un’alternativa.    Un secolo fa Walter Benjamin osservava che ‹‹la capacità di scambiare esperienze››[5] volgeva al tramonto; oggi quel tramonto è compiuto trascinando con sé l’attesa di una nuova alba.

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Le tre grandi rotture del Novecento

di Gianmarco Pisa

WhatsApp Image 2025 06 04 at 8.35.07 AM.jpegIl contributo offerto dai compagni e dalle compagne della Rete dei Comunisti con il Forum – e la successiva pubblicazione degli Atti – per un “Elogio del comunismo del Novecento”, nelle sue quattro sessioni-approfondimenti tematici (prima della Seconda guerra mondiale: l’assalto al cielo; dopo la Seconda guerra mondiale: le nuove rivoluzioni, le conquiste operaie e i movimenti di liberazione dei Paesi in via di sviluppo; la regressione del movimento comunista e la controffensiva capitalista; la riemersione delle contraddizioni accumulate dalla supremazia del capitalismo), rappresenta, nel suo complesso, una iniziativa preziosa per l’approfondimento e il dialogo tra comunisti (e oltre l’ambito specifico del movimento di classe) nonché un terreno di lavoro condiviso con le soggettività del movimento che intendono sviluppare una riflessione, non apologetica e non liquidatoria, non eclettica e non dogmatica, per attualizzare l’analisi critica, marxista, e ricomporre terreni unitari.

Al di là delle – e senza l’esigenza di definire più o meno arbitrarie – periodizzazioni, un tema che conviene fare emergere e che offre elementi di riflessione e di approfondimento non scontati è offerto dalle grandi rotture che l’esperienza storica, politica e culturale del movimento comunista del Novecento ha attraversato e delle quali è stata, più volte, protagonista indiscussa.

Non va dimenticato, infatti che proprio il movimento comunista e, alla sua base, il marxismo e il leninismo hanno rappresentato, in Oriente, la concretizzazione di società e di sistemi liberi dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, in cui per la prima volta si sono realizzati diritti e istanze di emancipazione e di liberazione, e, in Occidente, il fattore maggiore nella sconfitta del fascismo storico e nell’avanzamento della democrazia.

Quali possono essere individuate, dunque, tra le grandi rotture del Novecento?

La prima anzitutto: l’avanzata del movimento di classe e l’affermazione su scala planetaria del socialismo nel periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale alla metà degli anni Settanta.

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machina

Hype, ovvero l'economia della truffa

Sulla macchina della colpa neoliberale

di Lorenzo Mizzau

0e99dc 62f78ddffcc74c9dad2931e1d55be9e5mv2.jpgSin dalla nascita di Machina, transuenze si è interrogato con vari articoli sulla fine del neoliberalismo o, per meglio dire, sulla rottura dell'egemonia neoliberale.

Riprendiamo questo programma di discussione con un articolo di Lorenzo Mizzau, che si concentra soprattutto, riprendendo Lazzarato, sull'economia del debito. L'ipotesi dell'autore, per dirla con le parole sue è che «in gioco ci sono precisamente le stesse tecnologie di governo, le stesse istituzioni, gli stessi discorsi che regolano il funzionamento di ciò che Foucault ha chiamato governamentalità neoliberale[12]. Eppure, c’è qualcosa come una riconfigurazione di paradigma, un nuovo assestamento di tutti questi elementi attorno a un nuovo cardine».

Il soggetto non deve capire che i maltrattamenti costituiscono un attacco premeditato alla sua identità personale da parte di un nemico antiumano. Deve essere indotto a pensare che merita le terapie cui viene sottoposto perché in lui c’è qualcosa di spaventosamente sbagliato.

W. S. Burroughs[1]Il neoliberalismo è morto. Lunga vita al neoliberalismo!

 

Che l’ipotesi neoliberale, oggi, faccia acqua da tutte le parti è sotto gli occhi di ciascuno. Al punto che dichiarare la bancarotta del neoliberalismo, da qualche anno a questa parte, non appare più tanto assurdo[2].

Ecco, in un rapido scorcio, il panorama che ci troviamo di fronte. Il discorso postbellico della pace, oggi, cede il passo a un nuovo discorso e a nuove pratiche di guerra. Al meccanismo postbellico del consumo, ancora attivo in Europa lungo tutti gli anni Ottanta, subentra l’introduzione forzata della miseria come way of life.

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sinistra

It's the Corporations, Stupid

di Antonio Pagliarone1

Untitled design 22.pngSarà per me benvenuto ogni giudizio di critica scientifica. Per quanto riguarda i pregiudizi della cosiddetta opinione pubblica, alla quale non ho fatto mai concessioni, per me vale sempre il motto del grande fiorentino: Segui il tuo corso, e lascia dir le genti!
Karl Marx

Michael Roberts in un suo articolo ha affermato che “Trump considera gli Stati Uniti solo come una grande corporation capitalista di cui è amministratore delegato” ma ciò che può trarre in inganno è che un amministratore delegato è subordinato alle decisioni dei suoi azionisti e questi sono rappresentati dalle Corporation e non viceversa, e le corporation, a loro volta, sono condizionate dai loro azionisti ed hanno come unico obiettivo i profitti e i dividendi, non le esigenze della società in generale, né salari più alti per i dipendenti della “corporation” di Trump. Ogni corporation che agisce a livello globale vuole pagare meno tasse sui propri redditi e profitti, quindi è indispensabile che i governanti, di ogni nazione, si impegnino non solo a tagliare ulteriormente la Spesa Pubblica ma anche a smantellare definitivamente tutta la legislazione e la regolazione dell’attività economica garantendo mani libere per la realizzazione di profitti in ogni parte del mondo dove sia possibile. Ma come è potuto accadere un fenomeno così devastante che spinge gli osservatori manistream e non a dichiarare la “fine della democrazia liberale”? Purtroppo occorre andare a fondo e non soffermarci come fanno in molti a osservare gli epifenomeni superficiali per poter fare affermazioni drammatiche che dovrebbero terrorizzare la gente comune.

Innanzitutto occorre necessariamente prendere in considerazione un concetto marxiano fondamentale per comprendere la dinamica del modo di produzione capitalistico ossia l’accumulazione e le condizioni in cui si realizza. In un lavoro di Daniel Campos, di prossima pubblicazione1, l’autore ribadisce in maniera efficace i concetti marxiani della Legge del valore e dell’accumulazione tenendo presente allo stesso tempo le dinamiche della produzione e della circolazione delle merci passando in rassegna ciò che egli stesso definisce Forme di Accumulazione, Regimi di Accumulazione, Poli di Accumulazione e Assi di Accumulazione che permettono di analizzare a ogni livello, globale o regionale, gli stadi ed i periodi dello sviluppo capitalistico nel corso del tempo rispettando la tradizione marxista.

 

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euronomade

Neoliberalismo: che cosa c’è in un nome?

di Sandro Chignola e Sandro Mezzadra

neoliberalismo 1024x640.jpgUna rottura di fase e una secca discontinuità: da tempo le abbiamo registrate. La seconda Presidenza Trump aggiunge aspetti di non secondaria importanza (e tutt’altro che scontati) a un processo avviato da tempo – quantomeno dalle guerre statunitensi in Afghanistan e in Iraq, dalla crisi finanziaria del 2007/8 e poi dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina. Il capitalismo, una volta di più nella sua storia secolare, sta cambiando pelle. Un diffuso autoritarismo agevola la riorganizzazione degli spazi politici (di cui profughi e migranti sono i primi a pagare il prezzo); l’articolazione tra gli spazi politici e gli spazi dell’accumulazione capitalistica è in discussione su scala mondiale, con il ritorno al centro della scena degli imperialismi e della guerra; processi di concentrazione del capitale e del potere trasformano il paesaggio sociale e politico in molte parti del mondo; la proliferazione di quelli che abbiamo chiamato “regimi di guerra” implica una riconversione della spesa e degli investimenti verso l’industria degli armamenti, mentre il “dual use” contribuisce a porre la logica di guerra al centro dello sviluppo di settori come le tecnologie digitali e l’intelligenza artificiale. Sono solo pochi cenni, sufficienti tuttavia a rendere conto della profondità della rottura in cui siamo immersi.

Ci sembra necessario domandare se queste trasformazioni non richiedano una verifica delle categorie consuete del pensiero critico, a partire da quella di neoliberalismo. La fase attuale presenta almeno tre caratteristiche che ci sembrano estremamente significative, in questo senso. La prima riguarda il contraddittorio e violento riassestarsi dei poteri e dei processi di valorizzazione in un quadro post-egemonico di multipolarismo centrifugo e conflittuale. La seconda riguarda l’inedito intreccio di poteri politici ed economici in assetti oligarchici di comando, all’interno dei quali salta il progetto di separare Stato e società, politica e mercato. La terza riguarda le tensioni che attraversano il sistema monetario e, in particolare, la posizione del dollaro come valuta di riserva e mezzo di pagamento negli scambi internazionali (nonché come garante di asset finanziari).

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lafionda

Trump e l’eterogenesi dei fini

di Marco Canesi

zadàkngòls1. Il limite del capitale alla fine del fordismo: eludere le nuove istanze strutturali

Con la progressiva saturazione del mercato dei beni di consumo di massa standardizzati e il tramonto del fordismo, erano emerse nuove istanze

Cresceva la necessità di soddisfare una domanda dettata da bisogni sempre meno di origine naturale (fisiologica e biologica) e sempre più di origine sociale e culturale. Ne conseguiva la necessità di un’offerta che, in virtù di uno stretto e costante contatto con la domanda, fosse più personalizzata o, comunque, più appropriata, in cui a prevalere fosse tendenzialmente il valore d’uso sul valore di scambio. Le piccole e medie imprese, date le loro caratteristiche strutturali e la predisposizione ontologica dei loro conduttori e delle loro maestranze a fare un buon prodotto, avrebbero potuto essere le più idonee a realizzarne la parte più importante e ad acquisire ruolo di protagoniste nel processo di produzione.

Si può ritenere che, in alternativa alla storica tendenza alla centralizzazione e alla concentrazione, si stesse manifestando l’esigenza di una tendenza esattamente opposta, ovvero una tendenza alla decentralizzazione e alla deconcentrazione.

Le multinazionali, condizionate dalla logica del profitto, hanno eluso il problema sostituendo al modo di sviluppo fordista il modo di sviluppo della globalizzazione[1]: da un lato, hanno continuato a perseguire una sempre più forte centralizzazione dei capitali e, da un altro lato, hanno attuato, come decentralizzazione, una delocalizzazione di gran parte delle fasi di processo delle proprie filiere produttive nei Paesi periferici, con lo scopo, anzitutto, di pagare i salari più bassi e di avere un’organizzazione gestionale la più flessibile, a livello mondiale.

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poliscritture

Tendenze autoritarie del neoliberalismo

di Donato Gervasio

stieglerDocente all’Università Bordeaux-Montaigne, specialista di Nietzsche e studiosa di Foucault, Barbara Stiegler è molto presente nel dibattito politico francese, in particolare per le sue riflessioni sul “macronisme”, il sistema di potere legato al presidente della Repubblica, Emmanuel Macron. Ha scritto Bisogna adattarsi. Un nuovo imperativo politico e La democrazia in pandemia. È qui a Biennale Democrazia per parlare delle sue ricerche, che conduce da molti anni, sulla storia del neoliberalismo.

“Neoliberalismo e democrazia: la pace è la guerra e la guerra è la pace”: il titolo della lezione di Barbara Stiegler, che sostituisce quello annunciato (“Una lotta disperata, ma con molto fair play. Società e politica ai tempi del neoliberismo”) è un esplicito riferimento alle parole che, nel mondo creato da George Orwell in 1984, significano il contrario di quello che dicono.

“Il neoliberalismo fa un discorso di pace o di guerra?” Con questa domanda Stiegler comincia la sua riflessione. Prima di rispondere ci offre alcuni punti di riferimento storici: Il neoliberalismo, nato negli anni Trenta del Novecento, è una delle conseguenze della crisi economica del ‘29 e della crisi del liberalismo classico. I neoliberali ritengono necessario un più marcato intervento dello Stato nell’economia e in tutti gli ambiti della vita sociale, combattono i fascismi e si fanno promotori della pace mondiale, condizione necessaria per la creazione di un mercato globale.

“Ma oggi, e in modo davvero sorprendente – afferma Stiegler – i nuovi neoliberali sono i primi a volerci preparare mentalmente alla guerra.” E ci offre due esempi di questo “incredibile capovolgimento”: Emmanuel Macron, presidente della Repubblica francese, e Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea: entrambi si fanno sempre più sostenitori di un “discours guerrier”.

Stiegler tiene a precisare che questo discorso di guerra non si è manifestato in seguito all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, ma ha cominciato ad affermarsi durante gli anni dell’emergenza Covid.

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 acropolis

Appunti sul neoliberismo

di Michele Cangiani

ploytos copia scaled.jpgNon semplicemente nuovi problemi, ma il problema dei problemi è emerso con la crisi iniziata nel 2007-2008: l’incapacità della società contemporanea di affrontare i problemi, quelli, in particolare, causati dal suo stesso funzionamento. Nonostante gli evidenti fallimenti, sfociati clamorosamente nella crisi, l’ideologia neoliberale sembra piuttosto rafforzata che indebolita. Essa, anzi, benché gli interessi a cui conviene siano solo quelli di una piccola minoranza, tende a determinare non solo la politica economica, ma l’assetto complessivo della società, fin nei suoi fondamenti costituzionali. L’esigenza di riforme antidemocratiche, tipica della trasformazione neoliberista, è chiaramente emersa fin dall’inizio, durante la crisi della fase di accumulazione del dopoguerra.

 

1. Da una crisi all’altra

È emblematico, al riguardo, il Rapporto alla Commissione Trilaterale[1]. Ed è significativo che un prodromo della svolta neoliberista sia stata la politica adottata da Pinochet in Cile dopo il golpe del 1973, il quale valse come monito per qualunque paese si azzardasse a non adottare la tendenza ‘giusta’ per risolvere la crisi. Nel 1978, in Cina, Deng Xiaoping promosse la liberalizzazione – entro un regime politico illiberale. L’affermazione definitiva delle politiche neoliberiste è avvenuta con i governi Thatcher in Gran Bretagna nel 1979 e Reagan negli Stati Uniti d’America nel 1980, orientati in primo luogo ad abbattere il potere conquistato dai lavoratori e dalle loro organizzazioni. Non senza successo. I bollettini del Bureau of Labor Statistics del Department of Labor degli Stati Uniti documentano la costante diminuzione degli operai e impiegati iscritti ai sindacati: dal 20,1% nel 1983 all’11,1% nel 2014.

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moneta e credito

Non-ordine’ economico mondiale, guerra e pace

Un dibattito tra Emiliano Brancaccio* e Ignazio Visco1**

Abstract: Nel dibattito prevalente sulle determinanti dei conflitti militari, sembra mancare un'indagine sulle possibili cause ‘materiali’ tra i fattori che alimentano gli odierni venti di guerra. In particolare, occorre valutare quanto contino gli squilibri nelle relazioni commerciali e finanziarie, le tendenze verso la centralizzazione dei capitali e le relative svolte nell’ordine economico globale dal libero scambio al protezionismo. Un dialogo tra il Governatore onorario della Banca d’Italia Ignazio Visco e l’economista Emiliano Brancaccio, promotore dell’appello su “le condizioni economiche per la pace”.

jvoredihgnPaola Nania - Lo scopo di questo dibattito è di approfondire e discutere "le condizioni economiche per la pace”: è il titolo del libro che ha ispirato questa iniziativa ed è il tema partito dall’appello che il professor Brancaccio, con Lord Skidelsky e altri studiosi, ha pubblicato nel 2023 sul Financial Times e Le Monde e che è stato ripreso dal Sole 24 Ore e da molte altre testate. Nel 2022 è iniziata la guerra in Ucraina, l’anno successivo è riesploso il conflitto in Palestina e in Medio Oriente e i teatri di guerra continuano purtroppo ad allargarsi nel mondo. Secondo la tesi del professor Brancaccio e dei suoi coautori, uno dei problemi di questa fase storica è che nella riflessione collettiva manca un approfondimento sulle contraddizioni ‘economiche’ alla base delle attuali tensioni militari e sulla cooperazione necessaria per superarle. Ne discutiamo con gli ospiti di questo incontro e soprattutto con l’ex Governatore e attuale Governatore onorario della Banca d’Italia Ignazio Visco, che si è spesso soffermato sui grandi problemi della cooperazione internazionale nei ruoli di vertice che ha ricoperto durante la sua lunga carriera istituzionale. Iniziamo allora questo dialogo con una domanda al professor Brancaccio: quali sono, a suo avviso, gli inneschi economici delle odierne tensioni internazionali?

Emiliano Brancaccio - Prima di rispondere vorrei ringraziare coloro che hanno reso possibile questa iniziativa: l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici che ci ospita, il presidente onorario dell’Istituto e Rettore dell’Università per stranieri di Siena Tomaso Montanari, il direttore studi dell’Istituto professor Geminello Preterossi dell’Università di Salerno.

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machina

I vicoli ciechi del pensiero critico occidentale

di Maurizio Lazzarato

Questo testo, scritto alla fine di un «ciclo» di tre libri sulla guerra (Guerra o rivoluzione, 2022; Guerra e moneta, 2023; Guerra civile mondiale?, 2024) precisa alcuni concetti, in modo particolare quelli di imperialismo, monopolio, guerra

0e99dc f60bbd05501f4b168e7021f922a28d41mv2In questo momento in tutto il mondo si discute della possibilità di una terza guerra mondiale. Dobbiamo essere psicologicamente preparati a questa eventualità e considerarla analiticamente. Noi siamo decisamente per la pace e contro la guerra. Ma se gli imperialisti insistono nel voler iniziare un'altra guerra, non dobbiamo avere paura. Il nostro atteggiamento nei confronti di questo problema è lo stesso di tutti i disordini: in primo luogo, siamo contrari e, in secondo luogo, non ne abbiamo paura. La prima guerra mondiale è stata seguita dalla nascita dell'Unione Sovietica, con una popolazione di 200 milioni di abitanti. La seconda guerra mondiale è stata seguita dalla formazione del campo socialista, con una popolazione di 900 milioni di abitanti. È certo che se gli imperialisti si ostinano a scatenare una terza guerra mondiale, centinaia di milioni di persone passeranno dalla parte del socialismo e non rimarrà molto spazio sulla terra per gli imperialisti; è persino possibile che il sistema imperialista crolli completamente.

Mao Tse-tung

Ognuno può vedere quanto manchi di tatto il Rabocheye Dyelo quando agita trionfalmente la frase di Marx : «Ogni passo del movimento reale è più importante di una dozzina di programmi». Ripetere queste parole in un momento di sbandamento teorico, è come «fare dello spirito a un funerale».

Lenin

L' affermazione di Mao sembra essere stata scritta per la nostra attualità. Ma siamo psicologicamente impreparati alla realtà della guerra e ancor meno a considerare analiticamente le sue cause, le sue ragioni e le possibilità che potrebbe aprire. Ci mancano gli «affetti» e i concetti per farlo. Il pensiero critico occidentale (Foucault, Negri - Hardt, Agamben, Esposito, Rancière, Deleuze e Guattari, Badiou, per nominare i più significativi) ci ha disarmati, lasciandoci inermi di fronte allo scontro di classe e alla guerra tra Stati, non avendo i concetti per anticipare né per analizzare, né tanto meno per intervenire. Lo «sbandamento teorico» prodotto negli ultimi cinquanta anni è grande. Non si tratta di sopravvalutare la teoria, ma senza quest’ultima, come diceva qualcuno, «non ci può essere movimento rivoluzionario».

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linterferenza

I molteplici volti predatori del capitalismo neoliberale

di Gerardo Lisco

buffoni di corte 300x171.jpgQuesta mia riflessione trae spunto dal saggio di Carl Rhodes dal titolo “Capitalismo Woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia”, pubblicato in Italia dalla Fazi Editore nel 2023. L’autore del saggio è professore di Teorie dell’organizzazione e preside della Business School presso l’Università di Sidney in Australia, pertanto ha un punto di osservazione molto interessante. Il saggio analizza il riposizionamento delle grandi imprese rispetto a temi sociali e a istanze rivenienti da movimenti politici e culturali progressisti se non addirittura, fatti passare, di sinistra.

L’autore sviluppa il proprio ragionamento partendo dalla genesi del concetto di “woke” e dal suo significato originario per poi dimostrare come di tale concetto se ne sia appropriato il capitalismo neoliberale ribaltandone il senso in funzione del mercato e dell’occupazione della società con l’obiettivo di sostituire lo Stato. Di recente questo tema è stato affrontato sul quotidiano Avvenire dall’economista Stefano Zamagni[1] il quale scrive nel suo articolo << Non si deve dunque cadere nell’errore di pensare che il fenomeno “trusk” ( Trump + Musk) sia una sorta di fulmine a ciel sereno, qualcosa di inatteso. Invero, nel corso dell’ultimo trentennio si è andata affermando, a partire dalla California, una duplice presa di posizione, tra i segmenti molto alti della scala sociale, nei confronti del modello di ordine sociale verso cui tendere il mondo occidentale (…)>>.

Zamagni fa propria l’analisi di Carl Rhodes e individua i due estremi della questione. Da una parte quella di patriotic millionaires dall’altra il woke capitalismo. I primi chiedono ai governi di aumentare la pressione fiscale a loro carico per finanziare il Welfare state per poi essere lasciati liberi nella loro attività di imprenditori. Su questo punto la riflessione di Rhodes si differenzia.

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carmilla

Nuovi mostri: s’avanza il liberal-nazismo?

di Gennaro Scala

181414823 c6737bfd 315c 4812 ab8a fea19d8b960a.jpgÈ necessario sottrarsi al gioco di specchi tra sinistra e destra imperialistiche. Pensiamo a un Saviano che maledice Musk, ma non ha niente da dire sul genocidio in Palestina, o, al fatto ovvio che il “saluto romano” di Musk non intaccherà la stretta alleanza tra Usa e Israele (in merito difeso su X da Netanyahu, quale “grande amico di Israele”), ecc.

Tuttavia, non prendere sul serio e ignorare il plateale gesto di Musk neanche convince. Innanzitutto, eviterei il “dibattito” se Musk è fascista o nazista, visto che fino a qualche a tempo fa era in ottimi rapporti con l’amministrazione Biden, fin quando non ha deciso di cambiare cavallo, puntando su quello vincente. È evidente un uso puramente strumentale delle ideologie, da parte di questi personaggi, che non credono in nulla, al fine di raggiungere determinati scopi. Chiediamoci invece quali obiettivi politici persegue Musk nell’ambito dell’amministrazione Trump. Analizziamo il “saluto romano” che in quanto gesto simbolico condensa diversi significati. Musk ha voluto richiamarsi al saluto alla bandiera americana, il “saluto di Bellamy”, introdotto nel 1892, e poi abbandonato durante la seconda guerra mondiale perché troppo simile a quello nazista, e sostituito con il gesto della mano sul cuore. Il gesto di Musk, come si vede nei filmati, unisce le due forme di saluto. Ma, siccome il “saluto romano” non era in uso il riferimento inequivocabile è proprio al “saluto romano” (che tra i romani invece non era in uso in ambito politico come ci informano gli storici). La vicenda ha assunto dei connotati che diremmo comico-grotteschi, se non si trattasse di personaggi con un enorme potere, stile la gag “Hitler Tony” di Lillo e Greg, quando Musk ha postato su X le foto di Obama, della Clinton, della Harris immortalati nel “saluto fascista”, mentre, in realtà, stavano salutando la folla. Invece, Musk ha proprio inteso fare il “saluto romano”, ma poi nega l’evidenza … è Hitler Tony (per chi non ha visto la gag è facile da ritrovare in internet).

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