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fuoricollana

Capitalismo crepuscolare. Fate presto

di Salvatore Bianco

L'odierno "capitalismo crepuscolare" non è in grado di offrire lavoro dignitoso e benessere diffuso. Pubblichiamo un estratto del libro di Salvatore Bianco “Fate Presto. Emergenzialismo come fase estrema del neoliberismo” (Roma, Rogas, 2025)

Riders.jpgQui conviene ritornare sia pur celermente alla crisi del 2007 e alla sua frettolosa e interessata interpretazione, da parte dell’establishment e dei vari ammennicoli mediatici, nei termini riduttivi di una semplice crisi finanziaria. Di contro, una più convincente letteratura critica recente l’ha poi correttamente inquadrata come Terza grande depressione del capitalismo moderno, dopo quelle di fine Ottocento e l’altra arcinota crisi del ’29 nello scorso secolo. Secondo questa analisi, essa si sarebbe aperta nel biennio 2007-2008 per mai più richiudersi e pertanto dopo oltre quindici anni ne saremmo completamente pervasi. In realtà, lo stesso pensiero mainstream ha finito con il reinterpretarla piuttosto cinicamente, utilizzando a sua volta le categorie del «pensiero negativo»: il negativo, cioè la crisi, è parte dell’ordine, non ci può essere ordine privo di negazione interna, con buona pace del «razionalismo moderno» e della sua pretesa di trattare la crisi con strumenti risolutivi. In effetti, si è constatato sul piano fattuale che la crisi si era dilatata e intensificata oltre misura. Si è cominciato allora a gestirla, governando non più sulla crisi ma attraverso di essa. E per questo è divenuta nel discorso pubblico, alimentato ad arte dall’élite dominante, «permacrisi»: la cui gestione non può che essere all’insegna dell’emergenza permanente, per l’appunto emergenzialismo. Tutto ciò con l’obiettivo di preservare quello che rimane del proprio ordine e delle gerarchie politiche e sociali in esso incorporate. Ironia della sorte, quella vita biologica che la politica moderna in Occidente aveva elevato a bene supremo da proteggere, come illustrato precedentemente, appare ora sempre più ostaggio, tramite i continui avvertimenti recapitati ad esempio dalla natura, del «modo di produzione capitalistico», che nella sua forma assoluta annichilisce l’ambiente e disumanizza la società, come le guerre più recenti con il loro carico di distruzione e di morti attestano. La crisi deve ritornare a essere nel discorso politico di chi sta in basso quella che è sempre stata in epoca moderna dopo la cesura dalla Rivoluzione francese: un’occasione per agire il conflitto nel vuoto di legittimità che si determina all’indomani della perdita di consenso, con una robusta battaglia di idee a fare da apripista.

Condizione necessaria, sia pur non ancora sufficiente, è quella di costituire una soggettività politica consapevole di sé, ancorata ai «subalterni» e che si muova nell’ottica dello spostamento dei rapporti di forza in favore per l’appunto delle masse popolari. Così da provare perlomeno a rompere quell’inerzia che pare condurre inesorabilmente a una involuzione autoritaria degli attuali ordinamenti formalmente ancora democratici.

 

L’assenza di una visione unitaria

L’energia politica pare continui a scorrere all’interno del corpo sociale, ne danno testimonianza gli innumerevoli focolai di rivolta e ribellioni, ma ciò che manca è una visione d’insieme unitaria in grado di riannodare la miriade di proteste e rivendicazioni che continuano a procedere in ordine sparso. Orwell ci ricorda nel suo capolavoro distopico, 1984, che lo scontento non può produrre mutamenti politici se non si incardina in «una visione generale dei fatti, finendo per convogliarlo su rivendicazioni assolutamente secondarie». E tutte poi, queste rivendicazioni, con il medesimo tratto distintivo, siano esse di genere o riferite all’ambiente oppure più schiettamente sociali, dell’elemento competitivo orizzontale su quello conflittuale asimmetrico, del «basso» contro l’«alto». E questo segnala adattamento all’ordine esistente, che vien dato per assodato e considerato intrasformabile. Il celebre storico della filosofia, Neal Wood, così prova a riassumerne i termini della questione: «La competizione presuppone un disaccordo a proposito dei mezzi, ma un ampio accordo sui fini. È una gara: coloro che competono possono essere atleti sul campo, candidati per un incarico pubblico, membri di un’assemblea, professionisti o uomini d’affari rivali. Il conflitto invece è un esteso e intenso disaccordo sui fini e, di frequente, una riluttanza a sottostare alle regole del gioco che può trasformarsi sovente in lotta e rivoluzione». Ora, i soggetti politici attuali, quel poco che ancora resta in piedi del tradizionale sistema dei partiti in Occidente, da tempo si sono messi a coltivare quelle stesse paure che le urgenze connesse alle contraddizioni del modello di sviluppo generano, per un mero calcolo elettorale di corto respiro. Sempre in nome del dogma della negazione di ogni conflitto interno ed esterno alla riproduzione capitalistica, hanno abbracciato a loro volta il paradigma competitivo, indifferente rispetto al fine di un nuovo ordine sociale da edificare e nel quale «il libero sviluppo di ciascuno sia la condizione per il libero sviluppo di tutti». Dunque, la prima urgenza da fronteggiare, come si accennava sopra, è quella di una soggettività politica da costruire ex novo oppure quale frutto di una conversione radicale di una formazione già esistente; la congiuntura appare favorevole all’impresa e oltre modo necessaria. Pare che un «blocco sociale» di interessi condivisi tardi a coagularsi. Proprio per l’assenza di una soggettività politica «autonoma», che si pensi e agisca come attore conflittuale e non semplicemente competitivo. E che nell’individuazione dell’avversario, secondo il discrimine capitale/subordinati, perimetri un campo soggettivandolo in qualche modo in nome di un interesse collettivo, e per questo in grado di tenere assieme e tessere le tante differenze, magari espandendosi ulteriormente. Sul piano sociale si tratta di un fronte composito ma vasto, accomunato sociologicamente dall’essere in un rapporto di subordinazione funzionale rispetto al processo di valorizzazione del capitale.

 

La riconfigurazione funzionale della lotta di classe

Sulla riconfigurazione di classe da ripensare in chiave funzionale, così si esprime in maniera convincente Roberto Fineschi: «la dimensione di classe del conflitto va inquadrata in termini funzionali: l’altro del lavoro è il lavoro salariato. Qui lavoro salariato vuol dire molte cose: partita iva sono lavoratori salariati a cottimo, stagisti sono lavoratori a zero salario; non dobbiamo lasciarci ingannare dal mascheramento giuridico. Però, dato che chi ha effettivamente un lavoro è solo una parte di chi potenzialmente potrebbe lavorare, bisogna capire che chi è disoccupato o chi lavora in forme precapitalistiche sta dalla stessa parte di chi lavora: sono tutti subordinati funzionalmente all’estrazione di plusvalore e lavorano/non lavorano con modalità che sono dettate, gestite, orientate dal capitale». Si va così dai ceti medi impoveriti, si passa per le partite iva fittizie, o sfruttate all’inverosimile, per arrivare alle masse di lavoratori poveri, disoccupati, inoccupati o diversamente poveri. Non hanno tutti ovviamente un potere contrattuale elevato, questi gruppi eterogenei, ma potrebbero dare sostanza ad una formazione politica popolare e di massa, che assuma come proprio compito storico e orizzonte di senso quello di riannodare i fili bruscamente interrotti dalla controrivoluzione neoliberista, per realizzare il progetto di un nuovo socialismo di cui la Costituzione del 1948 traccia a grandi linee il percorso. Di una democrazia finalmente realizzata, non solo negli aspetti procedurali, pure importanti, ma nei suoi due cardini quali la libertà e l’uguaglianza […].

 

La sinistra irrilevante

A rigore questo non dovrebbe neppure essere un tema di esclusiva pertinenza della sinistra: la disgregazione sociale, la scomparsa del welfare, la lenta ma inesorabile erosione della classe media, che sempre di più sta sprofondando nella povertà, la pletora di giovani senza lavoro e istruzione, di periferie sempre più dilatate, dovrebbero essere temi politicamente trasversali alle culture politiche. Questi processi di disumanizzazione crescente non dovrebbero risultare indifferenti ad alcuna identità politica degna di questo nome. In realtà, a destra queste cose appaiono a oggi sfruttabili solo sul piano elettorale, visto che la piattaforma politica messa in campo in occasione di ogni tornata elettorale appare essenzialmente un’articolazione del risentimento prodotto dalle conseguenze del «capitalismo crepuscolare». Non ci possiamo stupire di questo: le «destre» storicamente non hanno mai privilegiato la riflessione e l’articolazione della realtà ex ante, ma risentimento, reazione e, talvolta, violenza politica esplicita: tutte rigorosamente e ugualmente piegate al mantenimento dei rapporti di forza esistenti, possibilmente da sigillare. Diverso era stato il percorso storico a sinistra, come documentato dalla complessa vicenda, ad esempio, in Italia del Pci, il più grande partito comunista d’Occidente. A partire dai suoi strettissimi rapporti con la filosofia e più in generale con la cultura critica, a cominciare dal suo fondatore Antonio Gramsci. Berlinguer stesso dai suoi compagni di partito era considerato un «segretario filosofo». Al fondo c’era l’idea che per non legittimare indirettamente l’oppressione dell’uomo sull’uomo e lo sfruttamento sulla natura – l’ideologia in senso deteriore, come giustificazione –, occorreva munirsi di efficaci strumenti concettuali e analitici per una realistica comprensione del proprio tempo, delle condizioni oggettive di funzionamento che ne garantiscono la sussistenza e la riproduzione, delle contraddizioni che possono trasformare lo stato di cose esistente con l’ausilio di un robusto soggetto politico. Una sinistra, come per larghi tratti è quella attuale, che non sa, non dice, non pensa che la disgregazione sociale e le guerre abbiano origini da ricercare nei processi socioeconomici e che l’emergenzialismo è divenuto un dato strutturale su cui innescare una lotta per una contro-egemonia, è condannata all’irrilevanza. Una prassi politica che non ha il coraggio di pensare e poi sperimentare modi e forme alternative di produzione dei beni, di educazione, di formazione, di produzione culturale si condanna all’impotenza. La perdita secca di consensi elettorali riscontrata a «sinistra» un po’ ovunque non è che la certificazione della perdita di un ruolo sociale a favore delle «destre». Queste ultime si sono mostrate più capaci di fornire un megafono alla sofferenza del corpo sociale, al malcontento, supportate da un certo momento in poi dalle «oligarchie del denaro»; ma sono ben lungi dal volerne aggredire le cause profonde, anzi pronte a riprodurle, aggiungendone magari di ancor più devastanti, con un surplus di repressione. Sta all’altra parte, quella potenzialmente più numerosa e culturalmente più attrezzata dei «subordinati», riuscire a convertire, come è già successo per le precedenti Grandi depressioni, le guerre in possibili occasioni di vittorie popolari e contro le stesse guerre. Dal destino della guerra alla possibilità della rivoluzione, per mezzo di un soggetto politico capace di agire in quanto popolare e di massa.


Bibliografia minima
Fineschi, Violenza, classi e persone nel capitalismo crepuscolare (20 dicembre 2020) su https://www.sinistrainrete.info/teoria.
Fineschi, Capitalismo crepuscolare: approssimazioni, Indipendently published, 2022.
Imbriano, Marx e il conflitto. Critica della politica e pensiero della rivoluzione, Roma, DeriveApprodi, 2020.
E.H. Kantorowicz, I due corpi del re, Torino, Einaudi, 2012.
G. Orwell, 1984, Milano, Mondadori, 1989.
V. Prashad, La Grande Crisi, il Tradimento delle Elite Europee e come tornare a vincere (9 gennaio 2024) su https://ottolinatv.it/.
C. Salvi, Dal PCI al PD. Brevi note sulla scomparsa della sinistra in Italia, Roma, Rogas, 2021.
N. Wood, Il valore dell’insocievole socievolezza, in A. Di Gesù, P. Missiroli (a cura di), Res Publica. Le forme del conflitto, «Almanacco di Filosofia e Politica», n. 3, Macerata, Quodlibet, 2021, p. 273 e ss.

[Tratto da: Salvatore Bianco, Fate Presto. Emergenzialismo come fase estrema del neoliberismo, Roma, Rogas, 2025]
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