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sinistra

Effetti culturali dell’economia neoliberista IV

di Luca Benedini

(quarta parte: riconoscere le radici storiche del neoliberismo e rispondere ad esso attraverso un’integrazione tra il “socialismo scientifico” marx-engelsiano – la cui centratezza la storia sta confermando – e le forme di esperienza, di pensiero e di movimenti alternativi più congrue, profonde e costruttive che si sono sviluppate nell’ultimo centinaio d’anni)*

neoliberalism face 768x384.jpgPolitiche keynesiane: una rilettura critica della loro ascesa ed eclissi, anche alla luce dell’opera di Michal Kalecki

1. Complessità storiche

Se si torna alle radici delle oscillazioni storiche che si sono verificate – dopo la tremenda “crisi del ’29” – tra gli orientamenti economici liberisti e la tendenza strutturale ad un ampio intervento pubblico nell’economia di mercato, si trova che un primo mutamento epocale avvenne progressivamente tra il 1930 e il 1950 e fu ispirato principalmente dall’economista britannico John Maynard Keynes e dai marcati successi economici che vennero ottenuti nel concreto dalle sue proposte estremamente innovative, contrassegnate anche da una spiccata sensibilità sia sociale che ambientale e culturale. Ma, quando si arrivò a quello che può essere definito il “periodo d’oro” dell’intervento pubblico in tale economia (in pratica, i 35 anni tra il 1945 e il 1980), ciò che avvenne fu che si trattò di un periodo solo superficialmente keynesiano: malgrado le frequenti celebrazioni pubbliche dei grandi talenti di Keynes, le sue idee complesse e sensibili vennero di fatto deformate ampiamente dalle élite politiche ed economiche dell’epoca e poi usate strumentalmente da queste in base ai propri specifici interessi materiali, scarsamente interessati in realtà tanto al piano sociale quanto a quello ambientale e a quello culturale [144]....

Nel complesso, i principali di questi interessi erano di due tipi: sul piano economico, ridurre la portata delle “crisi cicliche” dell’economia capitalistica (un intento condiviso da una parte notevole delle classi privilegiate, ma non dalla loro totalità, in quanto quelle crisi potevano sì trascinare in bancarotta grandi patrimoni, ma anche consentire grandi guadagni ai più abili e “fortunati” tra i finanzieri e gli speculatori...) e ampliare i profitti imprenditoriali trasformando i lavoratori anche in consumatori (così da poter moltiplicare le vendite complessive di prodotti da parte dell’insieme delle imprese); sul piano politico, che per molti in tali élite era ancor più significativo di quello economico, evitare il più possibile un forte “spostamento a sinistra” delle masse lavoratrici che le spingesse verso posizioni diffusamente anticapitalistiche come quelle che nella Russia del 1917 avevano portato alla “rivoluzione d’ottobre” (che parti consistenti delle classi popolari cercarono presto di emulare – ma senza successo – in altri paesi europei come specialmente Germania, Ungheria, Finlandia, Italia e Bulgaria).

Quelle crisi cicliche inoltre, moltiplicando il fenomeno della disoccupazione, dal punto di vista economico indebolivano di molto la forza contrattuale dei lavoratori nel mercato del lavoro (il che tendeva ad essere “gradito” alle classi privilegiate), ma nello stesso tempo dal punto di vista politico davano tipicamente – appunto – stimolo, incoraggiamento e forza ai movimenti politici ispirati ad idee socialiste (il che tendeva a risultare molto fastidioso e preoccupante per tali classi). In tal modo, le crisi cicliche in questione erano vissute dalle classi privilegiate in maniere non soltanto ambigue e molto sfaccettate, ma anche variabili a seconda delle momentanee circostanze economiche, sociali, politiche, ecc..

Nonostante quelle corpose sfasature tra le idee di Keynes e i modi in cui si diede un’attuazione pratica a tali idee, dietro agli eventi dei decenni in cui crebbe e si affermò pubblicamente l’influenza del pensiero keynesiano vi era anche una spinta autentica, che ebbe un peso fondamentale nel determinare in pratica la fine del capitalismo liberista che aveva caratterizzato l’Ottocento e l’inizio del Novecento: la volontà delle classi popolari – combinata in particolare con la loro conquista del suffragio universale e di pubbliche istituzioni di tipo democratico – e di non pochi imprenditori, caratterizzati soprattutto dal gestire aziende piccole o medie e animati da uno spirito più interclassista e collaborativo che gerarchico e autoritario. In altre parole, Keynes sarebbe contato decisamente poco nella storia novecentesca se nei paesi industrializzati gran parte delle classi lavoratrici (con la collaborazione di certi segmenti del ceto imprenditoriale) non avesse rivendicato un’ampia attuazione delle idee da lui sviluppate e se non ci fosse stata la presenza di una certa democrazia a garantire a tali classi un considerevole ruolo politico. Non a caso, le prime applicazioni del pensiero keynesiano all’economia di intere nazioni presero corpo negli anni ’30 grazie a governanti democraticamente eletti e a forze politiche ben precise – allora effettivamente collegate in maniera considerevole alle classi popolari, alla loro cultura e alle esigenze da esse espresse – come i democratici negli Usa (rimane ancora celebre il New Deal rooseveltiano) e i socialdemocratici in Scandinavia. Col tempo, però, la scarsa conoscenza e familiarità che quelle classi avevano riguardo ai meccanismi interni dell’economia e della politica consentì appunto alle varie élite privilegiate di sfruttare per lo più a proprio vantaggio – invece che nella direzione del “bene comune” cui miravano tali classi e cui tendeva sostanzialmente Keynes – le originarie proposte di quest’ultimo, grazie spesso anche a diffusi fenomeni di corruzione nel ceto politico (fenomeni mantenuti ovviamente il più possibile nascosti e “sotterranei” da parte degli interessati, ma “scoperchiati” poi in non pochi casi specialmente da dei magistrati, da dei gruppi di attivisti della “società civile” o da qualche politico di forze d’opposizione). E a quel punto sembrava essere diventata “keynesiana” – anche se in un modo, dunque, alquanto deformato e più che altro strumentale – l’intera classe imprenditoriale in Occidente....

Le classi popolari, comunque, non vennero ingannate totalmente nel corso di quel processo: una parte significativa dei loro obiettivi – così come degli effettivi intenti di Keynes – riuscì a trasferirsi nelle politiche concrete, grazie soprattutto sia al fatto che comunque le politiche keynesiane attribuiscono ai lavoratori un’ampia funzione economica di sostegno alla domanda aggregata (e quindi di stimolo al complesso dell’attività produttiva) sia, di nuovo, al ruolo politico che le istituzioni di tipo democratico non possono non riconoscere a tali classi (che costituiscono ovviamente la grande maggioranza di qualsiasi popolazione nel mondo attuale). Gli aspetti principali del parallelo miglioramento che si verificò nelle loro condizioni di esistenza furono un netto aumento del loro tenore di vita, una netta diminuzione del tasso medio di disoccupazione e un loro maggiore accesso all’istruzione. Nel giro di qualche decennio, questi aspetti furono sufficienti a dare diffusamente luogo alla richiesta popolare sia di un consistente miglioramento di tutta la “qualità della vita” delle classi lavoratrici (in pieno accordo con le possibilità offerte dallo sviluppo tecnico-scientifico corrente), sia di un ruolo più creativo di tali classi nei luoghi di lavoro, nelle scuole, ecc., sia di un equilibrio politico mondiale più umano, più pacifico, più ecologico e non più prono agli interessi materiali di quelle élite (che in pratica durante il boom economico avviatosi in Occidente negli anni ’50 si erano abituate a fare il bello e il cattivo tempo...). E negli anni attorno al ’68 queste complesse e sfaccettate rivendicazioni popolari iniziarono a prendere piede in numerosi paesi.

Ormai è ben noto che la maggior parte delle élite privilegiate ha risposto a tali rivendicazioni con quello che negli scorsi anni ’80 è stato definito come “edonismo reaganiano”, cioè la svolta neoliberista con la quale gran parte dei ricchi e dei potenti ha espresso un sostanziale rifiuto del senso sociale e si è invece impegnata con le unghie e con i denti per conservare ed espandere sempre più i propri privilegi e per goderseli in giro per il mondo.... Nei paesi con istituzioni democratiche ciò ha significato un conforme cambiamento nella politica di molti partiti e una complicata operazione culturale per persuadere le masse a pensare che il neoliberismo vada anche a loro vantaggio, malgrado le innumerevoli prove che attestano inequivocabilmente il contrario.

Ora, se quella svolta è riuscita ad avere effetti socialmente dirompenti ciò appare dovuto soprattutto a due aspetti: uno precedente alla svolta e uno posteriore. Il primo è proprio il fatto che nemmeno durante il “periodo d’oro” dell’intervento pubblico in economia le classi popolari abbiano acquisito un’ampia conoscenza dei meccanismi di fondo della vita economica e istituzionale, pur partecipando considerevolmente alla concretizzazione di tale intervento. Se ne occuparono, infatti, più che altro in riferimento specifico al lavoro e al welfare (che in italiano corrisponde al cosiddetto “Stato sociale”), prendendo invece riguardo a quei meccanismi di fondo un duplice atteggiamento: in parte fare riferimento ad un’ampia serie di “intellettuali di sinistra” e in parte – in un atteggiamento per lo più di delega – fidarsi del mondo imprenditoriale e di quello politico. Dopo la svolta compiuta dalle classi privilegiate e dai loro referenti politici, però, quegli intellettuali sono letteralmente quasi scomparsi in moltissimi paesi, in una generale “virata a destra” utile a ottenere favori da parte delle élite, miglioramenti del proprio status sociale individuale, ecc. (una virata che in certi casi è stata più palese ed esplicita, mentre è stata più obliqua in altri in cui si rispecchiavano le vicende della cosiddetta “sinistra moderata”, la cui presunta vicinanza ai lavoratori – pur ribadita a parole – si è trasformata con sistematicità in una mera maschera sostanzialmente vuota...). Nel contempo, gran parte dei non tanti intellettuali che hanno cercato di mantenere effettivamente una vicinanza con i lavoratori ha sofferto della generale crisi politica che ha colpito nell’ultima quarantina d’anni le altre maggiori correnti della “sinistra ufficiale”, rimaste sinora incapaci di affrontare con efficacia molte delle principali tematiche collegate alla globalizzazione dell’economia e spesso anche al sostanziale fallimento registrato sistematicamente nel medio termine dalle strategie rivoluzionarie ispiratesi in una maniera o nell’altra al leninismo [145].

Paradossalmente, da un lato quel genere di fallimento era stato ampiamente previsto da Marx ed Engels [146], mentre dall’altro lato un approccio alla globalizzazione efficacemente alternativo al neoliberismo è stato proposto con forza su scala internazionale negli anni intorno al 2000 dal “movimento di Seattle”, col sostegno anche di personalità intellettuali di fama come Joseph E. Stiglitz, Vandana Shiva, Alex Zanotelli, Susan George, Muhammad Yunus, Samir Amin (a proposito del quale si veda ad esempio l’“appello di Bamako” promosso nel 2006 da lui e da alcuni movimenti soprattutto internazionali e poi approvato anche da numerosi altri movimenti a base soprattutto nazionale) e altri ancora. Si è trattato di un approccio in cui operava un corposo intreccio tra una sorta di evoluzione globale – ed espansione creativa – dell’approccio keynesiano all’economia e un’attenzione universalistica alla “qualità della vita popolare” come fulcro di un senso sociale autentico e non formalistico (in contrasto col senso sociale formalistico e per molti versi finto che è stato mostrato sistematicamente nel ’900 sia dalla cosiddetta “sinistra moderata” occidentale che dai regimi del “socialismo reale” e dai partiti che in altre nazioni si sono ispirati a questi regimi).

Su questi argomenti però le maggiori correnti della “sinistra ufficiale” hanno mantenuto sostanzialmente una sterile e rigida chiusura, in un atteggiamento di fondo non solo esistenzialmente autoreferenziale, ma anche intellettualmente ristretto e soprattutto statico: la “sinistra moderata” ha continuato a rimanere sostanzialmente subalterna alle élite economiche (e specialmente ai settori di queste più “moderni”, in quanto più collegati allo sviluppo tecnologico, finendo così col sostituire in modo quanto mai borghese – nel proprio comportamento politico – all’evoluzione sociale l’evoluzione tecnologica come emblema e bandiera del progresso dell’umanità...), mentre le altre correnti della cosiddetta sinistra, pur mantenendo una maggior capacità critica nei confronti del capitalismo, sembrano aver pienamente dimenticato la complessità e la capacità propositiva del “socialismo scientifico” marx-engelsiano e rispetto ad esso si ispirano a tematiche molto più limitate. A sua volta, il “movimento di Seattle” non ha saputo minimamente scendere in campo nell’arena della politica, né nelle singole varie parti del mondo né – tanto meno – su una scala globale, scala che pure sarebbe evidentemente fondamentale in un’epoca appunto di globalizzazione [147]: basti notare come Marx ed Engels furono i primi a parlare sostanzialmente di una tendenza globalizzante (nel primo capitolo del Manifesto del partito comunista, nel 1848, mostrando un acume storico di estrema profondità) e come si siano poi impegnati in modi così molteplici e complessi per dare corso sia alla “prima Internazionale” tra il 1864 e il 1876 sia, quando le circostanze storiche lo consentirono, anche alla “seconda Internazionale” nel 1889 (a quel punto Marx era già scomparso da sei anni) e, contemporaneamente, per mantenere fortemente collegate tra loro le lotte sociali e quelle politiche. In altre parole, anche il “movimento di Seattle” appare essere stato colpito dunque da quella dimenticanza e da quella limitatezza....

In tal modo, dopo l’avvento della globalizzazione – che inizialmente era ancora un fenomeno più tecnologico che socio-economico, ma è stata poi rapidamente indirizzata alla propria maniera e sfruttata a proprio vantaggio dai neoliberisti, favoriti anche dalla posizione di forza che avevano già acquisito in organismi intergovernativi come il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale – si è prodotta nei movimenti più o meno popolari una clamorosa, assurda e disastrosa frattura tra la sfera della cultura e del vissuto quotidiano e il “cielo della politica”. Si tratta di una frattura – pienamente persistente ancora oggi – che ha lasciato gravemente menomate tanto la politica (togliendole la creatività della “società civile”) quanto la “società civile” stessa (togliendole lo spazio operativo evidentemente associato alla politica).

Come uno degli effetti di tutte queste vicende, tra gli scorsi anni ’80 e la metà degli anni Duemila – quando il “movimento di Seattle”, che aveva raggiunto il suo apice internazionale nel 1999, si ritrovò praticamente svaporato a seguito soprattutto della sua incapacità di incidere sulle scelte dei governi e delle istituzioni intergovernative – gli orientamenti neoliberisti si sono imposti progressivamente e sempre più stabilmente in quasi tutto il globo [148]. In pratica, una volta che per i lavoratori è andata praticamente perduta ogni effettiva collaborazione con i settori dominanti delle élite imprenditoriali e politiche e che si è enormemente ridotta la presenza di un supporto efficace da parte degli “intellettuali di sinistra”, le classi popolari si sono ritrovate sostanzialmente orfane ed impotenti per quanto riguarda in modo specifico le due tematiche di fondo per le quali contavano fondamentalmente su quella collaborazione e su quel supporto: la sfera economica – con particolare riferimento alla dimensione macroeconomica – e l’ambito costituito dalle pubbliche istituzioni [149]. E gli orientamenti neoliberisti (che dopo la “crisi dei mutui” e la pandemia da Covid-19 hanno anche imparato molto spesso ad avere un po’ di flessibilità aprendosi a un certo impiego di poderosi stimoli economici keynesiani nei momenti di grave recessione, così da evitare eccessive contestazioni e proteste popolari che persistendo nel tempo avrebbero potuto generare diffusi sentimenti antiliberisti tra gli elettori) hanno portato con sé delle corrispondenti forme di “cultura di massa” che a loro volta cercano di forgiare la mentalità popolare in maniere profondamente sintonizzate con quegli orientamenti.

Uno dei maggiori nodi epocali ancora del tutto irrisolti che sono collegati profondamente a quella frattura è il fatto che anche l’attuale crisi climatico-ambientale collegata sempre più esplosivamente all’effetto serra avrebbe potuto (e potrebbe oggi) ricevere un aiuto fondamentale da alcune delle principali rivendicazioni del “movimento di Seattle”. Il principale riferimento qui è rappresentato dalla possibilità di sanzioni economico-commerciali internazionali (nella forma di dazi doganali, ecc.) che sotto la denominazione di “clausole sociali” era stata ampiamente discussa dai governi del globo sin dagli scorsi anni ’90 – senza però passare alla fase concreta – e che poi in una versione più ampia divenne una parte nodale proprio delle proposte del “movimento di Seattle”, con l’aggiunta di tematiche ambientali a quelle sociali e con la parallela previsione di consistenti aiuti alle popolazioni del Terzo mondo mirati allo sviluppo e all’attuazione locale di tecnologie pienamente sostenibili. Questa più ampia tipologia di versione fu oggetto di molteplici discussioni intergovernative, in particolare nelle sessioni dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) degli anni 1999, 2001 e 2003, ma di nuovo senza risultato. Le clausole sociali e ambientali e le sanzioni ad esse collegate costituirebbero una cruciale forma di pressione nei confronti dei paesi dove né il governo né le aziende intendono prendersi adeguatamente carico di tematiche sociali come la salute e il benessere economico dei lavoratori locali e di problematiche ambientali come il contributo delle attività produttive locali all’effetto serra e all’inquinamento in genere [150]. Scelte governative e aziendali di questo tenore fanno sì che da un lato il mondo continui ad essere invaso da merci prodotte con modalità chiaramente dannose a molte esigenze dei lavoratori, allo stato dell’ambiente, al clima planetario e a volte anche alla salute dei consumatori, e che dall’altro lato la sempre più necessaria transizione alle fonti energetiche sostenibili continui ad essere frenata, rallentata, rimandata. Nel contempo, nel commercio internazionale il passaggio a quelle clausole – che potrebbero essere adottate e poste in atto anche da un certo gruppo di paesi, senza la necessità di un’approvazione generalizzata su scala mondiale – fornirebbe un quadro di riferimento che aiuterebbe a “normalizzare” il commercio stesso e ad evitare le piccole “guerre commerciali internazionali” che ogni tanto si innescano per questioni come gli squilibri relativi alla formazione dei prezzi nei vari paesi, i sussidi economici di Stato (alla produzione o esportazione di certi prodotti) e i dazi doganali che gli Stati possono approvare asserendo di farlo per “difendere” da quegli squilibri o da quei sussidi l’economia locale. D’altro canto, è evidente che le normative associate a tali clausole e alle sanzioni in questione colpirebbero interessi materiali come in particolar modo quelli di molte multinazionali – solitamente già ricchissime – e delle ancor più ricche aziende che storicamente estraggono e commercializzano i combustibili fossili.

Guarda caso, i governi che asseriscono a gran voce di voler affrontare seriamente l’effetto serra mostrano di non avere finora alcuna intenzione di mettere con forza sul tavolo sanzioni di quel tipo, anche se in questo modo la “lotta per il clima” rimane spuntata e quasi impotente.... Anche questo costituisce un’ulteriore conferma delle potenti – e finora quanto mai riuscite... – pressioni esercitate sui politici dalla lobby dei combustibili fossili e dalle multinazionali in genere [151]. Dopo le denunce fatte negli ultimi anni da Greta Thunberg e dai Fridays for Future a proposito del palese bla-bla-bla dei politici sul clima, numerosi di questi asseriscono di aver cambiato strada, ma alla prova dei fatti il loro finisce con l’essere in gran parte solo un ulteriore bla-bla-bla sul bla-bla-bla....

 

2. Keynes, Kalecki e le tendenze della società attuale

Dal punto di vista delle dinamiche storiche che abbiamo vissuto dopo la “crisi del ’29”, è particolarmente interessante che nella prima metà degli scorsi anni ’40 un acuto e poliedrico economista allora operante in Gran Bretagna, il polacco Michal Kalecki, commentando le proposte keynesiane – ormai conosciutissime all’epoca – avesse essenzialmente previsto sia l’incremento delle rivendicazioni dei lavoratori che sarebbe conseguito a una loro situazione socioeconomica divenuta meno precaria e soffocante grazie proprio all’attuazione di quelle proposte, sia la successiva reazione conservatrice e antipopolare che sarebbe stata posta in atto da un’ampia parte delle élite economiche (a questo riguardo si veda soprattutto il suo articolo Aspetti politici del pieno impiego, pubblicato originariamente in inglese nel 1943 nella rivista Political Quarterly e basato su una conferenza tenuta a Cambridge nella primavera del 1942) [152]. In pratica, si tratta effettivamente di quello che è avvenuto nell’ultimo terzo del ’900 proseguendo poi nel secolo attuale.

In sostanza, alla luce sia delle considerazioni politiche di Kalecki inerenti alle prospettive economiche indicate da Keynes sia delle vicende storiche dell’ultimo secolo, traspare che alla fin fine l’opera di Keynes fu soprattutto un indicare al mondo una serie di possibilità per trasformare in senso sociale ed umano l’economia di mercato, invitando tra le righe – nel contempo – la classe imprenditoriale ad aprirsi a dimensioni culturali più sensibili, più filosofiche e meno strettamente legate alla dimensione materiale della vita, mentre Kalecki commentò che gli pareva strano che la borghesia cambiasse pelle.... E la storia ha chiarito che nel complesso Kalecki non aveva tutti i torti [153].

Più in particolare, le vicende storiche suggeriscono che per molti esponenti delle élite economiche ciò che più conta non sono tanto le ricchezze in se stesse quanto i privilegi e il potere, che fanno sentire tali élite in una posizione particolarmente stabile alla barra del timone della sfera socio-economica della società e che finiscono col consentire ai ricchi di avere a disposizione – come lavoratori sottomessi o addirittura sostanzialmente come servi – persone dei ceti più svantaggiati: i ceti esposti alla miseria, o anche semplicemente alla paura della miseria (in questo senso può trattarsi anche della grande maggioranza delle classi popolari, e ciò specialmente nelle epoche di tipo liberista, nelle quali i diritti riconosciuti ai lavoratori sono generalmente molto striminziti e vi è generalmente una considerevole disoccupazione, di modo che i lavoratori stessi sono particolarmente esposti agli eventuali ricatti occupazionali degli imprenditori). Kalecki metteva in rilievo già a quell’epoca la consistente presenza di questa tendenza nel mondo imprenditoriale, traendone che, se in futuro gran parte di questo mondo avesse adottato tale tendenza con decisione e aggressività, per le classi lavoratrici e per le forze politiche progressiste sarebbe stato estremamente opportuno non rinunciare alle ampie potenzialità offerte a tali classi da appropriati interventi economici pubblici e non cedere dunque agli orientamenti politici conservatori (e in linea di massima contrari alle idee di tipo keynesiano) inevitabilmente collegati a quella tendenza. Kalecki era comunque ben consapevole della complessità di una tale eventuale situazione, in cui il mantenimento di scelte politiche autenticamente progressiste avrebbe richiesto nella società un estremo equilibrio tra una serie di fattori sociali, economici, politici e culturali e la presenza di una marcata lungimiranza nelle scelte governative concrete (e in fondo anche nelle rivendicazioni stesse dei lavoratori, che potevano risultare decisive e nodali nel costituirsi dell’atmosfera culturale complessiva del momento).

È evidente che la tendenza al rifiuto delle politiche keynesiane notata già allora da Kalecki tra le classi privilegiate non solo in occasione del New Deal negli Usa ma anche durante il governo Blum – di sinistra – in Francia e durante la repubblica di Weimar in Germania (col conseguente rischio di forti contrasti sociali tra forze politiche progressiste e forze conservatrici, dai quali potevano derivare risultati e situazioni non necessariamente favorevoli alle classi popolari, come mostrò tragicamente ad esempio nella prima metà degli anni ’30 in Germania l’avvento del nazismo, pietra tombale della repubblica di Weimar) e la marcata insoddisfazione allora vissuta comunemente dalle classi popolari sia nell’economia liberista di mercato, sia nelle società di tipo fascista, sia nello stalinismo divenuto ormai imperante in Urss ponevano ai movimenti dei lavoratori dubbi e incertezze tattico-strategici e domande di fondo che non potevano essere risolti in maniere sbrigative, generiche o totalmente aprioristiche, ma avrebbero dovuto essere affrontati di volta in volta con sensibilità, lucidità, discernimento e senso democratico in base alle effettive circostanze storiche del momento. Non a caso, su tutto ciò Kalecki evitò di addentrarsi in possibili particolari e si mantenne nell’ambito di un discorso prospettico generale e incentrato su questa problematica storica vista nel suo insieme. E anche in seguito – con le prolungate esperienze da lui fatte prima nell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) collegata alle Nazioni Unite, poi nel Dipartimento di economia dell’Onu stessa e poi in Polonia lavorando come economista per lo Stato nel periodo post-staliniano – Kalecki continuò a notare quella marcata insoddisfazione delle classi popolari sia nel mondo ad economia di mercato (dove tra i politici, sotto l’influsso anche della “guerra fredda”, erano sempre più diffuse delle forme reazionarie di autoritarismo, come negli Usa il maccartismo), sia ovviamente nelle dittature fasciste, sia nei paesi del “socialismo reale”: lui stesso in Polonia si trovò spesso in netto contrasto con la semplicistica superficialità e/o con la tendenza autoritaria della dirigenza del partito al potere (partito fortemente sottomesso a sua volta alla semplicistica superficialità e all’autoritarismo della dirigenza dell’Urss...). In tal modo, sembrava non esserci nel vissuto delle esperienze socio-politiche dell’epoca alcuna evidente direzione positiva in cui operare dal punto di vista delle classi lavoratrici. Lo schiacciamento della “primavera di Praga” nel 1968 da parte degli eserciti dell’Urss e di altri paesi del “patto di Varsavia”, la parallela repressione governativa abbattutasi in quello stesso anno sui movimenti studenteschi, intellettuali e artistici polacchi che chiedevano una maggiore libertà nel paese (repressione cui Kalecki reagì dando le dimissioni dalle sue attività per le istituzioni statali) e il caos associato in Occidente ai primi tempi degli “anni intorno al ’68” non aiutarono certo Kalecki ad uscire da queste sue perplessità e a dar loro una soluzione, dato anche che la sua scomparsa nel 1970 (a 70 anni) gli consentì di vedere solo molto poco dei notevoli frutti – e successi – sindacali, sociali e culturali emersi progressivamente dal ’68 e poi combattuti così duramente e aspramente dall’“edonismo reaganiano” sino ad oggi.

Per molti versi, le tematiche politiche e strategiche qui in gioco sono strettamente collegate a quelle su cui si erano focalizzati Marx ed Engels nel loro ultimo scritto corposo sia come singoli che come coppia di autori, e cioè per Marx la Critica al programma di Gotha (del 1875), per i due assieme la loro prefazione all’edizione russa del 1882 del Manifesto del partito comunista (una prefazione corposa non certo dal punto di vista della lunghezza, ma da quello dei contenuti, sui quali i due autori si erano applicati molto a lungo, scegliendo poi di esprimersi alla fine con un’estrema essenzialità) e per Engels la sua Introduzione del 1895 al marxiano Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850: tematiche che dal tardo ’800 sino all’epoca di quell’articolo di Kalecki (e in fondo anche in seguito) nessuno era più riuscito a trattare con un sguardo a 360 gradi analogo per profondità a quello marx-engelsiano [154]. Kalecki stesso si limitò, in pratica, soltanto ad accennare alla complessità di tali tematiche e alle perplessità che non potevano che sorgere tra le classi popolari di fronte alle forme quanto mai involute e complicate assunte dalla “politica reale” nella parte centrale del ’900, tanto in Occidente quanto nel “socialismo reale”, e ciò malgrado il clamoroso sviluppo scientifico e tecnologico allora in corso e le enormi potenzialità di progressi socio-economici collegate a tale sviluppo. Kalecki, tuttavia, nel periodo in cui scrisse quel suo cruciale articolo già ricordato ne scrisse anche un altro – dal titolo I fattori essenziali minimali della pianificazione democratica – che apparve nella rivista laburista Labour Discussion Notes del settembre 1942 e che suggeriva una prospettiva politico-economica comprendente la nazionalizzazione delle maggiori aziende operanti nei settori strutturali della produzione industriale, nella finanza e nel vasto insieme dei servizi pubblici (aziende che avrebbero poi dovuto essere coordinate e dirette nella loro attività da un istituto centrale per la pianificazione economica, il quale a sua volta avrebbe dovuto essere responsabile di fronte al Parlamento) e «il pieno controllo pubblico sul sistema bancario e finanziario, sugli investimenti e sul commercio estero e forse sull’allocazione delle materie prime di base e dei prodotti di prima necessità», il tutto tenendo presente che la «pianificazione democratica [...] implica pianificare con l’obiettivo che i bisogni dell’intera comunità ottengano nel lungo termine la massima soddisfazione». In seguito, comunque, Kalecki non ha insistito nei suoi scritti sui particolari di questa prospettiva, suggerendo in tal modo anche che per lui lo spirito democratico fosse in essa l’aspetto più fondamentale e in pratica richiedesse – più che schemi e modelli teorici già prefissati a priori – un’ampia capacità di analisi, di dialogo, di ascolto dell’intera popolazione implicata e di discussione politica nel momento stesso, di fronte cioè alle varie circostanze sociali, economiche e culturali correnti.

Ad ogni modo, né il fatto che l’“edonismo reaganiano” fosse stato praticamente previsto una quarantina d’anni prima da Kalecki né le esperienze concretamente vissute negli ultimi decenni sotto l’egida neoliberista sono serviti sino ad ora a far uscire le classi popolari dal loro scarso interesse per le dinamiche interne dell’economia e della sfera politico-istituzionale, atteggiamento che fa sì che in questi due campi cruciali della moderna vita sociale tali classi continuino di fatto a rimanere dipendenti dal mondo imprenditoriale e dal ceto politico-intellettuale (che in grandissima parte ha perso allo stato attuale ogni legame con i lavoratori capace effettivamente di autenticità e soprattutto di efficacia). In pratica, si tratta di una dipendenza che ha avuto e continua ad avere nel complesso effetti gravissimi sulla qualità generale della vita popolare.

 

3. Ulteriori dinamiche culturali

Nel mondo di oggi, un aspetto socio-culturale di grande rilevanza è il fatto che nei paesi “sviluppati” – con la scusa dell’importare dal Terzo mondo prodotti che vengono commercializzati per tutti a prezzi alquanto più bassi di quanto avverrebbe se li si producesse localmente (dai computer agli smartphone, dagli elettrodomestici agli indumenti, dalle automobili a vari macchinari industriali, dalle scarpe di tipo sportivo ai giocattoli, ecc., per non parlare dei prodotti agricoli tropicali come ad esempio caffè, cacao e banane, generalmente coltivati per i colossi del commercio mondiale da lavoratori retribuiti molto poco e praticamente costretti ad usare tecniche colturali molto inquinanti e dannose per i terreni) [155] – i sostenitori del neoliberismo cercano di far digerire e gradire ai lavoratori di tali paesi la maniera quanto mai elitaria e antiecologica in cui è stata gestita la globalizzazione in questi 35 anni. Ma la realtà è che, in media, in questi paesi il tenore di vita delle classi popolari è nettamente peggiorato in tale periodo: in Italia, ad esempio, negli scorsi anni ’70 lo stipendio medio di un lavoratore era sufficiente a mantenere una famiglia di quattro persone, facendo studiare due figli fino all’università, arredando in modo moderno una casa, avendo un’auto, facendo solitamente almeno un paio di settimane di villeggiatura all’anno, ecc., mentre oggi occorrono tipicamente due stipendi per fare le stesse cose.... Accettando le logiche neoliberiste diffuse nel globo dai governi dei maggiori paesi “sviluppati”, i lavoratori di questi paesi hanno accettato un estremo sfruttamento internazionale dei loro colleghi del Terzo mondo, con l’effetto indiretto di un drammatico indebolimento anche della propria posizione nell’ambito della società [156].

Oltre tutto, è un complesso di situazioni che tende con forza – per lo meno nel breve e medio termine – a trasformarsi in un circolo vizioso autoperpetuantesi. A spingere a ciò vi sono in primo luogo le attuali dinamiche economiche e politico-culturali di fondo, che allontanano sempre più le élite dalle classi popolari – sia per le risorse e il reddito disponibili (caratterizzati da diseguaglianze sempre più enormi), sia per le attività svolte quotidianamente e per le conoscenze impiegate in tali attività, sia per i luoghi di residenza e di frequentazione – e che tendono anche a indurre sottilmente innumerevoli divisioni in tali classi per facilitarne lo sfruttamento (divisioni facilitate dalla reciproca concorrenza in un “mercato del lavoro” oggi dominato dalla precarietà e basate su aspetti come la professionalità, lo status sociale, il continente di residenza e spesso anche su ulteriori fattori specifici tra i quali i più frequentemente implicati appaiono essere la nazionalità, la religione, il sesso di appartenenza, il livello di istruzione, le tradizioni della propria cultura e le proprie origini etniche), mentre gli esponenti delle élite privilegiate danno comunemente scarsissimo peso nelle interrelazioni tra di loro a tutte queste “bandiere identitarie”, riservate in pratica al “popolino ignorante e dominato dalla visceralità o dall’emotività”: per loro esiste in sostanza un’unica – e tra loro condivisa – “bandiera identitaria”, e cioè far parte delle élite stesse.... Ma spingono a quel circolo vizioso anche specifici cambiamenti che sono in atto nel mondo scolastico. Non a caso, negli ultimi decenni prima della svolta neoliberista degli scorsi anni ’80 molte persone che giungevano agli studi universitari avevano come obiettivo sia il conquistare un maggiore benessere personale sia il contribuire al bene comune e in particolar modo al benessere popolare, mentre dopo la svolta – sotto le continue pressioni economiche e culturali del neoliberismo – si tende molto di più a studiare quasi soltanto a beneficio proprio e dei propri futuri interlocutori economico-produttivi....

Oggi generalmente l’istruzione stessa viene impostata dall’alto nella direzione di specializzazioni sempre più esasperate, indirizzate a produrre degli esperti di qualche campo particolare che sanno molto poco di quasi tutto il resto e che in tal modo sono “programmati” per essere – nel loro lavoro – anche degli strumenti utilizzabili di fatto dal potere politico-economico nei suoi vari aspetti oppure degli osservatóri versati negli àmbiti teorici ma non in quelli pratici. E a ciò si affianca la maniera estremamente superficiale e spessissimo manipolativa in cui i maggiori mass-media affrontano sistematicamente i nodi cruciali della vita sociale, in sintonia con gli obiettivi correnti delle élite economiche che li possiedono o di quelle politiche che – quando si tratta di media pubblici – generalmente li gestiscono (e tra questi obiettivi uno dei più importanti è il mantenere estremamente disinformata sul “dietro le quinte” di tali nodi la “popolazione comune”, così che questa percepisca solo una “superficie di facciata” – magari anche quanto mai inesatta e fittizia – sia degli eventi in corso sia della storia dell’umanità...) [157]. Si cerca così, in sintesi, di mantenere al di fuori delle prospettive della stragrande maggioranza della popolazione umana il saper pensare (sentire, riflettere, approfondire, progettare, ecc.) a 360 gradi in maniera critica, creativa, innovativa e tendenzialmente fattibile, tanto più all’interno di una società tecnicamente e strutturalmente complessa – e quindi basata di fatto su una grande quantità e varietà di informazioni – come quella attuale.

In precedenza, invece, c’era una certa considerazione per il senso della vastità della cultura e per il riconoscimento dell’arricchimento reciproco e dell’armonia potenziale che potevano collegare tra di loro le discipline maggiormente scientifiche e le discipline maggiormente umanistiche (come avevano colto con particolare forza prima i principali esponenti di correnti culturali come il Rinascimento e l’Illuminismo e poi i movimenti alternativi caratterizzati dalla capacità di non cadere in dogmatismi e di mantenere una concezione aperta e libertaria della cultura, oltre naturalmente ai singoli intellettuali più capaci di una “visione integrata” della cultura e della vita anche sull’onda degli stimoli forniti da quelle correnti e da quei movimenti).

Prima della controcultura giovanile affermatasi soprattutto nella seconda metà degli scorsi anni ’60 e nei seguenti anni ’70, nelle università predominavano comunque atteggiamenti egocentrici e ispirati eminentemente ad una “scalata sociale” personale. Scriveva ad esempio a questo proposito Aldo Capitini nell’articolo Impegno dell’Università, nel numero di gennaio 1966 del mensile Il potere è di tutti: «Nel mondo universitario [...] l’individualismo è molto spinto, e gli uni e gli altri, gli studenti e i docenti, considerano il trovarsi all’Università come mezzo per avvantaggiarsi in quanto individui. [...] Mi sembra che gli universitari, studenti e docenti, non abbiano la consapevolezza del proprio impegno verso la società, come fatto da tenere in primo piano», e in tal modo – per quanto riguarda sia il presente (dei docenti) che il futuro (degli studenti) – viene trascurato il fatto che la propria professione non è soltanto una «espressione di sé» e una «fonte di guadagno», ma anche «un modo di essere in rapporto con la società di tutti, [...] un impegno concreto verso tutti, [...] un modo di esprimere la riconoscenza per ciò che si riceve da tutti».... La controcultura di quegli anni diede un considerevole respiro a consapevolezze e sensibilità come queste suggerite da Capitini, ma il crescente ritorno dell’impostazione liberista nella società ha rispostato verso l’individualismo l’ago della bussola nella mentalità universitaria. Parallelamente, dopo un periodo piuttosto breve in cui lo spirito critico e la creatività tematica caratteristici del ’68 erano riusciti a conquistarsi uno spazio notevolmente ampio nel mondo mediatico, le tendenze predominanti di quest’ultimo sono tornate verso la superficialità, la spettacolarizzazione e l’ipocrisia, di modo che da molti punti di vista è cambiato decisamente poco rispetto a quanto denunciava Guy Debord nel 1967 nel libro La società dello spettacolo [158]....

Per chi non fa parte delle élite privilegiate, il problema più grosso è che stanno chiaramente funzionando i tentativi delle élite stesse – o per lo meno della loro ampia parte che sostiene il neoliberismo – di emarginare socialmente tutti gli altri, di mantenerli appunto sostanzialmente disinformati (o addirittura mal informati) sulle principali dinamiche della società e di manipolarli psicologicamente per molti versi.... In un mondo che evidentemente – come si osservava nell’appendice inserita nella terza parte di Il neoliberismo non è una teoria economica [159] – «non appare avere particolari riguardi per noi, esponendoci a vari tipi di disastri naturali, a pericolosi predatori e parassiti, a malattie potenzialmente devastanti, e via dicendo, per non parlare dei rischi provenienti dal comportamento di altri esseri umani [...], tanto più durante la nostra prima e seconda infanzia quando ci è particolarmente difficile autotutelarci da alcunché», un mondo in cui per di più «non appare esservi alcuna sintonia di fondo che accompagni il nostro venire al mondo», così che «una parte molto ampia delle potenzialità creative presenti in ciascun essere umano» finisce frequentemente col rimanere «del tutto inespressa (e addirittura in molti casi resta letteralmente nascosta, pienamente ignorata, sostanzialmente ignota, persino agli occhi del soggetto stesso...)» e che parallelamente prende forma la tendenza a «un enorme spreco di risorse umane» e a «un grandissimo accumulo di sofferenze esistenziali», ne consegue una sorta di sommatoria tra questa spesso aspra “ruvidezza originaria della natura” (a volte talmente ruvida da rischiare il senso dell’assurdo, come hanno messo in rilievo specialmente diversi filosofi esistenzialisti durante gli ultimi secoli) e l’estremo impoverimento culturale che il neoliberismo sta cercando di sovraimporre sia alle potenzialità interiori e concrete dei miliardi di persone che appunto non fanno parte delle élite (come è evidente dai fortissimi squilibri sociali prodotti dal neoliberismo e dai vari ulteriori effetti che ne derivano), sia alle potenzialità interiori dei pochi che delle élite fanno parte (come è evidente dal cinismo, dall’insensibilità umana e dalla distruttività ambientale associati ovunque al neoliberismo). E il risultato di questa sommatoria è devastante, come mostrano sia l’attuale proliferazione mondiale di fame (nonostante risorse esistenti e accessibili che sarebbero più che sufficienti per tutti), di malattie prevenibili e curabili, di disastrosi squilibri ambientali e climatici indotti dall’umanità stessa e di guerre, sia il tremendo senso di impotenza che la stragrande maggioranza della popolazione umana sente di fronte a queste problematiche a dispetto del fatto che – come è stato messo ampiamente in evidenza nel globo da una serie di scienziati, economisti, attivisti, psicoanalisti, filosofi e giuristi impegnati per il “bene comune” – esse siano ampiamente risolvibili [160].

Intermezzo 2: Appunti aggiuntivi sulle problematiche storiche “vissute” dal pensiero di Keynes e da quello di Syroežin

Nel presente intervento si è già accennato alle prospettive economiche particolarmente interessanti, stimolanti e feconde che sono state suggerite, oltre che da Keynes in Occidente nella prima metà del ’900, da Ivan Mikhajlovic Syroežin in Urss nella seconda metà: prospettive che – in entrambi i casi – in parte più o meno ampia sono rimaste purtroppo nella sfera delle potenzialità inattuate [161].

Benché come economisti abbiano ambedue lasciato un’enorme eredità potenziale dopo la loro scomparsa (una scomparsa decisamente prematura per entrambi, tra l’altro), sia Keynes che Syroežin appaiono esser stati iper-ottimisti – o un po’ sognatori – nella loro “visione politica complessiva”. Keynes tendeva appunto a pensare che la borghesia potesse diventare abbastanza facilmente colta, aperta, sensibile e filosofa come era lui (che proveniva dalla classe borghese e che in pratica ha continuato ad esserne un esponente), mentre invece ciò proprio non è successo sino ad ora, anzi.... Syroežin tendeva a ragionare come se in Urss ci fosse la “proprietà sociale di produzione” di cui parlava Marx, ma di fatto le cose non stavano per niente così e c’era invece una “proprietà statale di produzione”, influenzata per di più da una gestione dello Stato profondamente burocratica e gerarchica nella quale non predominavano intellettuali acuti e multidimensionali come lui, ma tutt’altro....

Come si è appena visto, a mettere inizialmente in dubbio quell’iper-ottimismo di Keynes ci pensò rapidamente – già nel 1943 – l’economista polacco Michal Kalecki, allora “in trasferta a Londra” e straordinariamente “profetico” nel prevedere cosa sarebbe successo nella società per effetto di diffuse politiche di tipo keynesiano. In seguito, nella vita concreta, la smagliante e creativa positività dell’economista britannico fu smentita prima dall’elitario e guerrafondaio dirigismo dell’Occidente durante il boom economico postbellico e poi soprattutto dal trionfo che l’“edonismo reaganiano” – come reazione al ’68 – riuscì ad avere progressivamente nell’orientamento politico-culturale borghese: un trionfo che avviò nel mondo, da parte della borghesia, una vera e propria liquidazione delle politiche keynesiane, divenuta ormai sempre più generalizzata allo stato attuale. Non si può evitare la nettissima sensazione che i neoliberisti vorrebbero far letteralmente dimenticare all’intera popolazione umana non solo ovviamente il pensiero socialista di tipo umanistico e libertario (che oltre a mettere in discussione la società e il pensiero borghesi si pone come immediato superamento filosofico-culturale dell’uno e in prospettiva come trampolino per il superamento concreto dell’altra), ma anche – e per certi versi soprattutto – l’esistenza concreta che hanno avuto durante l’ultimo centinaio d’anni le politiche di tipo keynesiano....

Ai sostenitori del neoliberismo appare invece fare molto comodo che rimanga nel mondo un solido ricordo – o una diffusa consapevolezza – del “pensiero socialista di tipo autoritario” che da Stalin in poi ha dominato e continua a dominare in tutte le nazioni del cosiddetto “socialismo reale” (e che in realtà non appare minimamente degno di essere chiamato socialista, in quanto prima appunto di Stalin non esisteva storicamente alcuna significativa compatibilità tra il termine “socialismo” e un concetto come l’autoritarismo; in altre parole, è una compatibilità che è stata sostanzialmente un’invenzione dello stesso Stalin, il quale ha prodotto così una tragica e quanto mai fuorviante frattura nei confronti praticamente di tutto il pensiero socialista precedente...). In tal modo, il ricordo – o la consapevolezza – dell’autoritarismo caratteristico della tendenza politica nata un secolo fa con Stalin e il contemporaneo oblio in cui si cerca di far cadere il socialismo umanistico e libertario spingono le persone a identificare appunto il pensiero socialista con caratteristiche come l’autoritarismo e il verticismo e a pensare parallelamente che in pratica non ci possa essere una decente alternativa al capitalismo (in quanto un socialismo calato rigidamente dall’alto e strutturalmente autoritario è in fondo qualcosa di spiacevole che tende facilmente ad essere ancora peggiore del capitalismo), mentre l’oblio in cui si cerca di far cadere le politiche keynesiane spinge a sua volta le persone a pensare che nel capitalismo non ci possa essere alcuna effettiva alternativa al liberismo.... Alla fin fine, visto che nella mentalità corrente è purtroppo molto diffuso il fatto che la connessione col pensiero socialista umanistico e libertario e persino il ricordo di quest’ultimo tendano ad essere subissati, ricoperti e sostanzialmente schiacciati dall’esperienza dell’autoritario “socialismo reale”, per i neoliberisti non c’è quasi neanche più bisogno di criticare quel pensiero, mentre sono invece le politiche keynesiane ad essere divenute il principale avversario da cercare di distruggere.... E, nel caso in cui non funzioni a sufficienza il tentativo di far finire nell’oblio i princìpi keynesiani, è già bell’e pronto l’insistente ricorso mediatico a un dispregio che – a dispetto dei tanti risultati positivi ottenuti in molte parti del mondo da tali princìpi – equipara aprioristicamente (e falsamente) l’intervento economico pubblico ad una mera occasione di corruzione, di inefficienza e di galoppante incompetenza e quindi pretende di poterlo liquidare pubblicamente, senza bisogno di ulteriori discussioni, come forma di malgoverno e di ingannevole propaganda burocratica [162]: una bufala politica cui naturalmente i maggiori mass-media sono prontissimi a fare da megafono e da “cassa di risonanza”....

A smentire a sua volta l’iper-ottimismo di Syroežin ci hanno pensato gli oligarchi dell’Urss, pronti addirittura a distruggere l’Urss stessa pur di evitare il tentativo gorbacioviano di democratizzarla (tentativo, peraltro, condotto in modi anch’essi quanto mai iper-ottimisti, drammaticamente sognatori e – per molti versi – incapaci di vedere in profondità dietro la superficie delle cose, risultando così quanto mai ingenui e carichi di illusioni...). È estremamente probabile che Syroežin abbia fatto finta di non accorgersi della sconfortante realtà oligarchica e pesantemente burocratica dell’organizzazione economica dell’Urss da Stalin in poi, perché voleva comunque riuscire a portare avanti il suo bel lavoro, per lo meno su un piano teorico se non gli era possibile passare ampiamente anche alla sfera pratica. Analogamente, è probabile che Keynes – pur notando ovviamente i limiti mostrati comunemente dalla parte predominante della borghesia occidentale nelle proprie scelte politico-economiche – abbia voluto continuare a sperare nella possibilità di una positiva evoluzione di tali scelte (grazie anche all’opera dello stesso Keynes) e, parallelamente, in un prossimo futuro che per tutti potesse essere più bello di quanto era stata la prima metà del ’900.

L’affermarsi del neoliberismo come “risposta” delle classi privilegiate, e in particolar modo di quella imprenditoriale, al ’68 e in una certa misura anche al potente ruolo economico che politici e “burocrati pubblici” si erano costruiti durante i decenni del boom economico grazie all’ampio spazio d’iniziativa affidato in molti campi alla pubblica amministrazione (P.A.) dalle politiche keynesiane (un ruolo che ha infastidito non pochi imprenditori, desiderosi di riaffermare nella società lo scettro economico che detenevano prima di Keynes e/o di difendersi da fenomeni come clientelismo, burocratizzazione, malgoverno, ecc., che non di rado hanno finito con l’accompagnare significativamente la concreta attuazione di quelle politiche e quindi anche con l’influenzarla) rappresenta un argomento che è stato discusso e approfondito ormai abbastanza ampiamente. Invece, l’affermarsi del dirigismo statalista proposto come radicale alternativa al capitalismo privatistico basato sul mercato – un’alternativa però altrettanto elitaria e gerarchica, anche se su basi prevalentemente politiche anziché economiche (ma questo cambiamento di basi non impedisce che ci si possa e debba chiedere fino a che punto sia corretto il termine “alternativa”, visto il permanere dell’orientamento elitario e gerarchico...) [163] – costituisce una sorta di peculiarità storica su cui i commentatori si sono spesso espressi in modo superficiale e schematico perché schierati ideologicamente o a favore di quello statalismo (e delle varie figure storiche che lo hanno incarnato con pienezza, a partire da Stalin, Mao e Fidel Castro) o contro di esso. Vale dunque la pena di lanciare uno sguardo più profondo a certe sfaccettature, non molto discusse, sia della radice storica di questo tipo di esperienze – spesso riassunte appunto con l’espressione “socialismo reale” (o “socialismo realizzato”) – sia dei significati concreti che tali esperienze hanno assunto e delle implicazioni che ne conseguono [164].

In pratica, lo statalismo è uno dei possibili aspetti di fondo che sono emersi storicamente già millenni fa in varie società precapitalistiche, orientate specialmente in senso assolutistico o addirittura imperiale: in queste si tendeva ad identificare il monarca della regione come il rappresentante simbolico dell’intera società locale e, parallelamente, come il detentore di un controllo e di un potere globali su tutto quanto esistesse nel territorio, incluse le risorse naturali e anche le attività produttive stesse, affidate sì in pratica alle comunità locali o a singoli individui aventi qualche particolare capacità tecnica, ma viste in sostanza come possedimenti dello Stato e del monarca in quanto incarnazione di quest’ultimo [165]. Persino gli esseri umani erano non di rado considerati in questo tipo di società come una sostanziale “proprietà” del monarca, che poteva farne ciò che voleva in tali casi, avendo su ciascuna persona un riconosciuto – e pressoché indiscutibile – potere di vita o di morte (ciò anche se un monarca particolarmente brutale e personalista poteva generalmente aspettarsi qualche forma di diffusa ribellione o qualche tentativo di “colpo di Stato”...). E, nei primi tempi del mondo moderno influenzato da estreme “novità” come il crescente industrialismo e la classe borghese, incentrata sulle attività imprenditoriali, non a caso lo statalismo tentò di riproporsi specialmente all’interno di una situazione politico-istituzionale di tipo imperiale quale quella tedesca (come Engels sottolineò in modo profondamente critico già intorno al 1880 in testi come l’Antidühring, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza e Il socialismo del sig. Bismarck e anche in seguito in ulteriori scritti come Per la critica del progetto di programma socialdemocratico 1891, ironizzando causticamente sul «socialismo di Stato» proposto dal Cancelliere Bismarck, dalla sua corrente politica e da altre correnti da essa influenzate...) [166].

In correlazione con questa caratteristica storica, strutturalmente lo statalismo fa una grande fatica a cercare sia di mettere in moto quel tipo di spinta tecnologica ed economica che contraddistingue specificamente il capitalismo sin dalle origini di quest’ultimo (e che è evidentemente collegato all’esistenza di una molteplicità di imprese indipendenti l’una dall’altra e di un mercato in cui i prodotti delle diverse imprese possano “competere” tra di loro), sia di mantenere poi dinamicamente in moto una tale spinta nel caso in cui lo statalismo cerchi di subentrare ad un capitalismo ancora rampante e in sviluppo [167]. Non appare dunque casuale che tutte le società che nel mondo in via di sviluppo sono nate da rivoluzioni orientate a parole in senso socialista – e “marxista” – ma nei fatti in senso statalista (a dispetto ad esempio delle esplicite osservazioni di Marx sul fatto che la transizione al socialismo avrebbe dovuto essere chiaramente caratterizzata da un progressivo passaggio da «funzioni statali» a «funzioni sociali», come si sottolineava nella Critica al programma di Gotha) abbiano finito col reinserire nel proprio funzionamento corpose quantità di economia capitalistica oppure siano cadute in difficoltà economiche molto pesanti.

Questo insieme di considerazioni – e di dinamiche storiche tra passato e presente – aiuta anche a comprendere come quel passaggio da «funzioni statali» a «funzioni sociali» prospettato da Marx avesse pressoché certamente significati non solo politici (nell’evidente senso di una forte tendenza alla “democrazia dal basso” e al parallelo cautelarsi dalla possibilità di una involuzione autoritaria, rigida e riduttiva di tale “società di transizione” a seguito di un eccessivo potere concentrato nei vertici statali), ma anche economici. Ciò in quanto la creatività produttiva e tecnico-scientifica apportata tipicamente al capitalismo da delle innovative e spesso perseveranti iniziative di singoli o di piccoli gruppi di persone avrebbe faticato enormemente – in una futura società di transizione al socialismo – a venire sostituita efficacemente da una presunta creatività statale, mentre alquanto più facilmente avrebbero potuto riuscirci delle iniziative fondate appunto su “funzioni sociali”, molto più collegate alle comunità locali (con i tipici spazi da esse offerti anche a forme di lavoro sostanzialmente autonomo come le piccole aziende artigiane o contadine) e a realtà economiche di piccole dimensioni come possono esserlo ad esempio le cooperative (che dal punto di vista strutturale sono anche particolarmente aperte a delle possibili forme di spiccata creatività) [168]. Con la proliferazione di tecnologie particolarmente complesse che è iniziata nel ’900 (e che per ora non appare affatto prossima ad arrestarsi), è divenuto sempre più evidente che, nell’eventualità di una tale transizione, alle “funzioni sociali” in questione dovrebbe essere strettamente associata anche una molteplicità di centri autonomi di ricerca scientifico-tecnologica e sanitario-ambientale ai quali le principali istituzioni pubbliche e comunitarie dovrebbero evidentemente affidare dei compiti fondamentali per l’intera società, in relazione anche a quanto è stato già messo in evidenza – nella terza parte del presente intervento – nel paragrafo “Un approfondimento prospettico: ambiente, economia, ‘socialismo reale’ e forme di democrazia, anche alla luce di un attuale contesto scientifico-filosofico complessivo di ‘armonia possibile’ e di deciso rifiuto di questa da parte delle élite dominanti”. In ciò si dovrebbe tener conto che proprio la molteplicità di tali centri e la loro rispettiva autonomia dovrebbero essere dei sostanziali fattori-chiave per poter evitare tendenzialmente in tale ricerca l’assestarsi e il persistere di lacune concettuali, rigidità, ideologizzazioni, infondati preconcetti, personalismi, ecc..

Tra l’altro, la profonda accentuazione posta da Marx ed Engels, a proposito della società di transizione, sulla “democrazia dal basso” e su quella che potrebbe essere chiamata la “creatività produttiva dal basso” fa comprendere meglio anche il fatto che nel “socialismo scientifico” ottocentesco non ci fossero né una fissazione psicologica per la “conquista del potere” né una sorta di urgenza passionale ed emotiva prima per la prefigurazione di tale conquista e poi – nel caso di un successo in quest’ultima – per una sorta di sacralizzazione del potere, in quanto il fulcro della trasformazione della società per Marx ed Engels non era affatto la “conquista del potere” (e tanto meno poi l’insistito e assolutizzato mantenimento di questo potere da parte di una dirigenza specifica), ma qualcosa di molto più complesso, variegato e sfaccettato come la capacità collettiva di indirizzare efficacemente la società in una direzione sia liberatoria ed evolutiva dal punto di vista sociale e culturale, sia creativa e sostenibile dal punto di vista produttivo: capacità in cui è inclusa anche la prospettiva – da trasformare poi in un percorso concreto – di una progressiva distribuzione del potere tra l’intera popolazione, fino al punto di dissolvere sostanzialmente il concetto stesso di “potere politico” (un percorso collegato anche alla progressiva “estinzione dello Stato”, alla quale Engels ha fatto cenno – con l’esplicita e piena approvazione di Marx – specialmente nei già ricordati Antidühring e L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza) [169]. Molto probabilmente, a proposito di gran parte della cosiddetta “sinistra rivoluzionaria” novecentesca Marx parlerebbe di “feticismo della rivoluzione” o di “rivoluzione come feticcio”, con tutti i controproducenti effetti collaterali messi in moto da un meccanismo psicologico come quello del feticismo e del trasformare in feticcio una prospettiva o un evento [170]....

Addentrandosi maggiormente nei particolari, sono state tentate e sperimentate diverse strade economiche nella storia del “socialismo reale”. In Russia, a reinserire dopo la rivoluzione corpose quantità di economia capitalistica ci provò dapprima Lenin con la Nep già nel 1921, dando tra l’altro motivatamente ascolto alle richieste economiche di molte voci provenienti – più che dall’interno del partito bolscevico – direttamente dalle classi popolari. Dopo però che l’anno successivo lo stesso Lenin fu colpito da una grave malattia (con sintomi soprattutto cerebrovascolari) che lo portò poi alla morte in un paio d’anni, i politici ed economisti russi non riuscirono proprio a “far funzionare” in maniera fluida la Nep e questa fu smantellata negli anni ’30 dal ritorno staliniano ad un rigido e aspro statalismo, simile a quello che era stato instaurato dal governo bolscevico durante la guerra civile nel triennio 1918-20. Negli anni ’80, sotto le pressioni derivanti dall’evidente ritardo che l’economia russa stava accumulando nei confronti dell’Occidente, ci riprovò Gorbaciov ma lo fece molto malamente, col risultato che il capitalismo – in una sua forma estremamente approfittatrice, cinica e affarista – si mangiò letteralmente lo statalismo che aveva dominato per più di mezzo secolo in Urss e per quasi mezzo secolo negli altri paesi del “Patto di Varsavia” [171]. In Cina dopo la scomparsa di Mao – la cui impostazione politico-economica intensamente anticapitalistica non era riuscita a dare risposte efficaci alla grave e storica “povertà di massa” della Cina [172] – sono stati aperti progressivamente degli enormi spazi al capitalismo occidentale (in particolare alle multinazionali) e in una certa misura anche a delle forme capitalistiche locali, pur preservando politicamente il “solito” monopartitismo estremamente gerarchico, alquanto repressivo, pesantemente sessista, rigidamente strutturato, ecc.. Anche qualche altro paese, come in particolar modo il Vietnam, ha poi intrapreso una strada simile a quella della Cina post-maoista [173]. A Cuba c’è una situazione che può assomigliare per molti aspetti (anche politici) alla Nep leniniana, e in effetti ci sono anche persistenti problemi economici e politici simili a quelli che la Nep e il contemporaneo potere bolscevico ebbero appunto in Russia un secolo fa. In Corea del Nord – per il poco che se ne sa – è rimasta stabilmente una situazione politica molto simile allo stalinismo “ortodosso”, accompagnata economicamente da un tenore di vita delle masse molto basso (con ripetute e diffuse crisi addirittura di fame e sottonutrizione) [174].

Ora, il fatto che Syroežin abbia compiuto interessantissime elaborazioni sulla pianificazione economica e che, però, in nessuno dei paesi che nel ’900 hanno compiuto rivoluzioni di ispirazione socialista (alcuni dei quali hanno ancora governi che asseriscono di avere quell’ispirazione) si sia cercato seriamente di porre in atto le complesse e dinamiche prospettive sviluppate da Syroežin appare collegabile a una fortissima contraddizione presente nella situazione socio-politica di quei paesi. Da un lato, il loro potere politico ha asserito invariabilmente di operare appunto per il socialismo e generalmente anche di portare avanti il pensiero “marxista”, di modo che quel potere stesso non ha potuto che lasciare consistenti spazi sia alla diffusione della letteratura collegata all’idea del socialismo – e a Marx in particolare – sia ai teorici correnti del socialismo (incluso tra essi Syroežin nell’Urss della seconda metà del ’900). Questi ultimi hanno avuto così l’effettiva possibilità di dedicarsi allo sviluppo di diversi aspetti di tale idea, per lo meno finché hanno evitato di mettere intensamente in discussione il monopartitismo posto in atto inizialmente dai bolscevichi e poi “sacralizzato” nel sistema politico imposto da Stalin e ripetutosi sostanzialmente anche dopo le rivoluzioni cinese, vietnamita, cubana, cambogiana, ecc.: un sistema basato su una ristretta e ferrea oligarchia (sostanzialmente di partito), con aspetti solitamente dittatoriali. Dall’altro lato, in realtà questo sistema non ha pressoché nulla in comune col socialismo di Marx e di quasi tutta la sua generazione, non essendo affatto democratico e liberante, né tendenzialmente egualitario (e ciò non solo in linea generale ma anche più in particolare nel rapporto tra i sessi), né culturalmente antidogmatico, né indirizzato verso le “funzioni sociali”, né impostato stabilmente sulla “proprietà sociale dei mezzi di produzione”, e così via: anzi, l’orientamento concreto di questi paesi va in direzioni che nel complesso risultano pressoché contrarie a quelle sostenute da Marx.... In tal modo, il discorso sviluppato da Syroežin era – ed è – applicabile solo in teoria ai paesi in questione: in pratica, avrebbe richiesto una società estremamente diversa e anche una mentalità politica estremamente diversa, cioè una società e una mentalità molto più simili a quanto prospettato da Marx ed Engels (così come da tanti altri socialisti ottocenteschi che avevano sostanzialmente accolto l’approccio politico-culturale marx-engelsiano o che comunque condividevano le sue principali prospettive) nelle loro considerazioni sulla “transizione al socialismo” e sulle potenzialità del socialismo stesso.

A quanto pare, sia il pensiero di Keynes che quello di Syroežin hanno sbattuto alla fin fine contro la realtà del classismo e contro la “lotta di classe” che nella vita concreta è associata a tale realtà [175]. In altre parole, una gran parte dei gruppi sociali privilegiati esistenti da un lato in Occidente e dall’altro in quei regimi non ha accettato le proposte che rispettivamente Keynes e Syroežin hanno sapientemente indirizzato al “bene comune” – o benessere collettivo – e si è impegnata intensamente per prendere tutt’altre strade da essa ritenute più vantaggiose per i propri specifici interessi materiali, riuscendo sostanzialmente in questo (ovviamente ad ampio danno del “bene comune”...) grazie evidentemente alla propria posizione privilegiata. Nel caso di Keynes – per maggiore precisione – in un primo tempo le sue proposte sono state accettate in maniera alquanto parziale e solo in un secondo tempo sono state messe sempre più in disparte. Nell’Occidente capitalistico l’esistenza di questo tipico classismo delle élite economiche e politiche lo si può trovare “spiegato”, sin dal tardo ’700, da mille autori operanti in vari campi (dall’economia alla psicologia, dalla sociologia alla storia, dalla politica alla filosofia, ecc.): autori che in tal modo hanno anche reso addirittura prevedibile in linea di massima la prosecuzione che tale classismo ha avuto – e continua ad avere – nel corso del tempo. Diversamente, il classismo sviluppatosi nell’ambito di quei regimi, e più specificamente proprio nella personalità di numerosi di coloro che erano stati tra i più impegnati “rivoluzionari socialisti” (i quali per definizione potevano essere considerati invece, per lo meno in teoria, degli acerrimi avversari del classismo...), lo si è potuto trovare “spiegato in anticipo” – e persino previsto – soltanto in pratica nel femminismo e nel “socialismo scientifico” marx-engelsiano.

In un certo senso, per il femminismo era una questione più “semplice”, in quanto la diretta esperienza delle donne suggerisce loro con una certa facilità e chiarezza che gli uomini che non vogliono condividere ampiamente il loro potere con le donne non possono essere dei veri “rivoluzionari avversari del classismo” (così che, quando i vari “socialismi realizzati” novecenteschi mostrarono il loro fortissimo maschilismo escludendo radicalmente dalle “stanze dei bottoni” della propria politica le donne, non fu certo difficile per le femministe percepire al volo lo spirito classista di quei regimi – in corso di formazione o ormai stabilizzati – che si riempivano la bocca con parole roboanti come “socialismo”, “comunismo”, “democrazia popolare”, ecc. ma lo facevano, di fatto, in modi sempre più vuoti e tronfi...). Già nel momento in cui un concetto moderno di democrazia cominciò ad emergere diffusamente in Europa e in America dopo secoli di feudalesimo e di quasi indiscusso predominio aristocratico (cioè con la rivoluzione francese di fine ’700 e con il suo ampio riecheggiare in entrambi i continenti), cominciò ad emergere tra le donne la consapevolezza che – necessariamente – una vera democrazia non poteva che includere sia la metà maschile del mondo che quella femminile (che invece molti uomini tendevano ipocritamente e sciovinisticamente a lasciare da parte e ad ignorare socialmente, gelosi dei propri privilegi sessisti tipicamente associati alle società patriarcali...). A questo proposito, si vedano ad esempio la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, scritta da Olympe de Gouges e diffusa a Parigi nel 1791 nel contesto della rivoluzione francese, e Una rivendicazione dei diritti della donna, di Mary Wollstonecraft, pubblicata a Londra subito dopo, nel 1792 [176]. Socialisti ottocenteschi come Fourier (e come appunto Marx ed Engels, che seguirono Fourier in questo), sottolineando in sostanza che la qualità e l’equità eventualmente presenti – o assenti, o sussistenti in modo lacunoso e incerto – nel rapporto tra uomini e donne costituiscono la misura più significativa del grado di civiltà di una popolazione, si permisero acutamente ed empaticamente di impiegare anch’essi quella saggezza femminile nel valutare una cultura, una corrente politica, un governo, ecc. (e di suggerire caldamente ai posteri di impiegare anche loro tale saggezza nel valutare culture, correnti politiche, governi, ecc.) [177].

Colpiscono, peraltro, l’insistenza, l’aggressività e non di rado la violenza che un’ampia parte del mondo maschile ha continuato a mettere in quella difesa dei propri privilegi (giuridici e/o culturali).... Parallelamente, quanta fatica le donne abbiano fatto in questi secoli – e stiano ancora facendo – per cercare di dissolvere quei privilegi che pretendono di fatto una posizione sociale femminile stabilmente subalterna lo si può ricavare, oltre che da una semplice osservazione degli eventi correnti e dai ricordi di molte donne, da scritti come ad esempio Il secondo sesso, di Simone de Beauvoir (Il Saggiatore, 1961; ediz. originale in francese 1949), Famiglia e repressione sessuale, di Laurel Limpus (in La rivoluzione più lunga - Saggi sulla condizione della donna nelle società a capitalismo avanzato, a cura di Mariella Gramaglia, Savelli, 1972; articolo originale in inglese 1968), La politica del sesso, di Kate Millett (Rizzoli, 1971), L’infamia originaria - Facciamola finita col Cuore e la Politica, di Lea Melandri (L’Erba Voglio, 1977), e, più recentemente, Il piacere è sacro, di Riane Eisler (Frassinelli, 1996; Forum, 2012; titolo originale Sacred Pleasure), Un pensiero al giorno (per donne che amano troppo), di Robin Norwood (Feltrinelli, 1998), Quintessenza - Realizzare il Futuro Arcaico, di Mary Daly (Venexia, 2005; ediz. originale in inglese 1998), La donna intera, di Germaine Greer (Mondadori, 2000), Nel potere della Sapienza - Spiritualità femministe di lotta, volume monografico a cura di María Pilar Aquino e Elisabeth Schüssler Fiorenza (Concilium, dicembre 2000), Basta! - Musulmani contro l’estremismo islamico, a cura di Valentina Colombo (Mondadori, 2007), e La scomparsa delle donne, di Marina Terragni (Mondadori, 2007) [178]. Anche le lotte internazionali in corso da tempo contro il traffico di esseri umani – soprattutto donne – a scopo di sfruttamento sessuale, contro le mutilazioni genitali femminili (specialmente in Africa), contro il fenomeno delle “spose bambine” (specialmente in Asia) e più in generale contro i maltrattamenti inflitti da uomini a donne (e non di rado culminanti in quelli che oggi vengono chiamati “femminicidi”) attestano le grandissime sofferenze a cui molte donne sono costrette in numerose culture.

Va notato che alla loro epoca Marx ed Engels ampliarono ulteriormente la questione, in effetti, perché presentarono un’aperta e dinamica “visione d’insieme” che, poggiando sulle correnti di pensiero dialettiche del passato e sulla già abbondante ricchezza di contenuti di tali correnti (si pensi soprattutto alla Grecia più o meno antica di Eraclito, Diotima, Socrate, Euripide, Epicuro, ecc. e ad una serie di filosofi, scienziati e artisti di epoche più recenti, come soprattutto il Rinascimento e l’Illuminismo) [179], aggiunse a questa ricchezza una profondità di sguardo sulla società contemporanea e sulle sue tematiche che era – ovviamente – impossibile per quelle correnti del passato, le quali non potevano certo conoscere le dinamiche e le problematiche delle moderne società tecnologiche, industrializzate e scientificamente sempre più evolute. In particolare, mentre erano atteggiamenti come il volontarismo o la genericità a predominare tipicamente nelle linee di pensiero socialiste precedenti a Marx ed Engels (i quali le criticavano indicativamente in quanto utopistiche o in quanto fortemente influenzate in un modo o nell’altro da qualcuna delle classi privilegiate dell’epoca), la complessa “visione d’insieme” marx-engelsiana sostituì a queste caratteristiche predominanti uno sguardo dialettico e a 360 gradi sui vari aspetti della società e della cultura umane, tra i quali in special modo proprio i rapporti intercorrenti tra le principali componenti sociali – classi, ceti, ecc. – identificabili in una comunità locale, tenendo accuratamente conto in ciò di diversi fattori: le condizioni di vita caratteristiche di ciascuna di tali componenti; le tendenze culturali e le prospettive riscontrabili in ciascuna di esse; gli obiettivi concreti tendenzialmente evolvibili da parte di ciascuna di esse; i rapporti di tale comunità con le varie componenti sociali presenti in altre parti del mondo; le possibili modalità di evoluzione di questi rapporti a seconda di eventuali cambiamenti storici futuri nella comunità stessa o nel resto del mondo. Ed è degno di nota che, tra le osservazioni e previsioni storiche elaborate da Marx ed Engels anche sulla base dello studio di questi rapporti sociali, una delle più essenziali – e delle più ripetute nel tempo – è stato il fatto che dopo una rivoluzione, anche se attuata da movimenti e forze che sostenevano di operare per tutti i cittadini, poteva benissimo presentarsi di nuovo un assestamento sociale di tipo classista (magari diverso da prima) in cui un gruppo di “vincitori” finiva col costituirsi come nuovo gruppo dominante ponendosi in pratica al di sopra di tutti gli altri.

Analogamente (e correttamente), è evidente che generalmente i governanti affermatisi durante il ’900 nei paesi in cui era avvenuta una riuscita rivoluzione di ispirazione socialista si aspettavano la possibilità di un possente (ri)prodursi di contrasti e consistenti conflitti tra classi, ceti e gruppi di popolazione anche dopo una tale rivoluzione, però a quanto pare se lo aspettavano specialmente in due sole forme specifiche: quella di uno scontro interno tra spirito rivoluzionario proletario e nostalgie borghesi – incluse quelle piccolo-borghesi – e quella di un attrito internazionale tra tendenze capitalistiche e tendenze socialiste. Del resto, furono proprio quelle due forme a presentarsi concretamente subito dopo la prima di queste rivoluzioni, nella guerra civile russa degli anni 1918-20 (la quale vide l’intromettersi di governi e forze armate di altri paesi in appoggio ai controrivoluzionari russi). Conformemente, quei governanti mantennero in politica interna un atteggiamento molto prevenuto ed emarginante nei confronti delle persone che tendevano ad esprimere forme culturali caratteristiche di strati sociali diversi dalla “classe operaia” (che nella visione storica marx-engelsiana tendeva ad essere la principale forza rivoluzionaria capace di porre in termini concreti la prospettiva del socialismo) [180] e dai gruppi intellettuali che avevano esplicitamente aderito – per lo meno a parole – alla causa operaia e al “marxismo”. I governanti in questione però non compresero minimamente che – rispetto alle passate stratificazioni della società – ancor più rilevante e significativo in tale (ri)prodursi era lo stratificarsi presente della società post-rivoluzionaria: in tal modo, il nuovo perno del formarsi di contrasti e consistenti conflitti tra classi, ceti e gruppi di popolazione era costituito – molto più che dalla “vecchia” appartenenza alla classe borghese, o a quella contadina, o alla parte del ceto intellettuale non ispirata al “marxismo”, ecc. – da tutt’altro: le differenze di potere – e di influenza sulla gestione delle risorse e dell’economia – esistenti correntemente tra le “nuove” élite politiche (cioè, in pratica, soprattutto quei governanti stessi...) e i “cittadini comuni” [181]. O se lo compresero finirono col far finta di nulla e si godettero la posizione privilegiata che detenevano nella nuova stratificazione sociale....

In altre parole, quei governanti evitarono accuratamente di storicizzare la propria “nuova” posizione (sociale ed esistenziale) di amministratori pubblici, di leader politici con responsabilità statali, ecc., come se la storia si fosse fermata e loro fossero rimasti cristallizzati nella loro “vecchia” posizione – e soprattutto nella loro corrispondente mentalità – di rivoluzionari emarginati, combattuti dal “sistema” dominante e, proprio per questo, particolarmente ricchi di genuino spirito popolare, ribelle e ovviamente proletario.... Parallelamente, al livello della “nuova politica ufficiale” l’eventuale comparsa di scontri tra i governanti in questione non veniva minimamente presentata come una possibile “battaglia di potere” o come un possibile conflitto tra ambizioni personali, ma sempre come il cedimento di qualcuno di quei governanti al “vecchio” spirito borghese o piccolo-borghese che faceva parte delle caratteristiche dell’ambiente culturale in cui tutti erano cresciuti e vissuti prima della rivoluzione. Persino la vera e propria guerra che Stalin fece a quasi tutti gli altri principali esponenti storici del bolscevismo russo – mandando, di fatto, praticamente a morte ciascuno di essi in una maniera o nell’altra – venne liquidata ufficialmente dallo stesso Stalin come una lotta proletaria contro delle traditrici deformazioni borghesi (spesso appoggiate e pilotate, per di più, da qualche ricco paese capitalistico dell’Occidente...), anche se la cosa non era minimamente plausibile per chi conoscesse un po’ da vicino la storia e le vicende personali dei bolscevichi. Del resto, questa implausibilità e le enormi falsificazioni staliniane sono state poi ampiamente confermate e documentate in seguito, a partire dalla “destalinizzazione” kruscioviana. Ma il tendenziale silenzio mantenuto comunemente dai leader degli altri regimi del “socialismo reale” su quella terrificante guerra – prima politica e poi anche mortalmente concreta – condotta da Stalin nel suo stesso partito la dice lunga sia sulla vicinanza culturale tra questi leader e Stalin sia sulla passione di tutti loro per l’autoritarismo (addirittura Mao – che si trovava nella posizione di uno dei due principali leader del “socialismo reale” mondiale, mentre l’altro era ovviamente il premier in carica nell’Urss – dopo la “destalinizzazione” russa criticò molto più quest’ultima che Stalin...).

In breve, le analisi della società corrente compiute da quei governanti in carica – e compiute a parole secondo lo spirito marxiano – si sono sempre fermate in modo pressoché assoluto alla soglia degli uffici e dei palazzi che essi utilizzavano: in pratica, essi stessi erano esclusi dalle loro analisi ed erano per sempre “quelli di prima” (cioè genuini, popolari, proletari, rivoluzionari, ecc.), mentre gli eventuali loro compagni di strada che avevano deviato rispetto a loro erano semplicemente caduti nella vecchia malattia borghese, sempre pronta a ripresentarsi come potrebbe fare un vecchio tumore o una vecchia infezione....

Col tempo, peraltro, anche la capacità di quei governanti di analizzare il resto della società nella quale si trovavano – un processo d’analisi per l’appunto sempre “ufficialmente marxista” – si è dissolta e complessivamente svaporata nella sostanza. Basti notare che, con l’industrializzazione e con le – spesso forzate – collettivizzazioni agricole, nei paesi in questione la “classe operaia” e il “proletariato in genere” si sono enormemente espansi e sono divenuti numericamente di gran lunga maggioritari, mentre all’epoca delle originarie rivoluzioni erano nettamente minoritari ed è proprio soprattutto su questa base che i vertici del partito appena giunto al potere avevano cercato di giustificare l’estremo accentramento del potere stesso nelle proprie mani, anziché in quelle del popolo (in quanto in quest’ultimo – come prevedeva in linea di massima il “socialismo scientifico” marx-engelsiano, trattandosi di paesi poco industrializzati all’epoca della rivoluzione, e come in effetti accadeva anche nel concreto – tendeva a predominare uno spirito localistico, piccolo-borghese e piuttosto tradizionalista, e non quello spirito rivoluzionario, universalistico e contemporaneamente alquanto aperto ai progressi tecnico-scientifici che appariva collegabile, per lo meno potenzialmente, soprattutto al proletariato e ancor più specificamente agli operai...). Però, nonostante gli enormi cambiamenti che sono sopravvenuti nella composizione sociale della popolazione locale durante il periodo post-rivoluzionario, quei governanti (o i loro successori) si sono ben guardati dal cedere – o meglio trasmettere – il potere a quella che loro stessi hanno sempre continuato a definire la “classe rivoluzionaria”, in nome e per conto della quale era stata fatta la rivoluzione....

A queste osservazioni e considerazioni si può aggiungere che in pratica è stato solo dopo la scomparsa di Mao, con la vittoria politica della corrente di Deng Xiaoping in Cina (vittoria che in seguito portò al progressivo sdoganamento dello “spirito dell’arricchirsi” sostenuto appunto da Deng), che nel “socialismo reale” – riguardo a qualche governante caduto in disgrazia – si è cominciato a parlare pubblicamente ed ampiamente non più soltanto di cedimenti allo spirito borghese, ma anche e soprattutto di caratteristiche personali come una strabordante ambiziosità e una spiccata sete di potere. È così che in seguito a quella vittoria politica avvenuta nei vertici cinesi vennero apostrofati ufficialmente in particolar modo i membri della “Banda dei quattro”, gruppo che si opponeva aspramente a Deng e alle sue idee. A questo proposito va anche evidenziato comunque che Deng – essendo già allora intriso programmaticamente e piuttosto palesemente di spirito borghese – non poteva certo fare accusare di tale spirito i suoi oppositori [182].... Diversamente dagli ex-governanti caduti in disgrazia, i governanti in carica nei regimi del “socialismo reale” vengono sempre presentati ufficialmente come immuni da forti ambizioni personali e votati al perseguire le strategie più benefiche possibile per il loro intero paese, come farebbe un “buon padre” (sempre pronto comunque a far valere pesantemente la sua autorità e la sua capacità di punire chi la pensa diversamente da lui, all’occorrenza...) e come facevano gli imperatori del passato riconosciuti storicamente come i più capaci e lungimiranti. E con questi riferimenti – tra lo psicologico e il mitico – a plurimillenarie categorie patriarcali come da un lato il padre di famiglia e dall’altro lato specialmente gli antichi imperatori che erano riusciti ad unificare un territorio prima suddiviso in tanti staterelli solitamente in frequente lite tra loro (categorie concettuali sostanzialmente identiche, a quasi 10.000 chilometri di distanza, a quelle dei latini di due millenni fa, con il loro pater familias e i loro vari monarchi susseguitisi nel tempo e complessivamente visti come costruttori di un impero...) si ottiene una semplicissima e chiarissima introduzione storico-culturale all’autoritarismo, al paternalismo, al maschilismo e al fortissimo senso gerarchico tipici dei regimi in questione: peccato che tutto questo non c’entri per nulla con i movimenti socialisti precedenti alla dittatura staliniana e in particolare col pensiero marx-engelsiano....

Fra i governanti che hanno fatto la storia del “socialismo reale”, solo Gorbaciov cercò di attuare di spontanea volontà e in una consistente misura quella trasmissione del potere dalla dirigenza del partito proclamatosi “centro dello Stato” ai cittadini in quanto tali, ottenendo inizialmente anche una consistente approvazione popolare e una significativa collaborazione di intellettuali nei paesi del “Patto di Varsavia”. Tuttavia – benché l’intenzione di fondo di Gorbaciov fosse evidentemente buona in senso socialista (in pratica, si trattava di un ritorno ai valori e alle aspirazioni associati pubblicamente alla “rivoluzione d’Ottobre”, con i vantaggi offerti nel frattempo da settant’anni di miglioramenti tecnologici, industriali, ecc.) – altrettanto evidentemente l’analisi da lui compiuta della società corrente parrebbe esser stata così lacunosa da portare a risultati finali quanto mai disastrosi (sempre ammesso che potesse esistere un modo per concretizzare con successo un progetto come quello gorbacioviano).... A questo specifico riguardo, è effettivamente possibile che il sistema oligarchico post-stalinista fosse così strutturato, potente e intrinsecamente corrotto da essere in grado di rifiutare comunque qualsiasi democratizzazione generalizzata, eventualmente ricorrendo anche – per l’appunto – alla deliberata dissoluzione dell’impostazione statalista nell’Urss e negli altri paesi del “Patto di Varsavia” e al parallelo passaggio a forme di privatizzazione economica e di regionalizzazione dirette “sotterraneamente” dal sistema stesso e quanto mai favorevoli agli oligarchi del momento.... Se cioè quel sistema era in effetti così corrotto e così potente da avere questa capacità (ma forse non si potrà avere mai la “prova provata” di questo, come succede spesso nelle valutazioni storiche), allora Gorbaciov più che superficiale è stato un attore inconsapevole che senza rendersene conto ha attivato un processo storico che a sua volta ha riportato tutti quei paesi nell’ambito del “solito” – e storicamente consueto – classismo privatistico di tipo borghese, che era stato interrotto dalla rivoluzione russa e poi anche dalla “conquista” staliniana dell’Europa orientale durante la seconda guerra mondiale. Nel corso di tale interruzione, quel classismo privatistico era stato sostituito alla fin fine da un altro classismo (statalista di tipo politico-burocratico), nato paradossalmente – sotto la dittatura staliniana – come estrema e drammatica deformazione delle idee socialiste che durante l’Ottocento avevano cominciato a conquistarsi un grande e crescente seguito grazie al loro progressismo e alla loro profonda attenzione per l’umanità e per il suo ambiente di vita. In questo senso, Gorbaciov sarebbe stato quindi il motore inconsapevole che ha posto fine all’assurdità sociale e culturale prodotta da Stalin e sopravvissuta in gran parte durante il trentennio successivo che vide susseguirsi alla direzione dell’Urss Krusciov, Brežnev, Andropov e Cernenko. In altre parole, inconsapevolmente Gorbaciov avrebbe tolto il velo che era stato posto ipocritamente sul volto del classismo da Stalin e avrebbe riportato così quel volto alla luce del giorno.

In una maniera per certi versi parallela (anche se diversissima nelle modalità), Deng potrebbe dunque essere considerato il principale distruttore – ma molto più consapevole di quanto lo fosse Gorbaciov – dell’aspetto economico del sistema maoista, mentre invece permane sostanzialmente ancora oggi l’aspetto politico-istituzionale di tale sistema (sistema simile comunque a quello staliniano, nonostante alcune tendenziali diversità) [183]. In tal modo, in Cina – e poi anche nei paesi del sud-est asiatico che hanno seguito una strada politico-economica simile alla sua (simile ma, a quanto parrebbe, anche un po’ più sobria, anche come effetto indiretto delle tremende guerre che il Vietnam ha dovuto affrontare per decenni prima con la colonialista Francia e poi con gli imperialisti Stati Uniti e che in pratica hanno finito col coinvolgere anche i paesi ad esso vicini) – l’economia capitalistica si è ampiamente diffusa nel “socialismo reale” durante l’ultimo mezzo secolo, assumendo in ciascuno dei paesi implicati una forma specifica fortemente elitaria e internazionalizzata (e spesso intensamente sfruttatrice), attuata sotto la supervisione politica del partito nazionale al potere.

Nel complesso, così, durante il tardo ’900 l’economia capitalistica ha ampiamente riconquistato quasi tutte le parti del mondo che una per una avevano cercato di distaccarsene con le riuscite rivoluzioni novecentesche di ispirazione socialista, e l’ha fatto quasi senza colpo ferire (solo in Cina vennero messi in carcere i principali oppositori di questa svolta politica, cioè i membri della “Banda dei quattro” e vari loro associati). Le uniche eccezioni a questa riconquista sono rimaste in pratica la Corea del Nord e – ma solo in parte – Cuba: eccezioni dove peraltro molta gente vive da tempo in difficoltà economiche più o meno gravose e il sistema di governo – come del resto avviene anche in Cina e nei paesi del sud-est asiatico ad essa politicamente vicini – appare godere di poco consenso effettivo tra la gente [184].

A margine dell’opera di Syroežin si può fare un’ulteriore considerazione di fondo. Se nella Russia degli scorsi anni ’30 fosse stata presa una strada simile a quella che qualche anno fa è stata riassunta ad esempio in Quale economia oggi per il bene comune? (specialmente nel paragrafo “Integrare pluralisticamente il mercato”), cioè un mix progressista di iniziativa economica pubblica, di attività effettivamente cooperativistiche, di lavoro artigianale ed autonomo, di possibilità concesse all’economia comunitaria (che in Russia era ancora ampiamente presente nelle zone rurali soprattutto con l’obšcina, una tradizionale forma contadina di proprietà comune della terra) e – proseguendo con più efficacia lo stile della Nep – di economia capitalistica non solo accompagnata da un sapiente uso del fisco sui redditi elevati e da un consistente incoraggiamento governativo all’azione sindacale dei lavoratori, ma anche influenzata dal pensiero keynesiano, che proprio allora stava emergendo potentemente in Occidente [185], non ci sarebbe affatto da stupirsi se Syroežin qualche decennio dopo trovasse comunque spazio per i suoi studi sulla pianificazione economica: in altre parole, non bisogna pensare che la creatività e la genialità di Syroežin – che era nato nel 1933 – avrebbero potuto esprimersi solo in un’economia rigidamente statalista come quella dell’Urss staliniana e post-staliniana. E magari in una tale società progressista Syroežin sarebbe pure riuscito ad essere un economista non soltanto teorico, ma anche coinvolto profondamente nell’evoluzione concreta dell’economia vissuta e sviluppata dalla popolazione russa....

Se a proposito di questa serie di tematiche si cerca di compiere una sintesi essenziale mettendo a confronto col pensiero marx-engelsiano (quale “punta di diamante” del socialismo ottocentesco) le maggiori correnti della cosiddetta sinistra novecentesca (tutte sostanzialmente attive ancora oggi), spicca in modo particolare il fatto che la “sinistra rivoluzionaria”, pur insistendo comunemente sull’essere rigorosamente “marxista”, ha avuto un approccio estremamente riduttivo rispetto a quello marx-engelsiano sull’intera questione degli assetti sociali post-rivoluzionari (una questione ovviamente cruciale per chi si autodefinisce “rivoluzionario”) e, nel contempo, ha finito tipicamente col tornare al volontarismo utopistico – o addirittura “rozzo” e reazionario – che predominava in molte delle correnti socialiste precedenti appunto a Marx ed Engels. Questa riduttività e questo ritorno sono stati accompagnati non solo da un sostanziale predominio di comportamenti autoritari, sessisti e complessivamente oppressivi, ma anche da una comprensione delle elaborazioni marx-engelsiane decisamente scarsa e da una serie di drammatiche distorsioni, di pesanti fallimenti e di colossali ipocrisie che di fatto finiscono con l’essere pressoché inevitabilmente collegati al volontarismo stesso, se questo persiste nel tempo: si tratta infatti di una serie di fenomeni che esprimono nella vita concreta l’intrinseca tendenza del volontarismo alla forzatura, o in altre parole al pretendere di far dominare sul mondo la propria soggettività indipendentemente dalle esistenti “condizioni oggettive” e/o dall’autentica soggettività della popolazione di un determinato territorio considerata nel suo insieme. In modo pressoché speculare, le altre principali correnti della sinistra novecentesca sono tipicamente tornate invece, in vari modi, all’altra maggiore caratteristica presente nel socialismo precedente a Marx e ad Engels, e cioè la tendenza alla genericità e ad una confusionaria superficialità (una caratteristica cui Engels associava in particolare – in senso chiaramente negativo – l’aggettivo “eclettico”, come si trova ad esempio nel primo capitolo dell’Antidühring e di L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza).

Tra l’altro, tutto questo fornisce un’ulteriore conferma sia della erroneità delle principali tesi concretizzate da entrambe le correnti politiche novecentesche che – provenendo direttamente dal pensiero socialista ottocentesco – hanno dato un valore sostanzialmente generalizzato, totalizzante e strategico al loro approccio politico-culturale (cioè la “sinistra moderata” e la “sinistra rivoluzionaria”), sia della fondamentale giustezza delle principali osservazioni e previsioni del “socialismo scientifico” marx-engelsiano.

Una congrua risposta politica al neoliberismo: integrare l’approccio marx-engelsiano con le scoperte storiche ad esso successive e con le più profonde elaborazioni culturali del ’900

Ciò riporta l’ago della bussola del discorso politico alla selezione e setacciatura (quasi da “selezione darwiniana delle specie”...) che avvenne nel movimento socialista ottocentesco tra le varie impostazioni e le varie correnti presenti in tale movimento e che, col tempo, vide alla fine – per l’appunto – una sorta di positivo e nitido riconoscimento generale della particolare profondità e capacità evolutiva dell’approccio marx-engelsiano, che a partire da quegli anni ’70 venne anche definito come “socialismo scientifico” [186]. Come ha riassunto retrospettivamente ad esempio Paul M. Sweezy nel 1949 (nella Presentazione di un volume pubblicato in italiano nel 1971 da La Nuova Italia col titolo Economia borghese ed economia marxista e contenente scritti risalenti al periodo a cavallo tra ’800 e ’900 e dovuti alla penna di Eugen von Böhm-Bawerk, Rudolf Hilferding e Ladislaus von Bortkiewicz), «in Europa, il socialismo organizzato godette di una rapida ascesa negli ultimi tre decenni del diciannovesimo secolo; proprio durante questo periodo, entro il movimento socialista del continente, il marxismo prese il sopravvento sulle scuole e sulle dottrine rivali» [187].

Purtroppo, dopo la scomparsa prima di Marx e poi di Engels, nessun altro all’epoca sembrò riuscire a districarsi altrettanto creativamente ed esaurientemente tra filosofia, senso sociale, rapporti umani, politica, economia e storia. In tal modo, lo spirito del “socialismo scientifico” marx-engelsiano finì lentamente – ma progressivamente – col perdersi per la società, in un crescente dissolvimento che esplose in maniera eclatante nel 1914, con lo scoppio della prima guerra mondiale e con la sostanziale accettazione che finirono col darle molti partiti di tendenza socialista: un’accettazione quanto mai incredibile, a confronto ad esempio con quanto aveva pubblicato la “prima Internazionale” nel 1870 sulla crisi bellica franco-prussiana e l’anno seguente sulla connessa vicenda della “Comune di Parigi” [188].... Quella perdita sostanziale si moltiplicò ulteriormente nei successivi anni ’20 e ’30, che videro gran parte dell’altra principale corrente di sinistra – la corrente cosiddetta “rivoluzionaria” (che rifiutando la prima guerra mondiale si differenziò intensamente dalla corrente di orientamento sostanzialmente “moderato” che appunto aveva finito con l’accodarsi ai governi guerrafondai) – invischiarsi dapprima nello scarso interesse per la democraticità mostrato in Russia dai bolscevichi e precipitare infine nello stalinismo, che trasformò le idee democratiche, libertarie, profondamente umane e politicamente trasparenti del socialismo ottocentesco praticamente nel loro contrario....

Nel corso del ’900 e sino ad oggi, altri gruppi di sinistra – solitamente alquanto minoritari o tipici di specifici territori – hanno preso posizioni sia per molti versi più congrue sia più in sintonia con le origini del moderno movimento socialista e con la sua storia (gruppi definibili in linea di massima come “socialisti massimalisti” prima del ’68 e come “sinistra spontaneista”, “sinistra riformista-keynesiana”, “sinistra ecologista”, “sinistra radicale” o “sinistra bioregionalista e tribale” dal ’68 in poi) [189], ma anch’essi, nonostante appunto svariati loro punti di vista molto interessanti e stimolanti, sono rimasti tipicamente preda di quello che Engels chiamava “eclettismo”, mantenendo atteggiamenti eccessivamente superficiali e/o sostanzialmente irrisolti su diverse questioni basilari di fondo che risultano impossibili da trascurare per un movimento che si proponga come universalistico. E per l’appunto – mentre il “socialismo primitivo” caratteristico di popolazioni come quelle tribali era (ed è tuttora, dove sopravvivono culture marginali di tipo tribale) basato inevitabilmente su degli orizzonti fondamentalmente locali, anche se disponibili generalmente ad ampie forme di collaborazione con altre popolazioni – il “socialismo moderno” non può che essere universalistico, essendo immerso strutturalmente nel proliferare del commercio e delle comunicazioni su una scala sempre più ineludibilmente planetaria, o in altre parole in quelle che sono diventate sempre più chiaramente durante questi ultimi secoli l’economia e la cultura del “villaggio globale”.

 

1. Pesanti errori concettuali

Il principale perno concettuale su cui si è poggiata l’estrema distorsione novecentesca del pensiero marx-engelsiano dalla quale hanno preso l’abbrivio gli antidemocratici regimi del cosiddetto “socialismo reale” può essere considerato probabilmente il “feticismo della rivoluzione” cui si è già accennato, o in altre parole l’idea semplicistica e riduttiva – spesso molto più emotiva che ragionata e complessivamente motivata – che la “conquista del potere” fosse l’unica cosa veramente significativa che potevano fare i lavoratori. È un’idea che a un primo sguardo potrebbe magari sembrare semplicemente superficiale e un po’ troppo incline a dei sogni ottimistici, e in fondo potrebbe anche essere in effetti così, se non fosse stata trasformata a poco a poco in qualcosa di irriducibilmente persistente, di incrollabile, di dogmatico: in tal modo, quella iniziale e semplice tendenza alla superficialità e ad un eccessivo ottimismo è diventata col tempo un modo assurdamente rigido e catastroficamente fuorviante di pensare e di prospettarsi il futuro, con conseguenze drammatiche, distruttive, spesso mortali in varie maniere. Dietro e a fianco di quell’idea ci sono comunque gravi errori, sia nei confronti del pensiero marx-engelsiano e dei suoi frutti, sia nei confronti di quella che può essere considerata una “saggezza umana di fondo”, sia nei confronti specifici dell’evoluzione storica (tecnico-scientifica, economica, climatico-ambientale, ecc.) che ha avuto luogo dopo la scomparsa dei due fondatori del “socialismo scientifico”. Di tali errori – diventati tanto più gravi proprio a seguito di quell’atteggiamento persistente e dogmatico – si possono qui sottolineare in modo specifico diversi aspetti principali.

In primo luogo, anche se quei regimi si sono sempre compiaciuti di autodefinirsi come i continuatori dell’opera di Marx ed Engels, in realtà essi hanno spezzato in maniera tragica il senso stesso sia del socialismo marx-engelsiano sia – più in generale – di gran parte del pensiero socialista ottocentesco, separando l’economia dalla politica: in termini più particolareggiati, separando l’economia considerata come orientata al socialismo dalla politica vissuta e gestita in maniera democratica. Che in aggiunta alla democrazia diretta (come quella utilizzata molto spesso nel ’900 in Svizzera con i diversi tipi di referendum) si trattasse di democrazia di tipo rappresentativo, nello stile tipico del moderno Occidente (ma possibilmente con un sistema elettorale proporzionale), o di democrazia dei Consigli, nello stile della “Comune di Parigi” (considerato probabilmente più adatto in effetti alla transizione al socialismo che alla società borghese), non pare importasse moltissimo a Marx ed Engels, ma importava loro – e tanto – che nella società ci fosse della democrazia come effettiva capacità popolare di partecipare alla vita sociale e soprattutto di decidere su di essa, un’idea condivisa appunto da gran parte dei socialisti ottocenteschi. Mentre la visione dialettica marx-engelsiana mirava proprio a ricomporre le secche fratture indotte nella vita sociale e nell’essere umano stesso dalle società fortemente classiste, il cosiddetto “socialismo reale” novecentesco ha letteralmente santificato la frattura tra economia e politica e l’ha trasformata addirittura nel fulcro della sua ideologia (estremamente dogmatica, tra l’altro, al contrario dell’antidogmaticità di Marx ed Engels).

In altre parole, si tratta di una separazione incongrua, socialmente e filosoficamente errata, storicamente figlia di società palesemente ed apertamente classiste, ideologica, una separazione priva di senso dal punto di vista socialista (se non strettamente per un eventuale periodo breve e momentaneo di assestamento – al massimo pochi anni – dopo un evento rivoluzionario): tutto ciò in quanto essa accetta come “normale” – e stabile nel tempo – la frattura tra economia e politica e, per di più, ritiene economicisticamente e dualisticamente che si possa parlare di economia di tipo socialista senza prendere in esame la politica e la questione della democrazia. Ma un socialismo senza democrazia non esiste. Un socialismo senza democrazia non è socialismo: è solo un altro tipo di classismo. Su questa tragica frattura – che rispetto al socialismo marx-engelsiano venne operata in una certa misura da Lenin e dagli altri bolscevichi quando la loro decisione di esautorare i soviet (cioè i Consigli) andò oltre un semplice breve periodo d’emergenza bellica e giunse progressivamente al medio-lungo periodo, e che venne poi moltiplicata e gonfiata a dismisura da Stalin, Mao, Castro, Deng, ecc. – il “socialismo reale” ha costruito i suoi palazzi, i suoi “culti della personalità”, le sue élite dorate (non molto dissimili da quelle dell’Occidente capitalistico) e la sua aspra repressione dell’effettiva democrazia e persino della libertà di pensiero.... In breve, il “socialismo reale” è diventato una società estremamente classista e oppressiva, basata non sulla borghesia e sui più o meno ampi meccanismi almeno formalmente democratici ad essa solitamente collegati [190], ma su un’altra modalità: il controllo centralizzato dell’economia consentito da una proprietà statale dei principali mezzi di produzione e la stabile attribuzione del potere statale ad un’élite autocratica. Oltre tutto, in origine i meccanismi democratici di tipo borghese erano tipicamente limitati dal censo e dal sessismo (di modo che i ceti svantaggiati e le donne erano comunemente esclusi dalle procedure della democrazia), ma poi in un modo o nell’altro queste limitazioni sono state sistematicamente superate e fatte cadere dalle rivendicazioni delle classi popolari e delle donne stesse, mentre invece l’antidemocraticità strutturale del “socialismo reale” è tendenzialmente senza limiti e pressoché senza freni, avendo una dogmatica e assolutistica base ideologica nell’identificazione – in realtà quanto mai forzata, fragile, pretenziosa e manipolativa – che in esso viene fatta tra lo spirito stesso della rivoluzione e la dirigenza del partito uscito vincente dalla rivoluzione nel paese in questione (identificazione che viene poi imposta all’intera popolazione)....

Questo tragico equivoco prosegue ancora oggi. I vari regimi del “socialismo reale” manipolano i significati originari dei termini “socialismo”, “comunismo” e “democrazia” per attribuirsi caratteristiche popolari che in realtà non hanno [191], e una parte significativa degli intellettuali e delle persone che si interessano di politica cade nella trappola ideologica e brutalmente classista di questi regimi, accettando di definirli normalmente come “società socialiste”. Si può immaginare che alcuni di tali intellettuali possano esserci cascati in buona fede (a dispetto di tutte le fonti storiche e informative cui possono avere piuttosto facilmente accesso...), ma alla fin fine si tratta comunque della medesima buona fede degli economisti borghesi del primo ’800, che non si rendevano conto di essere espressioni – e miopi propagandisti – non del “bene comune”, ma dell’interesse di classe della borghesia (e ci pensarono allora Marx, Engels e altri autori socialisti a chiarire in modo esplicito e indiscutibile l’argomento). In questo caso molto più recente, non è in gioco l’interesse di classe della borghesia, ma quello delle ambiziose élite formatesi nei regimi del cosiddetto “socialismo reale” (che del socialismo ha soltanto una facciata sottilissima e ipocrita, divenuta ormai trasparente per chiunque voglia usare i propri occhi e non le veline – nel senso di “dichiarazioni ufficiali” – di quei regimi...): élite che oltre ad essere estremamente potenti nel loro paese – con tutti i vantaggi che questo comporta per loro – sono anche decisamente ricche e quindi sono in grado di compensare lautamente, in un modo o nell’altro, intellettuali e commentatori che dall’estero sono disposti a dare supporto mediatico al punto di vista da esse espresso e a propagandarlo.

In secondo luogo, è vero che nel pensiero marx-engelsiano la prospettiva a lungo termine è sempre costituita dal socialismo e dal suo superamento dell’economia capitalistica (così come avveniva, del resto, in gran parte del pensiero socialista dell’Ottocento, anche perché i movimenti dei lavoratori non orientati a tale superamento assumevano di solito altre definizioni, come laburisti, democratici, ecc.), ma questo non significa che per Marx ed Engels non vi fossero anche obiettivi a breve-medio termine considerati come estremamente significativi, cruciali, fondamentali. Per cogliere questo aspetto del pensiero marx-engelsiano bisogna prendere in esame soprattutto i programmi socialisti alla cui stesura i due fondatori del “socialismo scientifico” parteciparono personalmente o indirizzarono dei commenti: la marxiana Critica al programma di Gotha (del 1875), il programma socialista francese pubblicato su L’Égalité del 30 giugno 1880, l’engelsiano Per la critica del progetto di programma socialdemocratico 1891 e il parallelo programma socialista tedesco approvato a Erfurt appunto nel 1891. Da questi materiali si comprende non solo che la concezione marx-engelsiana della transizione al socialismo e del socialismo stesso era estremamente democratica e non certo autoritaria (come si è già argomentato ampiamente sia qui che in precedenti occasioni), ma anche che secondo Marx ed Engels nel momento corrente in cui essi si trovavano – o in altre parole nella società principalmente ad economia di mercato in cui vivevano loro e molti altri loro contemporanei, soprattutto in Europa e in Nordamerica ma anche ormai in altri continenti – c’erano moltissime cose nodali da fare anche senza tirare direttamente e strettamente in ballo la conquista del potere e la transizione al socialismo. In sintesi, oltre all’evidente esigenza di contribuire alla crescita e lievitazione della coscienza sociale e politica delle classi lavoratrici, c’era da rendere il più possibile democratica e progressista la società contemporanea e soprattutto c’era da tutelare e sviluppare quanto possibile la “qualità della vita” di tali classi. Oltre tutto, va considerato che le complesse e sfaccettate esperienze collettive di crescente “gestione popolare” della vita politico-sociale che hanno a che fare evidentemente con queste cose nodali sono anche un terreno fondamentale e cruciale proprio per lo sviluppo sia di quella coscienza tra i lavoratori sia delle capacità concrete collegate ad essa: capacità che sono profondamente significative tanto per la qualità della vita popolare stessa quanto per il riuscire ad incidere come classi lavoratrici – non solo nel presente ma anche in qualsiasi futuro – sulla politica, sull’economia e in generale sulla società. Si tratta di cose da fare che quindi sostengono e sospingono un vero e proprio “circolo virtuoso” tra esperienza, coscienza e capacità concrete nella vita popolare.

La sottovalutazione di quelle tre tipologie di fondo di “cose nodali da fare” (e tanto più nodali perché, «dove si tratta di una trasformazione completa delle organizzazioni della società, ivi devono partecipare le masse stesse; ivi le masse stesse devono già aver compreso di che si tratta», e «affinché le masse comprendano quel che si deve fare è necessario un lavoro lungo e paziente, e questo lavoro è ciò che noi stiamo facendo adesso», come scriveva Engels – accennando alla tematica della transizione al socialismo – nella sua Introduzione del 1895 al marxiano Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850) e parallelamente l’intensa tendenza al “feticismo della rivoluzione”, l’attribuzione di gran parte dell’impostazione della costruzione del socialismo a un piccolissimo gruppo di dirigenti di partito e la tipica adesione al tradizionale sessismo patriarcale implicano di fatto una serie di aspetti politico-culturali quanto mai cruciali [192]. Tra questi spiccano i seguenti, che appaiono essere strutturalmente compresenti tutti assieme nel medesimo tempo: un’intensa tendenza a pensare in modo semplicistico e rigidamente dualista (secondo cui, ad esempio, alla fin fine un’impostazione della società in senso anticapitalista è sempre e comunque buona e una in senso capitalista è sempre e comunque cattiva, a patto ovviamente che l’impostazione anticapitalista risulti per lo meno possibile in base agli equilibri politico-sociali locali del momento); una pesante sminuizione del ruolo fondamentale e insostituibile che Marx ed Engels attribuivano appunto alle masse e alla loro creatività per quanto riguarda la costruzione del socialismo; una debole sensibilità umana, pronta a trascurare e sacrificare le esigenze correnti delle classi popolari (e ciò dapprima in nome di un futuro evento praticamente messianico – cioè “la rivoluzione” – che si pretende trasformerà tutto e tendenzialmente risolverà ogni corposo problema, e poi in nome di un dirigismo statalista post-rivoluzionario considerato tipicamente più importante di qualsiasi altra cosa...); una duttilità interiore, una sensibilità filosofica e un senso critico decisamente scarsi, come viene mostrato ad esempio dall’abitudine al sessismo, alle modalità di pensiero ideologiche e al dogmatismo; nel complesso, dunque, una grave ristrettezza di mentalità....

In terzo luogo, tutto questo si è moltiplicato ulteriormente di significato a partire dagli anni ’30 del secolo scorso, quando il New Deal rooseveltiano negli Usa e altre esperienze simili soprattutto in Scandinavia hanno mostrato che Keynes non aveva affatto torto ad asserire che si poteva gestire molto più efficacemente ed umanamente l’economia di mercato se all’iniziativa privata si aggiungevano iniziative pubbliche in campo economico in funzione anticiclica (cioè per “compensare” le tipiche crisi cicliche dell’economia liberista) e più in generale come integrazione del mercato (visti i grossi limiti che quest’ultimo ha da vari punti di vista molto rilevanti per la vita della società umana e che sono stati spesso definiti come i “fallimenti del mercato”) [193]. In altre parole, mentre il capitalismo liberista dell’Ottocento e del primo terzo del Novecento tendeva ad essere estremamente aspro in senso sociale anche nei casi migliori (cioè nei casi costituiti dalle imprese che erano dirette dai loro proprietari con una certa attenzione per i lavoratori e con una certa sensibilità umana) – e ciò in quanto le varie imprese si trovavano comunque a dover fronteggiare sia la lacerante problematica delle brutali “crisi cicliche” (approssimativamente una ogni decennio) sia tipiche forme esasperate di concorrenza – con le “politiche keynesiane” si sono aperte al capitalismo possibilità socialmente molto più creative ed umane. In tal modo, a partire da quegli anni ’30 l’impostazione socialista/statalista della società ha dovuto confrontarsi e paragonarsi non solo con l’asperrimo capitalismo liberista dei tempi di socialisti come Fourier, Proudhon, Marx, Engels, Bebel e Lenin, ma anche con il molto più duttile e sfaccettato capitalismo delle “politiche keynesiane”.

Eppure, a dispetto di quest’evoluzione molto significativa avviatasi nell’economia di mercato, gran parte dei maggiori esponenti della cosiddetta “sinistra rivoluzionaria” novecentesca e odierna ha invece continuato in modo imperterrito a sostenere in pratica l’idea semplicistica e dualista – e oltre tutto non suffragata dalla realtà, come del resto è decisamente comune per le idee semplicistiche e dualiste... – che un’impostazione anticapitalista della società sia sempre e comunque buona e una capitalista sia sempre e comunque cattiva (a patto, naturalmente, che la prima delle due appaia politicamente e socialmente possibile). Ciò salvo magari deviare – come ha fatto la Cina a partire dal successo politico della corrente di Deng Xiaoping e come stanno facendo sempre più anche altri paesi post-rivoluzionari che hanno seguito la Cina – su un’intensissima collaborazione con l’attuale capitalismo neoliberista delle multinazionali (che è solitamente una forma quanto mai brutale di capitalismo), senza però rinunciare ad un monopartitismo gerarchico e politicamente iper-accentratore....

Un’ultima considerazione a questo proposito, tra politica e storia: se l’impostazione statalista che era sostenuta da Stalin e dai suoi successori, da Mao, ecc. aveva modalità piuttosto simili al “socialismo di Stato” bismarckiano radicalmente criticato – e politicamente sbeffeggiato – in maniera esplicita e inequivocabile da Engels (e da Marx), la “deviazione” caldeggiata e sospinta con particolare intensità da Deng ha unito tra loro uno Stato istituzionalmente autoritario e antidemocratico e un’economia caratterizzata in parte da una sopravvivenza di quello statalismo e in parte dalla forte presenza di forme privatistiche di capitalismo aventi una modalità estremamente vicina a quella del capitalismo liberista pre-keynesiano, che era comunemente protetto politicamente e militarmente a livello di ciascun singolo Stato ad opera del governo del paese e che all’epoca era criticato profondamente dai socialisti di tutte le correnti (inclusa persino la “sinistra moderata”, che pure già intorno al 1900 – sulla spinta principalmente del tedesco Eduard Bernstein – tendeva ad assumere una posizione subalterna per molti aspetti alla classe borghese) [194]....

 

2. Le scoperte novecentesche sulla preistoria

Riguardo alla tematica storica inerente alle culture di tipo patriarcale, si può approfondire il discorso mettendo in evidenza che con il tardo ’900 si è giunti a una serie di ricerche soprattutto archeologiche che hanno portato a una nozione più chiara di diversi aspetti del passato della società umana sul nostro pianeta, come si è già messo in rilievo nella parte I dell’intervento già ricordato Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali. È emersa così l’antica – e un tempo evidentemente diffusa – esistenza di società, tipicamente organizzate in senso matrilineare a livello famigliare, nelle quali il progressivo superamento del “comunismo primitivo” non aveva affatto portato direttamente al mondo patriarcale e classista che sta predominando da millenni in una grandissima parte della Terra, ma a forme di organizzazione socio-economica in cui si erano già prodotte una notevole “divisione del lavoro” e una certa stratificazione sociale però il senso comunitario, la solidarietà umana e lo spirito cooperativo tendevano nettamente a predominare comunque sulle ambizioni individuali delle persone e sulla tendenza al formarsi di pesanti diseguaglianze sociali e politiche nelle varie comunità. Questo tipo di evoluzione storica era già stato notato espressamente da Marx ed Engels (come quest’ultimo esplicitò ampiamente nel 1884 in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, sulla base anche di varie annotazioni lasciate da Marx), ma senza poter valutare – per un’oggettiva mancanza di dati storico-archeologici, a quell’epoca – quanto tale evoluzione fosse stata presente sulla Terra.

Tra l’altro, la progressiva riscoperta novecentesca di antiche civiltà particolarmente avanzate ma perdute da lungo tempo – come quella cretese (chiamata comunemente “minoica”) e come la cosiddetta “civiltà della Valle dell’Indo” (tra i cui insediamenti riemersi il più noto è quello di Mohenjo Daro) – ha anche chiarito che quel particolare stadio di società non patriarcale, non pesantemente classista e non aggressiva militarmente che era stato identificato sommariamente già dalla ricerca ottocentesca era stato appunto anche in grado di evolversi dal punto di vista tecnico-produttivo, linguistico e artistico-architettonico sino a livelli molto più elevati di quanto abbiano continuato a fare ancora per secoli e secoli le società patriarcali, classiste e militariste. Questo ha mostrato storicamente che non necessariamente la dissoluzione del “comunismo primitivo” e l’incremento della “divisione del lavoro” e della complessità istituzionale di una società devono portare con sé il formarsi di società sessiste, militariste e fortemente classiste. La formazione di quest’ultima tipologia di società è dunque una complessa questione anche socio-culturale, che può pure essere legata a delle circostanze storiche molto particolari, e quindi non è provocata automaticamente appunto dall’aumentare della “divisione del lavoro” e della complessità istituzionale.

In altre parole, mentre Marx ed Engels e i loro contemporanei non potevano in pratica spiegarsi in maniera sufficientemente documentata e motivata come si fosse introdotto effettivamente nella società umana l’orientamento strutturalmente patriarcale, classista e militarista – oltre che tendenzialmente conquistatore ed espansionista – che predomina enormemente nella storia planetaria degli ultimi millenni (questa incertezza è evidente tanto nelle opere marx-engelsiane, incluse quelle più tarde e storicamente documentate come l’Antidühring e appunto L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, quanto negli scritti di altri storici dell’epoca), e mentre tale impossibilità ha continuato a presentarsi anche per alcune generazioni successive, durante l’ultimo mezzo secolo l’incertezza in questione appare essersi notevolmente dissolta. Per quanto riguarda la ricerca sul campo, il lavoro più corposo è stato probabilmente quello di Marija Gimbutas (della quale si veda La civiltà della Dea - Il mondo dell’antica Europa, Stampa Alternativa, 2 voll., 2012-13, ediz. originale in inglese 1991), mentre le opere complessivamente più efficaci in senso storico e antropologico sono state rappresentate probabilmente da due testi di Riane Eisler: Il calice e la spada (Pratiche, 1996; Forum, 2011; ediz. originale in inglese 1987) e il già citato Il piacere è sacro, con qualche aggiornamento ulteriore in Il potere della partnership (Forum, 2018; ediz. originale in inglese 2002) [195].

Nonostante quell’incertezza, che tra le altre cose attesta per l’ennesima volta la correttezza metodologica e l’onestà intellettuale di Marx ed Engels (oltre che di altri storiografi e commentatori che hanno operato prima che appunto diventassero disponibili le ricerche storiche emerse negli ultimi decenni), negli scritti marx-engelsiani si avverte anche il desiderio di ipotizzare delle spiegazioni per quell’evidente e drammatico passaggio storico dal molto antico “comunismo primitivo” – sopravvissuto ancora, con più o meno compiutezza, in diverse culture economicamente marginali e tendenzialmente pacifiche scoperte dalla civiltà moderna sia durante l’Ottocento che in seguito (specialmente in aree forestali, semidesertiche o molto fredde e in popolazioni tribali) – alla tipologia di società che popola abitualmente i periodi storici a noi più noti in gran parte del pianeta: per l’appunto, una tipologia gerarchica, patriarcale, classista, militarmente impegnata e solitamente – tranne per quanto riguarda l’ultimo centinaio di anni – monarchica o addirittura imperiale. E si avverte che, comprensibilmente, Marx ed Engels erano inclini a supporre che si fosse trattato di un passaggio di tipo endogeno, cioè avvenuto dall’interno delle società in questione: comprensibilmente anche perché si tratta di un’ipotesi in conformità col “rasoio di Occam”, che è un notissimo principio logico che suggerisce che nel caso di una questione problematica che abbia più soluzioni possibili (alternative tra loro) la più probabile è la più semplice, cioè quella che richiede meno presupposti e meno costruzioni esplicative [196]. Diversamente, l’ipotesi di un passaggio di tipo esogeno, cioè proveniente dall’esterno di quelle varie società, avrebbe previsto alla propria base situazioni alquanto più complesse che teoricamente avrebbero dovuto anche lasciare delle consistenti tracce storiche, che invece non risultavano alla ricerca storiografica ottocentesca. La cauta supposizione marx-engelsiana (che era anche sostanzialmente giustificata proprio da quel principio e dai suoi significati di fondo) ipotizzava tendenzialmente che alla base di quell’antico passaggio storico ci fosse appunto un crescente emergere endogeno di ristrette ambizioni e di egoismi nelle varie società. Ed è anche del tutto evidente che – endogeni o esogeni che fossero in origine – si sia trattato di egoismi ed ambizioni vissuti sia a livello di gruppo (come è stato mostrato in modo particolarmente inequivocabile dal diffusissimo affermarsi del sessismo maschilista e dal frequente costituirsi di caste dominanti come quella dei guerrieri), sia a livello personale (come a sua volta è stato mostrato in modo particolarmente spiccato dalla tendenza – generalmente un po’ successiva dal punto di vista temporale, a quanto parrebbe storicamente – all’istituirsi di un singolo e autoritario capo in molte popolazioni). Quella cauta supposizione è stata poi “trasformata” – sull’onda del tipico dogmatismo ideologico e quanto mai aggressivo che è esploso nelle modalità politico-culturali staliniste, maoiste, ecc. – nell’idea che il classismo sia stato nel corso della storia una sorta di malattia sociale tipica delle persone appartenenti alle classi militarmente o economicamente dominanti (e malauguratamente espansasi poi a coloro che, pur non facendo parte di tali classi, avrebbero molto intensamente voluto entrarvi): una malattia che “quindi” andava combattuta in ogni maniera ed estirpata quanto possibile.

Questa volta, però, il “rasoio di Occam” risulta aver proprio sbagliato il bersaglio (come capita ovviamente ogni tanto, trattandosi di un principio che opera strutturalmente sulla base della probabilità, non della certezza). Come si è già sottolineato appunto in Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali, nella seconda metà del ’900 si sono moltiplicate le prove archeologiche che indicano che nel continente eurasiatico, solitamente intorno ai 5 millenni fa, le culture allora esistenti – che erano comunemente pacifiche, solidali, non sessiste e non pesantemente classiste – sono state invase e conquistate da società guerresche, autoritarie, pesantemente armate e tipicamente maschiliste, che appaiono essersi evolute in quel modo sulla spinta di cambiamenti climatici che provocarono gravi inaridimenti e altri effetti ambientali dannosi per l’agricoltura e per la pastorizia in certe regioni dell’Asia, trasformando queste ultime in territori stepposi o semidesertici. Un fattore concomitante pare sia stata l’ormai generalizzata diffusione della specie umana sostanzialmente in tutto il pianeta, di modo che quei cambiamenti climatici e ambientali spinsero – come risultato finale – le popolazioni dei territori colpiti a mettersi in aperta (e spessissimo violenta) competizione con le popolazioni già stanziate in altri territori. Le invasioni in questione ebbero luogo ad ondate progressive, spesso sovrapponendosi l’una sull’altra a distanza di qualche secolo o anche soltanto di qualche decennio, e proseguirono per millenni in una grandissima parte dell’Europa e dell’Asia, innescando sia innumerevoli conflitti locali (poi spesso moltiplicati ulteriormente dall’atteggiamento espansionista affermatosi tra gli strati dominanti di molte delle società che si formarono attraverso queste vicissitudini) sia enormi trasformazioni sociali, culturali, politiche, ecc.. A fianco di tutto ciò, si sa che anche nel passato delle Americhe – e probabilmente pure dell’Africa – popolazioni divenute molto bellicose si imposero con la violenza su delle preesistenti culture pacifiche.

In breve, nella gran parte dei casi quello strabordante emergere di egoismi e di ristrette ambizioni (di gruppo e/o personali) fu collegato a mutamenti sociali e culturali di tipo sostanzialmente esogeno: mutamenti cioè portati nelle culture in questione a partire dall’esterno. E anche le società conquistatrici che portarono con sé quei mutamenti, e che erano precedentemente divenute per conto loro profondamente bellicose ed espansioniste, appaiono esserlo diventate – a quanto pare – per motivi per lo più esogeni, cioè nel loro caso particolare soprattutto a seguito appunto di cambiamenti localmente molto negativi sul piano climatico e/o ambientale. Nel contempo, il fatto che culture particolarmente avanzate come quella minoica e quella della Valle dell’Indo scomparvero letteralmente e rapidamente dalla faccia della Terra perché sostanzialmente distrutte o schiacciate da degli invasori sciovinisti che nel complesso erano molto meno progrediti praticamente da tutti i punti di vista tranne che da quello bellico (ed eventualmente da altri punti di vista specifici strettamente collegati all’ambito bellico, come ad esempio l’addomesticamento del cavallo o la metallurgia delle armi) mostra anche che in questi scontri tra popolazioni è avvenuto più volte che non vinsero affatto i più evoluti ma semplicemente i più abili a combattere. Oltre tutto, non di rado questi ultimi erano anche più cinici umanamente, più insensibili interiormente e più rozzi filosoficamente, e le loro vittorie finirono col provocare di fatto clamorosi arretramenti culturali all’umanità [197]....

Da un punto di vista più generale, appare che in quell’epoca di enorme cambiamento sociale e di ribaltamento culturale l’umanità si sia trovata di fronte all’emergere di alcune problematiche fondamentali (che sono rimaste presenti e pressanti sino ad oggi), quali un diffondersi della pressione demografica, una spiccata disparità di risorse tra varie regioni del globo (una disparità che tendenzialmente era sempre più “statica” e stabile a causa proprio dell’ormai generalizzata diffusione della specie umana nel pianeta, mentre in precedenza era più facile trovare fertili e piacevoli luoghi ancora disabitati nei quali migrare) e un accumularsi molto disomogeneo di disagi e fatiche nel complesso della società umana: disomogeneità associata specialmente a quella disparità regionale e/o a certe attività produttive specifiche. E senza trovare soluzioni creative e soddisfacenti a tali problematiche rimarrà probabilmente molto difficile poter risolvere ampiamente le conflittualità sociali e le ferite culturali che si sono sviluppate nell’umanità a partire da quel periodo storico, con la comparsa appunto di mentalità basate sul militarismo, sullo “spirito di conquista”, sul sessismo, sul classismo, ecc..

In altri termini, in gran parte del globo questa tipologia di mentalità appare chiaramente essersi imposta in modo esogeno, dall’esterno, mediante invasioni di popolazioni che provenivano da altrove e che avevano già sviluppato una tale tipologia di mentalità soprattutto come reazione ad eventi climatico-ambientali avversi che le avevano poste in difficoltà di sopravvivenza particolarmente gravi, ma dietro a tutto questo si può constatare il coagularsi appunto di nuove problematiche – cruciali di fatto per l’umanità – che l’umanità stessa non è riuscita a risolvere pienamente, né allora né di fatto tuttora. Peraltro – come si è già accennato in precedenza [198] – durante l’ultimo centinaio d’anni appaiono essere state sviluppate delle nuove possibilità di soluzione di tali pressanti problematiche, grazie specialmente all’evoluzione della creatività in campo socio-economico e del comparto tecnico-scientifico e ad una serie di esperienze che hanno messo localmente in atto vari aspetti di tale evoluzione, ma in questo periodo le élite dominanti hanno mantenuto un atteggiamento sostanzialmente negativo nei confronti di gran parte di queste possibilità, che evidentemente metterebbero in discussione in misura consistente il particolare assetto gerarchico e patriarcale che attualmente sta continuando a predominare nel mondo....

A questo proposito si può sottolineare che l’attuale strenua autoconservazione delle élite in questione non riguarda soltanto l’essenza dell’assetto gerarchico e patriarcale oggi predominante, ma anche vari “segmenti” specifici di tale assetto. Ad esempio, malgrado gli enormi danni che l’ampio uso attuale di combustibili fossili sta continuando a provocare alla società umana e agli ecosistemi, i petrolieri insistono a non voler mollare la loro presa sul sistema produttivo internazionale. Tra l’altro, una parte dei finanzieri collegati a tali combustibili e anche dei petrolieri stessi appare oggi disponibile ad investire in qualcuna delle “energie rinnovabili” un po’ delle grandi ricchezze da essi accumulate, ma la tendenziale positività di questa scelta viene molto spesso controbilanciata da un atteggiamento complessivo pervicacemente “calato dall’alto”, tipico di chi è abituato da decenni a indiscusse posizioni concrete di comando pressoché pieno e totale nei propri affari e nel loro contesto (grazie anche alla frequentissima compiacenza sia di politici che di manager operanti in altre industrie, tutti pronti ad assecondare ed incamerare qualcuna delle sostanziose profferte provenienti dai vari esponenti della lobby petrolifera...) [199]: un atteggiamento in base al quale si pretenderebbe di impostare e gestire in maniera assolutistica i propri investimenti in tali energie senza alcun accordo con le comunità locali dei luoghi individuati a tale scopo (come se queste non significassero nulla in un mondo in cui quelle élite vorrebbero che contasse solamente il potere dei soldi, con l’ormai abituale capacità di questi ultimi di comprare sostanzialmente i favori dei vertici politici sia locali che nazionali e internazionali...). E su un piano ancor più sfaccettato come quello degli assetti militari – piano che implica un’amplissima serie di aspetti politici, giuridici, diplomatici, tecnologici, ecc. – quasi tutti i governi dei maggiori paesi del mondo insistono a considerare l’incremento degli armamenti come il principale deterrente contro i rischi di guerre e contro le guerre stesse (seguendo pedissequamente in ciò le logiche del “complesso militare-industriale” e gli enormi pericoli che esse pongono alla società, logiche e pericoli che vennero denunciati già nel 1961 dall’allora presidente statunitense Eisenhower e che si sono visti all’opera in un numero ormai innumerevole di brutali conflitti armati locali da allora ad oggi) e come il principale mezzo per evitare che qualche guerra porti a dei risultati conclusivi indesiderati: il tutto come se l’Onu non esistesse o non potesse fare nulla di concreto, mentre invece l’Onu in passato è intervenuta in modi cruciali in diverse crisi internazionali e d’altro canto è ormai pienamente chiaro che anche il “diritto di veto” che i governi di Usa, Cina, Russia, G. Bretagna e Francia hanno nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu (diritto che, se usato, può di fatto bloccare del tutto quest’ultimo) può essere completamente aggirato e superato dall’Assemblea Generale dell’Onu stessa, a patto che tale Assemblea si assuma corpose responsabilità mediante le quali prospettare iniziative operative anche di portata molto complessa [200].

Se dunque si prendono in considerazione le antiche dinamiche storiche qui messe in evidenza (e la loro prosecuzione che giunge sino ad oggi), ci si accorge chiaramente che esse – più che porre l’accento sul combattere direttamente le persone che fanno parte delle classi privilegiate (o che ne hanno fatto parte in passato), come se la loro esistenza stessa fosse una malattia da debellare, cancellare e distruggere – suggeriscono l’essenzialità dello sviluppare capacità efficaci (e dunque stabili, sostenibili, ulteriormente evolvibili, adattabili alle diverse condizioni climatiche e ambientali del globo e, ovviamente, complessivamente soddisfacenti per le popolazioni che vivono nelle varie parti del mondo) in una serie di campi specifici. Tra questi in particolar modo il controllo delle nascite, la sfera agroalimentare, l’impiego delle molteplici risorse del pianeta, le varie tecniche produttive (incluse le macchine in esse utilizzabili per ridurre le fatiche umane), l’organizzazione di un efficiente commercio tra le svariate parti del mondo in base alle esigenze espresse da ciascuna di queste, la difesa della nostra salute (e ovviamente lo studio scientifico che dovrebbe contribuire in modo basilare a tale difesa) e – su un piano più generale – la messa a punto di forme di economia aventi appunto la capacità di essere efficaci, stabili, sostenibili, adattabili e complessivamente soddisfacenti. Questo dovrebbe rendere alquanto meno difficile ridurre (e possibilmente superare) nell’umanità le aspirazioni persistentemente classiste, in modo analogo – tra l’altro – a quanto proponevano Marx ed Engels col loro discorso sul progresso tecnico-scientifico e produttivo, che essi vedevano come una delle basi di fondo della possibile costruzione non solo di società più eque e democratiche in linea generale, ma anche di una eventuale transizione al socialismo.

Ovviamente, i campi in questione sono semplicemente quelli che appaiono aver avuto già millenni fa un ruolo particolarmente marcato nel formarsi stesso della mentalità classista, gerarchica, ecc., e non si tratta certo degli unici campi cui dovrebbe dedicarsi l’umanità: basti pensare ai significati fondamentali delle attività scolastiche, delle arti espressive, dei mezzi di comunicazione, della cura del paesaggio a tutti i livelli (rurale, urbano, montano, costiero, ecc.), della ricerca interiore e filosofica, e via di seguito, inclusa in tutto questo la sfera dell’affettività e della costruzione di dirette relazioni interpersonali di elevata qualità comunicativa, sfera che è per molti versi la “dimensione umana per eccellenza” ed è la prima e principale difesa dal prodursi – e poi stabilizzarsi – del sessismo e delle altre forme del classismo. E riguardo a Marx ed Engels non si dimentichi che è vero che un livello elevato di quel progresso costituiva, in breve, l’aspetto principale di quelle che si possono chiamare “condizioni oggettive” di un possibile passaggio al socialismo nella sua forma definibile come “moderna” (o, in altre parole, complessa tecnologicamente e caratterizzata da una consistente “divisione del lavoro”, diversamente da quello che può essere definito come “socialismo primitivo”), ma vi erano anche delle altrettanto necessarie “condizioni soggettive” di un tale passaggio, le quali appunto – come ricordava ad esempio Engels osservando in quel suo scritto del 1895 che perché si possa costruire il socialismo nel mondo moderno «le masse stesse devono già aver compreso di che si tratta» – avevano a che fare soprattutto con la coscienza sociale, politica ed esistenziale delle classi lavoratrici e con la loro capacità effettiva di incidere profondamente sulla società [201].

 

3. Implicazioni e approfondimenti

Dietro al dogmatismo affermatosi nei regimi del “socialismo reale” non c’era soltanto un’esasperazione del volontarismo e dell’economicismo – esasperazione che ha portato a ritenere appunto che basti una generica e piuttosto diffusa volontà rivoluzionaria per costruire effettivamente in una nazione una moderna e industrializzata società egualitaria di transizione al socialismo e che il controllo statalizzato dell’economia da parte dei rivoluzionari più ferrati, convinti e competenti sia la chiave di volta per concretizzare una tale società – ma anche, dunque, una particolare interpretazione storico-antropologica dell’originaria nascita del classismo, interpretazione secondo cui quest’ultimo può essere considerato come una malattia sorta per conto suo in certe persone particolarmente inclini alle ambizioni: una malattia che nel mondo presente può quindi ripresentarsi di nuovo sia soprattutto in ambienti sociali culturalmente influenzati da tendenze classiste, sia in altre persone particolarmente caratterizzate da quell’inclinazione.

Questa interpretazione, che poggia per certi versi sull’ipotesi interpretativa che si avverte riguardo a tale nascita anche negli scritti marx-engelsiani, è però molto in difficoltà di fronte al fatto che Engels – in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (del 1884) – valutò che nel corso della storia la prima «oppressione di classe» fu quella dell’uomo sulla donna [202] (e ovviamente si trattò di un’oppressione diffusa, non di singoli casi sporadici, altrimenti non sarebbe stato un fenomeno definibile “di classe”). È estremamente difficile combinare quell’interpretazione del classismo sostanzialmente come malattia e questa valutazione engelsiana (che molto probabilmente era condivisa anche da Marx, sugli appunti storici del quale Engels si basò per lanciarsi nella stesura del libro in questione). E questa difficoltà fece verosimilmente parte dei motivi per cui i due fondatori del “socialismo scientifico” non andarono oltre qualche ipotetica suggestione interpretativa riguardo alla nascita storica del classismo. Se per millenni gran parte degli uomini ha condiviso e fatto propria una “oppressione di classe” verso le donne, allora questa tendenza a dominare su qualcun altro non è una malattia tipica di particolari individui smodatamente ambiziosi dai quali si sono poi costituite delle élite privilegiate (prima generalmente come ceti o caste e poi anche come classi vere e proprie), ma è evidentemente qualcosa di più complesso.... Non a caso, i principali esponenti dei regimi del “socialismo reale” hanno sostanzialmente ignorato quell’osservazione di Engels e hanno mantenuto – come niente fosse – una mentalità quanto mai sessista e patriarcale (per la quale Engels li avrebbe indiscutibilmente definiti appunto come “oppressori di classe”...) [203]. In tal modo, essi hanno potuto sviluppare senza troppi “problemi teorici” la loro interpretazione dogmatica tanto della nascita del classismo quanto – e soprattutto – dei significati correnti di quest’ultimo (dai quali è derivata una sorta di ossessione a combattere sia concretamente le classi economicamente privilegiate e i loro “residui” post-rivoluzionari, sia culturalmente ed esistenzialmente il classismo inteso appunto come una patologia in parte “sociale” – riguardante comunemente borghesi, aristocratici, prelati, accademici, alti funzionari pubblici partecipanti a forme di Stato borghesi o aristocratiche, ecc. – e in parte “personale”, quando qualcuno mira in modo eclatante e sfacciatamente individualistico a mettersi stabilmente al di sopra di gran parte degli altri).... Ed è particolarmente importante che in questa dimensione personale ci fosse un aspetto “sfacciatamente individualistico”, perché in pratica ciò esentava da queste considerazioni critiche le ambizioni espresse attraverso il partito “rivoluzionario” al potere e i suoi vari organismi, di modo che questa specifica tipologia di ambizioni diventava automaticamente “legittima” perdendo ufficialmente così il carattere di “ambizione personale” (come hanno “insegnato” a intere generazioni nei loro paesi non solo leader come Stalin, Mao o Fidel Castro, ma anche quei tanti dirigenti – anche locali – che hanno usato il partito soprattutto per la propria “scalata sociale” ma non sono mai stati accusati ufficialmente di eccessiva ambizione).... Quando poi, specialmente attraverso Deng, lo “spirito borghese” è stato sdoganato anche nel “socialismo reale”, l’ossessiva caccia dei cosiddetti rivoluzionari ai “malati di classismo” è per molti versi finita (ma così il classismo evidente e sovente pacchiano è ridiventato in pratica la “normale norma” anche nel “socialismo reale”...).

Se invece il classismo è qualcosa di molto più complesso (come Marx ed Engels avevano sanamente e giustamente colto dalle palesi e incontrovertibili prove storiche già disponibili all’epoca, nonostante la limitatezza di queste ultime rispetto alle conoscenze oggi accessibili), allora per affrontarlo adeguatamente occorre una maniera di porsi non incentrata sul combatterlo direttamente cercando di distruggerlo, debellarlo e cancellarlo tout court e sull’umiliare, terrorizzare, incarcerare o addirittura massacrare – anche a schiere, come è successo più volte nella storia del “socialismo reale” – le persone nei cui atteggiamenti si possa intravedere qualche aspetto dei vecchi classismi economici che la tipica “sinistra rivoluzionaria” novecentesca intendeva far sparire (quelli appunto legati specialmente alla borghesia o alle precedenti aristocrazie militari e terriere e che si sono poi solitamente espansi anche a parallele forme di burocrazia, di istituzioni religiose o di accademismo), ma incentrata sul superare tutte le forme di classismo cercando di togliere loro le basi materiali su cui esse possano poggiarsi e di costruire rapporti sociali e dinamiche culturali alternativi al classismo stesso. In questo ci potranno essere naturalmente anche occasioni e momenti per combattere il classismo con puntualità (come è avvenuto tante volte in lotte di tipo sociale come ad esempio quelle sindacali, quelle delle donne per una piena parità giuridica o quelle popolari miranti a rafforzare e completare l’insieme dei diritti civili in un paese, o, su un piano più personale e fisico, nell’eventualità di doversi difendersi da un’aggressione violenta, magari motivata principalmente proprio dall’intento di qualcuno di affermare una sua posizione sociale di superiorità su qualcun altro), ma in tali situazioni dovremmo riuscire a rimanere nello spirito della legittima difesa e nei parametri di fondo di una vita civile, democratica, tendenzialmente nonviolenta. In altre parole, anche se può esserci qualche spazio secondario per scontri diretti col classismo nei casi in cui in pratica la cosa diventa inevitabile, l’atteggiamento prioritario e predominante va evidentemente collegato al superamento del classismo. E comunque anche in quei particolari casi – come si è già messo specificamente in rilievo in precedenza [204] – si dovrebbe evitare decisamente di assorbire il dualistico “spirito della guerra” che è tipicamente insito nelle forme di classismo più aggressive e di farsi conquistare interiormente da tale spirito.

Diversamente, nel “socialismo reale” orientato nel senso statalista tipico dell’Urss, della Cina maoista, ecc., l’atteggiamento prioritario e predominante nei confronti del classismo – che era visto come una problematica di tipo specificamente borghese o aristocratico – era rappresentato dallo scontro diretto, aggressivo, repressivo e spesso molto violento, con solo qualche spazio secondario per la logica del superamento: una logica che in questi paesi era molto importante a parole – anche perché ispirata ai concetti marx-engelsiani (che lì erano appunto molto esaltati a parole) – e che però nei fatti ha avuto ben pochi spazi, e ciò anche perché un fattore decisamente fondamentale in tale superamento è la democraticità dell’assetto sociale, in quanto questa consente di smontare progressivamente gli aspetti classisti della società stessa attraverso il potere riconosciuto all’insieme della popolazione e la creatività politica che essa può esprimere. Ma nel cosiddetto “socialismo reale” non c’è praticamente mai stata democraticità e ci sono state soltanto forme di gerarchia e di autoritarismo: persino la “rivoluzione culturale” maoista, che asseriva di colpire il potere del Comitato centrale del partito, era in realtà gestita nella vita pratica da gruppi di “guardie rosse” – e simili – che tipicamente si rapportavano con gli altri in modo molto aggressivo e autoritario.... E anche la radicale svolta denghista – pur avviando uno stabile ribaltamento vero e proprio dell’economia cinese (e non solo cinese) dopo la scomparsa di Mao – non ha minimamente modificato né il perdurante ed intenso sessismo rimasto sempre predominante nel “socialismo reale” né il fatto che in quest’ultimo il potere politico è stato sempre associato in un modo o nell’altro a delle ristrette “avanguardie della classe operaia”, mai e poi mai all’insieme degli operai e alla popolazione lavoratrice in genere.... Vi è stata dunque una colossale presa in giro ideologica che ha coinvolto in maniera sistematica – generalmente dopo un breve periodo iniziale post-rivoluzionario relativamente ricco di fermenti in ciascun paese implicato – l’intera esperienza del cosiddetto “socialismo reale”, specialmente dagli anni ’30 del secolo scorso in poi....

Gli equilibri interni della maniera marx-engelsiana di porsi nei confronti del classismo si sono dunque rovesciati letteralmente sottosopra – e invertiti nel loro opposto – nell’ambito dei regimi del “socialismo reale”: ciò che in quella maniera era principale è divenuto estremamente secondario, mentre ciò che era secondario è divenuto di gran lunga principale. Come risultato finale, al posto di un atteggiamento dialettico e consapevole della complessità della questione si è imposto in pratica un atteggiamento sostanzialmente dualista e quanto mai riduttivo, che tra l’altro ha preteso di concentrarsi sugli aspetti del classismo strettamente connessi a tematiche economiche inerenti al passato o al piano internazionale e, nel contempo, ha decisamente “scordato” gli aspetti sessisti e quelli legati alle disparità sia di poteri nella dimensione politico-istituzionale post-rivoluzionaria sia di possibilità nel presente dell’economia del paese....

Questa serie di considerazioni aiuta a comprendere come dietro al “feticismo della rivoluzione” ci fosse appunto anche una concezione dello “spirito classista” inadeguata, superficiale e molto sbrigativa: una concezione però rivelatasi quanto mai “comoda e vantaggiosa” per i nuovi dirigenti post-rivoluzionari nel loro progressivo installarsi come casta dirigente. Se ci si lascia dietro le spalle una tale concezione, si potrà riscoprire molto più facilmente l’equilibrio dialettico tra “obiettivi di breve-medio termine” e “obiettivi di lungo termine” che c’era nel “socialismo scientifico” marx-engelsiano e che appare estremamente centrato anche oggi, a circa un secolo e mezzo di distanza.

Se la “sinistra rivoluzionaria” e il suo “feticismo della rivoluzione” hanno posto in ampio rilievo quasi solo gli obiettivi marx-engelsiani di lungo termine, cioè la costruzione del socialismo (costruzione che però – non lo si dimentichi – avrebbe tanti aspetti essenziali, non solo politici, sociali ed economici ma anche culturali, esistenziali e relazionali, e tutti questi aspetti dovrebbero essere profondamente alternativi agli stilemi patriarcali, altrimenti finisce con l’essere non socialismo in costruzione ma semplicemente un’altra versione dei “soliti” autoritarismi e paternalismi patriarcali...), e se la “sinistra moderata” ha fatto praticamente il contrario, mettendo in risalto solo degli obiettivi popolari di breve-medio termine (che così sono anche divenuti sottilmente un’anticipazione del lungo termine...), quell’equilibrio dialettico è qualcosa che ha finito con l’andare sostanzialmente perduto sino ad ora a livello della cultura popolare, anche se intimamente diversi protagonisti della vita intellettuale – specialmente a partire dagli scorsi anni ’60 – hanno evidentemente colto parecchio di tale equilibrio, o facendo principalmente un esplicito riferimento al pensiero marx-engelsiano o sviluppando delle proprie elaborazioni anche sulla base della propria partecipazione alle esperienze di qualche particolare movimento alternativo [205]. Ciononostante, è evidente che questi protagonisti non sono riusciti ad incidere con forza nel “muro di gomma” prodotto nella vita popolare dalla “cultura di massa” – tipicamente banale e sottomessa agli interessi di potere delle varie élite dominanti – che nei diversi paesi viene propagandata e propagata dai maggiori mass-media.

È una perdita che si è verificata anche perché uno degli aspetti di fondo della filosofia dialettica – e ineludibilmente della realtà stessa nella quale viviamo – è che in qualsiasi evidente polarità del vivere o della natura stessa la vitalità e la complessità di un polo sono profondamente collegate all’altro polo e, in sostanza, sono inscindibili da questo: in tal modo, separare – nel pensiero e soprattutto nell’agire – i due poli di una tale polarità implica per ciascuno dei due poli stessi una menomazione e una vera e propria diminutio (cioè l’esser percepito e vissuto in una maniera nettamente riduttiva). Così, l’enfasi soltanto sulla rivoluzione ha finito col menomare profondamente il significato intrinseco e prospettico anche di quest’ultima (e non solo degli obiettivi socio-politici di breve-medio termine, colpiti direttamente dallo scarso interesse ad essi dedicato): basti confrontare tra loro l’idea di società di transizione al socialismo per Marx ed Engels e l’idea che ne ebbero Stalin e – in seguito – i vari altri leader dei paesi in cui durante il ’900 sono avvenute delle rivoluzioni ispirate al socialismo.... A sua volta, l’enfasi soltanto su obiettivi popolari di breve-medio termine ha finito con lo svuotare letteralmente – tra i lavoratori influenzati dalla “sinistra moderata” novecentesca (rispetto a quanto fecero durante l’Ottocento ad esempio la “prima Internazionale” e poi la seconda) – non solo il senso interiormente vissuto di una futura prospettiva socialista, ma anche gran parte della carica, dell’entusiasmo e della creatività politico-sociale: in particolare, uno dei principali effetti di questo svuotamento è stato l’“ipostatizzare” anche nella cultura di quei lavoratori il capitalismo come sistema economico-sociale tendenzialmente eterno, copiando in pratica – in questo – la mentalità tipica che da più di due secoli è storicamente caratteristica della grande borghesia....

Oltre tutto, queste menomazioni politiche di fondo sono ulteriormente rafforzate dal fatto che è molto abituale, nelle varie forme di “cultura di massa” prodotte e diffuse nelle diverse parti del mondo, la presenza di maniere sostanzialmente dualiste di vedere e prendere la vita nelle quali l’unità interiore di ciascuna persona risulta spezzata (da rigide e ingiustificate idee preconcette, da conflitti interni presentati come inevitabili e “naturali”, da ipocriti moralismi o al contrario da forme di strabordante visceralità, e via dicendo), e ciò in quanto alle élite dominanti conviene enormemente che le classi popolari siano caratterizzate da questo tipo di atteggiamenti dualisti che indeboliscono di molto la capacità di tali classi di incidere in modo creativo sull’assetto sociale circostante [206]....

Pure il fatto che – durante il ’900 ed oltre – nemmeno le altre correnti principali nate nella sinistra abbiano recuperato quell’equilibrio non ha certo risolto le cose, anche se sovente queste correnti hanno saputo sia criticare giustamente diversi aspetti negativi tanto della “sinistra moderata” o della “sinistra rivoluzionaria” quanto delle tipiche forme locali della “cultura di massa”, sia dare spazio e respiro a diversi aspetti creativi delle proposte di certi movimenti alternativi. In tal modo, anche nei casi migliori gli obiettivi della sinistra sono rimasti comunque parziali e sostanzialmente menomati, a paragone con le elaborazioni del “socialismo scientifico” ottocentesco, che – non si dimentichi neanche questo – è stato stabilmente la principale corrente della sinistra durante gli ultimi decenni di quel secolo, per lo meno in Europa (che di fatto è stata la culla sia dell’industrializzazione sia, parallelamente, del pensiero socialista e libertario moderno) [207].

 

4. Il senso reale di quell’equilibrio

Visto che da più di un secolo il senso di quell’equilibrio dialettico tra “obiettivi di breve-medio termine” e “obiettivi di lungo termine” appare radicalmente – e drammaticamente – perduto nella cultura popolare contemporanea, qual è il significato che tale equilibrio aveva nel “socialismo scientifico” marx-engelsiano e che può avere fecondamente oggi?

Dal momento che il contesto storico-culturale in cui ci troviamo tende ad influenzare molto significativamente non solo il nostro vissuto ma anche il nostro pensiero, per approfondire dal punto di vista politico tale contesto possiamo partire dalle esperienze di tipo politico vissute popolarmente in questo lungo periodo, che copre ormai diverse generazioni.

Da un lato, il cosiddetto “socialismo reale” e la cosiddetta “sinistra rivoluzionaria” ci hanno abituato a pensare che gli “obiettivi di lungo termine” posti dal “socialismo scientifico” ottocentesco sono molto più importanti dei suoi “obiettivi di breve-medio termine” e tendono – paradossalmente – a venire prima di questi ultimi. Una radice fondamentale di questo modo di pensare è l’abitudine – ormai diffusamente acquisita – di prendere come “normali” e validi i concetti staliniani del “socialismo in un paese solo” e del “socialismo fortemente industrialista in paesi economicamente ‘non sviluppati’”: una coppia di concetti che, oltre ad essere in grande contrasto con la visione storica marx-engelsiana, rispetto ad essa ha reso appunto molto più “facile” pensare di poter attuare una rivoluzione socialista. In tal modo, l’essenza degli obiettivi marx-engelsiani di lungo termine, cioè la progressiva costruzione del socialismo, è diventata nel pensiero di Stalin, Mao, ecc. molto più raggiungibile ed attuabile degli obiettivi marx-engelsiani di breve-medio termine, i quali in pratica riguardavano tematiche sostanzialmente interne alla società ad economia di mercato. Peccato – per i sostenitori del tipo di pensiero politico consolidatosi appunto con Stalin – che quella di Stalin e poi quelle di Mao, di Castro, di Deng, ecc. fossero anche concezioni del socialismo antidemocratiche, patriarcali, gerarchiche, autoritarie, repressive, semplicistiche, ecc., cioè fasulle alla fin fine.... Addirittura ci si potrebbe chiedere con una certa ironia se non è proprio per questo che le concezioni in questione appaiono essere state così “attuabili” (60-70 anni o più in Russia, in Corea del Nord, in Cina, in Vietnam e a Cuba, quasi mezzo secolo negli altri paesi del “patto di Varsavia”, in Jugoslavia, in Albania e più recentemente in Laos, e via dicendo): il problema di fondo, infatti, si direbbe essere il fatto che generalmente la maggioranza delle popolazioni di questi paesi non voleva in effetti ritrovarsi in una prospettiva rigidamente statalista e per di più diretta dall’alto dai vertici di un partito identificatosi con il potere statale, ma avrebbe preferito un’impostazione politico-sociale molto più democratica, sfaccettata, progressista, sensibile alle autonome rivendicazioni sindacali dei lavoratori e aperta sia al senso comunitario localmente tradizionale sia ad un certo spirito imprenditoriale borghese. In tal modo, l’unica maniera per stabilizzare nel tempo un’impostazione sociale rigidamente statalista era in pratica proprio il ricorrere ad un “sistema di potere” autoritario, antidemocratico, repressivo, calato dell’alto, ecc.: un sistema che poi è diventato sempre più autoreferenziale e che anche quando ha deciso di aprirsi ad un’intensa collaborazione col capitalismo (come è avvenuto con la svolta denghista) non ha voluto rinunciare minimamente ai privilegi e al potere personale accumulati dai propri dirigenti.... Storicamente, nell’epoca contemporanea risulta essere stata attuabile anche la forma di “socialismo primitivo” affermatasi nella regione messicana del Chiapas dopo una rivoluzione strettamente locale condotta in profonda sintonia con la cultura popolare della regione stessa, ma sino ad ora qualsiasi tentativo di concretizzare in quest’epoca qualche forma di “socialismo moderno e industrializzato” ha confermato ampiamente le previsioni e le prospettive espresse da Marx ed Engels e la mancanza di validità di quei concetti staliniani, in quanto da tali concetti sono emerse soltanto società prive di un socialismo effettivo e non sfacciatamente fasullo [208].

Quel modo paradossale di pensare contiene però in sé anche qualche stimolante motivazione che appare pienamente degna non solo di nota, ma anche di un certo approfondimento: in particolare, è un modo che tende a considerare l’economia come chiave di volta della società moderna (cosa che, se non viene esasperata nell’economicismo, appare piuttosto vera sin dai tempi di Adam Smith, cioè dal tardo ’700) e quindi tende a pensare che nell’economia capitalistica, dove i capitalisti hanno un enorme potere di fatto, la lotta delle classi lavoratrici per gli “obiettivi di breve-medio termine” è sempre su un terreno fragile e per certi versi perdente, perché i ricatti della classe capitalistica possono sempre mettere in gravi difficoltà i lavoratori e costringerli pertanto a sostanziali sconfitte riguardo a quegli obiettivi. Probabilmente il principale errore fatto da questo modo di pensare è sottovalutare due aspetti delle dinamiche sociali in corso: in primo luogo, le possibilità che possono venire offerte alle classi lavoratrici da pubbliche istituzioni lucidamente e trasparentemente democratiche (possibilità che erano state colte ampiamente già dal “socialismo scientifico” ottocentesco e in linea di massima anche da altre correnti politiche ad esso contemporanee) [209]; in secondo luogo, le possibilità nascenti dall’economia keynesiana e dalla cosiddetta “economia mista” (che in pratica affianca all’economia privata una forte capacità di azione economica di tipo pubblico o comunitario) come modi di gestire l’attività produttiva a favore anche – o persino soprattutto – delle classi lavoratrici. Ovviamente, si tratta di direzioni di intervento economico che non erano disponibili all’epoca di Lenin, essendo state elaborate inizialmente soprattutto da Keynes durante gli anni ’20 del ’900 e avendo cominciato ad emergere concretamente solo nei successivi anni ’30 (e ancor più tra gli anni ’50 e ’70). In sintesi, classi lavoratrici che non sappiano impiegare le opportunità loro offerte da una democrazia ben impostata, dall’economia keynesiana e dall’“economia mista” tendono effettivamente ad essere ricattate facilmente dalla classe capitalistica – e facilmente sconfitte da questa su tutta una serie di terreni – nell’ambito delle vicende politico-economiche dell’economia di mercato, ma le cose possono essere alquanto diverse se le classi lavoratrici sanno effettivamente impiegare tali opportunità [210].

Dall’altro lato, la “sinistra moderata” novecentesca ha praticamente messo tra parentesi – trascurandoli e ignorandoli sempre più – gli “obiettivi di lungo termine” del “socialismo scientifico” marx-engelsiano, cioè la costruzione di una società socialista. Specialmente dopo l’avvento di Stalin, è stato piuttosto facile per questa corrente – e soprattutto per la borghesia stessa – spaventare sempre più le classi popolari del mondo di fronte all’idea del socialismo, visto che il “socialismo realizzato” che avevamo e abbiamo tutti di fronte è quello praticamente dittatoriale, fortemente statalista e sistematicamente repressivo di leader come Stalin stesso, Brežnev, Mao, i cubani Castro, i coreani Kim, ecc., o più recentemente quello iper-affarista e “affabilmente multinazionalizzato”, ma altrettanto repressivo e sostanzialmente dittatoriale, di ulteriori leader come Deng e Xi (e persino Lenin aveva pesantemente e consapevolmente mentito rivendicando pubblicamente prima della “rivoluzione d’ottobre” tutto il potere ai soviet...) [211]. In altre parole, lo stalinismo e i suoi epigoni sono stati a lungo andare una sorta di manna per la borghesia internazionale e per i suoi sostenitori (tra i quali si possono includere alla fin fine i principali esponenti della “sinistra moderata”)....

Questo aiuta anche a comprendere come mai l’impostazione culturale borghese – con il suo guardare al mondo con uno sguardo individualistico o tutt’al più famigliaristico – sia così predominante ormai pure nel Terzo mondo, e specialmente nelle sue aree urbanizzate (dove si è progressivamente ridotto il tradizionale tessuto sociale comunitario e per di più sono spesso presenti vaste baraccopoli in miseria) e in generale nei suoi territori drammaticamente sconvolti in passato da forme di dominio locale schiaviste e/o pesantemente violente o dal colonialismo. In sintesi, dove l’originario senso comunitario si è assottigliato e sempre più dissolto, ha comunemente faticato a formarsi una coscienza politica autenticamente popolare e contemporaneamente densa di senso sociale, dal momento che nel Terzo mondo la critica di sinistra alle società tipicamente classiste è stata profondamente e stabilmente influenzata in modo negativo – e pressoché svuotata intrinsecamente di significato – dalla massiccia presenza concreta e politico-culturale di quel presunto “socialismo realizzato” che ha letteralmente distrutto in sé l’idea ottocentesca del socialismo come società in tutti i sensi finalmente democratica e che ha cercato di riportare le masse all’idea che le rigide gerarchie sociali e l’autoritarismo siano qualcosa di normale, stabilmente giusto e magari addirittura naturale, specialmente se all’autoritarismo si affianca un certo paternalismo (come quello che in maniere un po’ diverse ha solitamente accomunato i leader di cui sopra) [212]....

Se da una parte attraverso una lucida e intelligente utilizzazione delle succitate opportunità collegate alla democrazia e alle forme di economia keynesiana e mista si può ridare respiro e spazio agli “obiettivi di breve-medio termine” del “socialismo scientifico” marx-engelsiano (obiettivi che invece la “sinistra rivoluzionaria” novecentesca ha generalmente trascurato e messo decisamente in secondo piano), dall’altra parte proprio criticando il “socialismo reale” in quanto essenzialmente fasullo e recuperando il senso profondamente democratico, creativo ed evolutivo che gran parte dei socialisti ottocenteschi attribuivano ad una futura costruzione del socialismo si può smontare l’operazione con cui la “sinistra moderata” novecentesca ha messo tra parentesi gli “obiettivi di lungo termine” del medesimo “socialismo scientifico” e rispondere a tale operazione in maniera positiva e tendenzialmente risolutiva. Questo ripristinare l’idea e il concetto di una transizione al socialismo aperta al vivo e incisivo contributo partecipativo di tutti, non sbrigativa e non stressante, non forzata, giuridicamente ed esistenzialmente libertaria in un riconoscimento universalistico sia dei tanti diritti individuali sia di alcuni doveri sociali di fondo [213], non incentrata molto più sugli uomini che sulle donne, non frettolosamente e rigidamente statalista, non in rigida contrapposizione con i lati piacevoli e costruttivi dell’economia keynesiana, non pronta a reprimere con forza e con minacciosa aggressività gli eventuali “dissenzienti”, e via di seguito, significherebbe una (ri)liberazione del lato prospettico e socialmente progettuale dell’umanità (e sarebbe in pratica l’opposto di quanto hanno fatto a proposito di tale transizione ambedue le correnti novecentesche in questione).

Tra l’altro, trovando in questi modi un’efficace risposta ai fallimenti concettuali e alle estreme lacune comunemente caratteristici delle due maggiori e più datate correnti della sinistra novecentesca [214], si potrebbe contribuire in maniera corposa anche ad incoraggiare negli altri gruppi e correnti, più recenti, una serie di approfondimenti che giungano a colmare gli specifici limiti concettuali che sinora sono stati tipici di questi altri movimenti.

 

5. Tante strade, una strada

In conclusione, ormai è più di un secolo che – per quanto riguarda gli obiettivi di fondo elaborati lucidamente nel tardo ’800 dal “socialismo scientifico” marx-engelsiano – il “socialismo realizzato” e parallelamente la “sinistra rivoluzionaria” hanno tipicamente sminuito in maniera intensa sia il significato umano e l’importanza degli obiettivi di breve-medio termine sia la qualità intrinseca e il senso profondo degli obiettivi di lungo termine, arrivando in questo anche a ribaltare tendenzialmente l’ordine temporale di tali obiettivi (anteponendo di fatto cioè quelli di lungo termine a quelli di breve-medio termine e sacrificando comunemente così questi ultimi ad un’epoca post-rivoluzionaria più o meno futura che invece – come si è già vissuto a lungo in Russia, in Cina, ecc. – non è stata affatto ricca di libertà e di democrazia e in tal modo ha tradito seccamente gli obiettivi marx-engelsiani non solo del lungo termine ma anche del breve-medio termine...), mentre la “sinistra moderata” ha finito col rimandare pressoché ad infinitum gli obiettivi di lungo termine e ha tipicamente sminuito in maniera molto intensa la qualità esistenziale degli obiettivi di breve-medio termine. In seguito, col passare del tempo, vari gruppi di altre correnti hanno rimesso in discussione parti più o meno ampie di questi approcci, ma generalmente senza un adeguato approfondimento né “politico complessivo”, né storico, né – in molti casi – teorico-filosofico. Come effetto e risultato di tutto questo, oggi noi ci troviamo di fronte alla questione del ritrovare – o ricostruire – un senso profondo e congruo in questa tematica costituita dall’insieme degli obiettivi che i movimenti collegati ai lavoratori possono darsi.

Procedendo per varie possibili strade in questa ricerca della congruità e della profondità percettiva, elaborativa e propositiva, l’impressione di fondo è che – se si tratta di strade ricche di significati e di senso generale – tendano tutte alla stessa direzione, allo stesso approdo, alla stessa “piazza concettuale”, caratterizzata dalla sintesi fra tutte le dinamiche della vita umana (esperienze, sviluppi tecnico-scientifici, tematiche filosofiche o esistenziali) che nel corso della storia sono emerse come contraddistinte da una valenza positiva e costruttiva e/o – più in particolare – da una capacità liberatoria in questo o quell’aspetto della vita umana stessa [215]. Si torna, in sostanza, a quanto si è già osservato qui a proposito delle svariate cose nodali da fare in base al pensiero marx-engelsiano:

  1. tutelare e sviluppare quanto possibile la “qualità della vita” delle classi lavoratrici, poste tipicamente in posizione svantaggiata nel mondo odierno (e ciò senza dimenticare, più in generale, l’umanità intera) [216], il che evidentemente è anche collegato strettamente alla salvaguardia della nostra salute fisica, psichica e relazionale, alla tutela dell’ambiente, alla difesa della pace, alla realizzazione di un’urbanistica impostata sulla misura umana (e non su quella degli speculatori immobiliari o delle automobili) e ad una serie di basilari tematiche culturali come un’efficace e sfaccettata istruzione ricca di creatività e di senso critico, un’informazione pluralistica e un consistente spazio per forme espressive quali la musica, la danza, le altre arti (teatro, letteratura, cinema, pittura, scultura, architettura, ecc.) e lo sport;
  2. rendere il più possibile democratica e progressista la società contemporanea, approfondendo in particolar modo questa “direzione di sviluppo” sia nella sfera economica, sia in quella istituzionale, sia in quella tecnico-scientifica, sia in quella dei valori etico-filosofici ed esistenziali, sia nella capacità di dialogo e di collaborazione tra popolazioni di diverse parti del mondo, cioè i cinque campi che oggi rappresentano per molti versi – e tanto più sulla scala internazionale – le chiavi della vita sociale;
  3. contribuire alla crescita e lievitazione della coscienza sociale e politica soprattutto delle classi lavoratrici in vista non solo del rendere più vivibile e umano il presente, ma anche del prefigurare forme di società ancor più libere, soddisfacenti e stimolanti che per poter essere costruite avranno bisogno della diretta partecipazione creativa di tutti, o per lo meno di tantissimi (come prevedevano appunto le prospettive socialiste di cui si parlava ampiamente nei movimenti dei lavoratori specialmente durante l’Ottocento, prima dell’affermarsi di un pressante e quanto mai deleterio leaderismo che si è avviato in pratica con Stalin e che socialmente appare estremamente pericoloso anche per la sua intrinseca tendenza a prolungarsi incrollabilmente nel tempo ben oltre questo o quello specifico “sistema di potere”, una tendenza messa in evidenza in modo particolarmente esplicito in Russia da Putin e in Bielorussia da Lukashenko ma suggerita comunque anche da ulteriori figure politiche come ad esempio Orbán in Ungheria e, più in generale, dalle molte vittorie elettorali di partiti più o meno pesantemente autoritari pure in altri paesi provenienti da decenni di “socialismo realizzato”) [217].

In questo, un aspetto che appare del tutto fondamentale è ritornare in linea di massima ad una scansione temporale in cui la tipologia di obiettivi che era considerata di breve-medio termine dal “socialismo scientifico” marx-engelsiano venga di nuovo posta prima degli obiettivi da esso considerati di lungo termine (“in linea di massima” perché ovviamente non si tratta di uno schema prospettico rigido e prefissato una volta per tutte, ma semplicemente di una prospettiva che comunemente appare profondamente sensata per molti specifici motivi concreti) e naturalmente, in maniera parallela, riportare l’idea del socialismo ad essere appunto – come già si è osservato nella parte finale della precedente sezione di testo – qualcosa di non forzato, di profondamente democratico e soprattutto di molto più complesso e caleidoscopico del semplicistico statalismo nazionale che durante il ’900 è stato eretto a sinonimo di socialismo da gran parte delle correnti politiche (inclusi innumerevoli partiti di destra e di centro – oltre che di quella che si autodefinisce “sinistra moderata” e che, visti i suoi equilibri politici complessivi, andrebbe solitamente considerata parte appunto del centro – che avevano un pieno interesse a spaventare appunto le masse con l’equazione “socialismo = stalinismo e sue varianti”, così da spingere le masse stesse a riabbracciare con convinzione per l’eternità il capitalismo...). Nel contempo, il socialismo andrebbe anche riportato ad essere non qualcosa da costruire per una sorta di obbligo morale e/o di dovere volontaristico e atemporale (obbligo e dovere nascenti in sostanza dal fatto che – secondo un modo di vedere intellettualistico, teorico e in pratica idealistico – si tratterebbe sempre e comunque di un tipo di società assolutisticamente più “evoluto” degli altri, anche se trasformato per esempio in un delirio dittatoriale e oppressivo come sono riusciti a fare Stalin per primo in Russia e poi vari altri in diverse parti del mondo...), ma una eventualità che potrà essere realizzata progressivamente se – e solo se – un’ampia maggioranza degli esseri umani lo vorrà liberamente con consapevolezza, determinazione, perseveranza e soprattutto reciproca amorevolezza e spontanea gioiosità, volendolo proprio perché in quel periodo dell’evoluzione umana riterrà con concretezza e lucidità che dovrebbe trattarsi chiaramente di una società più felice ed evoluta e più soddisfacente dal punto di vista pratico rispetto agli altri tipi di società già conosciuti (o ipotizzati) nella storia umana [218].

In estrema sintesi, si tratta di approfondire gli spazi di integrazione tra il “socialismo scientifico” marx-engelsiano, l’esperienza femminista, i movimenti ambientalisti, il pensiero fondamentalmente nonviolento, i movimenti per i diritti civili e per la solidarietà umana (questi ultimi collegati molto spesso in modo particolare alla dimensione del volontariato), il pensiero olistico, le capacità economiche operative di tipo keynesiano, la ricerca esistenziale per la “qualità della vita” e le esperienze di tipo scolastico indirizzate a una didattica creativa, partecipativa e aperta al piano ludico [219], il tutto in un intreccio dialettico non solo opportuno e necessario, ma in fondo anche pienamente naturale. Questa integrazione (che naturalmente include una spinta ulteriore verso l’evoluzione tecnica e soprattutto scientifica, in quanto è un’evoluzione che fa parte delle aspirazioni di tutti i movimenti e le correnti di pensiero in questione) pone in pratica le basi di fondo di una “politica alternativa” capace di essere davvero congrua ed efficace, in questo mondo estremamente complesso in cui viviamo specialmente dalla metà del ’900.


Note
* A questa quarta parte – nella quale per semplicità la numerazione delle note prosegue come continuazione dalla terza parte – dovrebbero fare seguito prossimamente una quinta e anche una sesta parte (in effetti si è di nuovo allungato il prospetto generale dell’intervento, al fine di evitare un’eccessiva ampiezza di ciascuna delle sue parti). Per il primo paragrafo di questa quarta parte sono stati rielaborati e ampliati due precedenti articoli usciti in Il Senso della Repubblica (rivista mensile on-line) con i seguenti titoli rispettivi: Dal New Deal ai Fridays for Future - L’ascesa e l’eclisse delle “politiche keynesiane”: una rilettura critica (dicembre 2021) e Keynes: Michal Kalecki e le tendenze della società odierna (gennaio 2022). E per il terzo paragrafo è stata qui utilizzata parte dell’articolo apparso nella medesima rivista nell’agosto 2022 col titolo Movimenti dei lavoratori, questione di storia - L’evoluzione interna del “socialismo scientifico” Marx-Engelsiano. Ulteriori considerazioni sulla possibile integrazione di cui si parla qui nella conclusione sono previste nella sesta e conclusiva parte. Le prime tre parti del presente intervento si trovano ai seguenti indirizzi rispettivi:
https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/26728-luca-benedini-effetti-culturali-dell-economia-neoliberista.html”;
https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/28016-luca-benedini-effetti-culturali-dell-economia-neoliberista-ii.html”;
https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/28819-luca-benedini-effetti-culturali-dell-economia-neoliberista-iii.html”.
[144] La questione è già stata toccata qua e là nelle prime tre parti del presente intervento. A ulteriore illustrazione dell’atteggiamento complessivo di Keynes, oltre alla sua partecipazione a cenacoli culturali aperti, innovativi e trasgressivi come il “gruppo di Bloomsbury” e al consistente sostegno da egli fornito a varie arti (teatro, danza, musica classica), si possono ricordare in particolare suoi scritti non strettamente tecnici come Possibilità economiche per i nostri nipoti, del 1930, e Autosufficienza nazionale, del 1933 (un articolo dove lo stesso Keynes ha anche offerto rimarchevoli suggerimenti sul perché a quel punto specifico dell’evoluzione storica gli intensi cambiamenti tecnologici ed economici avvenuti rispetto al secolo precedente stavano rendendo ormai obsoleti e controproducenti il liberismo ottocentesco e la sua automatica applicazione al commercio internazionale). Una citazione tratta da quell’articolo è stata inserita nella terza parte del presente intervento (nel paragrafo “La scarsa attenzione neoliberista per la salvaguardia dell’ambiente, della salute pubblica, della natura”). Vale la pena di sottolineare anche il forte apprezzamento economico di Keynes per la concreta capacità produttiva e per gli investimenti a medio-lungo termine collegati a tale capacità, non certo per la speculazione finanziaria, che egli considerava complessivamente paragonabile al gioco d’azzardo in un casinò (e che invece in quest’epoca neoliberista appare diventata la principale “passione” delle élite economiche...).
Proprio a questo proposito, si può puntualizzare che la proposta che oggi viene comunemente chiamata Tobin tax (una imposta generale sulle transazioni finanziarie, sostenuta da tempo da molti movimenti alternativi e da numerosi economisti di sinistra) risale non a Tobin ma a Keynes ed è molto più datata di quanto si pensi comunemente. In un’intervista apparsa sulla rivista tedesca Der Spiegel del 3 settembre 2001, James Tobin stesso – economista statunitense che nel 1981 fu anche premio Nobel per l’economia – ha raccontato infatti di essersi ispirato a una proposta effettuata da Keynes nel 1936 per formularne una propria, diversa: «Sono un discepolo di Keynes, il quale, nel suo celebre capitolo XII di Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, aveva già indicato l’opportunità di un’imposta sulle transazioni finanziarie, al fine di collegare in maniera durevole gli investitori ai loro atti. Nel 1971 trasferii quest’idea ai mercati valutari». In altre parole, la proposta effettiva di Tobin riguardava l’istituzione di un’imposta sulle specifiche transazioni valutarie (cioè sulle operazioni finanziarie che implicano uno scambio di valuta) e aveva lo scopo di ridurre l’attività speculativa nell’ambito valutario, un’attività che ha spesso gravi effetti sulla vita economico-produttiva e sociale delle nazioni la cui valuta si trova ad essere oggetto di un’insistita attenzione da parte degli speculatori. Benché il tipo di imposta suggerito da Tobin sia ancora attuale e valido e sia sovente preso in considerazione come possibile iniziativa regolatrice dei mercati valutari (nella sua forma originaria o nella forma di varianti “aggiornate” in cui si tenga particolarmente conto delle recenti evoluzioni di tali mercati), la proposta che oggi è più discussa nel campo dei rapporti tra fisco e finanza speculativa è l’istituzione di un’imposta sulle transazioni finanziarie in genere – non solo quelle valutarie – ed ha a che fare in realtà appunto con Keynes. Quest’ultimo, infatti, in quel suo volume distingueva nei mercati finanziari tra intraprendenza (cioè l’investire pensando in pratica all’“economia reale” e al medio-lungo termine) e speculazione (cioè il mirare a prevedere meglio degli altri le tendenze del mercato in modo tale da ricavare dei guadagni giocando con gli investimenti e i disinvestimenti sempre sul filo della rapidità e della tempestività) e aggiungeva esplicitamente che «l’introduzione di una forte imposta di trasferimento per tutte le negoziazioni potrebbe dimostrarsi la riforma più utile, allo scopo di mitigare il predominio della speculazione sull’intraprendenza negli Stati Uniti». Si tratta appunto di quell’imposta su tutte le transazioni finanziarie che costituisce la principale proposta in discussione in questi decenni riguardo a una forma di tassazione applicabile alla finanza internazionale e che ha avuto una limitata attuazione nell’UE a partire dal 2011.
A voler essere precisi e corretti, si dovrebbe parlare dunque non di una Tobin tax, ma di una Keynes tax (dal momento che per l’appunto il tema non è costituito dalle sole transazioni valutarie, ma in generale da tutte quelle finanziarie). E si può rammentare che se James Tobin fosse ancora vivo (è invece scomparso nel 2002, all’età di 84 anni) non si risentirebbe certo se si smettesse di associare il suo nome a questa imposta: lui stesso aveva spesso contestato l’utilizzazione impropria che vari movimenti alternativi facevano di quella sua proposta effettuata negli anni ’70. Tra l’altro – diversamente da quanto suggeriva appunto Keynes quasi un secolo fa riguardo p.es. agli Usa – con la globalizzazione avviatasi negli scorsi anni ’90 non ha praticamente più senso parlare di applicare una tale imposta semplicemente in un singolo determinato paese, ma i movimenti alternativi e gli economisti che parlano oggi di questa imposta sono ampiamente consapevoli di ciò e quindi non appare esservi bisogno di ulteriori commenti al riguardo. Probabilmente molti esponenti di tali movimenti saranno stupiti del fatto che la battaglia politico-culturale che stanno facendo da decenni per un’attuazione efficace e generalizzata di quella che comunemente chiamano Tobin tax (battaglia fortissimamente osteggiata da quasi tutti gli appartenenti al mondo dei finanzieri e – più in generale – dei “grandi ricchi”) si basa pienamente, in realtà, su una proposta proveniente dalla prima metà del ’900 e in particolare dal “celebre” Keynes, ma questo fatto contribuisce a mettere in evidenza l’intensità dello spirito progressista e profondamente creativo che animava Keynes e che è rimasto poco compreso da tanti dopo la sua precoce scomparsa nel 1946. Ed è ovvio che questo tipo di spirito non può risolvere tutte le contraddizioni interne del capitalismo, ma può dare un’efficace risposta a diverse di esse – come si è intravisto specialmente durante il periodo del boom economico nella seconda metà del ’900 e come hanno poi ulteriormente suggerito esperienze come p.es. lo sviluppo dell’ambientalismo sul piano culturale e del microcredito sul piano economico – e in tal modo può consentire alle classi popolari un benessere generale molto maggiore, dal quale poter pure trarre ulteriori consapevolezze e conoscenze in vista anche di un’eventuale possibile transizione verso società tendenzialmente più armoniche e complesse in cui possa trovare soluzione l’intero insieme di quelle contraddizioni (argomento, quest’ultimo, che verrà preso qui in considerazione più ampiamente nel corso dei prossimi due paragrafi).
[145] Sugli atteggiamenti degli intellettuali durante l’ultima cinquantina d’anni nella parte del mondo ad economia di mercato, cfr. in special modo Le due destre, di Marco Revelli (Bollati Boringhieri, 1996) e Che fine hanno fatto gli intellettuali?, di Frank Furedi (Cortina, 2007). Spunti particolarmente significativi si possono trovare anche in Oltre Keynes (Rocca, 1° luglio 2017) e in Dopo gli errori di Seattle (un intervento del dicembre 2018), ai seguenti indirizzi rispettivi:
https://www.sinistrainrete.info/keynes/10306-luca-benedini-oltre-keynes.html”;
https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/14007-luca-benedini-dopo-gli-errori-di-seattle.html”.
[146] Su tali previsioni cfr. p.es. la parte II di Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali, un intervento del maggio 2023 pubblicato al seguente indirizzo:
https://www.sinistrainrete.info/teoria/25476-luca-benedini-storia-e-democrazia-alcuni-nodi-cruciali.html”.
[147] Sulle vicende storiche con cui quel movimento ha avuto a che fare e sulle principali lacune emerse col tempo nella sua azione cfr. specialmente Da Seattle alla crisi dei mutui (Rocca, 15 aprile 2009) e il già ricordato Dopo gli errori di Seattle. L’articolo del 2009 è disponibile in rete al seguente indirizzo:
https://share.mail.libero.it/ajax/share/0f57a81608400140fe38c50840014858a61dac2dafc1555e/1/8/MjY/MjYvNg”.
[148] Vi sono state delle parziali eccezioni a questo andamento. Innanzi tutto vi sono i paesi dell’area scandinava, dove un diffuso “spirito civico” e una diffusa consapevolezza sociale hanno fatto sì che, nella politica interna, l’atteggiamento neoliberista abbia ricevuto un apprezzamento piuttosto scarso anche da parte del mondo imprenditoriale e si sia sviluppata una marcata disponibilità ad aggiornamenti e innovazioni nell’azione pubblica in campo economico, senza però che questo abbia influito fortemente sulla politica estera di tali paesi, rimasta nettamente subalterna alla globalizzazione neoliberista (e ciò anche per una scarsa presenza di internazionalismo in quello spirito civico e in quella consapevolezza sociale). Negli ultimi tempi queste esplosive contraddizioni tra politica interna e politica estera hanno poi finito col minare in più occasioni in tale area – anche come conseguenza dei risultati elettorali – le possibilità stesse di un orientamento governativo notevolmente alternativo al neoliberismo. In altre parti del mondo vi sono state diverse ondate socio-culturali ricche di una speranza di cambiamento e collegate ai successi elettorali di personalità politiche particolarmente di spicco, quali specialmente Chavez, Kirchner, Lula e Mujica in Sudamerica e Tsipras in Grecia (personalità, guarda caso, tipicamente osteggiate dai maggiori organismi politico-economici sovranazionali, come il Fmi e – nell’UE – l’Eurogruppo...). Dopo gli entusiasmi iniziali queste ondate però sono solitamente rifluite, anche per effetto sia delle pesanti pressioni di quegli organismi sia della scarsa collaborazione offerta a queste personalità e ai loro governi dai tantissimi governi di altre nazioni che si sono orientati di fatto in senso neoliberista in politica estera (molti di questi facendolo anche – di solito in maniera maggiormente esplicita ed eclatante – in politica interna). In tal modo, al posto di quella speranza di cambiamento si è tornati sempre più verso la “solita” società attuale intrinsecamente classista, contrassegnata da un gran numero di divisioni interne (estremamente utili all’applicazione del vecchio – ma ancora efficientissimo – principio del divide et impera, su cui costruì tipicamente il suo potere geostrategico l’impero romano e su cui si sono organizzate in seguito moltissime altre forme di gerarchia sociale) e appunto da una sorta di impotenza socio-economica delle classi popolari. Si potrebbe fare un parallelo storico con precedenti personalità politiche come i due fratelli Kennedy assassinati negli Usa negli anni ’60 (prima John Fitzgerald, presidente, e poi Robert, candidato alla presidenza) e come il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, assassinato a sua volta nel 1995: i loro successi politici e il loro significativo entusiasmo umanistico avevano dato origine a grandi speranze popolari di vitali cambiamenti sociali nella società, ma dopo la loro morte violenta quelle ondate di speranza si sono progressivamente dissolte e svaporate, come se in quel momento storico solo loro – e nessuno dei loro collaboratori – fossero capaci di utilizzare la politica in una maniera complessivamente positiva e vicina alle aspirazioni correnti della gente del loro paese (non si sta certo parlando qui di aspirazioni a lungo termine, che nella politica novecentesca sono diventate in grandissima parte una problematicissima – e spesso controproducente e ingannevole – questione soprattutto ideologica, dominata da uno scontro quanto mai fuorviato e fuorviante tra sostenitori dello stalinismo antagonisti del capitalismo e sostenitori del capitalismo antagonisti dello stalinismo).
Sulle parziali eccezioni qui in discussione, cfr. anche sia i paragrafi “Dal ‘vecchio’ liberismo all’attuale neoliberismo: spiccate differenze anche politico-sociali” e “La caduta novecentesca della ‘politica di sinistra’” nella prima parte del presente intervento, sia il paragrafo “Un po’ ‘anomalia nazionale’, un po’ ‘questione internazionale di fondo’” in La caduta della politica in Italia (e non solo) (Mantova Beppe Grillo Meetup Group, 2007), un dossier disponibile attualmente al seguente indirizzo:
https://share.mail.libero.it/ajax/share/0543fe5a0ba331425f7da1cba3314f49b4a603df9ecac199/1/8/MjY/MjYvMTk”.
[149] In tale ambito, p.es., i paesi che hanno adottato l’euro come moneta hanno addirittura ceduto di fatto buona parte della loro sovranità democratica a istituzioni – come l’Eurogruppo e il Mes – che risultano praticamente irraggiungibili per i cittadini e per un’effettiva democrazia.... Su altre diffuse e pesanti forme relativamente recenti di cessione di tale sovranità, presumibilmente ancor più illegittime dal punto di vista giuridico, cfr. in particolar modo Tribunali pensati per rapinare gli Stati, di Benoît Bréville e Martine Bulard (Le Monde Diplomatique - Il Manifesto, giugno 2014).
[150] In generale, oltre al già menzionato Da Seattle alla crisi dei mutui, cfr. p.es. il precedente articolo Pensare ed agire globalmente e localmente (Ecologia Politica - CNS, gennaio-giugno e novembre 1996), mentre su vari aspetti delle interazioni tra commercio internazionale, attività produttive, ambiente e salute cfr. L’inquinamento da polveri atmosferiche in pianura Padana e, più in generale, in Europa e nel mondo - Il punto di vista scientifico e le prospettive di soluzione per una vera e propria ecatombe tuttora in corso: uno studio del 2017 con una postfazione del 2024. L’articolo del 1996 e questo studio sono disponibili in rete ai seguenti rispettivi indirizzi:
https://share.mail.libero.it/ajax/share/079746e609e7024472362a09e702414c8085691dc49ba875/1/8/MjY/MjYvMw”;
https://www.sinistrainrete.info/ecologia-e-ambiente/28279-luca-benedini-l-inquinamento-da-polveri-atmosferiche-in-pianura-padana-e-piu-in-generale-in-europa-e-nel-mondo.html”.
[151] Su queste pressioni si veda in particolare – nella terza parte del presente intervento – il paragrafo “Una vera e propria guerra di una parte dei ‘grandi ricchi’ contro tutti gli altri esseri umani (e contro l’attuale ecosistema planetario)” e più specificamente la sua nota 106.
[152] Delle versioni di questo articolo notevolmente ridotte uscirono in lingua polacca (nella rivista Ekonomista e successivamente in raccolte di saggi), negli anni dal 1961 al 1968, durante quelle che nei paesi del “Patto di Varsavia” furono prima l’epoca kruscioviana e poi quella brežneviana. Dopo la scomparsa di Kalecki – avvenuta nel 1970 – diverse traduzioni di queste versioni abbreviate comparvero in spagnolo, in inglese e poi in altre lingue, inclusa la raccolta italiana Sul capitalismo contemporaneo (Editori Riuniti, 1975). Ma la versione originaria appare molto più significativa e stimolante (e una sua traduzione italiana è disponibile anche in questo sito, all’indirizzo “https://www.sinistrainrete.info/teoria-economica/2834-micha-kalecki-aspetti-politici-del-pieno-impiego.html”). Keynes stesso scrisse una breve lettera a Kalecki nel dicembre del ’43 dicendogli di aver molto apprezzato quell’articolo, come ha riportato p.es. l’economista statunitense J. Bradford DeLong nei suoi ampi commenti storiografici inseriti in una riedizione di tale articolo realizzata intorno al 1990 (e attualmente disponibile – in inglese, naturalmente – all’indirizzo “http://delong.typepad.com/kalecki43.pdf”). Nonostante l’apprezzamento di Keynes e – soprattutto a partire da alcuni decenni dopo – anche di numerosi altri economisti, purtroppo il lavoro di Kalecki su questo tema è rimasto complessivamente non molto noto al di fuori del mondo accademico.
Tra l’altro – come è emerso esplicitamente in Occidente soltanto dopo la pubblicazione in inglese delle raccolte di scritti di Kalecki Studies in the Theory of Business Cycles, 1933–1939 (Blackwell, 1966) e Selected essays on the dynamics of the capitalist economy, 1933-1970 (Cambridge University Press, 1971), raccolte contenenti anche la traduzione di articoli pubblicati in lingua polacca durante gli anni ’30 (la seconda di esse è peraltro apparsa postuma) – Kalecki riguardo al funzionamento dell’economia di mercato aveva elaborato una visione complessiva sostanzialmente analoga a quella di Keynes, in contemporanea a quest’ultimo e ciascuno dei due indipendentemente dall’altro. Ma Kalecki, che diversamente da Keynes aveva un orientamento di fondo socialista (e in ampia sintonia col pensiero marx-engelsiano) e che intuiva appunto i limiti che col tempo la politica borghese poteva porre a quella visione, a quanto pare non desiderava affatto riconoscimenti e fama come quelli che all’epoca vennero rivolti a Keynes e personalmente preferì rimanere nel corso della sua vita in una posizione più dietro le quinte e più indirizzata ad approfondire la ricerca – in un’epoca sempre più segnata dalla “guerra fredda” e dal dirigismo sia nei paesi del “socialismo reale” che in Occidente – di concreti punti d’incontro fra sensibilità umana, senso sociale, economia politica, rapporti fra Sud e Nord del mondo, filosofia applicata e storia. Su ciò e su una rilettura aggiornata delle tesi esposte da Kalecki in quell’articolo del 1943, cfr. p.es., in inglese, tre articoli di Joan Robinson – Michal Kalecki: A Neglected Prophet (New York Review of Books, 4 marzo 1976), Michal Kalecki on the economics of capitalism (Bulletin of the Oxford Institute of Economics and Statistics, febbraio 1977) e Portrait: Michal Kalecki (Challenge, novembre/dicembre 1977) – e gli ulteriori articoli Michal Kalecki on capitalism, di Peter Kriesler e Bruce McFarlane (Cambridge Journal of Economics, 1993, 17:2, pp. 215-234), Marx, Kalecki, and Socialist Strategy, di John Bellamy Foster (Monthly Review, aprile 2013), e Political aspects of full employment: eight decades on, di Malcolm Sawyer (Review of Political Economy, 2023, 35:4, pp. 1109-1123), oltre al volume collettivo Kalecki’s Economics Today, a cura di Zdzislaw L. Sadowski e Adam Szeworski (Routledge, 2004), alla biografia Michal Kalecki: An Intellectual Biography, di Jan Toporowski (Palgrave Macmillan, 2 voll., 2013-2018) e in spagnolo all’articolo El mundo imaginado tres cuartos de siglo atrás, di Federico Novelo Urdanivia (Investigación Económica, luglio-settembre 2016).
[153] Queste considerazioni sono, tra l’altro, estremamente vicine a quanto osservava già quasi mezzo secolo fa l’economista britannica Joan Robinson nel suo articolo già citato Michal Kalecki: A Neglected Prophet, in cui l’autrice si focalizzò su un conciso e lucido confronto tra l’approccio economico di Keynes e quello di Kalecki riguardo in particolare alla possibilità di un “pieno impiego” tra i lavoratori. Su Joan Robinson – amica di Kalecki e intellettualmente alquanto vicina a lui – e sull’evoluzione delle sue idee nel tempo, cfr. p.es. in inglese la biografia Joan Robinson, di Geoffrey C. Harcourt e Prue Kerr (Palgrave Macmillan, 2009). Nella prefazione posta nel 1931 a una propria raccolta di scritti già pubblicati in precedenza, Essays in Persuasion, Keynes si autodefinì ironicamente come «una Cassandra che non ha mai potuto influire sul corso degli eventi nello scorrere del tempo [a Cassandra who could never influence the course of events in time]», allusione alla leggendaria principessa troiana che secondo Omero aveva il dono di vedere anticipatamente una serie di aspetti del futuro ma nel contempo era rigorosamente destinata a non essere ascoltata da chi le stava intorno. È pressoché certo che negli anni successivi questa opinione di Keynes cambiò, vista l’estensione dell’accoglienza che il mondo rivolse a diverse delle sue proposte. Ma a distanza di quasi un secolo possiamo dire che, per molti versi, quell’opinione è tornata progressivamente a corrispondere alla realtà degli eventi attuali (e ciò proprio per i fattori previsti da Kalecki in quel suo articolo del 1943), anche se in futuro le cose potrebbero di nuovo cambiare. Kalecki stesso lasciò un’evidente “conclusione aperta” in quell’articolo. E noi oggi siamo, puntualmente, tuttora nel guado da lui previsto (e lasciato ovviamente a noi da risolvere), con l’ulteriore complicazione della globalizzazione che rende molto più complicato e difficile – rispetto a come stavano le cose fino intorno al 1990 – operare economicamente sulla scala della singola nazione.
[154] Probabilmente questa considerazione è tuttora vera, ma è anche vero che dopo la seconda guerra mondiale il mondo è cambiato moltissimo soprattutto a seguito degli sviluppi tecnico-scientifici (che negli ultimi decenni hanno anche portato di fatto alla globalizzazione), delle innovative possibilità economiche consentite dalle “politiche keynesiane”, dell’evoluzione di discipline come la psicologia e la psicoanalisi, delle crescenti possibilità di confronto e incontro tra approcci culturali tradizionalmente occidentali e orientali (e anche tra culture maggiormente “moderne”, più orientate verso la tecnologia e l’attività economica, e culture maggiormente “primitive”, più orientate verso la natura e la spiritualità) e – più recentemente – della sempre più problematica crisi climatico-ambientale planetaria. In tal modo, il riuscire a sviluppare e mantenere uno sguardo politico e strategico a 360 gradi è giunto ad implicare sfaccettature alquanto più ampie e complesse di quanto potesse avvenire nel periodo ottocentesco. Tra la seconda metà del ’900 e questo inizio di terzo millennio appaiono essersi avvicinati a un tale sguardo a 360 gradi autori come principalmente Erich Fromm, Vandana Shiva, Riane Eisler, Fritjof Capra e Samir Amin, come mostra la multidimensionale opera complessiva di ciascuno di essi: tutti autori interessati alla politica ma non coinvolti strettamente in essa (un fatto non certo casuale, in quanto per i “politici di professione” la politica è intanto diventata sempre più una questione di potere e un terreno di grandi ambizioni personali, con rarissime eccezioni comunque parziali, nel senso di “lontane da quei 360 gradi”...). Ai primi tre di questi cinque autori e al principale volume dotato di una valenza politico-culturale di fondo che ciascuno di essi ha realizzato durante il secolo scorso si è già fatto riferimento nella parte finale del paragrafo “La caduta novecentesca della ‘politica di sinistra’” (nella prima parte del presente intervento). A Samir Amin è qui dedicata più avanti la nota 207.
[155] Diversamente, il “commercio equo e solidale” prevede rigorosamente non solo un’impostazione economica favorevole ai produttori – anziché a quei colossi del commercio – ma anche tecniche colturali attente agli equilibri dell’ecosistema e spesso addirittura biologiche, e ciò anche per proteggere i lavoratori stessi e in particolare la loro salute. Ovviamente, i colossi in questione – così come le ditte del settore alimentare che nelle varie parti del mondo acquistano i prodotti da essi commercializzati e li propongono ai consumatori – mantengono un estremo silenzio sulle asperrime condizioni sociali e ambientali da cui provengono generalmente quei prodotti.
[156] Cfr. p.es., oltre al già menzionato Pensare ed agire globalmente e localmente, l’altro articolo Lavoratori e globalizzazione (La Civetta, settembre 2010), disponibile al seguente indirizzo:
http://www.civetta.info/download/civetta_08_10.pdf” (pag. 16).
[157] Su questo spesso estremo contrasto tra la facciata superficiale che dall’alto si cerca di far percepire alla “popolazione comune” riguardo a molti eventi e l’effettivo “dietro le quinte” di questi ultimi, cfr. p.es. – oltre alle varie parti del presente intervento – due precedenti interventi: Il neoliberismo non è una teoria economica (pubblicato in tre parti nel sito di “Sinistra in rete” tra il dicembre 2019 e il luglio 2020 ) e il già ricordato Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali (del maggio 2023). Fortunatamente, in Occidente sia la spinta dei giornalisti che lavorano per i mezzi di comunicazione pubblici sia la richiesta popolare di una elevata qualità professionale di tali mezzi riescono sovente a salvaguardare in essi un po’ di giornalismo di qualità, anche se la maggioranza dei loro programmi è solitamente ispirata a punti di vista piuttosto superficiali, e nel contempo i mezzi di comunicazione alternativi – pur se solitamente alquanto rari per scarsità di fondi e finanziamenti – ampliano ulteriormente l’offerta mediatica capace di un marcato spirito critico.... Per quanto riguarda caratteristiche potenziali dei mezzi di comunicazione come il senso critico, la libertà espressiva, la creatività e la spontaneità, la situazione – sia nell’ambito pubblico che in quello privatistico – è solitamente molto peggiore nei paesi governati in maniera esplicitamente antidemocratica e autoritaria. Quell’intervento in tre parti si trova ai seguenti rispettivi indirizzi:
https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/16503-luca-benedini-il-neoliberismo-non-e-una-teoria-economica.html”;
https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/17845-luca-benedini-il-neoliberismo-non-e-una-teoria-economica-2.html”;
https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/18403-luca-benedini-il-neoliberismo-non-e-una-teoria-economica-3.html”.
[158] Solo la quarta edizione italiana di questo libro – curata da Paolo Salvadori ed edita da Vallecchi nel 1979 – venne tradotta in modo soddisfacente ed adeguato, come è stato esplicitato dall’autore stesso in una prefazione scritta appositamente per quell’edizione (che in seguito è stata ripubblicata anche da altre case editrici). Originariamente il libro era apparso in francese appunto nel 1967.
[159] Per gli indirizzi di tale intervento in rete, cfr. qui la nota 157.
[160] A tale ampio insieme di possibilità di soluzioni si è già fatto cenno nella terza parte del presente intervento, nel paragrafo “Un approfondimento prospettico: ambiente, economia, ‘socialismo reale’ e forme di democrazia, anche alla luce di un attuale contesto scientifico-filosofico complessivo di ‘armonia possibile’ e di deciso rifiuto di questa da parte delle élite dominanti”. Particolarmente opportune a questo proposito appaiono anche le varie considerazioni presentate nel 2018 in Quale economia oggi per il bene comune?. Sul pesante impoverimento culturale che affligge comunemente anche le attuali élite, cfr. in special modo il paragrafo “L’insensibilità, il cinismo e la miopia elevati a sistema” (nella terza parte dell’intervento già citato Il neoliberismo non è una teoria economica) e le ulteriori considerazioni esposte più recentemente in La soluzione capitalista per “salvare” il pianeta: trasformalo in una classe di asset e vendilo, intervista a John Bellamy Foster a cura di Lynn Fries (https://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/23526-john-bellamy-foster-la-soluzione-capitalista-per-salvare-il-pianeta-trasformalo-in-una-classe-di-asset-e-vendilo.html, 26 luglio 2022). Quell’intervento del 2018 è stato pubblicato all’indirizzo seguente:
https://www.sinistrainrete.info/teoria/13528-luca-benedini-quale-economia-oggi-per-il-bene-comune.html”.
[161] Riguardo a Syroežin cfr. la sezione “Sfera occupazionale, paradossi politici, equivoci culturali”, nella seconda parte del presente intervento.
[162] Su questa falsità cfr. p.es. – oltre all’intervento già citato Quale economia oggi per il bene comune? – gli articoli Due Nobel per lo Stato sociale (La Civetta, gennaio 2012) e Dietro le quinte dell’economia internazionale (Rocca, 15 giugno 2016). Nel sito di “Sinistra in rete” si trovano anche puntuali interventi di altri autori sulla tematica in questione: cfr. p.es. Una stagnazione costruita, di Anonimo Keynesiano (“http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/7746-anonimo-keynesiano-una-stagnazione-costruita.html”, 2 agosto 2016), Contrordine: austerità e tagli delle tasse non funzionano! Ce lo dice l’Europa, di Civil Servant (“www.sinistrainrete.info/europa/17027-civil-servant-contrordine-austerita-e-tagli-delle-tasse-non-funzionano-celo-dice-l-europa.html”, 21 febbraio 2020), Il “moltiplicatore keynesiano”: quella cosa sconosciuta ai consiglieri economici di Giorgia Meloni!, di Megas Alexandros (“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/25012-megas-alexandros-il-moltiplicatore-keynesiano-quella-cosa-sconosciuta-ai-consiglieri-economici-di-giorgia-meloni.html”, 28 febbraio 2023), La precarietà non crea lavoro - Roberta Lisi intervista Emiliano Brancaccio (“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/28095-emiliano-brancaccio-la-precarieta-non-crea-lavoro.html”, 17 maggio 2024) e La libertà del neoliberismo, di Niccolò Biondi (“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/28359-niccolo-biondi-la-liberta-del-neoliberismo.html”, 23 giugno 2024). Quei due articoli tratti da La Civetta e da Rocca sono disponibili in rete ai seguenti indirizzi rispettivi:
http://www.civetta.info/download/civetta_01_12.pdf” (pag. 10);
https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/7398-luca-benedini-non-una-vera-crisi-economica-ma-una-strategia.html”.
[163] Poiché il sostantivo “alternativa” ha diverse accezioni nel linguaggio comune, per evitare equivoci appare opportuno qui un breve commento. Dal punto di vista linguistico-lessicale, nel discorso qui in questione l’uso del termine “alternativa” può apparire sostanzialmente corretto e congruo solo se viene inteso strettamente come sostantivo indicante semplicemente qualcosa che può esistere al posto di qualcosa d’altro (in quanto o c’è l’uno o c’è l’altro, senza dimenticare che al posto di ambedue questi elementi magari ci potrebbe anche essere qualcos’altro ancora...), ma non certo se viene inteso come sostantivo che assorba la sfumatura di significato associata comunemente all’aggettivo “alternativo” – eventualmente sostantivato – quando lo si riferisce a qualcosa che porta con sé il senso di un netto e tendenzialmente indiscutibile miglioramento qualitativo per lo meno per quanto riguarda alcuni aspetti del contesto complessivo in cui ci si trova (come avviene p.es. quando si parla degli “alternativi” o più specificamente dei “movimenti alternativi”, i quali dovrebbero veicolare una qualità umana e progettuale decisamente migliore di quella veicolata dalla cultura predominante del momento, altrimenti – in sostanza – non possono essere degni di quella definizione...). In altre parole, mentre i sostenitori dello stalinismo e delle sue varianti successive propongono pubblicamente questi modi di impostare la società come un deciso miglioramento rispetto a qualsiasi forma di capitalismo privatistico e rispetto a quest’ultimo li presentano – nelle proprie asserzioni – come un’alternativa in tutti i sensi (incluso appunto il senso rappresentato da un netto miglioramento qualitativo), se si confrontano accuratamente tali modi con le varie forme assunte nel tempo dal capitalismo privatistico non appare invece per niente scontata quell’idea di generale miglioramento: in tal modo, in tali asserzioni appare storicamente corretta, da un punto di vista fattuale, concreto e non ideologico, solo la prima accezione indicata in questa nota a proposito del termine “alternativa”, mentre la seconda accezione risulta chiaramente fuori luogo e complessivamente fuorviante, oltre che ingannevole, pretenziosa e presuntuosa.
[164] Per alcune riflessioni introduttive – e per ulteriori rimandi – sull’argomento, cfr. in particolare il paragrafo “La caduta novecentesca della ‘politica di sinistra’” (nella prima parte del presente intervento) e la sezione “Sfera occupazionale, paradossi politici, equivoci culturali” (nella seconda parte).
[165] In molte di queste società la tendenza culturale predominante era comunque quella di assegnare al monarca non solo tutti questi diritti, ma anche alcuni doveri, come in particolare la capacità di indirizzare la società stessa in maniere che risultassero positive e utili per l’insieme della comunità umana (o per lo meno, a seconda dei casi, per le classi e/o le etnie localmente predominanti). Tuttavia, vi era tipicamente una contraddizione di fondo tra quei diritti assolutistici (che tendevano – anche perché assolutistici – a non avere limiti precisi e dettagliatamente specificati) e questi doveri. Nell’eventualità che questa contraddizione diventasse molto marcata o addirittura esplosiva, o in altre parole nei casi in cui un particolare monarca assolutistico fosse percepito oramai diffusamente come un pessimo governante, era piuttosto tipico l’organizzarsi o di “colpi di Stato” che cercavano di sostituire a quel monarca un altro considerato più capace, o di radicali ribellioni che cercavano di cambiare forma di governo, o di rivolte locali che cercavano di distaccare certi territori dal dominio centrale di quello Stato.
[166] Sono molti i motivi di quella posizione profondamente critica di Engels (e ovviamente anche di Marx). Tra questi vale qui la pena di sottolinearne uno che i maggiori esponenti del “socialismo reale” novecentesco e post-novecentesco hanno fatto letteralmente “sparire” nel loro modo di presentare il “marxismo” e il socialismo: il fatto che per Marx ed Engels – e praticamente per tutti i principali socialisti ottocenteschi – il socialismo doveva essere profondamente democratico (mentre il “socialismo di Stato” sostenuto in particolar modo da Bismarck era collegato quanto mai evidentemente a una concezione autoritaria dello Stato). Sulla questione cfr. p.es. la parte II del già ricordato Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali.
[167] La questione è stata messa in rilievo con una certa ampiezza nell’intervento già menzionato del 2018 Quale economia oggi per il bene comune?, prendendo spunto dal complesso dell’opera marx-engelsiana – nella quale spicca a questo proposito quel capolavoro di sintesi storica che è costituito dal primo capitolo del Manifesto del partito comunista, del 1848 – e da alcuni scritti economici di Nathan Rosenberg, molto più recenti e ricollegantisi appunto all’esperienza novecentesca del cosiddetto “socialismo reale”.
[168] A proposito delle piccole aziende contadine è da notare che – mentre in culture di un passato non molto lontano il mondo contadino era comunemente tradizionalista, conservatore e in gran parte preda dell’analfabetismo – negli ultimi decenni in varie parti del mondo è cominciata una proficua e creativa collaborazione tra contadini, centri di ricerca agricola, scienziati, strutture di distribuzione e trasformazione dei prodotti agroalimentari (specialmente strutture di tipo alternativo, interessate a tematiche come l’agricoltura biologica, il “commercio equo e solidale”, ecc.) e iniziative agrituristiche: una collaborazione che ha spesso portato a delle interessantissime evoluzioni caratterizzate da un ricco e fecondo intreccio tra conoscenze agricole tradizionali e innovazione e da una “nuova” capacità di preservare profondamente la fertilità della terra, l’ambiente rurale e la vivibilità di quest’ultimo e nel contempo fornire risultati economico-produttivi particolarmente soddisfacenti all’insieme della società e anche ai contadini stessi. Diversi contadini sono essi stessi dei laureati in scienze agricole e dei ricercatori fortemente impegnati in senso tecnico e/o economico. Tutto questo rende ancor più nodale, evidente e variegato il ruolo delle “funzioni sociali” in qualsiasi futura società di transizione al socialismo. Su tale transizione per Marx ed Engels cfr. anche – di nuovo – la parte II di Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali e nel presente intervento il paragrafo “Intermezzo 1: Appunti su creatività umana, scambio di beni e servizi, mercato, senso democratico, comunità locali e prospettive socialiste” (nella prima parte) e la sezione “Sfera occupazionale, paradossi politici, equivoci culturali” (nella seconda parte).
[169] Tra gli scritti esplicitamente di Marx, si trovano analoghi commenti su tale estinzione p.es. nei suoi appunti risalenti al 1875 e pubblicati postumi nel 1926 col titolo Note a “Stato e anarchia” di Bakunin. Ma, in fondo, accenni all’argomento si trovavano già nel Manifesto marx-engelsiano del 1848.
[170] Sullo spirito con cui Marx ed Engels nel tardo ’800 si rapportavano concettualmente con la concreta possibilità di una tale futura transizione cfr. in particolar modo la lettera del 22 febbraio 1881 inviata da Marx a Ferdinand Domela Nieuwenhuis (un esponente di rilievo del movimento socialista olandese) e la già ricordata Introduzione scritta da Engels nel 1895 per una riedizione del marxiano Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850. A livello di contesto generale di fondo, si veda anche in particolare il Discorso sul congresso dell’Aja, di Marx (del 1872). Alquanto utili possono essere anche le osservazioni storiche contenute nel già ricordato intervento del 2018 Dopo gli errori di Seattle. Riguardo agli effetti politico-culturali che gli innovativi strumenti novecenteschi dell’“economia keynesiana” avrebbero potuto – e tendenzialmente dovuto – avere nei confronti delle caratteristiche operative del “socialismo scientifico” marx-engelsiano sul piano sia tattico che strategico e al fatto che tali strumenti appaiono invece essere stati clamorosamente trascurati durante l’ultimo centinaio d’anni dall’esperienza del cosiddetto “socialismo reale” e dai movimenti politici che l’hanno concretizzata, cfr. specialmente la nota 23 della parte II del già menzionato Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali. In tal modo quei movimenti sono anche rimasti in fondo ancorati a quel “feticismo della rivoluzione” che – pur potendo essere relativamente comprensibile nell’epoca in cui visse Lenin (un’epoca in cui dal punto di vista sociale l’economia capitalista era pienamente e drammaticamente liberista) – è poi diventato sempre più assurdo a seguito dell’efficace sperimentazione concreta delle politiche keynesiane avviatasi con gli scorsi anni ’30. Parallelamente, i movimenti in questione si sono ritrovati spesso legati alquanto scioccamente pure al concetto strategico del “tanto peggio tanto meglio” che storicamente – soprattutto nei periodi potenzialmente pre-rivoluzionari – è derivato frequentemente da quel feticismo esasperandolo ulteriormente e abituando nel contempo le classi lavoratrici a forme di alienazione politica provenienti paradossalmente anche da movimenti autodefinentisi rivoluzionari: alienazione politica che poi si è concretizzata drammaticamente anche nei periodi post-rivoluzionari e nel lungo termine con lo stalinismo e con le sue varianti successive (maoismo, castrismo, polpottismo, denghismo, ecc.), mostrando così che la scarsa sensibilità umana tendenzialmente associabile a quel concetto – pronto a dare scarsa importanza alla qualità della vita popolare nel presente, in nome di una futura rivoluzione immaginata come qualcosa di “magicamente” e pressoché automaticamente meraviglioso e di sostanzialmente messianico – era effettiva e non incidentale per un’ampia parte degli esponenti di tali movimenti (e ciò tanto più dopo che dalla Russia post-rivoluzionaria l’esperienza bolscevica e ancor più la successiva esperienza stalinista hanno possentemente suggerito ai cosiddetti rivoluzionari di tutto il mondo la possibilità di diventare “grandi e strapotenti dirigenti” dopo una rivoluzione sbandierata come socialista...). Su questa tipologia di alienazione si veda anche il prossimo paragrafo.
[171] Si è già notato – in Frontiere e diritti - Tra etica, diritto internazionale e politica del potere, un intervento dell’ottobre 2023 – che nel 1992 la divisione della Cecoslovacchia in due Stati separati venne deliberata dalle élite politiche del paese senza nemmeno verificare se la popolazione fosse d’accordo (e, anzi, un sondaggio compiuto all’epoca indicò che un’ampia maggioranza della popolazione appariva contraria a tale divisione...). In pratica, in gran parte di quelle élite appare esserci stata una sorta di urgente e irrefrenabile smania sia di raddoppiare i posti disponibili per i ruoli di ministro e per gli altri “alti funzionari” governativi, ministeriali, ecc., sia di semplificare – attraverso la separazione tra Repubblica Ceca e Slovacchia – il potere personale associato a tali posti (e quindi incrementare di fatto tale potere per certi versi).... Ma anche la moderna “madre di tutte le divisioni nazionali” – cioè la dissoluzione dell’Urss tra il 1990 e il 1991 – fu compiuta in gran parte senza che la popolazione si esprimesse (e anzi un referendum compiuto nel marzo 1991 nella maggior parte delle repubbliche facenti parte dell’Urss ebbe come risultato un evidente ed ampio sostegno popolare al mantenimento di una federazione unitaria, anche se “rinnovata” come impostazione istituzionale). Gli unici referendum popolari che sancirono ufficialmente la volontà popolare di distaccarsi dall’Urss furono svolti in due “Repubbliche baltiche” e – più tardi – anche in Ucraina; in quest’ultimo caso, però, la votazione ebbe luogo in una fase di grande emotività e preoccupazione popolare dopo il fallito tentativo di “colpo di Stato” dell’agosto 1991 contro Gorbaciov, così che il risultato ucraino di quel precedente referendum che si era svolto a marzo (un risultato ampiamente favorevole all’Urss) si ribaltò radicalmente in quello del dicembre successivo (ampiamente favorevole alla totale indipendenza dell’Ucraina). In altre parole, la dissoluzione stessa dell’Urss fu un atto per molti versi contrario alla volontà di gran parte della popolazione e pilotato per lo più dalle élite politiche regionali, desiderose di distaccarsi completamente dall’influenza di Mosca e di godere del privilegio governativo – con tutti i suoi sostanziosi “vantaggi” economici e amministrativi – di una piena sovranità sul territorio locale.... Paradossalmente, le aiutarono in questo desiderio le élite politico-militari – di idee sostanzialmente verticiste e nostalgiche della “vecchia” e antidemocratica Urss precedente a Gorbaciov – che tentarono il golpe nell’agosto 1991 e che così resero meno solida e più fragile la posizione della corrente politica gorbacioviana nel paese: a far fallire il golpe furono infatti soprattutto le moltitudini che scesero in strada a protezione delle istituzioni, molto più che le scarse azioni intraprese dalle istituzioni stesse (che così mostrarono da un lato lo scarso interesse che i loro principali esponenti provavano per la linea politica – sia unitaria che rinnovatrice – di Gorbaciov e dall’altro lato la debolezza corrente della struttura dell’Urss). Questo per confermare che a dissolvere l’Urss sono stati davvero, alla fin fine, non tanto i “cittadini comuni” quanto gli oligarchi della politica e della burocrazia interne all’Urss e le loro aspirazioni o ad una iper-vantaggiosa privatizzazione delle proprietà statali che li trasformasse rapidamente in ricchissimi capitalisti, o ad una “satrapizzazione” – il più possibile antidemocratica e autoritaria – delle nuove Repubbliche totalmente indipendenti che li trasformasse in una sorta di nuovi emiri o rajah locali.... Quell’intervento del 2023 si trova al seguente indirizzo:
https://www.sinistrainrete.info/estero/26490-luca-benedini-frontiere-e-diritti.html”.
[172] È degno di nota il fatto che, per alcuni aspetti, Mao e la sua corrente politica – che ebbero una certa prolungata influenza anche in paesi del sud-est asiatico – tentarono evidentemente quel passaggio da «funzioni statali» a «funzioni sociali», sia in senso economico (dapprima attraverso il “Grande balzo in avanti”, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, e in seguito mediante alcuni aspetti della cosiddetta “rivoluzione culturale”, come già si è accennato nella nota 119 della terza parte del presente intervento e come ha approfondito p.es. Manlio Dinucci in Economia e organizzazione del lavoro in Cina, Mazzotta, 1976), sia in senso politico (attraverso appunto la “rivoluzione culturale”, durante la quale alcuni degli slogan di Mao più ribaditi furono “fare fuoco sul comitato centrale” e “procedere controcorrente”), ma per molti versi gli approcci che vennero seguiti e sviluppati in quei tentativi si rivelarono tragicamente fallimentari. La problematica che portò a questi fallimenti potrebbe essere vista in fondo come sempre la stessa: l’estrema scarsità di senso dialettico e la parallela tendenza a vedere nella società molto più il lato dello scontro e del conflitto che quello della collaborazione e dell’inclusione, e ciò specialmente tra gruppi sociali caratterizzati da considerevoli diversità reciproche. In tal modo, quei vari tentativi economicamente innovativi videro soprattutto il concretizzarsi di una rivalsa dei lavoratori manuali contro i lavoratori intellettuali e i tecnici, rivalsa che dal punto di vista strettamente organizzativo portò anche a dei risultati interessanti ma da quello pratico e ambientale scatenò in molti casi gravi effetti collaterali e pesanti insuccessi, mentre politicamente la “rivoluzione culturale” non fu affatto qualcosa di democratico e autenticamente popolare, ma rimase nelle mani di piccoli gruppi fortemente ideologici e molto inclini all’aggressività e alla violenza. In breve, ancora una volta si trattò soprattutto di una lotta di potere nell’ambito di una società e di una mentalità che erano fortemente patriarcali e molto tendenti all’autoritarismo: non si trattò di un vero approfondimento di “funzioni sociali”, le quali – al contrario – si esprimono principalmente attraverso la libertà popolare, la disponibilità alla collaborazione, la democraticità, e così via (come appariva quanto mai evidente per Marx ed Engels). In altre parole, il modo di porsi di Mao e della sua corrente politica era strutturalmente antidemocratico, politicamente autoritario e filosoficamente tendente molto più al dualismo che alla dialettica, come si è già visto anche nel presente intervento (specialmente nel paragrafo “Intermezzo 1: Appunti su creatività umana, scambio di beni e servizi, mercato, senso democratico, comunità locali e prospettive socialiste” della prima parte e nella sezione “Sfera occupazionale, paradossi politici, equivoci culturali” della seconda parte), ma su alcuni limitati piani essi cercarono davvero di fare qualcosa da un punto di vista vicino ai lavoratori, anche se appunto con risultati e metodi complessivamente poco riusciti.
[173] Sul Vietnam cfr. p.es. Vietnam, l’altra fabbrica del pianeta, di Martine Bulard (Le Monde Diplomatique - Il Manifesto, febbraio 2017).
[174] Tra l’altro, l’amicizia e la formulazione di accordi economici e strategico-militari che i governi di paesi come la Cina, la Corea del Nord e più recentemente il Vietnam hanno sottoscritto col governo guerrafondaio, intensamente repressivo, estremamente liberista e notoriamente iper-oligarchico di Putin, un governo inequivocabilmente autore anche di gravissimi “crimini contro la pace” e continuati “crimini di guerra” in Ucraina, suggeriscono chiaramente – per chi non ha voluto finora vedere ciò che era già comunque palese – che intimamente quei tre governi hanno ormai ben poco (o in qualche caso praticamente nulla) di effettivamente socialista, comunista, ecc., malgrado i nomi che insistono a dare alle proprie nazioni.... Il governo di Putin appare essere indiscutibilmente tra i governi più di destra e più oppressivamente reazionari che si possono trovare nell’intero mondo, assieme in linea di massima a quello di Netanyahu in Israele e a quello dei talebani in Afghanistan. E questa “amicizia” tra il governo di Putin (che sta continuando quotidianamente a far massacrare ucraini – tra i quali molti civili inermi – dall’esercito russo e ad imprigionare e/o assassinare oppositori e dissenzienti nel proprio paese, così come si fa una passeggiata per sgranchirsi le gambe o come si fa colazione alla mattina) e i governi di ciascuno di quei tre paesi che si autodefiniscono “comunisti” è una manifesta attestazione del fatto che anche quei tre governi non possono più essere considerati di sinistra come spirito. Ed evidentemente si tratta di una situazione che è in corso ormai da tempo, anche se fino a qualche anno fa il governo cinese e soprattutto quello vietnamita si comportavano in una maniera un po’ più complessa e meno sfacciata di quanto facciano attualmente e anche se tra l’uno e l’altro di questi tre governi continuano ad esservi forti differenze: in particolare, il governo vietnamita appare mantenere una certa gentilezza – una caratteristica che del resto è peculiare della tradizione culturale del paese – a fianco del paternalismo che predomina nella sua politica interna, mentre all’estremo opposto il governo nordcoreano non si è peritato di mandare migliaia di suoi soldati a rischiare fortemente la morte (o ferite, mutilazioni, ecc.) in questa “guerra di Putin”, in modo simile a come il governo russo sta costringendo a questo pesantissimo e tragico rischio centinaia di migliaia di cittadini del proprio stesso paese, inviati come “carne da macello” nei territori del conflitto.
[175] Riguardo a questo uso delle espressioni “classismo” e “lotta di classe”, si tenga conto di quanto si è già esplicitato – nella seconda parte del presente intervento – a proposito delle prolungate discussioni politiche, «spesso [...] di “lana caprina”», riguardo al fatto che «l’oligarchia al potere» nei regimi del “socialismo reale” «potesse essere propriamente definita come “classe”, oppure come “ceto burocratico”, come “casta politica” o in qualche modo ulteriore...».
Per chi avesse ancora dei dubbi sull’effettivo classismo delle oligarchie che caratterizzano tali regimi, basti ricordare che il loro modo verticistico e monopartitico di governare non si contrappone soltanto alla “democrazia borghese” (che, in effetti, storicamente ha preso spesso forme che hanno limiti strutturali molto gravi, anche se altre volte ha preso forme molto più accettabili e vitali e comunque è comunemente migliorabile per mezzo dell’apporto dei cittadini stessi – specialmente dove vi è un consistente spazio per la “democrazia diretta” – o per lo meno dei loro rappresentanti eletti), ma anche alle idee esplicitamente espresse da Marx ed Engels e in generale da una grandissima parte del movimento socialista ottocentesco (come mostrano con particolare evidenza l’esperienza della “Comune di Parigi” del 1871 – un’esperienza profondamente democratica e nel contempo intrisa indiscutibilmente di spirito rivoluzionario e socialista – e i successivi commenti che ne fece quel movimento, tra i quali spicca l’opuscolo diffuso dalla “prima Internazionale” col titolo La guerra civile in Francia, redatto da Marx) e persino alle idee su cui si era organizzata la “madre stessa di tutte le rivoluzioni novecentesche”, cioè la rivoluzione russa dell’ottobre 1917, che aveva tra le sue manifeste parole d’ordine la rivendicazione di “tutto il potere ai soviet” (cioè ai Consigli formati localmente e democraticamente da vari tipi di aggregazioni delle classi popolari, in una sorta di variante della democrazia consiliare proposta mezzo secolo prima dalla Comune di Parigi).
Oltre tutto, nei primi anni dopo quella rivoluzione i bolscevichi misero a punto varie metodologie per organizzare sia i soviet locali sia soprattutto la complessa struttura nazionale che si poteva fondare su di essi: p.es., si sperimentarono diverse possibilità riguardo all’elezione dei delegati di ciascun Consiglio per gli organismi di grado superiore (possibilità tra le quali erano inclusi anche casi particolari come l’evitare tutte le liste partitiche o il presentare solo ed esclusivamente due liste specifiche, cioè quella del partito bolscevico e quella degli “indipendenti”), mentre negli organismi di grado più elevato venne dato in vari modi un maggior peso alle città e agli operai e un minor peso alle aree rurali e ai contadini. Attraverso questa varietà di metodi si cercava di trovare una formulazione organizzativa che salvaguardasse da un lato il genuino apporto popolare e dall’altro lato il “potere di fatto” che la dirigenza bolscevica si era conquistata; nessuno di tali metodi fu però approvato definitivamente dalla dirigenza del partito, che in pratica finì con l’esautorare stabilmente i soviet e col tenere nelle proprie mani tutto il potere politico del paese. Anche se nessuna delle possibili metodologie – alla luce dei risultati concreti che ne derivarono – soddisfece di fatto quella dirigenza, queste sperimentazioni tuttavia hanno mostrato in modo evidente la duttilità con cui si può operare nell’ambito della democrazia consiliare. Ed è particolarmente degno di nota anche il fatto che nel secondo quarto del ’900, nell’ambito del movimento socialista internazionale, Gandhi proponesse con forza per la “grande India” che cercava di liberarsi dal colonialismo britannico una forma di “democrazia dei Consigli” che ricordava per vari aspetti le proposte della Comune di Parigi e che in particolare cercava di evitare uno dei maggiori pericoli insiti nei meccanismi della “democrazia rappresentativa” tipica della società borghese, e cioè la tendenza ad una contrapposizione identitaria tra partiti: una tendenza che può innescare effetti socialmente gravi e facilmente controproducenti e che può risultare particolarmente intensa proprio nei paesi (come la “grande India” di allora) dove la coscienza politica di tipo moderno è relativamente poco diffusa e dove in caso di elezioni basate sul pluripartitismo i partiti tenderebbero ad organizzarsi su basi appunto identitarie di tipo soprattutto etnico o religioso, che svuotano di senso le elezioni stesse – riducendole ad una sorta di conta delle varie etnie o religioni tra gli abitanti dei territori coinvolti – e che tipicamente rischiano di indurre artificiosamente scontri e altre forme di violenza all’interno della popolazione anziché forme di collaborazione e di solidale e creativa cooperazione.
Quando nella Russia post-rivoluzionaria le decisioni negative prese riguardo alle varie forme di democrazia dai vertici bolscevichi oltrepassarono il breve periodo inizialmente previsto e si addentrarono nel medio termine (e tanto più se si considera che Lenin nel suo ultimo scritto destinato alla pubblicazione – l’articolo Meglio meno, ma meglio, uscito sulla Pravda del 4 marzo 1923 – propose addirittura di dare a quelle decisioni una stabilizzazione prospettica nel lungo termine), si consumò una prima esplicita e drammatica rottura con la visione profondamente democratica che Marx, Engels e tantissimi altri socialisti ottocenteschi avevano della transizione al socialismo, rottura che venne poi confermata di fatto e portata avanti dagli altri dirigenti bolscevichi nella parte restante di quegli anni ’20 e che infine venne esasperata in ogni senso e trasformata in schemi rigidi e brutali dallo stalinismo, la cui visione di tale transizione (una visione semplicistica, sbrigativamente autoritaria, “comodamente” schematica e concretamente molto abile nel forzare violentemente la società piegandola appunto a quei propri schemi) divenne rapidamente il “nuovo standard” tra i movimenti politici rivoluzionari di gran parte del mondo. In tali movimenti solo pochi seppero esprimere perseverantemente delle critiche radicali a quello “standard” con una certa organicità e completezza già durante l’epoca staliniana: in ciò, se si esaminano gli scritti di quel periodo, si distinsero in maniera particolare autori – non necessariamente d’accordo tra loro e non necessariamente sostenitori di proposte politiche che oggi appaiano storicamente del tutto attuabili in effetti all’epoca – come Lev Trotskij, Victor Serge, Anton Pannekoek, Anton Ciliga e Amadeo Bordiga (sui dibattiti politici allora in corso cfr. p.es. il volume antologico L’antistalinismo di sinistra e la natura sociale dell’Urss, curato da Bruno Bongiovanni ed edito da Feltrinelli nel 1975), oltre ad Antonio Gramsci (come mostrarono i suoi Quaderni dal carcere pubblicati postumi tra il 1948 e il 1951 e redatti approssimativamente nella prima metà degli anni ’30 durante la prigionia che il regime fascista gli inflisse per motivi meramente politici e che lo portò alla morte nel 1937). In breve, dunque, il prolungato, stabile e repressivo verticismo monopartitico che è diventato caratteristico dei regimi del “socialismo reale” non combatte solo il pluripartitismo borghese (come asseriscono tipicamente i vertici di quei regimi, equiparando comunemente al male il pluripartitismo e al bene il monopartitismo dei “rivoluzionari al potere”), ma di fatto combatte anche l’esperienza della “Comune di Parigi” e più in generale una vasta serie di esperienze ed idee nate espressamente nel movimento socialista stesso durante le ultime due centinaia d’anni, incluso il pensiero marx-engelsiano (cose che invece quei vertici passano totalmente sotto silenzio, per di più fingendo falsamente di essere proprio loro gli eredi di tale pensiero...). Sulle questioni qui in gioco cfr. anche gli interventi già citati Dopo gli errori di Seattle (specialmente il suo “Commento in cinque parti”), Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali (specialmente la sua parte II) e Il neoliberismo non è una teoria economica (in particolare, nella sua seconda parte la nota 45 e nella terza parte il paragrafo “Appunti su classi popolari e mondo politico nei paesi dell’UE ed oltre e su movimento socialista e democrazia”).
Si può certamente aggiungere che durante l’ultimo mezzo secolo il governo vietnamita si è trovato a dover contribuire a pacificare, ricompattare e rimettere pienamente in moto – in senso economico, psicologico ed ecologico – la popolazione di un paese che decenni di guerra avevano ferito, lacerato, decimato, tendenzialmente diviso ed estremamente inquinato (ah, i pesticidi, i defolianti e gli altri prodotti tossici sparsi in enormi quantità dall’esercito statunitense durante la sua guerra al Vietnam del Nord e ai vietcong...!!!). Se si considerano la sanguinarietà, la ferocia, l’ipocrisia e la vera e propria cattiveria umana mostrate in Vietnam dai politici governativi emersi in quei decenni rispettivamente dal capitalismo francese e da quello statunitense, si può capire quanto i rivoluzionari vincitori delle due “guerre vietnamite di liberazione” potessero essere restii ad aprire le porte del paese alla politica borghese o – attraverso elezioni politiche comunque liberamente impostate – ad un’emotività popolare post-bellica probabilmente molto incline alle sindromi da stress post-traumatico, con tutti i rischi sociali che ne potevano conseguire. Tuttavia, non va dimenticato che per l’appunto esistono forme di democrazia che sono state sostenute proprio da dei socialisti e da dei rivoluzionari, e proprio anche in una prospettiva di transizione al socialismo. E nel contempo va sottolineato che quei “compiti” di pacificazione, ricompattazione e dinamizzazione appaiono ormai essere stati realizzati ampiamente, in parte dal popolo stesso – capace di proporre a se stesso una sorta di rinascita dopo quella così prolungata (e raddoppiata) tragedia bellica – e in parte dall’azione del partito al potere. Non appare dunque nel complesso, da parte di tale partito, un eccesso di cautela e appunto di paternalismo continuare ad evitare – ancora dopo mezzo secolo – anche quelle forme di democrazia, che oltre tutto sono adattabili senza alcun dubbio alla cultura di un particolare paese e alle sue circostanze correnti, come hanno mostrato p.es. Gandhi con le sue proposte degli scorsi anni ’40 (purtroppo non accettate nella “grande India” da gran parte dei movimenti politici dell’epoca) e le altre forme di democrazia consiliare nate come sviluppi interni della “Comune di Parigi” di un secolo e mezzo fa o sostanzialmente come varianti di quanto realizzato e suggerito appunto in quell’esperienza?
[176] Una traduzione italiana del primo di questi due scritti si trova in appendice al libro La liberté ou la mort - Il progetto politico e giuridico di Olympe de Gouges, di Annamaria Loche (Mucchi, 2021), mentre il secondo è stato pubblicato in italiano anche per conto suo, dalla Caravan nel 2013.
[177] Per un approfondimento cfr. in particolare la nota 35 nella seconda parte del già menzionato intervento Il neoliberismo non è una teoria economica.
[178] A diverse di queste autrici maggiormente recenti si è fatto un diretto riferimento più o meno ampio nella seconda parte del presente intervento.
[179] Come si è già accennato in parte nell’appendice inserita nell’intervento già ricordato Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali e intitolata “Annotazioni su pensiero olistico e filosofia dialettica”, anche correnti extraeuropee di pensiero come in Oriente la filosofia yin-yang, il taoismo e diversi rami del buddhismo mahayana e dello yoga e in altri continenti alcune altre “scuole tradizionali di saggezza” sono giunte in passato a conclusioni profondamente simili a quelle dei filosofi dialettici europei, anche se solo durante il ’900 queste correnti hanno cominciato ad essere conosciute in maniera un po’ precisa nelle culture di origine europea. Per alcune indicazioni bibliografiche collegabili a tali correnti cfr. la nota 83 nella terza parte dell’intervento già ricordato Il neoliberismo non è una teoria economica e la nota 36 nella prima parte del presente intervento.
[180] Questo concetto marx-engelsiano è stato irrigidito e mitizzato da molti cosiddetti “marxisti” novecenteschi, in un atteggiamento che poneva gli operai su una sorta di piedistallo politico.... Tuttavia, non pochi l’hanno fatto in maniera solo formale e “di facciata” (cioè solo a parole), in quanto la gran parte degli effettivi ruoli politici di vertice tendeva ad essere attribuita sempre e comunque a persone facenti parte di ceti come quello “intellettuale” nei suoi vari aspetti – insegnanti, giornalisti, scrittori, accademici, politici di professione, ecc. – oppure impiegatizio.
[181] Sul rapporto tra le valutazioni storiche marx-engelsiane e questi eventi novecenteschi cfr. in particolare la nota 61 nella seconda parte del presente intervento.
[182] Con questo discorso non si vuole prendere le parti né della corrente di Deng né di quella della cosiddetta “Banda dei quattro”, che in origine – prima della sua estrema disfatta dell’autunno 1976 – era nota come “gruppo di Shanghai” (col quale Mao appare essere stato d’accordo in una certa misura, anche se evidentemente lui era su posizioni meno esasperate, presumibilmente anche per il fatto di essere nella posizione di “Grande Timoniere”, di leader riconosciuto e quasi assoluto del paese...). Ciò anche perché entrambe queste correnti (includendo più o meno indirettamente anche Mao nella seconda di esse) appaiono essere frutto del dualismo di fondo che – come già si è notato nell’appendice inserita nell’intervento già ricordato Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali e poi nell’ampia nota 70 contenuta nella seconda parte del presente intervento – il “pensiero di Mao” portava con sé: un dualismo evidentemente condiviso in molti aspetti da tanti altri esponenti del suo partito, visto che Mao è stato ininterrottamente uno dei principali leader di quest’ultimo per una trentina d’anni e più (sino alla propria morte) e visto che in sostanza quel dualismo filosofico-esistenziale non è mai stato messo in discussione dai vertici politici cinesi ma ha continuato a caratterizzare nel complesso i loro comportamenti. In tal modo, sia il Mao della spesso aggressiva e violenta “rivoluzione culturale”, poi ulteriormente esasperata dal “gruppo di Shanghai”, sia la corrente politica di Deng, intenzionata a ridare in Cina un vasto e preponderante spazio allo “spirito economico-imprenditoriale borghese”, non sono riusciti a cogliere il senso dialettico della visione sociale e politica del “socialismo scientifico” marx-engelsiano e di altre linee di pensiero (come il taoismo, lo Zen, diversi rami dell’antica scuola filosofica greca e del moderno femminismo, il pensiero olistico, e così via) e hanno visto nella società quasi solo un’infinita lotta tra gli estremi di questa o quella polarità scegliendo poi uno di questi estremi a pesante discapito dell’altro. In sostanza, il lato di Mao e del “gruppo di Shanghai” scelse la lotta contro le varie espressioni del “pensiero borghese”, come se questo fosse una vecchia malattia da estirpare ed eliminare anziché uno degli aspetti effettivi della complessa e concreta situazione economica e sociale tuttora strutturale e corrente in Cina (si tenga conto che p.es. Marx ed Engels ritenevano un fatto sostanzialmente “normale” per le caratteristiche esistenziali umane il fatto che in una società ad elevata divisione del lavoro ed economicamente arretrata rispetto ai bisogni della sua popolazione ci fossero tendenze di tipo classista e, nel contempo, in linea di massima consideravano relativamente portatore di progresso lo spirito individualistico e imprenditoriale in una tale società), mentre il lato di Deng scelse la lotta contro l’egualitarismo in economia e contro la spinta dei lavoratori ad avere corposi diritti e crescenti capacità di controllo nell’ambito delle attività produttive: alla fin fine, due atteggiamenti entrambi parziali, quanto mai limitati, esistenzialmente e filosoficamente monchi, umanamente menomati, collegati tipicamente alla mentalità patriarcale (oltre che specularmente contrapposti l’uno all’altro...). Sulla vicinanza politica tra Mao e il “gruppo di Shanghai” – del quale faceva parte anche Chiang Ch’ing, ultima moglie di Mao – si veda p.es., nella raccolta di scritti dello stesso Mao Senza contraddizione non c’è vita - Inediti sulla dialettica (Bertani, 1976), l’Introduzione di Fernando Orlandi e la sezione “Recenti direttive di Mao Tsetung” tra le appendici.
[183] A dispetto di tutti gli slogan apparentemente antiautoritari coniati da Mao in occasione della “rivoluzione culturale” cinese (ma in realtà, come si è compreso dopo, utili soprattutto a lui per rafforzare il suo potere personale nella dirigenza del paese e parallelamente per cercare di indebolire la comunque forte e diffusa corrente politica di Deng, contrapposta a quella maoista su molti temi soprattutto economici), Mao preferiva nettamente Stalin – che era l’apoteosi dell’autoritarismo repressivo – ai successori di quest’ultimo, e ciò tanto più dopo la radicale rottura avvenuta nel 1960 tra Mao e l’Urss kruscioviana (rottura che anche in quel caso avvenne su temi soprattutto economici). Sull’argomento si vedano p.es. le raccolte di testi di Mao Discorsi inediti (dal 1956 al 1971), a cura di Stuart R. Schram (Mondadori, 1975), e Su Stalin e sull’Urss, a cura di Gianni Sofri (Einaudi, 1975). Come Mao, anche Deng fece parte della dirigenza del partito per diversi decenni, ma sino al 1976 le sue posizioni politiche esplicitamente espresse rimasero decisamente più moderate di quelle successive a tale anno (nel quale appunto morì Mao il 9 settembre e successivamente nel giro di poche settimane si verificò la netta sconfitta della corrente politica collegata al “gruppo di Shanghai”, che senza più l’appoggio del “Grande Timoniere” si ritrovò in una posizione minoritaria e debole tra i massimi dirigenti del partito e delle strutture statali – inclusi in particolare tra questi i vertici dell’esercito col loro ruolo tendenzialmente cruciale nei momenti politici di oscillazione e di incertezza – e finì con l’essere per molti versi letteralmente dissolto, vedendo incarcerati da un giorno all’altro tutti i suoi principali esponenti e venendo bollato pubblicamente dalla nuova dirigenza del paese con l’espressione “Banda dei quattro”).
[184] Diversamente, nei paesi dove vige la democrazia rappresentativa il sistema di governo non appare godere di poco consenso tra la gente (e infatti eventuali movimenti politici che proponessero esplicitamente la prospettiva di un passaggio a forme istituzionali radicalmente diverse, come quelle di tipo monopartitico o apertamente dittatoriale, finiscono tipicamente col raccogliere ben pochi voti fra gli elettori). Però parecchia gente è scontenta di come funziona di fatto tale democrazia, come attestano sia direttamente la frequente tendenza a basse percentuali di votanti in occasione delle varie tornate elettorali, sia indirettamente le non rare vittorie elettorali di partiti o candidati che gli “addetti ai lavori” riconoscono palesemente ed inequivocabilmente come reazionari ed elitari nella sostanza ma ampi settori delle classi popolari interpretano superficialmente invece, nel complesso, come propri sostenitori e difensori: un fraintendimento (che ha raggiunto effetti del tutto catastrofici con governi come nell’area europeo-mediterranea quelli di Hitler in Germania, di Mussolini in Italia, del periodo 1946-1961 in Francia, di Putin in Russia e di Netanyahu in Israele, governi basati su partiti che dopo aver vinto democraticamente le elezioni del loro paese hanno finito col trascinarlo in tremende guerre distruttive e parallelamente, sul piano interno, in varie forme di autoritarismo pesantemente oppressivo) che parte generalmente dal fatto che i politici in questione, spesso definiti come “populisti”, sanno parlare strumentalmente in modi viscerali, popolareschi, semplicistici e spesso volgari – oltre che molto aggressivi e non di rado offensivi verso gli avversari politici – e lanciano nel contempo slogan sbrigativi, dualisti e per l’appunto semplicistici che possono sembrare apparentemente utili alla locale situazione popolare del momento, proponendo p.es. qualche forma di xenofobia o una vicinanza internazionale con qualche governo autoritario con cui accordarsi su qualche “favore reciproco” (generalmente si tratta di accordi che si avviano con degli scambi commerciali e con un vicendevole sostegno sul piano politico-diplomatico internazionale, ma poi se si ampliano ulteriormente possono raggiungere intrecci maggiormente intensi e complessi, ancor più pericolosi per la qualità della vita sociale planetaria). È un fraintendimento che tra l’altro attesta appunto la pesante superficialità politica di quegli ampi settori popolari e la loro scarsissima capacità di cogliere il “senso intrinseco” della democrazia, la quale per poter funzionare positivamente richiede alla maggioranza della popolazione almeno un minimo di lucidità riguardo ai principali temi della vita politico-sociale o – in alternativa – almeno un minimo di efficace intuizione riguardo ai principali protagonisti della politica del paese, alla loro effettiva personalità e alle loro intrinseche capacità (tra le quali in particolare quella – del tutto fondamentale per chi si propone per elevati livelli di responsabilità nelle pubbliche istituzioni – di saper scegliere collaboratori capaci, intelligenti e umanamente aperti).
I principali motivi profondi che si possono discernere dietro a quella scontentezza o a una tale superficialità politica diffusa a livello popolare (e certamente controproducente per le classi popolari stesse...) appaiono collegati – oltre ovviamente che ad un’eventuale insoddisfazione economica che i politici non abbiano saputo o voluto affrontare adeguatamente – al fatto che le regole che si sono date le istituzioni della democrazia rappresentativa e il modo verticistico ed elitario di fare politica praticato sistematicamente da molti partiti hanno finito comunemente col rendere molto difficile ai “cittadini comuni” riuscire ad incidere sulle scelte delle istituzioni stesse, malgrado il suffragio universale, le elezioni, ecc.. La diffusissima ignoranza riguardo ai numerosi modi alternativi tra loro ed estremamente diversi l’uno dall’altro in cui si potrebbero sistematizzare con completezza quelle regole fa il resto.... Tra l’altro, i successi elettorali di quei politici reazionari ed elitari ma “populisti” appaiono strettamente connessi proprio all’abituarsi delle classi popolari a questa loro scarsa capacità di incidere, in quanto – una volta che appunto ci si è abituati al fatto che non si sa come riuscire ad incidere – si finisce spesso col scegliere non i candidati più umani, più dialoganti e più disponibili, che in molti casi mostrano anche una certa umiltà e un’umana dubbiosità su qualche importante argomento, ma i candidati che più danno l’impressione di saper comandare in maniera decisionista e generalizzata e che più esprimono una rassicurante sicurezza in se stessi e una persuasiva convinzione negli obiettivi politici che essi dichiarano: questo perché, se gli elettori non hanno fiducia nel poter comprendere sufficientemente le sottigliezze della politica e nel poter contare, partecipare ed incidere, allora finiscono facilmente col pensare – o col sentire in modo più o meno confuso – che al paese servono dei capi indiscussi e sicuri di sé, che sappiano per conto loro che cosa fare.... Anche le dinamiche della mentalità patriarcale contribuiscono a questo: chi è abituato alle gerarchie patriarcali (che in pratica finiscono col coinvolgere direttamente tutti, mettendo in posizione dominante i potenti e i ricchi rispetto ai lavoratori, gli uomini rispetto alle donne, gli adulti rispetto ai giovani, ecc.) trova tendenzialmente “normale” che anche nella sfera politica si sviluppi questo tipo di gerarchia e ci sia un “uomo forte e convinto di sé” che comanda.... Sui meccanismi della democrazia e su come possono essere manipolati sotterraneamente fino a trasformarli in meccanismi antidemocratici (che appunto rendono difficile ai “cittadini comuni” partecipare efficacemente, contare ed incidere), si vedano in particolar modo i riferimenti già indicati nella nota 52 della seconda parte del presente intervento.
Dal momento che il razzismo – come nel ’900 e in secoli precedenti (basti pensare al colonialismo europeo avviatosi esplosivamente nel ’500, alla plurisecolare tratta di schiavi di origine africana, al nazismo, al segregazionismo praticato esplicitamente negli Usa ai danni della popolazione nera ancora negli scorsi anni ’60 o all’apartheid sudafricano prolungatosi ulteriormente sino agli anni ’90) – continua a costituire direttamente o indirettamente un importante fattore in svariati atteggiamenti piuttosto diffusi, associabili di solito ad orientamenti sostanzialmente classisti che pretendono di darsi giustificazioni di tipo etnico (tra i quali p.es. la xenofobia rivolta verso i migranti poveri) e a dei gruppi politici di destra, vale la pena di rammentare qui alcuni punti essenziali che sono emersi inequivocabilmente negli ultimi decenni con il progressivo sviluppo della genetica come scienza. In breve, è ormai indubbio che la specie umana è unica e indivisa, che l’intero genere umano discende in pratica da un unico nucleo di popolazione originario dell’Africa centrale e che nessun gruppo etnico ha un patrimonio genetico strettamente e diffusamente suo che possa essere considerato radicalmente più evoluto di quello degli altri gruppi etnici. Di queste consapevolezze scientifiche, una delle espressioni più sintetiche e pregnanti è sicuramente l’intervista al genetista Alberto Piazza apparsa a cura di Letizia Gabaglio sull’Espresso del 28 settembre 2000 col titolo C’è una sola razza. Umana. Per approfondimenti cfr. p.es. Chi siamo - La storia della diversità umana, di Luca e Francesco Cavalli Sforza (Mondadori, 1993; Codice, 2013), Storia e geografia dei geni umani, di Luigi Luca Cavalli Sforza, Alberto Piazza e Paolo Menozzi (Adelphi, 1997), Gli africani siamo noi, di Guido Barbujani (Laterza, 2016), e Chi siamo e come siamo arrivati fin qui - Il DNA antico e la nuova scienza del passato dell’umanità, di David Reich (Cortina, 2019). Sulla xenofobia cfr. anche, più avanti, la nota 212.
[185] Sono tutte cose che erano ampiamente fattibili nella Russia degli scorsi anni ’30 e che – come si è già rammentato nella parte III del “Commento in cinque parti” contenuto in Dopo gli errori di Seattle – erano anche in profonda sintonia prospettica con le idee che erano rimaste ampiamente predominanti tra i bolscevichi per lo meno fin verso la metà degli anni ’20 (del resto – a parte ovviamente il riferimento a Keynes – le si trovavano già quasi mezzo secolo prima nei programmi politici socialisti redatti con la partecipazione di Marx ed Engels, cioè quello francese pubblicato su L’Égalité del 30 giugno 1880 e quello tedesco approvato nel 1891 a Erfurt, e/o nella visione marx-engelsiana della transizione al socialismo, visione sulla quale cfr. qui i riferimenti inseriti nella nota 168). La più difficile di tali cose avrebbe avuto a che fare naturalmente con l’aspetto keynesiano (in quanto anche in Occidente, per lo meno fin verso la fine di quegli anni ’30, si trattava di qualcosa di emergente e non ancora “consolidato”), ma si sarebbe potuto consultarsi addirittura con Keynes stesso, che già aveva visitato nel 1925 – dunque nel periodo della Nep – la Russia post-rivoluzionaria e non aveva alcuna forma di rigida preclusione ideologica e di esclusione contro di essa (come egli stesso scrisse in Un breve sguardo alla Russia durante quello stesso anno). Ovviamente, con il crescente svilupparsi dell’autoritarismo e del rigido statalismo staliniani l’opinione di Keynes sull’esperienza dell’Urss cambiò poi radicalmente, in modo simile a quanto avvenne a tantissimi in tutto il mondo.
[186] Su tale riconoscimento cfr. specialmente l’Introduzione engelsiana del 1895 a Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, di Marx. Per quanto riguarda quella selezione e setacciatura, ci sono moltissimi scritti marx-engelsiani che potrebbero essere presi in considerazione, ma quelli che probabilmente più illustrano l’intrinseco senso estremamente positivo insito in quel processo di confronto, dialogo e infine appunto selezione sono, oltre a quel testo del 1895, il terzo capitolo del Manifesto del partito comunista (del 1848), la marxiana Critica al programma di Gotha (del 1875) e l’engelsiano L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza (del 1880).
Sulla consistente evoluzione che il pensiero marx-engelsiano ha attraversato nel corso dei decenni – e che proprio in quell’Introduzione engelsiana del 1895 traspare molto ampiamente in diverse delle proprie sfaccettature – si veda anche la parte II dell’intervento già ricordato Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali. In particolare, nella nota 4 di tale intervento si è notato come su una tematica come la società di transizione al socialismo Marx ed Engels «nell’ultimo quarto dell’Ottocento» avessero sviluppato «una posizione nettamente più sfaccettata, complessa e consapevole di quella molto più sbrigativa – e sostanzialmente ancora un po’ “primitiva” – che era stata presentata nel 1848» nel secondo capitolo del Manifesto. E si è aggiunto che, «nonostante la corposità del cambiamento, non appare comunque trattarsi affatto di un’inversione ad U, ma semplicemente di un approfondimento, una puntualizzazione essenziale, una precisazione, un addentrarsi maggiormente in dettagli, un miglioramento (che appare essere stato stimolato in modo particolare dall’esperienza della prima Internazionale, con gli intensi contatti tra correnti socialiste diverse che ne conseguirono e con gli altrettanto intensi confronti e dialoghi che ne nacquero)». Un altro mutamento piuttosto netto lo si può trovare a proposito delle modalità del passaggio – appunto – a una società di transizione al socialismo. Nel Manifesto del 1848 si considerava inevitabile e necessaria una «aperta rivoluzione» in cui «il proletariato stabilisce il proprio dominio mediante il rovesciamento violento della borghesia». Diversamente, nel 1872, si trova nel marxiano Discorso sul congresso dell’Aja (a margine del congresso della “prima Internazionale” appena conclusosi nella città olandese): «Noi crediamo che si debbano prendere in considerazione le istituzioni, i costumi e le tradizioni dei diversi paesi, e non neghiamo che vi sono paesi come l’America, l’Inghilterra e, se conoscessi meglio le vostre istituzioni, aggiungerei forse anche l’Olanda, dove i lavoratori possono giungere per via pacifica alla loro meta». E una ventina d’anni dopo, nell’engelsiano Per la critica del progetto di programma del partito socialdemocratico 1891: «Si può concepire che la vecchia società possa svilupparsi nella nuova per via pacifica, in paesi nei quali la rappresentanza popolare ha concentrato in sé tutto il potere, dove la Costituzione consente di fare ciò che si vuole quando si abbia dietro di sé la maggioranza del popolo». Anche in questo, dunque, emerge una progressiva e radicale rivalutazione che appare aver trovato il suo nuovo centro focale durante gli anni ’70 di quel secolo.
In sostanza, mentre dal punto di vista umano e filosofico la visione culturale di Marx ed Engels appare esser stata estremamente profonda sin dagli anni ’40, la sfera storica, quella economica e quella politica sono state per loro praticamente sempre oggetto di uno studio particolarmente intenso e dinamico e solo intorno agli anni ’70 – dopo tutta una serie di approfondimenti e aggiustamenti effettuati grazie anche alla loro capacità non solo di criticare le opinioni fortemente diverse dalle proprie, ma anche di dialogare con altre voci e in particolare di dare ampiamente attenzione ed ascolto alle perplessità e critiche altrui dotate di effettiva sostanza – essi evidentemente giunsero a sentire come sostanzialmente “scientifico” il loro approccio al socialismo. È in quel decennio infatti che iniziò ad entrare in uso – da parte non solo di Engels e Marx ma anche di altri – l’espressione specifica “socialismo scientifico”. A dare pubblicamente il “la” a questo uso fu in pratica Joseph Dietzgen, con un articolo che uscì nel 1873 nella rivista tedesca Volksstaat e che aveva tale espressione come titolo. L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza – concetto divenuto appunto anche il titolo di un opuscolo di Engels pubblicato con un grande successo editoriale nel 1880 – appare essere stata insomma non solo una dinamica complessiva del movimento socialista ottocentesco, ma per certi aspetti anche uno sviluppo interno alla visione storico-economica e politica marx-engelsiana, che nell’ultimo trentennio del secolo mostrò di aver acquisito sostanzialmente una particolare capacità di aderire alla realtà nel suo continuo e mutevole scorrere.
A questo proposito, si può aggiungere che i lettori di oggi potrebbero forse stupirsi del fatto che in quell’opuscolo, rivolto soprattutto alle classi popolari, ci siano precisi riferimenti a Eraclito – con il suo “tutto scorre” – e alla filosofia classica dell’antica Grecia, oltre che ad altri filosofi più moderni, ma appare trattarsi di un’ennesima indicazione della maniera non paternalistica e non riduttiva con cui Marx ed Engels si ponevano nella loro relazione con tali classi, diversamente da quanto hanno fatto quasi tutti i politici novecenteschi od odierni.
[187] Per inciso, interessanti aggiornamenti successivi del dibattito economico contenuto in quel volume si possono trovare in testi come p.es. gli Studi sulla teoria marxiana del valore, di Isaak Il’ic Rubin (apparsi originariamente in russo nel 1924, ma rimasti praticamente sconosciuti in Occidente sino agli anni ’70, quando sono uscite delle traduzioni in inglese, tedesco, ecc., inclusa una versione italiana pubblicata nel 1976 da Feltrinelli col titolo Saggi sulla teoria del valore di Marx), il Trattato marxista di economia, di Ernest Mandel (Savelli, 4 voll., 1965, 1967), Marx - Il valore come costo sociale reale, di Marco Lippi (Etas, 1976), l’ampia Introduzione di Cristina Pennavaja al marxiano L’analisi della forma di valore (un volume edito da Laterza nel 1976 e contenente parti della prima edizione del Capitale – quella del 1867 – modificate poi nelle edizioni successive da Marx stesso nella ricerca di una forma espositiva più efficace per i lettori dell’epoca), Lo sviluppo ineguale, di Samir Amin (Einaudi, 1977), in particolar modo il suo capitolo “Le leggi fondamentali del modo di produzione capitalistico”, e La teoria del valore-lavoro dopo Sraffa, di Giorgio Cingolani (Franco Angeli, 2006). Si tratta di aggiornamenti alquanto diversificati, ma comunque molto stimolanti.
[188] Si tratta di tre scritti redatti in pratica da Marx per incarico del Consiglio generale dell’Internazionale. Anche la loro stesura definitiva venne approvata da tale Consiglio, che organizzò pure la loro diffusione in diverse lingue in forma di volantino o di articolo di rivista (nel caso dei primi due scritti, piuttosto brevi) o di opuscolo (nel caso del terzo scritto, molto più ampio, che venne stampato col titolo La guerra civile in Francia). Nel 1891 i tre scritti vennero poi raccolti assieme – a cura di Engels, che aggiunse anche una corposa introduzione – in un’edizione ampliata di quell’opuscolo, in occasione del ventennale della “Comune di Parigi”.
[189] Su questa serie di gruppi e sulle correnti politiche di fondo cui li si può accostare, cfr. gli ultimi due paragrafi della prima parte del presente intervento.
[190] I motivi di questo tipico collegamento sono stati messi in piena evidenza già nel 1848 da Marx ed Engels, nel primo capitolo del Manifesto del partito comunista: la tendenza del capitalismo a trasformare in maniera praticamente continua il sistema produttivo e l’apparato tecnologico complessivo richiede in linea di massima la presenza di istituzioni politiche capaci di facilitare il continuo adattamento dell’economia – e della società in generale – a queste trasformazioni. Il superamento delle istituzioni monolitiche tipiche di formazioni sociali quali il feudalesimo e le antiche autocrazie di tipo dittatoriale o imperiale e il costituirsi di istituzioni politiche capaci di rispecchiare la dinamicità economica e normativa che è per l’appunto caratteristica della borghesia sono dunque due aspetti comunemente collegati all’affermarsi di quest’ultima nella società. Ed è evidente che la strada più semplice per rispecchiare tale dinamicità è l’inserire nelle pubbliche istituzioni proprio persone che vivono direttamente – ed esprimono – questa “nuova” dimensione portata nella società dalla borghesia: da qui la tipica spinta borghese al formarsi di istituzioni elettive in cui sono i cittadini stessi (o per lo meno i cittadini possessori di un reddito definibile come “medio”) che scelgono i loro rappresentanti.
[191] Per alcuni approfondimenti cfr. in special modo – oltre alla sezione “Sfera occupazionale, paradossi politici, equivoci culturali”, nella seconda parte del presente intervento – due interventi precedenti qui già menzionati: Dopo gli errori di Seattle (soprattutto la parte III del “Commento in cinque parti”) e la terza parte di Il neoliberismo non è una teoria economica (il paragrafo “Appunti su classi popolari e mondo politico nei paesi dell’UE ed oltre e su movimento socialista e democrazia”).
[192] Su tale tipicità si veda in particolar modo la sezione “Sfera occupazionale, paradossi politici, equivoci culturali”, nella seconda parte del presente intervento. Una più ampia citazione del brano engelsiano qui rammentato è stata presentata nella terza parte del già citato Il neoliberismo non è una teoria economica (nel paragrafo “Appunti su classi popolari e mondo politico nei paesi dell’UE ed oltre e su movimento socialista e democrazia”). Si ricordi anche che nella visione storica marx-engelsiana una rivoluzione socialista poteva avere un successo effettivo e stabile solo su un piano ampiamente internazionale che includesse in linea di massima i paesi economicamente più “progrediti”. Ciò per una serie di motivi già accennati in precedenti occasioni (come in particolare, nella parte II di Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali, il paragrafo “L’approccio del ‘socialismo scientifico’ marx-engelsiano” e specialmente le sue note 7 e 8) e ostensibilmente confermati sino ad ora dalle vicende storiche degli ultimi 130 anni. Data questa visione storica, si può comprendere meglio che una rivoluzione socialista che potesse essere pienamente riuscita era per Marx ed Engels qualcosa di molto più complesso, impegnativo, serio e vivace di quello che è diventata in seguito con le teorie staliniane poi accettate in tutte le successive rivoluzioni nazionali novecentesche di ispirazione socialista, teorie tra cui specialmente il “socialismo in un solo paese”, il “socialismo di Stato” e appunto l’autoritaria concentrazione di tutto il potere post-rivoluzionario in un ristrettissimo vertice di partito.
[193] Su tali limiti cfr. in particolar modo l’intervento già citato Quale economia oggi per il bene comune?. Nel presente intervento si è fatto riferimento più volte ai “fallimenti del mercato” nell’ambito della terza parte.
[194] In tal modo, sull’onda di questa deviazione quell’idea semplicistica e dualista ha assunto di fatto significati nuovi e alquanto diversi da quelli originari che erano associabili a leader come Stalin, Mao, ecc., i quali consideravano lo statalismo e la lotta contro le tendenze esplicitamente borghesi come princìpi sostanzialmente intoccabili e assolutistici. Con Deng è stata invece reintrodotta nelle società post-rivoluzionarie una vasta collaborazione con forze economiche profondamente borghesi: una svolta concettualmente analoga a quella della Nep leniniana, ma con un’intensità e una “liberalizzazione produttiva” enormemente più dilatate rispetto a ciò cui pensava Lenin (e ciò anche perché Lenin era comunque un convinto rivoluzionario che intimamente e nei suoi comportamenti concreti disprezzava la tipica ambizione borghese mirante ad arricchirsi molto al di sopra della media dei lavoratori e ad acquisire lusso, proprietà di vari tipi, ecc., mentre Deng e i suoi epigoni – influenzati evidentemente dal fascino del potere personale che nel frattempo si erano conquistati Stalin e i suoi successori nell’Urss, Mao in Cina, ecc. – appaiono sostanzialmente condividere quell’ambizione...). Come risultato, con Deng e con gli altri politici che l’hanno seguito le tendenze economiche borghesi sono state pienamente sdoganate (e si sono strettamente intrecciate con le attività di molti dei maggiori dirigenti nazionali e locali del partito al potere oppure con quelle di famigliari o “soci di fatto” di tali dirigenti): in breve, a paragone con l’epoca di quei leader lo statalismo ha mantenuto rigidamente la valenza politico-istituzionale, ma ha perso ampi aspetti della valenza economica.
Per quanto riguarda più specificamente la prima di queste due valenze, si può osservare causticamente che l’effettivo significato attuale assunto dall’esemplificazione qui correlata a quell’idea è che il potere politico conquistato e cristallizzato da un’oligarchia partitica che con insistenza si autodefinisce comunista è sempre e comunque qualcosa di buono (e ciò anche se di comunista non ha praticamente più nulla, se non una certa attenzione ad evitare il formarsi di strati sociali che rispetto alla media dei lavoratori risultino molto più poveri ed emarginati, attenzione che del resto è tipica anche dell’“economia di mercato” di tipo keynesiano e persino del “fascismo sociale”), mentre un’eventuale sostituzione di tale sistema cristallizzato di potere con una qualsiasi alternativa è sempre e comunque qualcosa di cattivo.... Si tratta, ovviamente, di un orientamento politico che serve semplicemente a tentare di giustificare pubblicamente come utile alle masse del paese la forma attuale assunta dall’autoritarismo e dal paternalismo che sono tipici da lunghissimo tempo dei gruppi dirigenti al potere in Cina e in regioni ad essa vicine: una tipicità che in varie forme prosegue sostanzialmente da millenni.... Peraltro, la vicinanza politica e la consistente collaborazione esistenti palesemente da anni tra i governi cinesi e l’affaristica e guerrafondaia oligarchia putiniana al potere in Russia suggeriscono che sotto sotto anche i leader cinesi siano pronti da tempo – nel caso in cui la cosa appaia loro conveniente – a compiere un salto politico simile a quello che si è compiuto in Russia intorno al 1990, col passaggio dal precedente statalismo a forme oligarchiche di apparente democrazia, un passaggio attentamente e furbescamente “guidato” da una parte del ceto politico-burocratico allora dominante: la parte maggiormente ambiziosa e affaristica.... Colpisce, in tutto questo, il fatto che nei vari paesi che durante il ’900 hanno vissuto rivoluzioni ispirate al socialismo si sia riformata molto rapidamente una continuità di fondo con le vecchie forme che erano state assunte comunemente dal potere politico nel passato di tali paesi: gli zar in Russia (reincarnatisi in Stalin, poi nei suoi successori e ora – persino dopo la caduta del “muro di Berlino” – in Putin), gli imperatori in Cina (riemersi in Mao e poi nei suoi successori sino ad oggi), e via dicendo.... Questa continuità (che appare fortemente facilitata e favorita dal mantenimento di un atteggiamento decisamente patriarcale da parte dei nuovi gruppi dirigenti dopo le rivoluzioni novecentesche in questione) è stata già brevemente commentata nella seconda parte del presente intervento, in particolare nella sezione “Sfera occupazionale, paradossi politici, equivoci culturali”.
Riassumendo, siamo di fronte al vecchio, dogmatico, assolutistico, patriarcale e ormai celebre “principio del capo”, con una leggera aggiunta lessicale formatasi con Stalin e sopravvissuta sino ad oggi in Corea del Nord, in Cina, a Cuba, in Vietnam, ecc.: in breve, “il capo (di un’organizzazione partitica che si autodefinisce comunista) ha sempre ragione, anche quando gli capitasse di avere evidentemente torto”.... Caso mai, nei casi più gravi, controversi, complicati e conflittuali si può sempre sostituire un capo con un altro: l’importante è che pubblicamente anche il nuovo capo abbia sempre ragione....
[195] Per l’indicazione di ulteriori opere su questa tematica, cfr. appunto la parte I di Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali.
[196] Si tratta di un principio logico in uso da millenni (lo utilizzavano p.es. pure Aristotele e Tolomeo), anche se ha preso comunemente questo nome nel ’600 in base a formulazioni filosofiche che erano state esplicitate nel ’300 dal filosofo inglese (e frate francescano) Guglielmo di Occam in alcuni suoi scritti.
[197] È da notare che non tutti gli invasori avevano un atteggiamento estremamente sciovinistico e distruttivo. Durante il 2° millennio a.C., p.es., l’isola di Creta fu invasa con successo due volte nell’arco di alcuni secoli: la prima volta i conquistatori (definibili probabilmente come “achei”) si limitarono a costruire una società culturalmente “intermedia” tra la loro cultura tradizionale e la cultura cretese – particolarmente brillante, creativa ed evoluta – precedente all’invasione; la seconda volta i nuovi invasori (i “dori”, che in Grecia avevano la loro base principale a Sparta) cancellarono letteralmente l’intera civiltà cretese, schiavizzando o massacrando i suoi abitanti e riportando l’isola a una forma culturale molto primitiva – tipicamente guerresca e nel contempo agricolo-pastorale su base schiavistica – analoga a quella che per i dori costituiva ormai la loro tradizione. Tra l’altro, non molto tempo dopo i dori, in Grecia giunse un’altra popolazione in cerca di nuovi territori in cui stanziarsi, nota storicamente col nome di “ioni”. Questi, al contrario dei dori, ebbero un atteggiamento molto incline alla collaborazione e al dialogo con le popolazioni locali che incontrarono nei loro spostamenti, ed ebbero come zone di insediamento principali la regione di Atene e in seguito anche la regione costiera dell’Anatolia (dall’altra parte del mar Egeo, nell’odierna Turchia). E per secoli Atene e Sparta furono due “estremi” culturali spesso in forte tensione tra loro, giungendo più volte anche a degli aperti conflitti armati.
[198] Si veda qui la nota 160.
[199] Su vari aspetti della questione energetica cfr. i primi due paragrafi della terza parte del presente intervento. Ma la lobby del petrolio e degli altri combustibili fossili è solo una delle tante a cui molti politici danno il loro appoggio in cambio di vari tipi di favori. Sulla diffusione di questo tipo di tendenze nel mondo politico degli ultimi decenni e su come la casta politica cerca di autoproteggersi dalla “minaccia” costituita dalla partecipazione popolare alla vita democratica, cfr. libri come Una pietra al collo, di Roberto Bosio (Emi, 1998), Democrazia in vendita, di Greg Palast (Tropea, 2003), L’assalto alla ragione, di Al Gore (Feltrinelli, 2007), La casta - Così i politici italiani sono diventati intoccabili, di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella (Rizzoli, 2007), Democrazie senza democrazia, di Massimo L. Salvadori (Laterza, 2009), La Casta Invisibile delle regioni, di Pierfrancesco De Robertis (Rubbettino, 2012), ZeroZeroZero, di Roberto Saviano (Feltrinelli, 2013), Sfidare il capitalismo, di Bernie Sanders (Fazi, 2024), e Una cosa sola - Come le mafie si sono integrate al potere, di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso (Mondadori, 2024), recenti articoli come Trump, Musk e il lato oscuro del tecnocapitalismo, di Andrea Ventura (“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/29406-andrea-ventura-trump-musk-e-il-lato-oscuro-del-tecnocapitalismo.html”, 9 dicembre 2024), Il suicidio della democrazia, di Alba Vastano (“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/29433-alba-vastano-il-suicidio-della-democrazia.html”, 13 dicembre 2024), Economia, politica e diritto dell’imperialismo. Quale spazio per la democrazia, di Roberto Passini (“https://www.sinistrainrete.info/teoria/29469-roberto-passini-economia-politica-e-diritto-dell-imperialismo-quale-spazio-per-la-democrazia.html”, 18 dicembre 2024), Globalismo contro democrazia, di Wolfgang Streeck (“https://www.sinistrainrete.info/teoria/29475-wolfgang-streeck-globalismo-contro-democrazia.html”, 19 dicembre 2024), Tutti i dati dell’Atlante che «stana» le ricchezze offshore, di Andrea Di Turi (“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/29492-andrea-di-turi-tutti-i-dati-dell-atlante-che-stana-le-ricchezze-offshore.html”, 22 dicembre 2024), Come siamo arrivati allo stato totalitario, di Chris Hedges (“https://www.sinistrainrete.info/politica/29530-chris-hedges-come-siamo-arrivati-allo-stato-totalitario.html”, 28 dicembre 2024), Finanza climatica addio, di Margherita Corona (“https://volerelaluna.it/ambiente/2024/12/31/finanza-climatica-addio/”, 31 dicembre 2024), e 2025: un mondo senza legge, di Roberto Iannuzzi (“https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/29629-roberto-iannuzzi-2025-un-mondo-senza-legge.html”, 13 gennaio 2025), e miei interventi come Oltre il “busillis” dei sistemi elettorali (del marzo 2014), Una radicale controlettura della questione delle Province da dentro la “società civile” (del maggio 2014) e i già citati Il neoliberismo non è una teoria economica (del quale specialmente la sezione conclusiva della seconda parte e la nota 78 nella terza parte) e – per un sintetico inquadramento storico – Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali. I due interventi del 2014 sono disponibili attualmente ai seguenti indirizzi rispettivi:
https://share.mail.libero.it/ajax/share/0a3a23510edea145a8e0717edea1427e91ac45089bea79c2/1/8/MjY/MjYvNQ”;
https://share.mail.libero.it/ajax/share/08bb1ea707f77e4080f3ae17f77e4b72a6c093c32764dd13/1/8/MjY/MjYvMTc”.
[200] Su quest’ultima tematica si vedano in particolare in questo sito L’Onu e il conflitto russo-ucraino: potenzialità inattuate (un intervento pubblicato il 13 ottobre 2023, del quale una versione abbreviata ed essenziale – oltre che “aggiornata” con un riferimento al tremendamente distruttivo conflitto israelo-palestinese avviatosi nell’autunno 2023 e poi allargatosi ad altre parti del Medio Oriente – è apparsa in seguito su Rocca del 1° gennaio 2024 col titolo L’Onu e le guerre: potenzialità inespresse), due articoli di Pino Arlacchi tratti da Il Fatto QuotidianoIsraele fuori dalle Nazioni Unite: il precedente del Sud Africa (“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/29152-pino-arlacchi-israele-fuori-dalle-nazioni-unite-il-precedente-del-sud-africa.html”, 1° novembre 2024) e Una imbarazzata, vile e indecente passività (“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/29285-pino-arlacchi-una-imbarazzata-vile-e-indecente-passivita.html”, 21 novembre 2024) – e Contro la guerra. Come si può alzare il livello della lotta?, di Carlo Lucchesi (“https://www.sinistrainrete.info/politica/29495-carlo-lucchesi-contro-la-guerra-come-si-puo-alzare-il-livello-della-lotta.html”, 22 dicembre 2024), pagina dove ho anche postato un mio intenso commento un paio di settimane dopo. E cfr. anche Una Norimberga per il Governo di Israele, di Piero Bevilacqua (“https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/12/30/una-norimberga-per-il-governo-di-israele/”, 30 dicembre 2024). Anche la tregua finalmente concordata a metà gennaio 2025 riguardo alla Striscia di Gaza, dopo ben 15 mesi di atroce conflitto armato e decine di migliaia di morti specialmente tra i palestinesi (soprattutto civili non coinvolti nel conflitto stesso, tra i quali anche molti bambini...), ha comunque visto del tutto emarginata e apparentemente impotente l’Onu mentre il ruolo principale nei negoziati l’ha sostenuto la diplomazia Usa affiancata da quella di paesi della regione come Qatar ed Egitto, confermando che i governi statunitensi (che siano incentrati sul partito repubblicano, come l’entrante “seconda amministrazione Trump”, o su quello democratico, come l’uscente “amministrazione Biden”) ormai considerano l’Onu – e i vari aspetti del diritto internazionale – come una sorta di inutile scocciatura e che, nel contempo, i governi degli altri maggiori paesi del mondo seguono per un motivo o per l’altro la medesima strada (o perché interessati anche loro a scavalcare del tutto l’Onu e tale diritto, o per non mettersi in urto col governo Usa oppure con qualcun altro dei governi che mirano a questo scavalcamento e che contano tipicamente sulla propria potenza economica e militare e sul “diritto di veto” che i cinque governi vincitori della seconda guerra mondiale detengono ancora nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, veto che essi usano comunemente anche come ombrello per altri governi loro “amici”...). Su questo ormai prolungatissimo e stabile atteggiamento dei governi Usa cfr. p.es. Onu, Onu! Che fare? (Rocca, 15 maggio 2003) e l’intervento del 2023 indicato all’inizio di questa nota, scritti che si possono trovare ai seguenti rispettivi indirizzi:
https://www.peacelink.it/pace/a/8891.html”;
https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/26534-luca-benedini-l-onu-e-il-conflitto-russo-ucraino-potenzialita-inattuate.html”.
[201] Se si considera la storia della sinistra novecentesca russa come emblematica della storia di un’ampia parte della sinistra novecentesca mondiale, la divisione che si ebbe in Russia tra socialisti bolscevichi e menscevichi (e che ebbe luogo durante il primo decennio del secolo, non venendo più risolta in seguito) è appunto emblematica dell’estrema difficoltà della sinistra a mantenere in atto lo spirito dialettico marx-engelsiano, e ciò anche nelle questioni sociali più nodali. In sostanza, nella prospettiva di un possibile passaggio al socialismo i menscevichi tendevano a privilegiare il lato delle “condizioni oggettive”, mentre i bolscevichi facevano specularmente lo stesso con il lato delle “condizioni soggettive”. Sia fra gli uni che fra gli altri vi furono posizioni più drastiche in questo e posizioni che seppero conservare almeno un po’ di quello spirito dialettico (come tra i principali esponenti bolscevichi fece solitamente in particolar modo Lenin). Dal punto di vista strettamente linguistico, “bolscevico” significa semplicemente “maggioritario”, mentre “menscevico” significa parallelamente “minoritario” (in quanto questa era numericamente la loro situazione quando avvenne la divisione tra le due correnti durante il congresso socialista russo che si tenne in clandestinità – e all’estero – nel 1903), ma poi i due termini acquisirono progressivamente un significato politico corrispondente al rispettivo orientamento generale delle due correnti, che si allontanarono in modo crescente l’una dall’altra su una molteplicità di questioni e che nel 1912 divennero in pratica anche due partiti completamente separati. Sul piano internazionale, col tempo i tipici atteggiamenti menscevichi finirono col confluire progressivamente nella “sinistra moderata” o in qualche gruppo della “sinistra massimalista”, mentre quelli bolscevichi divennero la principale base concettuale di fondo della “sinistra rivoluzionaria”.
[202] Questa valutazione engelsiana è stata già riportata nella seconda parte del presente intervento (nella sezione “Sfera occupazionale, paradossi politici, equivoci culturali”) e più ampiamente in precedenza nella già ricordata seconda parte di Il neoliberismo non è una teoria economica (nella nota 35).
[203] Su tale mentalità in quei regimi, cfr. la sezione qui ricordata nella nota precedente.
[204] Cfr. a questo proposito – nella terza parte del presente intervento – la conclusione del secondo paragrafo e la nota 135. Si noti come anche Engels approfondisca in sostanza questi stessi concetti nella sua già citata Introduzione del 1895 al marxiano Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, in riferimento specialmente al frequente tentativo delle élite dominanti di istigare a manifestazioni violente o addirittura a sollevazioni locali le classi popolari, così da poterle poi colpire più facilmente con varie forme di repressione militare, giudiziaria, politica, ecc.. Sono concetti che aleggiano comunque nell’insieme dell’opera marx-engelsiana (e tanto più nella sua fase sostanzialmente giovanile e filosofica, cioè la fase precedente al 1848, e in quella maggiormente consapevole degli aspetti economici della lotta sociale e politica delle classi lavoratrici, cioè dal 1859 in poi), insieme in cui è fondamentale il senso di complessiva alterità culturale di cui i socialisti dovrebbero essere portatori rispetto alla tipica mentalità classista, esclusivista e intimamente violenta che predomina specialmente nelle élite dominanti.
[205] Si vedano soprattutto gli autori già ricordati qui nella nota 154. Ma anche altri hanno in una certa misura partecipato a queste dinamiche: cfr. p.es. a questo proposito le note 48 e 116 rispettivamente nella seconda e nella terza parte del presente intervento e la nota 5 nel già menzionato Quale economia oggi per il bene comune?.
[206] Su “cultura di massa” e atteggiamenti dualisti sono previsti degli approfondimenti in una prossima parte del presente intervento.
[207] Tra i tantissimi scritti storiografici in cui è stato studiato l’emergere europeo della società capitalistica e industriale dalla precedente società feudale, si può segnalare in particolare per la sua prospettiva non eurocentrica il primo capitolo – dal titolo “Le formazioni precapitalistiche” – del libro già citato di Samir Amin Lo sviluppo ineguale (la cui edizione originale in francese risale al 1973). È un capitolo che dal punto di vista storico appare essere una sorta di capolavoro di sinteticità e di essenzialità, proprio come il primo capitolo del Manifesto del partito comunista scritto nel 1848 da Marx ed Engels. Per evitare equivoci, si può aggiungere qui che l’ipotesi politica conclusiva del libro (nella quale si suggeriva – nel quinto ed ultimo capitolo del libro stesso – una posizione complessivamente vicina all’ultimissimo Lenin e alla rivoluzione culturale cinese) è stata poi di fatto rivista da Amin nei decenni successivi, soprattutto alla luce delle disillusioni crescenti ed estremamente problematiche che sono emerse sia in tale rivoluzione culturale sia più in generale in tutte le varie esperienze del “socialismo reale”, ma nel contempo ovviamente anche in rapporto con il “nuovo” paradigma economico mondiale rappresentato dalla globalizzazione. La più essenziale ed esauriente – e ampiamente condivisibile – espressione del pensiero sviluppato da Samir Amin nell’ultima parte della sua vita, in collaborazione anche con movimenti come in particolare il “Forum mondiale delle alternative”, può essere forse considerata l’“appello di Bamako” qui già ricordato e pubblicato in italiano in appendice a un libro dello stesso Amin: Per un mondo multipolare (Punto Rosso, 2006). Può essere opportuno rammentare anche che Samir Amin è scomparso nel 2018, all’età di 86 anni.
[208] Per una riflessione di fondo sul nòcciolo di queste varie realtà storiche novecentesche, cfr. in special modo la parte III del “Commento in cinque parti” contenuto in Dopo gli errori di Seattle e le parti I e II di Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali. Entrambi questi interventi sono stati già ricordati qui.
[209] Per approfondimenti su questo aspetto storico, cfr. in special modo il paragrafo “L’approccio del ‘socialismo scientifico’ marx-engelsiano”, nella parte II dell’intervento già menzionato Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali. In un primo tempo, Marx ed Engels avevano considerato pressoché inutilizzabile per le classi lavoratrici la democrazia istituzionale di tipo borghese, notando con particolare acutezza – rispetto ad altre correnti politiche vicine ai lavoratori che apparivano maggiormente entusiaste di fronte alle proposte istituzionali borghesi – come la borghesia stessa manipolasse piuttosto facilmente tale democrazia in base ai propri interessi. Ma in un secondo tempo, con la progressiva crescita sia della coscienza sociale e politica dei lavoratori stessi sia della capacità analitica e propositiva del movimento socialista, i due fondatori del “socialismo scientifico” ritennero che quell’abilità manipolativa della borghesia e dei suoi rappresentanti politici potesse essere affrontata e combattuta con successo dalle classi lavoratrici organizzate in un movimento politico lucido e ben impostato, così che anche la democrazia istituzionale di tipo borghese avrebbe potuto essere ampiamente vantaggiosa per tali classi, e ciò anche perché queste potevano modificare democraticamente diversi aspetti di fondo delle istituzioni in questione, rendendole appunto meno manipolabili dall’alto e più utilizzabili dal basso per una migliore qualità della vita popolare. Chiarissimi a questo proposito sono i due già ricordati programmi politici socialisti redatti con l’esplicita collaborazione di Marx ed Engels e l’Introduzione di Engels del 1895 al marxiano Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850.
[210] Su tali opportunità viste più approfonditamente dal punto di vista odierno, cfr. in particolare, dal lato della democrazia, l’insieme di riferimenti sui meccanismi istituzionali presentato nella nota 52 della seconda parte del presente intervento e, dal lato dell’economia, due scritti qui già menzionati: Quale economia oggi per il bene comune? e la parte III di Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali. Come si è già accennato qui nella nota 170, proprio per la mancanza delle opportunità economiche in questione era comprensibile e per certi versi alquanto giustificato – durante i primi tre decenni del ’900 – l’amore appassionato dei bolscevichi russi per la rivoluzione socialista (anche se il “principio di realtà” – o in altre parole il senso realistico – e il rispetto per l’importanza della democrazia e per le idee marx-engelsiane avrebbero dovuto trattenerli in quegli anni ’20 dal consolidare sempre più il potere dei vertici del loro partito in Russia dopo la conclusione della guerra civile post-rivoluzionaria e dal finire col ribaltare la concezione storica di Marx ed Engels riguardo alla costruzione del socialismo, ribaltamento su cui cfr. di nuovo la parte III del “Commento in cinque parti” contenuto in Dopo gli errori di Seattle). Diversamente, la duratura e stabile passione assolutistica e pressoché ossessiva di Stalin per lo statalismo post-rivoluzionario, condivisa poi in buona parte da Mao, Fidel Castro, ecc., non era ormai più giustificabile storicamente e concettualmente a seguito appunto sia degli stimolanti risultati ottenuti in Occidente dalle politiche di tipo keynesiano (e dai loro successivi ampliamenti), sia delle possibilità che esse aprivano anche ad altri paesi e ad altre impostazioni politico-economiche.
[211] Sulle due linee tenute contemporaneamente da Lenin già prima della rivoluzione (una linea sbandierata pubblicamente e l’altra – quella effettiva – espressa solo all’interno del partito bolscevico), cfr. in particolar modo il paragrafo “La democrazia assembleare e consiliare nella ‘Comune di Parigi’ e nella rivoluzione russa”, nella parte II dell’intervento già citato Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali.
[212] Da questa profonda difficoltà nel coagularsi di una diffusa coscienza politica autenticamente popolare appare prendere spinta anche l’attuale considerevole diffusione di forme estreme e sciovinistiche di tribalismo o di violenza pseudoreligiosa specialmente nel Terzo mondo, nelle quali un gruppo tribale, etnico o religioso pretende di imporsi “nazionalisticamente” e molto aggressivamente su una certa regione, pronto anche a delle vere e proprie stragi indiscriminate di civili innocenti pur di affermare sugli altri la propria identità esclusiva e il proprio assolutistico punto di vista. In pratica, ciò avviene sotto l’egida di “pulizie etniche” organizzate o di “guerre di religione” accompagnate spesso da sanguinose iniziative terroristiche, anche se queste guerre sarebbe meglio chiamarle “pseudoreligiose” in quanto gli originari testi fondamentali di tutte le maggiori religioni attuali sono chiaramente contrari allo sciovinismo religioso, alle guerre d’aggressione, al terrorismo, ecc.: quest’ultimo indiscutibile fatto pone dunque anche nodali domande su chi sono coloro che interpretano così malamente i fondamentali testi religiosi cui essi fanno appello, su quali interessi personali essi hanno nell’insistere pubblicamente in evidenti fraintendimenti di tali testi e su quanto profondamente ignoranti dal punto di vista religioso sono evidentemente i loro seguaci che credono a questi fraintendimenti e li prendono per “oro colato”.... Peraltro, anche nei paesi industrializzati stanno diffondendosi delle forme simili attraverso movimenti xenofobi e tendenzialmente razzisti che rivendicano l’aggressivo predominio esclusivo di una certa identità etnica e/o pseudoreligiosa in un certo territorio e che si configurano tipicamente come movimenti di estrema destra, portatori quindi anche di un forte senso gerarchico nella società (finora in questi paesi si tratta per fortuna di forme meno intense e violente, fatta eccezione per le vere e proprie guerre scoppiate ferocemente durante l’ultima trentina d’anni nell’ex-Jugoslavia, nell’ex-Urss e tra l’esercito d’Israele e le popolazioni dei territori limitrofi, tra i quali soprattutto la Palestina, anche se in realtà – come si è già accennato p.es. nelle note 39 e 48 della seconda parte di Il neoliberismo non è una teoria economica e in Frontiere e diritti - Tra etica, diritto internazionale e politica del potere (due interventi qui già menzionati) – tutte queste guerre appaiono essere state degli scontri di tipo soprattutto economico scatenati da piccole élite politico-militari che hanno cercato il più possibile di mascherare gli aspetti economici con delle fasulle facciate etniche, religiose e/o culturali mirando così a procacciarsi più “giustificazioni storiche”, più soldati, e via dicendo...). E sull’estrema antiscientificità – e quindi sulla infondatezza e incongruità – delle tendenze razziste cfr. qui la nota 184.
Vale la pena di mettere in evidenza che la xenofobia che sta prendendo un considerevole piede in Europa e in Nordamerica – e che nelle sue forme “meno incivili” si presenta come un appello quasi cortese a far sì che ogni etnia stia in fondo a casa propria (in Africa le etnie africane, in Asia quelle asiatiche e nell’America centro-meridionale le popolazioni native di tale territorio e i cosiddetti latinos, i quali sono abituati alla lingua spagnola o portoghese e in pratica includono sia i gruppi arrivati dall’Europa meridionale dopo Cristoforo Colombo come conquistadores o come emigranti, solitamente poveri ma pieni di speranze, sia gli “incroci” formatisi localmente nel tempo soprattutto tra tali gruppi, i nativi americani e i gruppi di neri portati a forza dall’Africa come schiavi secoli fa) – è, in realtà, estremamente funzionale all’attuale predominio mondiale dei “grandi ricchi”. Questi xenofobi – tipicamente di origine nordeuropea o centroeuropea e collegabili più o meno esplicitamente non solo alla destra ma anche a forme di “suprematismo bianco” e non di rado a un fondamentalismo pseudo-cristiano – dimenticano che proprio secondo la logica xenofoba i bianchi dovrebbero letteralmente abbandonare tanto il Nordamerica (lasciandolo ai pellerossa) quanto l’America centro-meridionale (lasciandola ai cosiddetti indios), l’Oceania (lasciandola agli aborigeni) e quelle parti dell’Africa in cui si sono stanziati come dominatori (lasciandole alle originarie popolazioni nere africane).... E dimenticano anche che piccoli gruppi di bianchi molto ricchi stanno proditoriamente influenzando in modo enorme l’economia e la vita stessa di tutto il globo, mettendo in grave difficoltà col loro potere finanziario e militare proprio i popoli di quei continenti che – secondo la logica in questione – dovrebbero essere rispettivamente casa degli africani, degli asiatici, ecc.. In altre parole, è una xenofobia che in maniera estremamente ipocrita e molto ignorante – e alla fin fine anche frutto di una vera e propria manipolazione culturale proveniente dalle parti alte dell’attuale “scala sociale” – usa di fatto due pesi e due misure: ai bianchi è concesso praticamente tutto; alle altre etnie sarebbe concesso soltanto di starsene a casa propria, ma sostanzialmente colonizzati di solito da qualcun altro che viene da qualche “paese ricco”.... In altre parole, in realtà non è xenofobia (sennò riconoscerebbe il sostanziale “dovere” dei bianchi di tornarsene tutti nell’Europa da cui essi stessi – o i loro antenati – sono partiti, a meno che le locali popolazioni native stesse non li invitino a restare), ma è in pratica un puro e semplice razzismo che, non avendo neanche il coraggio di vedersi per quello che realmente è, finge di essere soltanto una “onesta” e “paritaria” xenofobia secondo cui ciascuno oggi dovrebbe restarsene semplicemente a casa sua....
Tra l’altro, un discorso simile a questo riguardante i bianchi vale in linea di massima anche per gli arabi, che nei secoli passati si sono espansi violentemente in ampie aree dell’Asia e dell’Africa assumendovi posizioni politico-economiche dominanti e che nel mondo attuale – attraverso gli enormi guadagni ottenuti da piccole élite divenute molto ricche soprattutto con i giacimenti di petrolio e di gas naturale esistenti nei territori sotto il loro controllo – sono diventati in pratica la seconda etnia dominante nel mondo dopo i bianchi e sono spesso portatori di ideologie non solo fortemente patriarcali e drammaticamente misogine ma anche tendenzialmente scioviniste su una base (apparentemente religiosa) pseudo-islamica. E questo benché sia quanto mai palese che il testo fondamentale dell’Islam (il Corano), quando preso in considerazione con profonda attenzione, condivida molto poco di tali ideologie e anzi in sostanza le critichi e le condanni, come si è osservato ampiamente p.es. nel volume già ricordato Basta! - Musulmani contro l’estremismo islamico, a cura di Valentina Colombo (Mondadori, 2007).... Ma non si dimentichi che un analogo fondamentalismo pseudo-cristiano, estremamente sciovinista e spesso anche molto incline alla violenza, continua a risultare alquanto diffuso tra le popolazioni di origine europea da circa 1.600 anni, cioè approssimativamente dal 4° secolo d.C., a dispetto del fatto che nei Vangeli non si possa trovare alcunché a sostegno di tale fondamentalismo e anzi essi abbiano nella loro interezza – e in modo quanto mai evidente – un orientamento di fondo letteralmente opposto ad esso.... In pratica, è stato proprio questo sciovinismo pseudo-cristiano a fare da maestro a quello sviluppatosi secoli dopo nei paesi a tradizione islamica, e l’acme di questo “insegnamento” possono essere considerate le diverse Crociate susseguitesi sanguinosamente in epoca medioevale (con l’eccezione della Crociata degli anni 1228-29, che Federico II di Svevia – imperatore del Sacro Romano Impero – condusse con successo in modo incruento e pacifico e che in pratica si concluse con un trattato d’amicizia siglato col sultano d’Egitto Malik Al-Kamil, mostrando tra le altre cose quali spazi innovativi potevano esserci anche allora tra governanti capaci di interessarsi anche a tematiche come la filosofia, le scienze, le arti, il dialogo tra culture e la diplomazia).
In fondo, la feroce xenofobia tribale o pseudoreligiosa che a sua volta ha preso piede in certe parti del Terzo mondo non pare altro che una speculare reazione all’insistita, duratura e spesso brutale volontà di predominio di stranieri – soprattutto bianchi, ma non solo – che pretendono di poter comandare qua o là grazie alle loro ricchezze, alle loro tecnologie e alle loro armi.... Nel contempo, a ben guardare, quasi sempre queste forme identitarie ed aggressive di appartenenza etnica e/o pseudoreligiosa non sono affatto in contrasto con lo sguardo individualistico o tutt’al più famigliaristico che è tipico dell’impostazione culturale borghese, in quanto l’orizzonte prospettico di fondo delle persone che si identificano con tali forme è, comunemente, proprio quello degli interessi materiali e dello status sociale collegati a se stessi o eventualmente al proprio gruppo famigliare. In altre parole, attraverso questo senso identitario etnico e/o pseudoreligioso le persone coinvolte intendono promuovere innanzi tutto i propri interessi personali e/o famigliari, e quasi mai il senso in questione appare per ciascuna persona più intenso e spiccato di tali interessi in gioco.... In breve, è rarissimo – per non dire impossibile – che questi processi identitari di massa esprimano per davvero profondi valori etici e spirituali e un genuino e autentico afflato comunitario, ma nascono invece generalmente da timori di emarginazione e dal sentirsi in una condizione di debolezza sociale ed economica (fattori che spingono le persone o a cadere in forme emotive di depressione, o a tentare radicali cambiamenti di tipo individuale, o a cercare di sviluppare delle iniziative innovative nella sfera tecnologico-produttiva oppure in altri campi sofferenti del vissuto umano locale, o a partecipare a lotte collettive per una maggiore equità politico-sociale che si spera siano condotte in modo lucido ed efficace, lotte che potrebbero anche essere in sintonia e in associazione con quello sviluppo di iniziative innovative, o a cercare rassicurazioni quanto mai artificiose mediante appunto l’inserirsi in processi identitari di massa che solitamente si basano sull’idea – comunemente estremamente superficiale e conseguentemente forzata e fasulla – di qualche “guerra tra poveri” nella quale qualche gruppo sociale in difficoltà dà la colpa di questa difficoltà principalmente a qualche altro qualche gruppo sociale in difficoltà e cerca di far sparire il più possibile quest’ultimo dal proprio orizzonte esperienziale...), mentre dietro alle varie facciate che tutto questo può assumere c’è quasi sempre un conflitto – tra diverse classi e/o tra i vertici politici, militari o religiosi di diversi gruppi sociali – per il controllo delle risorse locali di un territorio.
[213] Sulla questione – sia storico-culturale che politico-giuridica – dei rapporti tra diritti e doveri, cfr. la nota 3 nella parte II di Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali (su tematiche ottocentesche collegate sia all’Internazionale che al “socialismo scientifico”) e la parte finale del paragrafo “Una vera e propria guerra di una parte dei ‘grandi ricchi’ contro tutti gli altri esseri umani (e contro l’attuale ecosistema planetario)” nella terza parte del presente intervento (a proposito della “Dichiarazione universale dei diritti umani” del 1948, nella quale viene esplicitamente riconosciuta alle persone, oltre appunto ai tanti diritti, anche l’esistenza di «doveri verso la comunità»).
[214] Parallelamente a tali fallimenti concettuali sono avvenuti dei fallimenti concreti molto pesanti, dolorosi e problematici (dal punto di vista umano, sociale, ambientale, ecc.), e ciò non solo nei confronti delle popolazioni e dei territori in questione, ma anche in un confronto specifico con le idee socialiste ottocentesche, che in molti casi erano molto più savie, lucide, capaci di un ampio sguardo e progressiste rispetto alle idee che in seguito hanno predominato in quelle due correnti. In particolare, l’assenso di fondo della cosiddetta “sinistra moderata” è stato molto probabilmente fondamentale per lo scoppio sia della prima guerra mondiale sia di molte altre successive guerre d’aggressione da parte di una nazione o di un’altra. Ed è quasi incredibile la sequenza che ha visto la progressiva trasformazione dell’entusiasta Russia rivoluzionaria dell’ottobre 1917 prima in uno statalismo bolscevico sempre più antidemocratico, poi nel trionfo di un criminale stalinismo, poi nello spento grigiore del brežnevismo e infine – dopo il non riuscito tentativo gorbacioviano di democratizzare quel grigio, fasullo, burocratico e repressivo “socialismo realizzato” – in un reame di oligarchi arricchitisi a dismisura grazie ad una privatizzazione enormemente affaristica dei mezzi di produzione precedentemente statalizzati e, col tempo, nel bellicismo paranoico del “nuovo zar” Putin, nominato primo ministro nel 1999 e poi eletto e rieletto ormai innumerevoli volte ai vertici dello Stato dalla popolazione stessa (!!!).... Putin appunto, oltre a fornire un prolungato sostegno imperialistico all’aggressivo separatismo della Transnistria in Moldavia, a quello dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia in Georgia e a quello della Crimea e del Donbass in Ucraina (anziché favorire una risoluzione pacifica e costruttiva delle tensioni regionali in gioco in queste situazioni), è stato il basilare ideatore sia della seconda delle due brutali guerre interne russo-cecene (svoltasi tra il 1999 e il 2009), sia dell’attuale guerra ucraina, che dovrebbe essere del tutto inconcepibile e impraticabile nell’era delle Nazioni Unite (come si è argomentato sino ai più estremi particolari nell’intervento già ricordato L’Onu e il conflitto russo-ucraino: potenzialità inattuate).
Si tratta di una sequenza che era estremamente imprevedibile nella sua specificità, e lo è stata in ogni fase della sequenza stessa. Ad esempio, chi avrebbe previsto che uno dei politici emersi dalla “rivoluzione d’ottobre” sarebbe diventato a poco a poco una sorta di dittatore unico e avrebbe messo a morte praticamente tutti gli altri principali protagonisti di quella rivoluzione, dopo averli accusati di misfatti assurdi e palesemente inventati? E chi avrebbe previsto le improvvise rivelazioni ufficiali di Krusciov riguardo appunto alle tremende malefatte di Stalin, qualche anno dopo la morte di quest’ultimo? E penso che durante il decennio gorbacioviano nessuno – né tra i sostenitori né tra gli oppositori di Gorbaciov – avrebbe immaginato che quel tentativo di democratizzazione sarebbe sfociato in una Russia ipercapitalistica, iperliberista, caratterizzata da uno Stato guerrafondaio in maniera insistente e crudele e parallelamente repressivo e autoritario in maniera iperbolicamente crescente, nel quale la maggioranza della popolazione è sempre rimasta – ormai da più di trent’anni – del tutto incapace di utilizzare positivamente le possibilità offerte dalla presenza di istituzioni almeno formalmente democratiche.... Oppure, chi avrebbe previsto che in Jugoslavia la caduta del “muro di Berlino” avrebbe innescato indirettamente una serie di aspri contrasti tra le élite del paese (che in pratica erano il “fior fiore” di mezzo secolo di “socialismo reale” jugoslavo...) fino al prodursi di anni di guerre condotte con incredibile ferocia da alcune delle parti in causa, come hanno raccontato con grande accuratezza autori come Cristopher Cviic in Rifare i Balcani (Il Mulino, 1993), Rada Ivekovic in La balcanizzazione della ragione (Manifestolibri, 1995) e Paolo Rumiz in Maschere per un massacro (Editori Riuniti, 1996)...? Tra l’altro, anche Vladimir Putin era parte delle élite formatesi nel “socialismo reale”, essendo stato fin dalla giovinezza un membro del cosiddetto “partito comunista” dell’Urss ed essendo entrato nella polizia politica (il famigerato KGB) subito dopo aver conseguito una laurea in diritto internazionale, polizia in cui ha anche raggiunto piuttosto rapidamente il grado di tenente colonnello: solo con il crollo dell’Urss, nel 1991, Putin si è dimesso dal KGB e dal partito....
I paesi che durante il ’900 hanno avuto rivoluzioni nazionali ispirantesi al socialismo (o che sono stati “conquistati” militarmente da nazioni post-rivoluzionarie, come è avvenuto ad una serie di territori dell’Europa orientale e dell’Estremo Oriente durante la seconda guerra mondiale, per opera dell’esercito dell’Urss staliniana) sono diventati pressoché tutti dei veri e propri busillis, caratterizzati oggi in un modo o nell’altro da estremi squilibri politico-sociali, psicologico-culturali, economici e spesso ambientali, squilibri che si fatica enormemente a comprendere dove potranno portare.... Anche il governo cinese, che dopo Mao ha iniziato una strada profondamente “inciuciata” con le élite capitalistiche internazionali e col neoliberismo e quindi diversissima da quella dei decenni maoisti, insiste con forza da anni sulla minaccia di invadere l’isola di Taiwan e di avviare contro di essa una guerra (quanto mai imperialistica...) simile a quella condotta da Putin in Ucraina, guerra che a sua volta potrebbe avere conseguenze molto gravi non solo locali ma anche internazionali. Insomma, quelle estreme lacune e quei fallimenti concettuali hanno aperto progressivamente un complicatissimo (e per molti versi assurdo, controproducente e strutturalmente mal impostato) “vaso di Pandora” nel mondo, provocando appunto anche – e soprattutto – degli estremi fallimenti concreti; ma, mentre le lacune e i fallimenti concettuali appaiono risolvibili con accurati e puntuali approfondimenti riguardo ai diversi temi implicati, i fallimenti concreti hanno innescato situazioni umane, sociali e ambientali spesso molto gravi, dolorose e pericolose che ormai hanno già avuto molti effetti decisamente pesanti e laceranti e che per di più non appaiono affatto facilmente “risolvibili” allo stato attuale, anche perché in buona parte sono alla mercé dei politici che governano nelle varie parti del globo e che comunemente sono quanto mai ambiziosi, non molto lungimiranti e scarsamente sensibili dal punto di vista umano (e questo – come è palesemente evidente da tempo – sia nei paesi ufficialmente ad economia di mercato sia nei regimi del “socialismo reale”...). Nemmeno un “genio della tattica” come Lenin avrebbe certo previsto che la sua genialità tattica – che appare essere stata fondamentale per il successo della “rivoluzione d’ottobre” – innescasse da un lato, nel medio termine, un aspro e prolungatissimo autoritarismo repressivo in tutti i paesi a lui ispiratisi con le svariate rivoluzioni del ’900 e dall’altro lato, nel lungo termine, una parte consistente dell’estremo bailamme internazionale che stiamo vivendo oggi (e che ricorda sempre più i prodromi e le avvisaglie della seconda guerra mondiale accumulatisi durante la seconda metà degli scorsi anni ’30)....
[215] A questo proposito si vedano p.es. gli autori già ricordati qui nella nota 154. Particolarmente significativi ed emblematici appaiono anche alcuni interventi ricordati nel già citato Dopo gli errori di Seattle (nella parte II del “Commento in cinque parti”) – cioè Le continue fonti del marxismo - L’interesse per il movimento complessivo, di Richard Levins (un articolo apparso sulla Monthly Review nel gennaio 2011 e tradotto anni dopo nel sito di Rifondazione, all’indirizzo “http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=36387”), Psicanalisi e politica, di Lea Melandri (a proposito anche dell’opera di Elvio Fachinelli, all’indirizzo “https://www.sinistrainrete.info/teoria/13696-lea-melandri-psicanalisi-e-politica.html”, 15 novembre 2018), e Kopenawa – La tensione ecologica degli yanomami (un articolo di Andrea Cavalletti pubblicato sul Manifesto del 25 novembre 2018 e incentrato sul libro La caduta del cielo - Parole di uno sciamano yanomami, scritto da Davi Kopenawa e Bruce Albert ed edito da Nottetempo nel 2018) – mentre dallo specifico punto di vista politico-economico appare fondamentale il contenuto generale di un articolo di John Bellamy Foster in inglese, qui già citato: Marx, Kalecki, and Socialist Strategy (apparso anch’esso sulla Monthly Review, nel 2013, e ulteriormente corroborato dal fatto di rappresentare un punto di vista esplicitamente condiviso nella sostanza dall’intera redazione della rivista). Si tratta di un articolo che sostiene e soprattutto sostanzia la piena compatibilità “tattica” che l’approccio keynesiano-kaleckiano all’economia di mercato ha nei confronti del pensiero marx-engelsiano e delle sue strategie, un approccio che risulta anche in pieno contrasto con la cultura economica neoliberista che – a distanza di un mezzo secolo dalla formulazione di tale approccio – è divenuta dominante nel mondo durante gli ultimi decenni ma è estremamente ingannatrice.
Si può qui sottolineare che Kalecki aveva sì previsto la svolta borghese verso un ritorno all’ideologia liberista, ma auspicava che le classi lavoratrici riuscissero a difendersi un po’ meglio di come le cose sono poi andate a partire dagli scorsi anni ’80. In effetti, la debolezza politica che ha colpito in questi decenni tali classi appare essere stata favorita in particolar modo sia dal prendere piede della “novità globalizzazione”, che le attuali élite economico-politiche hanno saputo impostare appunto in senso strettamente liberista sfruttando la posizione economicamente e politicamente dominante da esse detenuta nella società, sia dalla relativa scomparsa degli autentici “intellettuali di sinistra”, che – come si è già notato – hanno pesantemente subìto e sofferto non solo questo vincente sovrapporsi del crescente “edonismo reaganiano” borghese e della globalizzazione ma anche il progressivo svuotarsi umano e culturale delle esperienze del cosiddetto “socialismo reale”....
Dal momento inoltre che quell’approccio porta con sé sia grandi responsabilità da parte delle istituzioni pubbliche e/o delle strutture comunitarie locali sia – quindi – il rischio che in tali istituzioni e strutture si presentino consistenti e diffusi fenomeni di incompetenza e inefficacia operativa o di corruzione e clientelismo (rischio sul quale cfr. riferimenti bibliografici come quelli della nota 199), diventano fondamentali anche delle considerazioni di fondo su questo intreccio di responsabilità e di rischio, sulla creativa partecipazione popolare alla vita democratica come principale rimedio a tale rischio e sulla necessità che in tale partecipazione la popolazione stessa (o per lo meno la “società civile”, che può essere considerata la “punta di diamante” dell’impegno popolare nel campo politico-sociale) sappia non solo fare richieste al mondo politico, ma anche avanzare con forza quelle proposte più fondamentali che generalmente l’attuale ceto politico evita ormai di fare per proprio conto (nel suo essere sommerso dalle pressioni delle varie lobby economiche o da una “tendenza di fondo alla superficialità e/o al pensiero dualista” che permea strutturalmente di sé la società patriarcale e le sue tipiche forme culturali) ed eventualmente assumersi pure la responsabilità di scendere direttamente in campo nell’arena della politica se quel ceto risulta troppo poco disponibile al dialogo e alla collaborazione con i “cittadini comuni”.... Su ciò cfr. in particolare due interventi qui già citati e le indicazioni storico-bibliografiche in essi inserite: Oltre il “busillis” dei sistemi elettorali (in particolare il paragrafo “La fondamentale funzione che dovrebbe spettare alla democrazia diretta” e la parte del paragrafo “Ulteriori dettagli” relativa alla democrazia partecipativa) e Dopo gli errori di Seattle (in particolare i paragrafi “C’era già arrivata la prima ‘Internazionale’” e “Fratture novecentesche”).
[216] A quest’ultimo proposito, per quanto riguarda l’approccio alla società sviluppato nell’Ottocento dal “socialismo scientifico”, appare particolarmente espressivo ed efficace un brano dell’Antidühring (libro del 1878 scritto da Engels in pieno accordo con Marx). Dopo aver ricordato la tendenza del sistema produttivo dell’epoca a sfruttare spaventosamente, attraverso «il superlavoro, specialmente [...] donne e bambini», e dopo aver messo in drammatica evidenza – citando espressamente Marx dal Libro primo del Capitale – come spessissimo la manifattura provocasse «un letterale storpiamento spirituale e fisico dell’operaio» e la grande industria degradasse «l’operaio, da macchina, a semplice accessorio di una macchina», Engels aggiunse che «non solo gli operai, ma anche le classi che sfruttano direttamente o indirettamente gli operai vengono, dalla divisione del lavoro, asservite allo strumento della loro attività: il borghese dallo spirito squallido, al proprio capitale e alla propria insana avidità di profitto; il giurista, alle sue incartapecorite concezioni legali che lo dominano come un potere a sé stante; i “ceti cólti” in generale, alle molteplici tipologie di meschinità e di unilateralità del loro ambiente, alla loro propria miopia fisica e spirituale, alla loro crescita ostacolata che a sua volta è provocata dalla loro educazione impostata secondo una ristretta specializzazione e dal loro incatenamento vita natural durante a questa specializzazione stessa, anche qualora essa sia il puro far niente».... Mentre nel Novecento la “sinistra rivoluzionaria” strettamente indirizzata allo statalismo ha spessissimo espresso nei confronti di questi gruppi sociali privilegiati un vero e proprio “odio di classe” – aggressivo, livoroso e facilmente violento – e mentre tra le righe la cosiddetta “sinistra moderata” ha spessissimo espresso nei loro confronti subalternità e sostanzialmente invidia, Marx ed Engels invece esprimevano dialetticamente dunque una critica socialmente aspra ma capace di compassione (nel senso originario del termine, senso che nel linguaggio moderno viene reso probabilmente meglio da un’espressione come “sensibilità empatica”). Anche una parte minoritaria della sinistra novecentesca ha espresso comunque una tale capacità dialettica ed empatica (si è trattato di solito di gruppi profondamente interessati alla sfera filosofica e psicoanalitica oppure caratterizzati da una ricerca di tipo critico e socialmente impegnato imperniata su tematiche tra religione e spiritualità), come testimoniano in modo particolarmente spiccato p.es. gli autori già ricordati qui nella nota 154 e, più in generale, movimenti come quello femminista e quello nonviolento e correnti di pensiero collegate a tale ricerca come il sufismo islamico, il “buddhismo impegnato” e la “teologia della liberazione”.
[217] In pratica – come già si è accennato nella seconda parte del presente intervento (nella sezione “Sfera occupazionale, paradossi politici, equivoci culturali”) – questi ripetuti dati di fatto appaiono essere una sorta di “cartina di tornasole” del fatto che i regimi verticistici e autoritari che hanno preso piede dopo le varie rivoluzioni novecentesche di ispirazione socialista hanno finito in maniera sistematica con l’indebolire intensamente nei paesi in questione la coscienza politica delle classi lavoratrici....
[218] La critica apportata dal punto di vista fattivo da Marx ed Engels alle concezioni atemporali del socialismo è stata – sin dalla seconda metà degli anni ’40 dell’Ottocento – uno dei loro principali contributi al pensiero socialista. Si vedano a questo proposito specialmente il capitolo su Feuerbach nel testo marx-engelsiano L’ideologia tedesca (del 1846, però pubblicato postumo solo nel 1932), il marxiano Miseria della filosofia (del 1847), l’ormai celebre Manifesto del partito comunista (del 1848) e – per ulteriori spiegazioni – la prefazione del marxiano Per la critica dell’economia politica (del 1859). È una critica che rimase tale anche nei decenni successivi, come mostrano scritti come p.es. l’Antidühring (del 1878) e l’Introduzione engelsiana del 1895 al testo di Marx Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850.
[219] Su tale didattica cfr. in particolar modo – su vari piani – La scoperta del bambino, di Maria Montessori (Garzanti, 1950), Lettera a una professoressa, realizzato dalla Scuola di Barbiana dove insegnava don Lorenzo Milani (Lef, 1967), L’educazione come pratica della libertà, di Paulo Freire (Mondadori, 1973), Esperienze e riflessioni, di Danilo Dolci (Laterza, 1974), Una scuola per la vita, di Krishnamurti (Aequilibrium, 1988), I ragazzi felici di Summerhill - Il piacere di educare e di essere educati, di Alexander Neill (Red, 1990), Insegnanti efficaci, di Thomas Gordon (Giunti, 1991), I segreti della serenità - Pedagogia tradizionale nel cuore dell’Africa, di Mario Cisternino (Emi, 1993), Il braccio e la mente - Un millennio di educazione divaricata, di Antonio Santoni Rugiu (La Nuova Italia, 1995), Crescere con i bambini - Come ho educato con il metodo Steiner, di Elisabetta Fara (Meltemi, 1998), Lo spirito creativo, di Daniel Goleman, Paul Kaufman e Michael Ray (Rizzoli, 1999), Educare ad essere - Una scuola dalla parte dei bambini, di Rebeca Wild (Armando, 2000), A modo loro, di Mel Levine (Mondadori, 2004), Educazione che arricchisce la vita - La comunicazione nonviolenta migliora i risultati scolastici, riduce i conflitti, valorizza le relazioni interpersonali, di Marshall B. Rosenberg (Esserci, 2005), L’infanzia di domani - Un contributo per l’educazione alla partnership nel XXI secolo, di Riane Eisler (Forum, 2016; ediz. originale in inglese 2000), Erotica dei sentimenti - Per una nuova educazione sentimentale, di Maura Gancitano (Einaudi, 2024), il sito Internet “www.scuolanonscuola.org”, a cura di Pier Giorgio Caselli, e in altre lingue Marva Collins’ Way, della stessa Marva Collins assieme a Civia Tamarkin (J. P. Tarcher, 1982), Repenser l’école - Témoignages et expériences éducatives en milieu autochtone, a cura di S. Dreyfus-Gamelon, J.-C. Monod e J.-P. Razon (Ethnies-Documents 12:22-23, inverno 1997-98), e Amazon Grace: Re-Calling the Courage to Sin Big, di Mary Daly (Palgrave Macmillan, 2006). Ethnies-Documents è una collana di volumi monografici edita in collaborazione da Peuples autochtone et développement e da Survival International (France). Particolarmente significative e illuminanti, nella loro sinteticità, sono anche le osservazioni presentate da Harry Braverman nella seconda metà dell’ultimo capitolo di Lavoro e capitale monopolistico - La degradazione del lavoro nel XX secolo (Einaudi, 1978), a proposito delle logiche tipiche del moderno sistema scolastico. Per considerazioni più recenti e “aggiornate” riguardo a tali logiche – e al ruolo attribuito tipicamente alla scuola dalle attuali élite politico-economiche – cfr. p.es., oltre alla sezione “Ulteriori dinamiche culturali” nel paragrafo qui iniziale, interventi come Bambin* del neoliberismo, di Elisabetta Teghil (“https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/16830-elisabetta-teghil-bambin-del-neoliberismo.html”, 25 gennaio 2020), e Dentro la trasformazione: breve viaggio nella scuola neoliberale, di Gianluca Coeli (“https://www.sinistrainrete.info/societa/29658-gianluca-coeli-dentro-la-trasformazione-breve-viaggio-nella-scuola-neoliberale.html”, 17 gennaio 2025).
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Paolo Selmi
Saturday, 01 February 2025 16:13
Carissimo Luca!
Grazie mille per aver citato Syroežin e il suo lavoro. Qualche precisazione si rende necessaria.

La proprietà sociale dei mezzi di produzione non si può limitare alla sola proprietà statale. Altrimenti si cade nel burocratismo.

Allo stesso modo, "trasferire potere dallo stato ai cittadini" non deve coincidere, come invece fatto da Gorbaciov, con l'inserimento di una accumulazione originaria di capitale all'interno di un'economia completamente socializzata quale quella sovietica. Pena, il collasso di quest'ultima.

Alla fine, Gorbaciov smantellò i cardini di un sistema delicatissimo di equilibri e trasferimenti interni di risorse all'interno di un modo di produzione pianificato che, vedendo così sempre più non collimare quanto scritto da quanto verificatosi all'atto pratico, una volta esaurita la cosiddetta, e tanto di moda oggi, "resilienza", collassò. Con qualche spintarella prima da parte dei FUTURI, oligarchi che, appena si accorsero che ciò era possibile e l'avrebbero fatta franca, divenne SCOSSONE. fino a un vero e proprio patto di spartizione.

Syroežin non ebbe seguito perché il suo è un modello teorico. Lo finirò di tradurre, quando tutto questo finirà, proprio perché utile oggi a costruire un modello di pianificazione complesso dove il TRASFERIMENTO di POTERE dal centro (gosplan) alla periferia (ultima officina o ultimo mercato colcosiano), così come dal PIANIFICATORE al PRODUTTORE, torna a essere un MECCANISMO A DOPPIO SENSO DI MARCIA.

Questa è stata l'intuizione di Syroežin: non semplici "feedback", come dicono gli anglofoni, ma un'intera parte propositiva che non si riduce a trentamila euro all'anno di bilancio partecipato (iniziativa meritoria ma che sta al nostro ragionamento come il bottone e la giacca) che si traduce già nella fase di pianificazione, con alle spalle una pianificabilità che mette sul piatto la misura della coperta, dove si andrà a coprire e dove resterà scoperta e un piano che rappresenta la concretizzazione di questo intero processo.

Syroežin insegna a porre obbiettivi non solo quantitativi ma anche qualitativi. Syroežin insegna a costruire insieme il percorso che deve condurre alla realizzazione di tali obbiettivi.

Naturalmente, socializzazione dei mezzi di produzione e conduzione pianificata degli stessi sono CONDIZIONE NECESSARIA, ma non sufficiente.

Per suonare non mi basta avere un pianoforte e dieci dita... possibilmente in una sala senza vicini di casa che ascoltano dall'altra parte di un muro di cartone musica a palla o riempiono l'aria delle loro colorite e animate discussioni, comprese di piatti volanti e vetri a terra, dalla mattina alla sera.

Oltre a tutto quello... mi serve saperlo suonare, il pianoforte. I sovietici stavano imparando a suonare questo nuovo strumento, stavano imparando a tirar fuori da quella cassa armonica, da quelle corde, note stupende. Stavano iniziando a fare apprezzare al proprio popolo la bellezza di tutto questo.

Poi arrivò qualcuno e disse che il futuro era musica campionata, spartiti fatti con chatgpt e voci sdoppiate e pure con l'autotune. E solo un povero pirla poteva fare dieci anni di conservartorio. Il mondo è pieno di lucignoli e di paesi dei balocchi. E così un popolo intero si trovò senza nulla. Perso irrimediabilmente il primo, e col miraggio del secondo.

Un abbraccio e grazie ancora per aver citato il buon Syroežin... quando tutto questo finirà, forse, riuscirò a finire di tradurlo.

Paolo
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