Effetti culturali dell’economia neoliberista IV
di Luca Benedini
(quarta parte: riconoscere le radici storiche del neoliberismo e rispondere ad esso attraverso un’integrazione tra il “socialismo scientifico” marx-engelsiano – la cui centratezza la storia sta confermando – e le forme di esperienza, di pensiero e di movimenti alternativi più congrue, profonde e costruttive che si sono sviluppate nell’ultimo centinaio d’anni)*
Politiche keynesiane: una rilettura critica della loro ascesa ed eclissi, anche alla luce dell’opera di Michal Kalecki
1. Complessità storiche
Se si torna alle radici delle oscillazioni storiche che si sono verificate – dopo la tremenda “crisi del ’29” – tra gli orientamenti economici liberisti e la tendenza strutturale ad un ampio intervento pubblico nell’economia di mercato, si trova che un primo mutamento epocale avvenne progressivamente tra il 1930 e il 1950 e fu ispirato principalmente dall’economista britannico John Maynard Keynes e dai marcati successi economici che vennero ottenuti nel concreto dalle sue proposte estremamente innovative, contrassegnate anche da una spiccata sensibilità sia sociale che ambientale e culturale. Ma, quando si arrivò a quello che può essere definito il “periodo d’oro” dell’intervento pubblico in tale economia (in pratica, i 35 anni tra il 1945 e il 1980), ciò che avvenne fu che si trattò di un periodo solo superficialmente keynesiano: malgrado le frequenti celebrazioni pubbliche dei grandi talenti di Keynes, le sue idee complesse e sensibili vennero di fatto deformate ampiamente dalle élite politiche ed economiche dell’epoca e poi usate strumentalmente da queste in base ai propri specifici interessi materiali, scarsamente interessati in realtà tanto al piano sociale quanto a quello ambientale e a quello culturale [144]....
Nel complesso, i principali di questi interessi erano di due tipi: sul piano economico, ridurre la portata delle “crisi cicliche” dell’economia capitalistica (un intento condiviso da una parte notevole delle classi privilegiate, ma non dalla loro totalità, in quanto quelle crisi potevano sì trascinare in bancarotta grandi patrimoni, ma anche consentire grandi guadagni ai più abili e “fortunati” tra i finanzieri e gli speculatori...) e ampliare i profitti imprenditoriali trasformando i lavoratori anche in consumatori (così da poter moltiplicare le vendite complessive di prodotti da parte dell’insieme delle imprese); sul piano politico, che per molti in tali élite era ancor più significativo di quello economico, evitare il più possibile un forte “spostamento a sinistra” delle masse lavoratrici che le spingesse verso posizioni diffusamente anticapitalistiche come quelle che nella Russia del 1917 avevano portato alla “rivoluzione d’ottobre” (che parti consistenti delle classi popolari cercarono presto di emulare – ma senza successo – in altri paesi europei come specialmente Germania, Ungheria, Finlandia, Italia e Bulgaria).
Quelle crisi cicliche inoltre, moltiplicando il fenomeno della disoccupazione, dal punto di vista economico indebolivano di molto la forza contrattuale dei lavoratori nel mercato del lavoro (il che tendeva ad essere “gradito” alle classi privilegiate), ma nello stesso tempo dal punto di vista politico davano tipicamente – appunto – stimolo, incoraggiamento e forza ai movimenti politici ispirati ad idee socialiste (il che tendeva a risultare molto fastidioso e preoccupante per tali classi). In tal modo, le crisi cicliche in questione erano vissute dalle classi privilegiate in maniere non soltanto ambigue e molto sfaccettate, ma anche variabili a seconda delle momentanee circostanze economiche, sociali, politiche, ecc..
Nonostante quelle corpose sfasature tra le idee di Keynes e i modi in cui si diede un’attuazione pratica a tali idee, dietro agli eventi dei decenni in cui crebbe e si affermò pubblicamente l’influenza del pensiero keynesiano vi era anche una spinta autentica, che ebbe un peso fondamentale nel determinare in pratica la fine del capitalismo liberista che aveva caratterizzato l’Ottocento e l’inizio del Novecento: la volontà delle classi popolari – combinata in particolare con la loro conquista del suffragio universale e di pubbliche istituzioni di tipo democratico – e di non pochi imprenditori, caratterizzati soprattutto dal gestire aziende piccole o medie e animati da uno spirito più interclassista e collaborativo che gerarchico e autoritario. In altre parole, Keynes sarebbe contato decisamente poco nella storia novecentesca se nei paesi industrializzati gran parte delle classi lavoratrici (con la collaborazione di certi segmenti del ceto imprenditoriale) non avesse rivendicato un’ampia attuazione delle idee da lui sviluppate e se non ci fosse stata la presenza di una certa democrazia a garantire a tali classi un considerevole ruolo politico. Non a caso, le prime applicazioni del pensiero keynesiano all’economia di intere nazioni presero corpo negli anni ’30 grazie a governanti democraticamente eletti e a forze politiche ben precise – allora effettivamente collegate in maniera considerevole alle classi popolari, alla loro cultura e alle esigenze da esse espresse – come i democratici negli Usa (rimane ancora celebre il New Deal rooseveltiano) e i socialdemocratici in Scandinavia. Col tempo, però, la scarsa conoscenza e familiarità che quelle classi avevano riguardo ai meccanismi interni dell’economia e della politica consentì appunto alle varie élite privilegiate di sfruttare per lo più a proprio vantaggio – invece che nella direzione del “bene comune” cui miravano tali classi e cui tendeva sostanzialmente Keynes – le originarie proposte di quest’ultimo, grazie spesso anche a diffusi fenomeni di corruzione nel ceto politico (fenomeni mantenuti ovviamente il più possibile nascosti e “sotterranei” da parte degli interessati, ma “scoperchiati” poi in non pochi casi specialmente da dei magistrati, da dei gruppi di attivisti della “società civile” o da qualche politico di forze d’opposizione). E a quel punto sembrava essere diventata “keynesiana” – anche se in un modo, dunque, alquanto deformato e più che altro strumentale – l’intera classe imprenditoriale in Occidente....
Le classi popolari, comunque, non vennero ingannate totalmente nel corso di quel processo: una parte significativa dei loro obiettivi – così come degli effettivi intenti di Keynes – riuscì a trasferirsi nelle politiche concrete, grazie soprattutto sia al fatto che comunque le politiche keynesiane attribuiscono ai lavoratori un’ampia funzione economica di sostegno alla domanda aggregata (e quindi di stimolo al complesso dell’attività produttiva) sia, di nuovo, al ruolo politico che le istituzioni di tipo democratico non possono non riconoscere a tali classi (che costituiscono ovviamente la grande maggioranza di qualsiasi popolazione nel mondo attuale). Gli aspetti principali del parallelo miglioramento che si verificò nelle loro condizioni di esistenza furono un netto aumento del loro tenore di vita, una netta diminuzione del tasso medio di disoccupazione e un loro maggiore accesso all’istruzione. Nel giro di qualche decennio, questi aspetti furono sufficienti a dare diffusamente luogo alla richiesta popolare sia di un consistente miglioramento di tutta la “qualità della vita” delle classi lavoratrici (in pieno accordo con le possibilità offerte dallo sviluppo tecnico-scientifico corrente), sia di un ruolo più creativo di tali classi nei luoghi di lavoro, nelle scuole, ecc., sia di un equilibrio politico mondiale più umano, più pacifico, più ecologico e non più prono agli interessi materiali di quelle élite (che in pratica durante il boom economico avviatosi in Occidente negli anni ’50 si erano abituate a fare il bello e il cattivo tempo...). E negli anni attorno al ’68 queste complesse e sfaccettate rivendicazioni popolari iniziarono a prendere piede in numerosi paesi.
Ormai è ben noto che la maggior parte delle élite privilegiate ha risposto a tali rivendicazioni con quello che negli scorsi anni ’80 è stato definito come “edonismo reaganiano”, cioè la svolta neoliberista con la quale gran parte dei ricchi e dei potenti ha espresso un sostanziale rifiuto del senso sociale e si è invece impegnata con le unghie e con i denti per conservare ed espandere sempre più i propri privilegi e per goderseli in giro per il mondo.... Nei paesi con istituzioni democratiche ciò ha significato un conforme cambiamento nella politica di molti partiti e una complicata operazione culturale per persuadere le masse a pensare che il neoliberismo vada anche a loro vantaggio, malgrado le innumerevoli prove che attestano inequivocabilmente il contrario.
Ora, se quella svolta è riuscita ad avere effetti socialmente dirompenti ciò appare dovuto soprattutto a due aspetti: uno precedente alla svolta e uno posteriore. Il primo è proprio il fatto che nemmeno durante il “periodo d’oro” dell’intervento pubblico in economia le classi popolari abbiano acquisito un’ampia conoscenza dei meccanismi di fondo della vita economica e istituzionale, pur partecipando considerevolmente alla concretizzazione di tale intervento. Se ne occuparono, infatti, più che altro in riferimento specifico al lavoro e al welfare (che in italiano corrisponde al cosiddetto “Stato sociale”), prendendo invece riguardo a quei meccanismi di fondo un duplice atteggiamento: in parte fare riferimento ad un’ampia serie di “intellettuali di sinistra” e in parte – in un atteggiamento per lo più di delega – fidarsi del mondo imprenditoriale e di quello politico. Dopo la svolta compiuta dalle classi privilegiate e dai loro referenti politici, però, quegli intellettuali sono letteralmente quasi scomparsi in moltissimi paesi, in una generale “virata a destra” utile a ottenere favori da parte delle élite, miglioramenti del proprio status sociale individuale, ecc. (una virata che in certi casi è stata più palese ed esplicita, mentre è stata più obliqua in altri in cui si rispecchiavano le vicende della cosiddetta “sinistra moderata”, la cui presunta vicinanza ai lavoratori – pur ribadita a parole – si è trasformata con sistematicità in una mera maschera sostanzialmente vuota...). Nel contempo, gran parte dei non tanti intellettuali che hanno cercato di mantenere effettivamente una vicinanza con i lavoratori ha sofferto della generale crisi politica che ha colpito nell’ultima quarantina d’anni le altre maggiori correnti della “sinistra ufficiale”, rimaste sinora incapaci di affrontare con efficacia molte delle principali tematiche collegate alla globalizzazione dell’economia e spesso anche al sostanziale fallimento registrato sistematicamente nel medio termine dalle strategie rivoluzionarie ispiratesi in una maniera o nell’altra al leninismo [145].
Paradossalmente, da un lato quel genere di fallimento era stato ampiamente previsto da Marx ed Engels [146], mentre dall’altro lato un approccio alla globalizzazione efficacemente alternativo al neoliberismo è stato proposto con forza su scala internazionale negli anni intorno al 2000 dal “movimento di Seattle”, col sostegno anche di personalità intellettuali di fama come Joseph E. Stiglitz, Vandana Shiva, Alex Zanotelli, Susan George, Muhammad Yunus, Samir Amin (a proposito del quale si veda ad esempio l’“appello di Bamako” promosso nel 2006 da lui e da alcuni movimenti soprattutto internazionali e poi approvato anche da numerosi altri movimenti a base soprattutto nazionale) e altri ancora. Si è trattato di un approccio in cui operava un corposo intreccio tra una sorta di evoluzione globale – ed espansione creativa – dell’approccio keynesiano all’economia e un’attenzione universalistica alla “qualità della vita popolare” come fulcro di un senso sociale autentico e non formalistico (in contrasto col senso sociale formalistico e per molti versi finto che è stato mostrato sistematicamente nel ’900 sia dalla cosiddetta “sinistra moderata” occidentale che dai regimi del “socialismo reale” e dai partiti che in altre nazioni si sono ispirati a questi regimi).
Su questi argomenti però le maggiori correnti della “sinistra ufficiale” hanno mantenuto sostanzialmente una sterile e rigida chiusura, in un atteggiamento di fondo non solo esistenzialmente autoreferenziale, ma anche intellettualmente ristretto e soprattutto statico: la “sinistra moderata” ha continuato a rimanere sostanzialmente subalterna alle élite economiche (e specialmente ai settori di queste più “moderni”, in quanto più collegati allo sviluppo tecnologico, finendo così col sostituire in modo quanto mai borghese – nel proprio comportamento politico – all’evoluzione sociale l’evoluzione tecnologica come emblema e bandiera del progresso dell’umanità...), mentre le altre correnti della cosiddetta sinistra, pur mantenendo una maggior capacità critica nei confronti del capitalismo, sembrano aver pienamente dimenticato la complessità e la capacità propositiva del “socialismo scientifico” marx-engelsiano e rispetto ad esso si ispirano a tematiche molto più limitate. A sua volta, il “movimento di Seattle” non ha saputo minimamente scendere in campo nell’arena della politica, né nelle singole varie parti del mondo né – tanto meno – su una scala globale, scala che pure sarebbe evidentemente fondamentale in un’epoca appunto di globalizzazione [147]: basti notare come Marx ed Engels furono i primi a parlare sostanzialmente di una tendenza globalizzante (nel primo capitolo del Manifesto del partito comunista, nel 1848, mostrando un acume storico di estrema profondità) e come si siano poi impegnati in modi così molteplici e complessi per dare corso sia alla “prima Internazionale” tra il 1864 e il 1876 sia, quando le circostanze storiche lo consentirono, anche alla “seconda Internazionale” nel 1889 (a quel punto Marx era già scomparso da sei anni) e, contemporaneamente, per mantenere fortemente collegate tra loro le lotte sociali e quelle politiche. In altre parole, anche il “movimento di Seattle” appare essere stato colpito dunque da quella dimenticanza e da quella limitatezza....
In tal modo, dopo l’avvento della globalizzazione – che inizialmente era ancora un fenomeno più tecnologico che socio-economico, ma è stata poi rapidamente indirizzata alla propria maniera e sfruttata a proprio vantaggio dai neoliberisti, favoriti anche dalla posizione di forza che avevano già acquisito in organismi intergovernativi come il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale – si è prodotta nei movimenti più o meno popolari una clamorosa, assurda e disastrosa frattura tra la sfera della cultura e del vissuto quotidiano e il “cielo della politica”. Si tratta di una frattura – pienamente persistente ancora oggi – che ha lasciato gravemente menomate tanto la politica (togliendole la creatività della “società civile”) quanto la “società civile” stessa (togliendole lo spazio operativo evidentemente associato alla politica).
Come uno degli effetti di tutte queste vicende, tra gli scorsi anni ’80 e la metà degli anni Duemila – quando il “movimento di Seattle”, che aveva raggiunto il suo apice internazionale nel 1999, si ritrovò praticamente svaporato a seguito soprattutto della sua incapacità di incidere sulle scelte dei governi e delle istituzioni intergovernative – gli orientamenti neoliberisti si sono imposti progressivamente e sempre più stabilmente in quasi tutto il globo [148]. In pratica, una volta che per i lavoratori è andata praticamente perduta ogni effettiva collaborazione con i settori dominanti delle élite imprenditoriali e politiche e che si è enormemente ridotta la presenza di un supporto efficace da parte degli “intellettuali di sinistra”, le classi popolari si sono ritrovate sostanzialmente orfane ed impotenti per quanto riguarda in modo specifico le due tematiche di fondo per le quali contavano fondamentalmente su quella collaborazione e su quel supporto: la sfera economica – con particolare riferimento alla dimensione macroeconomica – e l’ambito costituito dalle pubbliche istituzioni [149]. E gli orientamenti neoliberisti (che dopo la “crisi dei mutui” e la pandemia da Covid-19 hanno anche imparato molto spesso ad avere un po’ di flessibilità aprendosi a un certo impiego di poderosi stimoli economici keynesiani nei momenti di grave recessione, così da evitare eccessive contestazioni e proteste popolari che persistendo nel tempo avrebbero potuto generare diffusi sentimenti antiliberisti tra gli elettori) hanno portato con sé delle corrispondenti forme di “cultura di massa” che a loro volta cercano di forgiare la mentalità popolare in maniere profondamente sintonizzate con quegli orientamenti.
Uno dei maggiori nodi epocali ancora del tutto irrisolti che sono collegati profondamente a quella frattura è il fatto che anche l’attuale crisi climatico-ambientale collegata sempre più esplosivamente all’effetto serra avrebbe potuto (e potrebbe oggi) ricevere un aiuto fondamentale da alcune delle principali rivendicazioni del “movimento di Seattle”. Il principale riferimento qui è rappresentato dalla possibilità di sanzioni economico-commerciali internazionali (nella forma di dazi doganali, ecc.) che sotto la denominazione di “clausole sociali” era stata ampiamente discussa dai governi del globo sin dagli scorsi anni ’90 – senza però passare alla fase concreta – e che poi in una versione più ampia divenne una parte nodale proprio delle proposte del “movimento di Seattle”, con l’aggiunta di tematiche ambientali a quelle sociali e con la parallela previsione di consistenti aiuti alle popolazioni del Terzo mondo mirati allo sviluppo e all’attuazione locale di tecnologie pienamente sostenibili. Questa più ampia tipologia di versione fu oggetto di molteplici discussioni intergovernative, in particolare nelle sessioni dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) degli anni 1999, 2001 e 2003, ma di nuovo senza risultato. Le clausole sociali e ambientali e le sanzioni ad esse collegate costituirebbero una cruciale forma di pressione nei confronti dei paesi dove né il governo né le aziende intendono prendersi adeguatamente carico di tematiche sociali come la salute e il benessere economico dei lavoratori locali e di problematiche ambientali come il contributo delle attività produttive locali all’effetto serra e all’inquinamento in genere [150]. Scelte governative e aziendali di questo tenore fanno sì che da un lato il mondo continui ad essere invaso da merci prodotte con modalità chiaramente dannose a molte esigenze dei lavoratori, allo stato dell’ambiente, al clima planetario e a volte anche alla salute dei consumatori, e che dall’altro lato la sempre più necessaria transizione alle fonti energetiche sostenibili continui ad essere frenata, rallentata, rimandata. Nel contempo, nel commercio internazionale il passaggio a quelle clausole – che potrebbero essere adottate e poste in atto anche da un certo gruppo di paesi, senza la necessità di un’approvazione generalizzata su scala mondiale – fornirebbe un quadro di riferimento che aiuterebbe a “normalizzare” il commercio stesso e ad evitare le piccole “guerre commerciali internazionali” che ogni tanto si innescano per questioni come gli squilibri relativi alla formazione dei prezzi nei vari paesi, i sussidi economici di Stato (alla produzione o esportazione di certi prodotti) e i dazi doganali che gli Stati possono approvare asserendo di farlo per “difendere” da quegli squilibri o da quei sussidi l’economia locale. D’altro canto, è evidente che le normative associate a tali clausole e alle sanzioni in questione colpirebbero interessi materiali come in particolar modo quelli di molte multinazionali – solitamente già ricchissime – e delle ancor più ricche aziende che storicamente estraggono e commercializzano i combustibili fossili.
Guarda caso, i governi che asseriscono a gran voce di voler affrontare seriamente l’effetto serra mostrano di non avere finora alcuna intenzione di mettere con forza sul tavolo sanzioni di quel tipo, anche se in questo modo la “lotta per il clima” rimane spuntata e quasi impotente.... Anche questo costituisce un’ulteriore conferma delle potenti – e finora quanto mai riuscite... – pressioni esercitate sui politici dalla lobby dei combustibili fossili e dalle multinazionali in genere [151]. Dopo le denunce fatte negli ultimi anni da Greta Thunberg e dai Fridays for Future a proposito del palese bla-bla-bla dei politici sul clima, numerosi di questi asseriscono di aver cambiato strada, ma alla prova dei fatti il loro finisce con l’essere in gran parte solo un ulteriore bla-bla-bla sul bla-bla-bla....
2. Keynes, Kalecki e le tendenze della società attuale
Dal punto di vista delle dinamiche storiche che abbiamo vissuto dopo la “crisi del ’29”, è particolarmente interessante che nella prima metà degli scorsi anni ’40 un acuto e poliedrico economista allora operante in Gran Bretagna, il polacco Michal Kalecki, commentando le proposte keynesiane – ormai conosciutissime all’epoca – avesse essenzialmente previsto sia l’incremento delle rivendicazioni dei lavoratori che sarebbe conseguito a una loro situazione socioeconomica divenuta meno precaria e soffocante grazie proprio all’attuazione di quelle proposte, sia la successiva reazione conservatrice e antipopolare che sarebbe stata posta in atto da un’ampia parte delle élite economiche (a questo riguardo si veda soprattutto il suo articolo Aspetti politici del pieno impiego, pubblicato originariamente in inglese nel 1943 nella rivista Political Quarterly e basato su una conferenza tenuta a Cambridge nella primavera del 1942) [152]. In pratica, si tratta effettivamente di quello che è avvenuto nell’ultimo terzo del ’900 proseguendo poi nel secolo attuale.
In sostanza, alla luce sia delle considerazioni politiche di Kalecki inerenti alle prospettive economiche indicate da Keynes sia delle vicende storiche dell’ultimo secolo, traspare che alla fin fine l’opera di Keynes fu soprattutto un indicare al mondo una serie di possibilità per trasformare in senso sociale ed umano l’economia di mercato, invitando tra le righe – nel contempo – la classe imprenditoriale ad aprirsi a dimensioni culturali più sensibili, più filosofiche e meno strettamente legate alla dimensione materiale della vita, mentre Kalecki commentò che gli pareva strano che la borghesia cambiasse pelle.... E la storia ha chiarito che nel complesso Kalecki non aveva tutti i torti [153].
Più in particolare, le vicende storiche suggeriscono che per molti esponenti delle élite economiche ciò che più conta non sono tanto le ricchezze in se stesse quanto i privilegi e il potere, che fanno sentire tali élite in una posizione particolarmente stabile alla barra del timone della sfera socio-economica della società e che finiscono col consentire ai ricchi di avere a disposizione – come lavoratori sottomessi o addirittura sostanzialmente come servi – persone dei ceti più svantaggiati: i ceti esposti alla miseria, o anche semplicemente alla paura della miseria (in questo senso può trattarsi anche della grande maggioranza delle classi popolari, e ciò specialmente nelle epoche di tipo liberista, nelle quali i diritti riconosciuti ai lavoratori sono generalmente molto striminziti e vi è generalmente una considerevole disoccupazione, di modo che i lavoratori stessi sono particolarmente esposti agli eventuali ricatti occupazionali degli imprenditori). Kalecki metteva in rilievo già a quell’epoca la consistente presenza di questa tendenza nel mondo imprenditoriale, traendone che, se in futuro gran parte di questo mondo avesse adottato tale tendenza con decisione e aggressività, per le classi lavoratrici e per le forze politiche progressiste sarebbe stato estremamente opportuno non rinunciare alle ampie potenzialità offerte a tali classi da appropriati interventi economici pubblici e non cedere dunque agli orientamenti politici conservatori (e in linea di massima contrari alle idee di tipo keynesiano) inevitabilmente collegati a quella tendenza. Kalecki era comunque ben consapevole della complessità di una tale eventuale situazione, in cui il mantenimento di scelte politiche autenticamente progressiste avrebbe richiesto nella società un estremo equilibrio tra una serie di fattori sociali, economici, politici e culturali e la presenza di una marcata lungimiranza nelle scelte governative concrete (e in fondo anche nelle rivendicazioni stesse dei lavoratori, che potevano risultare decisive e nodali nel costituirsi dell’atmosfera culturale complessiva del momento).
È evidente che la tendenza al rifiuto delle politiche keynesiane notata già allora da Kalecki tra le classi privilegiate non solo in occasione del New Deal negli Usa ma anche durante il governo Blum – di sinistra – in Francia e durante la repubblica di Weimar in Germania (col conseguente rischio di forti contrasti sociali tra forze politiche progressiste e forze conservatrici, dai quali potevano derivare risultati e situazioni non necessariamente favorevoli alle classi popolari, come mostrò tragicamente ad esempio nella prima metà degli anni ’30 in Germania l’avvento del nazismo, pietra tombale della repubblica di Weimar) e la marcata insoddisfazione allora vissuta comunemente dalle classi popolari sia nell’economia liberista di mercato, sia nelle società di tipo fascista, sia nello stalinismo divenuto ormai imperante in Urss ponevano ai movimenti dei lavoratori dubbi e incertezze tattico-strategici e domande di fondo che non potevano essere risolti in maniere sbrigative, generiche o totalmente aprioristiche, ma avrebbero dovuto essere affrontati di volta in volta con sensibilità, lucidità, discernimento e senso democratico in base alle effettive circostanze storiche del momento. Non a caso, su tutto ciò Kalecki evitò di addentrarsi in possibili particolari e si mantenne nell’ambito di un discorso prospettico generale e incentrato su questa problematica storica vista nel suo insieme. E anche in seguito – con le prolungate esperienze da lui fatte prima nell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) collegata alle Nazioni Unite, poi nel Dipartimento di economia dell’Onu stessa e poi in Polonia lavorando come economista per lo Stato nel periodo post-staliniano – Kalecki continuò a notare quella marcata insoddisfazione delle classi popolari sia nel mondo ad economia di mercato (dove tra i politici, sotto l’influsso anche della “guerra fredda”, erano sempre più diffuse delle forme reazionarie di autoritarismo, come negli Usa il maccartismo), sia ovviamente nelle dittature fasciste, sia nei paesi del “socialismo reale”: lui stesso in Polonia si trovò spesso in netto contrasto con la semplicistica superficialità e/o con la tendenza autoritaria della dirigenza del partito al potere (partito fortemente sottomesso a sua volta alla semplicistica superficialità e all’autoritarismo della dirigenza dell’Urss...). In tal modo, sembrava non esserci nel vissuto delle esperienze socio-politiche dell’epoca alcuna evidente direzione positiva in cui operare dal punto di vista delle classi lavoratrici. Lo schiacciamento della “primavera di Praga” nel 1968 da parte degli eserciti dell’Urss e di altri paesi del “patto di Varsavia”, la parallela repressione governativa abbattutasi in quello stesso anno sui movimenti studenteschi, intellettuali e artistici polacchi che chiedevano una maggiore libertà nel paese (repressione cui Kalecki reagì dando le dimissioni dalle sue attività per le istituzioni statali) e il caos associato in Occidente ai primi tempi degli “anni intorno al ’68” non aiutarono certo Kalecki ad uscire da queste sue perplessità e a dar loro una soluzione, dato anche che la sua scomparsa nel 1970 (a 70 anni) gli consentì di vedere solo molto poco dei notevoli frutti – e successi – sindacali, sociali e culturali emersi progressivamente dal ’68 e poi combattuti così duramente e aspramente dall’“edonismo reaganiano” sino ad oggi.
Per molti versi, le tematiche politiche e strategiche qui in gioco sono strettamente collegate a quelle su cui si erano focalizzati Marx ed Engels nel loro ultimo scritto corposo sia come singoli che come coppia di autori, e cioè per Marx la Critica al programma di Gotha (del 1875), per i due assieme la loro prefazione all’edizione russa del 1882 del Manifesto del partito comunista (una prefazione corposa non certo dal punto di vista della lunghezza, ma da quello dei contenuti, sui quali i due autori si erano applicati molto a lungo, scegliendo poi di esprimersi alla fine con un’estrema essenzialità) e per Engels la sua Introduzione del 1895 al marxiano Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850: tematiche che dal tardo ’800 sino all’epoca di quell’articolo di Kalecki (e in fondo anche in seguito) nessuno era più riuscito a trattare con un sguardo a 360 gradi analogo per profondità a quello marx-engelsiano [154]. Kalecki stesso si limitò, in pratica, soltanto ad accennare alla complessità di tali tematiche e alle perplessità che non potevano che sorgere tra le classi popolari di fronte alle forme quanto mai involute e complicate assunte dalla “politica reale” nella parte centrale del ’900, tanto in Occidente quanto nel “socialismo reale”, e ciò malgrado il clamoroso sviluppo scientifico e tecnologico allora in corso e le enormi potenzialità di progressi socio-economici collegate a tale sviluppo. Kalecki, tuttavia, nel periodo in cui scrisse quel suo cruciale articolo già ricordato ne scrisse anche un altro – dal titolo I fattori essenziali minimali della pianificazione democratica – che apparve nella rivista laburista Labour Discussion Notes del settembre 1942 e che suggeriva una prospettiva politico-economica comprendente la nazionalizzazione delle maggiori aziende operanti nei settori strutturali della produzione industriale, nella finanza e nel vasto insieme dei servizi pubblici (aziende che avrebbero poi dovuto essere coordinate e dirette nella loro attività da un istituto centrale per la pianificazione economica, il quale a sua volta avrebbe dovuto essere responsabile di fronte al Parlamento) e «il pieno controllo pubblico sul sistema bancario e finanziario, sugli investimenti e sul commercio estero e forse sull’allocazione delle materie prime di base e dei prodotti di prima necessità», il tutto tenendo presente che la «pianificazione democratica [...] implica pianificare con l’obiettivo che i bisogni dell’intera comunità ottengano nel lungo termine la massima soddisfazione». In seguito, comunque, Kalecki non ha insistito nei suoi scritti sui particolari di questa prospettiva, suggerendo in tal modo anche che per lui lo spirito democratico fosse in essa l’aspetto più fondamentale e in pratica richiedesse – più che schemi e modelli teorici già prefissati a priori – un’ampia capacità di analisi, di dialogo, di ascolto dell’intera popolazione implicata e di discussione politica nel momento stesso, di fronte cioè alle varie circostanze sociali, economiche e culturali correnti.
Ad ogni modo, né il fatto che l’“edonismo reaganiano” fosse stato praticamente previsto una quarantina d’anni prima da Kalecki né le esperienze concretamente vissute negli ultimi decenni sotto l’egida neoliberista sono serviti sino ad ora a far uscire le classi popolari dal loro scarso interesse per le dinamiche interne dell’economia e della sfera politico-istituzionale, atteggiamento che fa sì che in questi due campi cruciali della moderna vita sociale tali classi continuino di fatto a rimanere dipendenti dal mondo imprenditoriale e dal ceto politico-intellettuale (che in grandissima parte ha perso allo stato attuale ogni legame con i lavoratori capace effettivamente di autenticità e soprattutto di efficacia). In pratica, si tratta di una dipendenza che ha avuto e continua ad avere nel complesso effetti gravissimi sulla qualità generale della vita popolare.
3. Ulteriori dinamiche culturali
Nel mondo di oggi, un aspetto socio-culturale di grande rilevanza è il fatto che nei paesi “sviluppati” – con la scusa dell’importare dal Terzo mondo prodotti che vengono commercializzati per tutti a prezzi alquanto più bassi di quanto avverrebbe se li si producesse localmente (dai computer agli smartphone, dagli elettrodomestici agli indumenti, dalle automobili a vari macchinari industriali, dalle scarpe di tipo sportivo ai giocattoli, ecc., per non parlare dei prodotti agricoli tropicali come ad esempio caffè, cacao e banane, generalmente coltivati per i colossi del commercio mondiale da lavoratori retribuiti molto poco e praticamente costretti ad usare tecniche colturali molto inquinanti e dannose per i terreni) [155] – i sostenitori del neoliberismo cercano di far digerire e gradire ai lavoratori di tali paesi la maniera quanto mai elitaria e antiecologica in cui è stata gestita la globalizzazione in questi 35 anni. Ma la realtà è che, in media, in questi paesi il tenore di vita delle classi popolari è nettamente peggiorato in tale periodo: in Italia, ad esempio, negli scorsi anni ’70 lo stipendio medio di un lavoratore era sufficiente a mantenere una famiglia di quattro persone, facendo studiare due figli fino all’università, arredando in modo moderno una casa, avendo un’auto, facendo solitamente almeno un paio di settimane di villeggiatura all’anno, ecc., mentre oggi occorrono tipicamente due stipendi per fare le stesse cose.... Accettando le logiche neoliberiste diffuse nel globo dai governi dei maggiori paesi “sviluppati”, i lavoratori di questi paesi hanno accettato un estremo sfruttamento internazionale dei loro colleghi del Terzo mondo, con l’effetto indiretto di un drammatico indebolimento anche della propria posizione nell’ambito della società [156].
Oltre tutto, è un complesso di situazioni che tende con forza – per lo meno nel breve e medio termine – a trasformarsi in un circolo vizioso autoperpetuantesi. A spingere a ciò vi sono in primo luogo le attuali dinamiche economiche e politico-culturali di fondo, che allontanano sempre più le élite dalle classi popolari – sia per le risorse e il reddito disponibili (caratterizzati da diseguaglianze sempre più enormi), sia per le attività svolte quotidianamente e per le conoscenze impiegate in tali attività, sia per i luoghi di residenza e di frequentazione – e che tendono anche a indurre sottilmente innumerevoli divisioni in tali classi per facilitarne lo sfruttamento (divisioni facilitate dalla reciproca concorrenza in un “mercato del lavoro” oggi dominato dalla precarietà e basate su aspetti come la professionalità, lo status sociale, il continente di residenza e spesso anche su ulteriori fattori specifici tra i quali i più frequentemente implicati appaiono essere la nazionalità, la religione, il sesso di appartenenza, il livello di istruzione, le tradizioni della propria cultura e le proprie origini etniche), mentre gli esponenti delle élite privilegiate danno comunemente scarsissimo peso nelle interrelazioni tra di loro a tutte queste “bandiere identitarie”, riservate in pratica al “popolino ignorante e dominato dalla visceralità o dall’emotività”: per loro esiste in sostanza un’unica – e tra loro condivisa – “bandiera identitaria”, e cioè far parte delle élite stesse.... Ma spingono a quel circolo vizioso anche specifici cambiamenti che sono in atto nel mondo scolastico. Non a caso, negli ultimi decenni prima della svolta neoliberista degli scorsi anni ’80 molte persone che giungevano agli studi universitari avevano come obiettivo sia il conquistare un maggiore benessere personale sia il contribuire al bene comune e in particolar modo al benessere popolare, mentre dopo la svolta – sotto le continue pressioni economiche e culturali del neoliberismo – si tende molto di più a studiare quasi soltanto a beneficio proprio e dei propri futuri interlocutori economico-produttivi....
Oggi generalmente l’istruzione stessa viene impostata dall’alto nella direzione di specializzazioni sempre più esasperate, indirizzate a produrre degli esperti di qualche campo particolare che sanno molto poco di quasi tutto il resto e che in tal modo sono “programmati” per essere – nel loro lavoro – anche degli strumenti utilizzabili di fatto dal potere politico-economico nei suoi vari aspetti oppure degli osservatóri versati negli àmbiti teorici ma non in quelli pratici. E a ciò si affianca la maniera estremamente superficiale e spessissimo manipolativa in cui i maggiori mass-media affrontano sistematicamente i nodi cruciali della vita sociale, in sintonia con gli obiettivi correnti delle élite economiche che li possiedono o di quelle politiche che – quando si tratta di media pubblici – generalmente li gestiscono (e tra questi obiettivi uno dei più importanti è il mantenere estremamente disinformata sul “dietro le quinte” di tali nodi la “popolazione comune”, così che questa percepisca solo una “superficie di facciata” – magari anche quanto mai inesatta e fittizia – sia degli eventi in corso sia della storia dell’umanità...) [157]. Si cerca così, in sintesi, di mantenere al di fuori delle prospettive della stragrande maggioranza della popolazione umana il saper pensare (sentire, riflettere, approfondire, progettare, ecc.) a 360 gradi in maniera critica, creativa, innovativa e tendenzialmente fattibile, tanto più all’interno di una società tecnicamente e strutturalmente complessa – e quindi basata di fatto su una grande quantità e varietà di informazioni – come quella attuale.
In precedenza, invece, c’era una certa considerazione per il senso della vastità della cultura e per il riconoscimento dell’arricchimento reciproco e dell’armonia potenziale che potevano collegare tra di loro le discipline maggiormente scientifiche e le discipline maggiormente umanistiche (come avevano colto con particolare forza prima i principali esponenti di correnti culturali come il Rinascimento e l’Illuminismo e poi i movimenti alternativi caratterizzati dalla capacità di non cadere in dogmatismi e di mantenere una concezione aperta e libertaria della cultura, oltre naturalmente ai singoli intellettuali più capaci di una “visione integrata” della cultura e della vita anche sull’onda degli stimoli forniti da quelle correnti e da quei movimenti).
Prima della controcultura giovanile affermatasi soprattutto nella seconda metà degli scorsi anni ’60 e nei seguenti anni ’70, nelle università predominavano comunque atteggiamenti egocentrici e ispirati eminentemente ad una “scalata sociale” personale. Scriveva ad esempio a questo proposito Aldo Capitini nell’articolo Impegno dell’Università, nel numero di gennaio 1966 del mensile Il potere è di tutti: «Nel mondo universitario [...] l’individualismo è molto spinto, e gli uni e gli altri, gli studenti e i docenti, considerano il trovarsi all’Università come mezzo per avvantaggiarsi in quanto individui. [...] Mi sembra che gli universitari, studenti e docenti, non abbiano la consapevolezza del proprio impegno verso la società, come fatto da tenere in primo piano», e in tal modo – per quanto riguarda sia il presente (dei docenti) che il futuro (degli studenti) – viene trascurato il fatto che la propria professione non è soltanto una «espressione di sé» e una «fonte di guadagno», ma anche «un modo di essere in rapporto con la società di tutti, [...] un impegno concreto verso tutti, [...] un modo di esprimere la riconoscenza per ciò che si riceve da tutti».... La controcultura di quegli anni diede un considerevole respiro a consapevolezze e sensibilità come queste suggerite da Capitini, ma il crescente ritorno dell’impostazione liberista nella società ha rispostato verso l’individualismo l’ago della bussola nella mentalità universitaria. Parallelamente, dopo un periodo piuttosto breve in cui lo spirito critico e la creatività tematica caratteristici del ’68 erano riusciti a conquistarsi uno spazio notevolmente ampio nel mondo mediatico, le tendenze predominanti di quest’ultimo sono tornate verso la superficialità, la spettacolarizzazione e l’ipocrisia, di modo che da molti punti di vista è cambiato decisamente poco rispetto a quanto denunciava Guy Debord nel 1967 nel libro La società dello spettacolo [158]....
Per chi non fa parte delle élite privilegiate, il problema più grosso è che stanno chiaramente funzionando i tentativi delle élite stesse – o per lo meno della loro ampia parte che sostiene il neoliberismo – di emarginare socialmente tutti gli altri, di mantenerli appunto sostanzialmente disinformati (o addirittura mal informati) sulle principali dinamiche della società e di manipolarli psicologicamente per molti versi.... In un mondo che evidentemente – come si osservava nell’appendice inserita nella terza parte di Il neoliberismo non è una teoria economica [159] – «non appare avere particolari riguardi per noi, esponendoci a vari tipi di disastri naturali, a pericolosi predatori e parassiti, a malattie potenzialmente devastanti, e via dicendo, per non parlare dei rischi provenienti dal comportamento di altri esseri umani [...], tanto più durante la nostra prima e seconda infanzia quando ci è particolarmente difficile autotutelarci da alcunché», un mondo in cui per di più «non appare esservi alcuna sintonia di fondo che accompagni il nostro venire al mondo», così che «una parte molto ampia delle potenzialità creative presenti in ciascun essere umano» finisce frequentemente col rimanere «del tutto inespressa (e addirittura in molti casi resta letteralmente nascosta, pienamente ignorata, sostanzialmente ignota, persino agli occhi del soggetto stesso...)» e che parallelamente prende forma la tendenza a «un enorme spreco di risorse umane» e a «un grandissimo accumulo di sofferenze esistenziali», ne consegue una sorta di sommatoria tra questa spesso aspra “ruvidezza originaria della natura” (a volte talmente ruvida da rischiare il senso dell’assurdo, come hanno messo in rilievo specialmente diversi filosofi esistenzialisti durante gli ultimi secoli) e l’estremo impoverimento culturale che il neoliberismo sta cercando di sovraimporre sia alle potenzialità interiori e concrete dei miliardi di persone che appunto non fanno parte delle élite (come è evidente dai fortissimi squilibri sociali prodotti dal neoliberismo e dai vari ulteriori effetti che ne derivano), sia alle potenzialità interiori dei pochi che delle élite fanno parte (come è evidente dal cinismo, dall’insensibilità umana e dalla distruttività ambientale associati ovunque al neoliberismo). E il risultato di questa sommatoria è devastante, come mostrano sia l’attuale proliferazione mondiale di fame (nonostante risorse esistenti e accessibili che sarebbero più che sufficienti per tutti), di malattie prevenibili e curabili, di disastrosi squilibri ambientali e climatici indotti dall’umanità stessa e di guerre, sia il tremendo senso di impotenza che la stragrande maggioranza della popolazione umana sente di fronte a queste problematiche a dispetto del fatto che – come è stato messo ampiamente in evidenza nel globo da una serie di scienziati, economisti, attivisti, psicoanalisti, filosofi e giuristi impegnati per il “bene comune” – esse siano ampiamente risolvibili [160].
Intermezzo 2: Appunti aggiuntivi sulle problematiche storiche “vissute” dal pensiero di Keynes e da quello di Syroežin
Nel presente intervento si è già accennato alle prospettive economiche particolarmente interessanti, stimolanti e feconde che sono state suggerite, oltre che da Keynes in Occidente nella prima metà del ’900, da Ivan Mikhajlovic Syroežin in Urss nella seconda metà: prospettive che – in entrambi i casi – in parte più o meno ampia sono rimaste purtroppo nella sfera delle potenzialità inattuate [161].
Benché come economisti abbiano ambedue lasciato un’enorme eredità potenziale dopo la loro scomparsa (una scomparsa decisamente prematura per entrambi, tra l’altro), sia Keynes che Syroežin appaiono esser stati iper-ottimisti – o un po’ sognatori – nella loro “visione politica complessiva”. Keynes tendeva appunto a pensare che la borghesia potesse diventare abbastanza facilmente colta, aperta, sensibile e filosofa come era lui (che proveniva dalla classe borghese e che in pratica ha continuato ad esserne un esponente), mentre invece ciò proprio non è successo sino ad ora, anzi.... Syroežin tendeva a ragionare come se in Urss ci fosse la “proprietà sociale di produzione” di cui parlava Marx, ma di fatto le cose non stavano per niente così e c’era invece una “proprietà statale di produzione”, influenzata per di più da una gestione dello Stato profondamente burocratica e gerarchica nella quale non predominavano intellettuali acuti e multidimensionali come lui, ma tutt’altro....
Come si è appena visto, a mettere inizialmente in dubbio quell’iper-ottimismo di Keynes ci pensò rapidamente – già nel 1943 – l’economista polacco Michal Kalecki, allora “in trasferta a Londra” e straordinariamente “profetico” nel prevedere cosa sarebbe successo nella società per effetto di diffuse politiche di tipo keynesiano. In seguito, nella vita concreta, la smagliante e creativa positività dell’economista britannico fu smentita prima dall’elitario e guerrafondaio dirigismo dell’Occidente durante il boom economico postbellico e poi soprattutto dal trionfo che l’“edonismo reaganiano” – come reazione al ’68 – riuscì ad avere progressivamente nell’orientamento politico-culturale borghese: un trionfo che avviò nel mondo, da parte della borghesia, una vera e propria liquidazione delle politiche keynesiane, divenuta ormai sempre più generalizzata allo stato attuale. Non si può evitare la nettissima sensazione che i neoliberisti vorrebbero far letteralmente dimenticare all’intera popolazione umana non solo ovviamente il pensiero socialista di tipo umanistico e libertario (che oltre a mettere in discussione la società e il pensiero borghesi si pone come immediato superamento filosofico-culturale dell’uno e in prospettiva come trampolino per il superamento concreto dell’altra), ma anche – e per certi versi soprattutto – l’esistenza concreta che hanno avuto durante l’ultimo centinaio d’anni le politiche di tipo keynesiano....
Ai sostenitori del neoliberismo appare invece fare molto comodo che rimanga nel mondo un solido ricordo – o una diffusa consapevolezza – del “pensiero socialista di tipo autoritario” che da Stalin in poi ha dominato e continua a dominare in tutte le nazioni del cosiddetto “socialismo reale” (e che in realtà non appare minimamente degno di essere chiamato socialista, in quanto prima appunto di Stalin non esisteva storicamente alcuna significativa compatibilità tra il termine “socialismo” e un concetto come l’autoritarismo; in altre parole, è una compatibilità che è stata sostanzialmente un’invenzione dello stesso Stalin, il quale ha prodotto così una tragica e quanto mai fuorviante frattura nei confronti praticamente di tutto il pensiero socialista precedente...). In tal modo, il ricordo – o la consapevolezza – dell’autoritarismo caratteristico della tendenza politica nata un secolo fa con Stalin e il contemporaneo oblio in cui si cerca di far cadere il socialismo umanistico e libertario spingono le persone a identificare appunto il pensiero socialista con caratteristiche come l’autoritarismo e il verticismo e a pensare parallelamente che in pratica non ci possa essere una decente alternativa al capitalismo (in quanto un socialismo calato rigidamente dall’alto e strutturalmente autoritario è in fondo qualcosa di spiacevole che tende facilmente ad essere ancora peggiore del capitalismo), mentre l’oblio in cui si cerca di far cadere le politiche keynesiane spinge a sua volta le persone a pensare che nel capitalismo non ci possa essere alcuna effettiva alternativa al liberismo.... Alla fin fine, visto che nella mentalità corrente è purtroppo molto diffuso il fatto che la connessione col pensiero socialista umanistico e libertario e persino il ricordo di quest’ultimo tendano ad essere subissati, ricoperti e sostanzialmente schiacciati dall’esperienza dell’autoritario “socialismo reale”, per i neoliberisti non c’è quasi neanche più bisogno di criticare quel pensiero, mentre sono invece le politiche keynesiane ad essere divenute il principale avversario da cercare di distruggere.... E, nel caso in cui non funzioni a sufficienza il tentativo di far finire nell’oblio i princìpi keynesiani, è già bell’e pronto l’insistente ricorso mediatico a un dispregio che – a dispetto dei tanti risultati positivi ottenuti in molte parti del mondo da tali princìpi – equipara aprioristicamente (e falsamente) l’intervento economico pubblico ad una mera occasione di corruzione, di inefficienza e di galoppante incompetenza e quindi pretende di poterlo liquidare pubblicamente, senza bisogno di ulteriori discussioni, come forma di malgoverno e di ingannevole propaganda burocratica [162]: una bufala politica cui naturalmente i maggiori mass-media sono prontissimi a fare da megafono e da “cassa di risonanza”....
A smentire a sua volta l’iper-ottimismo di Syroežin ci hanno pensato gli oligarchi dell’Urss, pronti addirittura a distruggere l’Urss stessa pur di evitare il tentativo gorbacioviano di democratizzarla (tentativo, peraltro, condotto in modi anch’essi quanto mai iper-ottimisti, drammaticamente sognatori e – per molti versi – incapaci di vedere in profondità dietro la superficie delle cose, risultando così quanto mai ingenui e carichi di illusioni...). È estremamente probabile che Syroežin abbia fatto finta di non accorgersi della sconfortante realtà oligarchica e pesantemente burocratica dell’organizzazione economica dell’Urss da Stalin in poi, perché voleva comunque riuscire a portare avanti il suo bel lavoro, per lo meno su un piano teorico se non gli era possibile passare ampiamente anche alla sfera pratica. Analogamente, è probabile che Keynes – pur notando ovviamente i limiti mostrati comunemente dalla parte predominante della borghesia occidentale nelle proprie scelte politico-economiche – abbia voluto continuare a sperare nella possibilità di una positiva evoluzione di tali scelte (grazie anche all’opera dello stesso Keynes) e, parallelamente, in un prossimo futuro che per tutti potesse essere più bello di quanto era stata la prima metà del ’900.
L’affermarsi del neoliberismo come “risposta” delle classi privilegiate, e in particolar modo di quella imprenditoriale, al ’68 e in una certa misura anche al potente ruolo economico che politici e “burocrati pubblici” si erano costruiti durante i decenni del boom economico grazie all’ampio spazio d’iniziativa affidato in molti campi alla pubblica amministrazione (P.A.) dalle politiche keynesiane (un ruolo che ha infastidito non pochi imprenditori, desiderosi di riaffermare nella società lo scettro economico che detenevano prima di Keynes e/o di difendersi da fenomeni come clientelismo, burocratizzazione, malgoverno, ecc., che non di rado hanno finito con l’accompagnare significativamente la concreta attuazione di quelle politiche e quindi anche con l’influenzarla) rappresenta un argomento che è stato discusso e approfondito ormai abbastanza ampiamente. Invece, l’affermarsi del dirigismo statalista proposto come radicale alternativa al capitalismo privatistico basato sul mercato – un’alternativa però altrettanto elitaria e gerarchica, anche se su basi prevalentemente politiche anziché economiche (ma questo cambiamento di basi non impedisce che ci si possa e debba chiedere fino a che punto sia corretto il termine “alternativa”, visto il permanere dell’orientamento elitario e gerarchico...) [163] – costituisce una sorta di peculiarità storica su cui i commentatori si sono spesso espressi in modo superficiale e schematico perché schierati ideologicamente o a favore di quello statalismo (e delle varie figure storiche che lo hanno incarnato con pienezza, a partire da Stalin, Mao e Fidel Castro) o contro di esso. Vale dunque la pena di lanciare uno sguardo più profondo a certe sfaccettature, non molto discusse, sia della radice storica di questo tipo di esperienze – spesso riassunte appunto con l’espressione “socialismo reale” (o “socialismo realizzato”) – sia dei significati concreti che tali esperienze hanno assunto e delle implicazioni che ne conseguono [164].
In pratica, lo statalismo è uno dei possibili aspetti di fondo che sono emersi storicamente già millenni fa in varie società precapitalistiche, orientate specialmente in senso assolutistico o addirittura imperiale: in queste si tendeva ad identificare il monarca della regione come il rappresentante simbolico dell’intera società locale e, parallelamente, come il detentore di un controllo e di un potere globali su tutto quanto esistesse nel territorio, incluse le risorse naturali e anche le attività produttive stesse, affidate sì in pratica alle comunità locali o a singoli individui aventi qualche particolare capacità tecnica, ma viste in sostanza come possedimenti dello Stato e del monarca in quanto incarnazione di quest’ultimo [165]. Persino gli esseri umani erano non di rado considerati in questo tipo di società come una sostanziale “proprietà” del monarca, che poteva farne ciò che voleva in tali casi, avendo su ciascuna persona un riconosciuto – e pressoché indiscutibile – potere di vita o di morte (ciò anche se un monarca particolarmente brutale e personalista poteva generalmente aspettarsi qualche forma di diffusa ribellione o qualche tentativo di “colpo di Stato”...). E, nei primi tempi del mondo moderno influenzato da estreme “novità” come il crescente industrialismo e la classe borghese, incentrata sulle attività imprenditoriali, non a caso lo statalismo tentò di riproporsi specialmente all’interno di una situazione politico-istituzionale di tipo imperiale quale quella tedesca (come Engels sottolineò in modo profondamente critico già intorno al 1880 in testi come l’Antidühring, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza e Il socialismo del sig. Bismarck e anche in seguito in ulteriori scritti come Per la critica del progetto di programma socialdemocratico 1891, ironizzando causticamente sul «socialismo di Stato» proposto dal Cancelliere Bismarck, dalla sua corrente politica e da altre correnti da essa influenzate...) [166].
In correlazione con questa caratteristica storica, strutturalmente lo statalismo fa una grande fatica a cercare sia di mettere in moto quel tipo di spinta tecnologica ed economica che contraddistingue specificamente il capitalismo sin dalle origini di quest’ultimo (e che è evidentemente collegato all’esistenza di una molteplicità di imprese indipendenti l’una dall’altra e di un mercato in cui i prodotti delle diverse imprese possano “competere” tra di loro), sia di mantenere poi dinamicamente in moto una tale spinta nel caso in cui lo statalismo cerchi di subentrare ad un capitalismo ancora rampante e in sviluppo [167]. Non appare dunque casuale che tutte le società che nel mondo in via di sviluppo sono nate da rivoluzioni orientate a parole in senso socialista – e “marxista” – ma nei fatti in senso statalista (a dispetto ad esempio delle esplicite osservazioni di Marx sul fatto che la transizione al socialismo avrebbe dovuto essere chiaramente caratterizzata da un progressivo passaggio da «funzioni statali» a «funzioni sociali», come si sottolineava nella Critica al programma di Gotha) abbiano finito col reinserire nel proprio funzionamento corpose quantità di economia capitalistica oppure siano cadute in difficoltà economiche molto pesanti.
Questo insieme di considerazioni – e di dinamiche storiche tra passato e presente – aiuta anche a comprendere come quel passaggio da «funzioni statali» a «funzioni sociali» prospettato da Marx avesse pressoché certamente significati non solo politici (nell’evidente senso di una forte tendenza alla “democrazia dal basso” e al parallelo cautelarsi dalla possibilità di una involuzione autoritaria, rigida e riduttiva di tale “società di transizione” a seguito di un eccessivo potere concentrato nei vertici statali), ma anche economici. Ciò in quanto la creatività produttiva e tecnico-scientifica apportata tipicamente al capitalismo da delle innovative e spesso perseveranti iniziative di singoli o di piccoli gruppi di persone avrebbe faticato enormemente – in una futura società di transizione al socialismo – a venire sostituita efficacemente da una presunta creatività statale, mentre alquanto più facilmente avrebbero potuto riuscirci delle iniziative fondate appunto su “funzioni sociali”, molto più collegate alle comunità locali (con i tipici spazi da esse offerti anche a forme di lavoro sostanzialmente autonomo come le piccole aziende artigiane o contadine) e a realtà economiche di piccole dimensioni come possono esserlo ad esempio le cooperative (che dal punto di vista strutturale sono anche particolarmente aperte a delle possibili forme di spiccata creatività) [168]. Con la proliferazione di tecnologie particolarmente complesse che è iniziata nel ’900 (e che per ora non appare affatto prossima ad arrestarsi), è divenuto sempre più evidente che, nell’eventualità di una tale transizione, alle “funzioni sociali” in questione dovrebbe essere strettamente associata anche una molteplicità di centri autonomi di ricerca scientifico-tecnologica e sanitario-ambientale ai quali le principali istituzioni pubbliche e comunitarie dovrebbero evidentemente affidare dei compiti fondamentali per l’intera società, in relazione anche a quanto è stato già messo in evidenza – nella terza parte del presente intervento – nel paragrafo “Un approfondimento prospettico: ambiente, economia, ‘socialismo reale’ e forme di democrazia, anche alla luce di un attuale contesto scientifico-filosofico complessivo di ‘armonia possibile’ e di deciso rifiuto di questa da parte delle élite dominanti”. In ciò si dovrebbe tener conto che proprio la molteplicità di tali centri e la loro rispettiva autonomia dovrebbero essere dei sostanziali fattori-chiave per poter evitare tendenzialmente in tale ricerca l’assestarsi e il persistere di lacune concettuali, rigidità, ideologizzazioni, infondati preconcetti, personalismi, ecc..
Tra l’altro, la profonda accentuazione posta da Marx ed Engels, a proposito della società di transizione, sulla “democrazia dal basso” e su quella che potrebbe essere chiamata la “creatività produttiva dal basso” fa comprendere meglio anche il fatto che nel “socialismo scientifico” ottocentesco non ci fossero né una fissazione psicologica per la “conquista del potere” né una sorta di urgenza passionale ed emotiva prima per la prefigurazione di tale conquista e poi – nel caso di un successo in quest’ultima – per una sorta di sacralizzazione del potere, in quanto il fulcro della trasformazione della società per Marx ed Engels non era affatto la “conquista del potere” (e tanto meno poi l’insistito e assolutizzato mantenimento di questo potere da parte di una dirigenza specifica), ma qualcosa di molto più complesso, variegato e sfaccettato come la capacità collettiva di indirizzare efficacemente la società in una direzione sia liberatoria ed evolutiva dal punto di vista sociale e culturale, sia creativa e sostenibile dal punto di vista produttivo: capacità in cui è inclusa anche la prospettiva – da trasformare poi in un percorso concreto – di una progressiva distribuzione del potere tra l’intera popolazione, fino al punto di dissolvere sostanzialmente il concetto stesso di “potere politico” (un percorso collegato anche alla progressiva “estinzione dello Stato”, alla quale Engels ha fatto cenno – con l’esplicita e piena approvazione di Marx – specialmente nei già ricordati Antidühring e L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza) [169]. Molto probabilmente, a proposito di gran parte della cosiddetta “sinistra rivoluzionaria” novecentesca Marx parlerebbe di “feticismo della rivoluzione” o di “rivoluzione come feticcio”, con tutti i controproducenti effetti collaterali messi in moto da un meccanismo psicologico come quello del feticismo e del trasformare in feticcio una prospettiva o un evento [170]....
Addentrandosi maggiormente nei particolari, sono state tentate e sperimentate diverse strade economiche nella storia del “socialismo reale”. In Russia, a reinserire dopo la rivoluzione corpose quantità di economia capitalistica ci provò dapprima Lenin con la Nep già nel 1921, dando tra l’altro motivatamente ascolto alle richieste economiche di molte voci provenienti – più che dall’interno del partito bolscevico – direttamente dalle classi popolari. Dopo però che l’anno successivo lo stesso Lenin fu colpito da una grave malattia (con sintomi soprattutto cerebrovascolari) che lo portò poi alla morte in un paio d’anni, i politici ed economisti russi non riuscirono proprio a “far funzionare” in maniera fluida la Nep e questa fu smantellata negli anni ’30 dal ritorno staliniano ad un rigido e aspro statalismo, simile a quello che era stato instaurato dal governo bolscevico durante la guerra civile nel triennio 1918-20. Negli anni ’80, sotto le pressioni derivanti dall’evidente ritardo che l’economia russa stava accumulando nei confronti dell’Occidente, ci riprovò Gorbaciov ma lo fece molto malamente, col risultato che il capitalismo – in una sua forma estremamente approfittatrice, cinica e affarista – si mangiò letteralmente lo statalismo che aveva dominato per più di mezzo secolo in Urss e per quasi mezzo secolo negli altri paesi del “Patto di Varsavia” [171]. In Cina dopo la scomparsa di Mao – la cui impostazione politico-economica intensamente anticapitalistica non era riuscita a dare risposte efficaci alla grave e storica “povertà di massa” della Cina [172] – sono stati aperti progressivamente degli enormi spazi al capitalismo occidentale (in particolare alle multinazionali) e in una certa misura anche a delle forme capitalistiche locali, pur preservando politicamente il “solito” monopartitismo estremamente gerarchico, alquanto repressivo, pesantemente sessista, rigidamente strutturato, ecc.. Anche qualche altro paese, come in particolar modo il Vietnam, ha poi intrapreso una strada simile a quella della Cina post-maoista [173]. A Cuba c’è una situazione che può assomigliare per molti aspetti (anche politici) alla Nep leniniana, e in effetti ci sono anche persistenti problemi economici e politici simili a quelli che la Nep e il contemporaneo potere bolscevico ebbero appunto in Russia un secolo fa. In Corea del Nord – per il poco che se ne sa – è rimasta stabilmente una situazione politica molto simile allo stalinismo “ortodosso”, accompagnata economicamente da un tenore di vita delle masse molto basso (con ripetute e diffuse crisi addirittura di fame e sottonutrizione) [174].
Ora, il fatto che Syroežin abbia compiuto interessantissime elaborazioni sulla pianificazione economica e che, però, in nessuno dei paesi che nel ’900 hanno compiuto rivoluzioni di ispirazione socialista (alcuni dei quali hanno ancora governi che asseriscono di avere quell’ispirazione) si sia cercato seriamente di porre in atto le complesse e dinamiche prospettive sviluppate da Syroežin appare collegabile a una fortissima contraddizione presente nella situazione socio-politica di quei paesi. Da un lato, il loro potere politico ha asserito invariabilmente di operare appunto per il socialismo e generalmente anche di portare avanti il pensiero “marxista”, di modo che quel potere stesso non ha potuto che lasciare consistenti spazi sia alla diffusione della letteratura collegata all’idea del socialismo – e a Marx in particolare – sia ai teorici correnti del socialismo (incluso tra essi Syroežin nell’Urss della seconda metà del ’900). Questi ultimi hanno avuto così l’effettiva possibilità di dedicarsi allo sviluppo di diversi aspetti di tale idea, per lo meno finché hanno evitato di mettere intensamente in discussione il monopartitismo posto in atto inizialmente dai bolscevichi e poi “sacralizzato” nel sistema politico imposto da Stalin e ripetutosi sostanzialmente anche dopo le rivoluzioni cinese, vietnamita, cubana, cambogiana, ecc.: un sistema basato su una ristretta e ferrea oligarchia (sostanzialmente di partito), con aspetti solitamente dittatoriali. Dall’altro lato, in realtà questo sistema non ha pressoché nulla in comune col socialismo di Marx e di quasi tutta la sua generazione, non essendo affatto democratico e liberante, né tendenzialmente egualitario (e ciò non solo in linea generale ma anche più in particolare nel rapporto tra i sessi), né culturalmente antidogmatico, né indirizzato verso le “funzioni sociali”, né impostato stabilmente sulla “proprietà sociale dei mezzi di produzione”, e così via: anzi, l’orientamento concreto di questi paesi va in direzioni che nel complesso risultano pressoché contrarie a quelle sostenute da Marx.... In tal modo, il discorso sviluppato da Syroežin era – ed è – applicabile solo in teoria ai paesi in questione: in pratica, avrebbe richiesto una società estremamente diversa e anche una mentalità politica estremamente diversa, cioè una società e una mentalità molto più simili a quanto prospettato da Marx ed Engels (così come da tanti altri socialisti ottocenteschi che avevano sostanzialmente accolto l’approccio politico-culturale marx-engelsiano o che comunque condividevano le sue principali prospettive) nelle loro considerazioni sulla “transizione al socialismo” e sulle potenzialità del socialismo stesso.
A quanto pare, sia il pensiero di Keynes che quello di Syroežin hanno sbattuto alla fin fine contro la realtà del classismo e contro la “lotta di classe” che nella vita concreta è associata a tale realtà [175]. In altre parole, una gran parte dei gruppi sociali privilegiati esistenti da un lato in Occidente e dall’altro in quei regimi non ha accettato le proposte che rispettivamente Keynes e Syroežin hanno sapientemente indirizzato al “bene comune” – o benessere collettivo – e si è impegnata intensamente per prendere tutt’altre strade da essa ritenute più vantaggiose per i propri specifici interessi materiali, riuscendo sostanzialmente in questo (ovviamente ad ampio danno del “bene comune”...) grazie evidentemente alla propria posizione privilegiata. Nel caso di Keynes – per maggiore precisione – in un primo tempo le sue proposte sono state accettate in maniera alquanto parziale e solo in un secondo tempo sono state messe sempre più in disparte. Nell’Occidente capitalistico l’esistenza di questo tipico classismo delle élite economiche e politiche lo si può trovare “spiegato”, sin dal tardo ’700, da mille autori operanti in vari campi (dall’economia alla psicologia, dalla sociologia alla storia, dalla politica alla filosofia, ecc.): autori che in tal modo hanno anche reso addirittura prevedibile in linea di massima la prosecuzione che tale classismo ha avuto – e continua ad avere – nel corso del tempo. Diversamente, il classismo sviluppatosi nell’ambito di quei regimi, e più specificamente proprio nella personalità di numerosi di coloro che erano stati tra i più impegnati “rivoluzionari socialisti” (i quali per definizione potevano essere considerati invece, per lo meno in teoria, degli acerrimi avversari del classismo...), lo si è potuto trovare “spiegato in anticipo” – e persino previsto – soltanto in pratica nel femminismo e nel “socialismo scientifico” marx-engelsiano.
In un certo senso, per il femminismo era una questione più “semplice”, in quanto la diretta esperienza delle donne suggerisce loro con una certa facilità e chiarezza che gli uomini che non vogliono condividere ampiamente il loro potere con le donne non possono essere dei veri “rivoluzionari avversari del classismo” (così che, quando i vari “socialismi realizzati” novecenteschi mostrarono il loro fortissimo maschilismo escludendo radicalmente dalle “stanze dei bottoni” della propria politica le donne, non fu certo difficile per le femministe percepire al volo lo spirito classista di quei regimi – in corso di formazione o ormai stabilizzati – che si riempivano la bocca con parole roboanti come “socialismo”, “comunismo”, “democrazia popolare”, ecc. ma lo facevano, di fatto, in modi sempre più vuoti e tronfi...). Già nel momento in cui un concetto moderno di democrazia cominciò ad emergere diffusamente in Europa e in America dopo secoli di feudalesimo e di quasi indiscusso predominio aristocratico (cioè con la rivoluzione francese di fine ’700 e con il suo ampio riecheggiare in entrambi i continenti), cominciò ad emergere tra le donne la consapevolezza che – necessariamente – una vera democrazia non poteva che includere sia la metà maschile del mondo che quella femminile (che invece molti uomini tendevano ipocritamente e sciovinisticamente a lasciare da parte e ad ignorare socialmente, gelosi dei propri privilegi sessisti tipicamente associati alle società patriarcali...). A questo proposito, si vedano ad esempio la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, scritta da Olympe de Gouges e diffusa a Parigi nel 1791 nel contesto della rivoluzione francese, e Una rivendicazione dei diritti della donna, di Mary Wollstonecraft, pubblicata a Londra subito dopo, nel 1792 [176]. Socialisti ottocenteschi come Fourier (e come appunto Marx ed Engels, che seguirono Fourier in questo), sottolineando in sostanza che la qualità e l’equità eventualmente presenti – o assenti, o sussistenti in modo lacunoso e incerto – nel rapporto tra uomini e donne costituiscono la misura più significativa del grado di civiltà di una popolazione, si permisero acutamente ed empaticamente di impiegare anch’essi quella saggezza femminile nel valutare una cultura, una corrente politica, un governo, ecc. (e di suggerire caldamente ai posteri di impiegare anche loro tale saggezza nel valutare culture, correnti politiche, governi, ecc.) [177].
Colpiscono, peraltro, l’insistenza, l’aggressività e non di rado la violenza che un’ampia parte del mondo maschile ha continuato a mettere in quella difesa dei propri privilegi (giuridici e/o culturali).... Parallelamente, quanta fatica le donne abbiano fatto in questi secoli – e stiano ancora facendo – per cercare di dissolvere quei privilegi che pretendono di fatto una posizione sociale femminile stabilmente subalterna lo si può ricavare, oltre che da una semplice osservazione degli eventi correnti e dai ricordi di molte donne, da scritti come ad esempio Il secondo sesso, di Simone de Beauvoir (Il Saggiatore, 1961; ediz. originale in francese 1949), Famiglia e repressione sessuale, di Laurel Limpus (in La rivoluzione più lunga - Saggi sulla condizione della donna nelle società a capitalismo avanzato, a cura di Mariella Gramaglia, Savelli, 1972; articolo originale in inglese 1968), La politica del sesso, di Kate Millett (Rizzoli, 1971), L’infamia originaria - Facciamola finita col Cuore e la Politica, di Lea Melandri (L’Erba Voglio, 1977), e, più recentemente, Il piacere è sacro, di Riane Eisler (Frassinelli, 1996; Forum, 2012; titolo originale Sacred Pleasure), Un pensiero al giorno (per donne che amano troppo), di Robin Norwood (Feltrinelli, 1998), Quintessenza - Realizzare il Futuro Arcaico, di Mary Daly (Venexia, 2005; ediz. originale in inglese 1998), La donna intera, di Germaine Greer (Mondadori, 2000), Nel potere della Sapienza - Spiritualità femministe di lotta, volume monografico a cura di María Pilar Aquino e Elisabeth Schüssler Fiorenza (Concilium, dicembre 2000), Basta! - Musulmani contro l’estremismo islamico, a cura di Valentina Colombo (Mondadori, 2007), e La scomparsa delle donne, di Marina Terragni (Mondadori, 2007) [178]. Anche le lotte internazionali in corso da tempo contro il traffico di esseri umani – soprattutto donne – a scopo di sfruttamento sessuale, contro le mutilazioni genitali femminili (specialmente in Africa), contro il fenomeno delle “spose bambine” (specialmente in Asia) e più in generale contro i maltrattamenti inflitti da uomini a donne (e non di rado culminanti in quelli che oggi vengono chiamati “femminicidi”) attestano le grandissime sofferenze a cui molte donne sono costrette in numerose culture.
Va notato che alla loro epoca Marx ed Engels ampliarono ulteriormente la questione, in effetti, perché presentarono un’aperta e dinamica “visione d’insieme” che, poggiando sulle correnti di pensiero dialettiche del passato e sulla già abbondante ricchezza di contenuti di tali correnti (si pensi soprattutto alla Grecia più o meno antica di Eraclito, Diotima, Socrate, Euripide, Epicuro, ecc. e ad una serie di filosofi, scienziati e artisti di epoche più recenti, come soprattutto il Rinascimento e l’Illuminismo) [179], aggiunse a questa ricchezza una profondità di sguardo sulla società contemporanea e sulle sue tematiche che era – ovviamente – impossibile per quelle correnti del passato, le quali non potevano certo conoscere le dinamiche e le problematiche delle moderne società tecnologiche, industrializzate e scientificamente sempre più evolute. In particolare, mentre erano atteggiamenti come il volontarismo o la genericità a predominare tipicamente nelle linee di pensiero socialiste precedenti a Marx ed Engels (i quali le criticavano indicativamente in quanto utopistiche o in quanto fortemente influenzate in un modo o nell’altro da qualcuna delle classi privilegiate dell’epoca), la complessa “visione d’insieme” marx-engelsiana sostituì a queste caratteristiche predominanti uno sguardo dialettico e a 360 gradi sui vari aspetti della società e della cultura umane, tra i quali in special modo proprio i rapporti intercorrenti tra le principali componenti sociali – classi, ceti, ecc. – identificabili in una comunità locale, tenendo accuratamente conto in ciò di diversi fattori: le condizioni di vita caratteristiche di ciascuna di tali componenti; le tendenze culturali e le prospettive riscontrabili in ciascuna di esse; gli obiettivi concreti tendenzialmente evolvibili da parte di ciascuna di esse; i rapporti di tale comunità con le varie componenti sociali presenti in altre parti del mondo; le possibili modalità di evoluzione di questi rapporti a seconda di eventuali cambiamenti storici futuri nella comunità stessa o nel resto del mondo. Ed è degno di nota che, tra le osservazioni e previsioni storiche elaborate da Marx ed Engels anche sulla base dello studio di questi rapporti sociali, una delle più essenziali – e delle più ripetute nel tempo – è stato il fatto che dopo una rivoluzione, anche se attuata da movimenti e forze che sostenevano di operare per tutti i cittadini, poteva benissimo presentarsi di nuovo un assestamento sociale di tipo classista (magari diverso da prima) in cui un gruppo di “vincitori” finiva col costituirsi come nuovo gruppo dominante ponendosi in pratica al di sopra di tutti gli altri.
Analogamente (e correttamente), è evidente che generalmente i governanti affermatisi durante il ’900 nei paesi in cui era avvenuta una riuscita rivoluzione di ispirazione socialista si aspettavano la possibilità di un possente (ri)prodursi di contrasti e consistenti conflitti tra classi, ceti e gruppi di popolazione anche dopo una tale rivoluzione, però a quanto pare se lo aspettavano specialmente in due sole forme specifiche: quella di uno scontro interno tra spirito rivoluzionario proletario e nostalgie borghesi – incluse quelle piccolo-borghesi – e quella di un attrito internazionale tra tendenze capitalistiche e tendenze socialiste. Del resto, furono proprio quelle due forme a presentarsi concretamente subito dopo la prima di queste rivoluzioni, nella guerra civile russa degli anni 1918-20 (la quale vide l’intromettersi di governi e forze armate di altri paesi in appoggio ai controrivoluzionari russi). Conformemente, quei governanti mantennero in politica interna un atteggiamento molto prevenuto ed emarginante nei confronti delle persone che tendevano ad esprimere forme culturali caratteristiche di strati sociali diversi dalla “classe operaia” (che nella visione storica marx-engelsiana tendeva ad essere la principale forza rivoluzionaria capace di porre in termini concreti la prospettiva del socialismo) [180] e dai gruppi intellettuali che avevano esplicitamente aderito – per lo meno a parole – alla causa operaia e al “marxismo”. I governanti in questione però non compresero minimamente che – rispetto alle passate stratificazioni della società – ancor più rilevante e significativo in tale (ri)prodursi era lo stratificarsi presente della società post-rivoluzionaria: in tal modo, il nuovo perno del formarsi di contrasti e consistenti conflitti tra classi, ceti e gruppi di popolazione era costituito – molto più che dalla “vecchia” appartenenza alla classe borghese, o a quella contadina, o alla parte del ceto intellettuale non ispirata al “marxismo”, ecc. – da tutt’altro: le differenze di potere – e di influenza sulla gestione delle risorse e dell’economia – esistenti correntemente tra le “nuove” élite politiche (cioè, in pratica, soprattutto quei governanti stessi...) e i “cittadini comuni” [181]. O se lo compresero finirono col far finta di nulla e si godettero la posizione privilegiata che detenevano nella nuova stratificazione sociale....
In altre parole, quei governanti evitarono accuratamente di storicizzare la propria “nuova” posizione (sociale ed esistenziale) di amministratori pubblici, di leader politici con responsabilità statali, ecc., come se la storia si fosse fermata e loro fossero rimasti cristallizzati nella loro “vecchia” posizione – e soprattutto nella loro corrispondente mentalità – di rivoluzionari emarginati, combattuti dal “sistema” dominante e, proprio per questo, particolarmente ricchi di genuino spirito popolare, ribelle e ovviamente proletario.... Parallelamente, al livello della “nuova politica ufficiale” l’eventuale comparsa di scontri tra i governanti in questione non veniva minimamente presentata come una possibile “battaglia di potere” o come un possibile conflitto tra ambizioni personali, ma sempre come il cedimento di qualcuno di quei governanti al “vecchio” spirito borghese o piccolo-borghese che faceva parte delle caratteristiche dell’ambiente culturale in cui tutti erano cresciuti e vissuti prima della rivoluzione. Persino la vera e propria guerra che Stalin fece a quasi tutti gli altri principali esponenti storici del bolscevismo russo – mandando, di fatto, praticamente a morte ciascuno di essi in una maniera o nell’altra – venne liquidata ufficialmente dallo stesso Stalin come una lotta proletaria contro delle traditrici deformazioni borghesi (spesso appoggiate e pilotate, per di più, da qualche ricco paese capitalistico dell’Occidente...), anche se la cosa non era minimamente plausibile per chi conoscesse un po’ da vicino la storia e le vicende personali dei bolscevichi. Del resto, questa implausibilità e le enormi falsificazioni staliniane sono state poi ampiamente confermate e documentate in seguito, a partire dalla “destalinizzazione” kruscioviana. Ma il tendenziale silenzio mantenuto comunemente dai leader degli altri regimi del “socialismo reale” su quella terrificante guerra – prima politica e poi anche mortalmente concreta – condotta da Stalin nel suo stesso partito la dice lunga sia sulla vicinanza culturale tra questi leader e Stalin sia sulla passione di tutti loro per l’autoritarismo (addirittura Mao – che si trovava nella posizione di uno dei due principali leader del “socialismo reale” mondiale, mentre l’altro era ovviamente il premier in carica nell’Urss – dopo la “destalinizzazione” russa criticò molto più quest’ultima che Stalin...).
In breve, le analisi della società corrente compiute da quei governanti in carica – e compiute a parole secondo lo spirito marxiano – si sono sempre fermate in modo pressoché assoluto alla soglia degli uffici e dei palazzi che essi utilizzavano: in pratica, essi stessi erano esclusi dalle loro analisi ed erano per sempre “quelli di prima” (cioè genuini, popolari, proletari, rivoluzionari, ecc.), mentre gli eventuali loro compagni di strada che avevano deviato rispetto a loro erano semplicemente caduti nella vecchia malattia borghese, sempre pronta a ripresentarsi come potrebbe fare un vecchio tumore o una vecchia infezione....
Col tempo, peraltro, anche la capacità di quei governanti di analizzare il resto della società nella quale si trovavano – un processo d’analisi per l’appunto sempre “ufficialmente marxista” – si è dissolta e complessivamente svaporata nella sostanza. Basti notare che, con l’industrializzazione e con le – spesso forzate – collettivizzazioni agricole, nei paesi in questione la “classe operaia” e il “proletariato in genere” si sono enormemente espansi e sono divenuti numericamente di gran lunga maggioritari, mentre all’epoca delle originarie rivoluzioni erano nettamente minoritari ed è proprio soprattutto su questa base che i vertici del partito appena giunto al potere avevano cercato di giustificare l’estremo accentramento del potere stesso nelle proprie mani, anziché in quelle del popolo (in quanto in quest’ultimo – come prevedeva in linea di massima il “socialismo scientifico” marx-engelsiano, trattandosi di paesi poco industrializzati all’epoca della rivoluzione, e come in effetti accadeva anche nel concreto – tendeva a predominare uno spirito localistico, piccolo-borghese e piuttosto tradizionalista, e non quello spirito rivoluzionario, universalistico e contemporaneamente alquanto aperto ai progressi tecnico-scientifici che appariva collegabile, per lo meno potenzialmente, soprattutto al proletariato e ancor più specificamente agli operai...). Però, nonostante gli enormi cambiamenti che sono sopravvenuti nella composizione sociale della popolazione locale durante il periodo post-rivoluzionario, quei governanti (o i loro successori) si sono ben guardati dal cedere – o meglio trasmettere – il potere a quella che loro stessi hanno sempre continuato a definire la “classe rivoluzionaria”, in nome e per conto della quale era stata fatta la rivoluzione....
A queste osservazioni e considerazioni si può aggiungere che in pratica è stato solo dopo la scomparsa di Mao, con la vittoria politica della corrente di Deng Xiaoping in Cina (vittoria che in seguito portò al progressivo sdoganamento dello “spirito dell’arricchirsi” sostenuto appunto da Deng), che nel “socialismo reale” – riguardo a qualche governante caduto in disgrazia – si è cominciato a parlare pubblicamente ed ampiamente non più soltanto di cedimenti allo spirito borghese, ma anche e soprattutto di caratteristiche personali come una strabordante ambiziosità e una spiccata sete di potere. È così che in seguito a quella vittoria politica avvenuta nei vertici cinesi vennero apostrofati ufficialmente in particolar modo i membri della “Banda dei quattro”, gruppo che si opponeva aspramente a Deng e alle sue idee. A questo proposito va anche evidenziato comunque che Deng – essendo già allora intriso programmaticamente e piuttosto palesemente di spirito borghese – non poteva certo fare accusare di tale spirito i suoi oppositori [182].... Diversamente dagli ex-governanti caduti in disgrazia, i governanti in carica nei regimi del “socialismo reale” vengono sempre presentati ufficialmente come immuni da forti ambizioni personali e votati al perseguire le strategie più benefiche possibile per il loro intero paese, come farebbe un “buon padre” (sempre pronto comunque a far valere pesantemente la sua autorità e la sua capacità di punire chi la pensa diversamente da lui, all’occorrenza...) e come facevano gli imperatori del passato riconosciuti storicamente come i più capaci e lungimiranti. E con questi riferimenti – tra lo psicologico e il mitico – a plurimillenarie categorie patriarcali come da un lato il padre di famiglia e dall’altro lato specialmente gli antichi imperatori che erano riusciti ad unificare un territorio prima suddiviso in tanti staterelli solitamente in frequente lite tra loro (categorie concettuali sostanzialmente identiche, a quasi 10.000 chilometri di distanza, a quelle dei latini di due millenni fa, con il loro pater familias e i loro vari monarchi susseguitisi nel tempo e complessivamente visti come costruttori di un impero...) si ottiene una semplicissima e chiarissima introduzione storico-culturale all’autoritarismo, al paternalismo, al maschilismo e al fortissimo senso gerarchico tipici dei regimi in questione: peccato che tutto questo non c’entri per nulla con i movimenti socialisti precedenti alla dittatura staliniana e in particolare col pensiero marx-engelsiano....
Fra i governanti che hanno fatto la storia del “socialismo reale”, solo Gorbaciov cercò di attuare di spontanea volontà e in una consistente misura quella trasmissione del potere dalla dirigenza del partito proclamatosi “centro dello Stato” ai cittadini in quanto tali, ottenendo inizialmente anche una consistente approvazione popolare e una significativa collaborazione di intellettuali nei paesi del “Patto di Varsavia”. Tuttavia – benché l’intenzione di fondo di Gorbaciov fosse evidentemente buona in senso socialista (in pratica, si trattava di un ritorno ai valori e alle aspirazioni associati pubblicamente alla “rivoluzione d’Ottobre”, con i vantaggi offerti nel frattempo da settant’anni di miglioramenti tecnologici, industriali, ecc.) – altrettanto evidentemente l’analisi da lui compiuta della società corrente parrebbe esser stata così lacunosa da portare a risultati finali quanto mai disastrosi (sempre ammesso che potesse esistere un modo per concretizzare con successo un progetto come quello gorbacioviano).... A questo specifico riguardo, è effettivamente possibile che il sistema oligarchico post-stalinista fosse così strutturato, potente e intrinsecamente corrotto da essere in grado di rifiutare comunque qualsiasi democratizzazione generalizzata, eventualmente ricorrendo anche – per l’appunto – alla deliberata dissoluzione dell’impostazione statalista nell’Urss e negli altri paesi del “Patto di Varsavia” e al parallelo passaggio a forme di privatizzazione economica e di regionalizzazione dirette “sotterraneamente” dal sistema stesso e quanto mai favorevoli agli oligarchi del momento.... Se cioè quel sistema era in effetti così corrotto e così potente da avere questa capacità (ma forse non si potrà avere mai la “prova provata” di questo, come succede spesso nelle valutazioni storiche), allora Gorbaciov più che superficiale è stato un attore inconsapevole che senza rendersene conto ha attivato un processo storico che a sua volta ha riportato tutti quei paesi nell’ambito del “solito” – e storicamente consueto – classismo privatistico di tipo borghese, che era stato interrotto dalla rivoluzione russa e poi anche dalla “conquista” staliniana dell’Europa orientale durante la seconda guerra mondiale. Nel corso di tale interruzione, quel classismo privatistico era stato sostituito alla fin fine da un altro classismo (statalista di tipo politico-burocratico), nato paradossalmente – sotto la dittatura staliniana – come estrema e drammatica deformazione delle idee socialiste che durante l’Ottocento avevano cominciato a conquistarsi un grande e crescente seguito grazie al loro progressismo e alla loro profonda attenzione per l’umanità e per il suo ambiente di vita. In questo senso, Gorbaciov sarebbe stato quindi il motore inconsapevole che ha posto fine all’assurdità sociale e culturale prodotta da Stalin e sopravvissuta in gran parte durante il trentennio successivo che vide susseguirsi alla direzione dell’Urss Krusciov, Brežnev, Andropov e Cernenko. In altre parole, inconsapevolmente Gorbaciov avrebbe tolto il velo che era stato posto ipocritamente sul volto del classismo da Stalin e avrebbe riportato così quel volto alla luce del giorno.
In una maniera per certi versi parallela (anche se diversissima nelle modalità), Deng potrebbe dunque essere considerato il principale distruttore – ma molto più consapevole di quanto lo fosse Gorbaciov – dell’aspetto economico del sistema maoista, mentre invece permane sostanzialmente ancora oggi l’aspetto politico-istituzionale di tale sistema (sistema simile comunque a quello staliniano, nonostante alcune tendenziali diversità) [183]. In tal modo, in Cina – e poi anche nei paesi del sud-est asiatico che hanno seguito una strada politico-economica simile alla sua (simile ma, a quanto parrebbe, anche un po’ più sobria, anche come effetto indiretto delle tremende guerre che il Vietnam ha dovuto affrontare per decenni prima con la colonialista Francia e poi con gli imperialisti Stati Uniti e che in pratica hanno finito col coinvolgere anche i paesi ad esso vicini) – l’economia capitalistica si è ampiamente diffusa nel “socialismo reale” durante l’ultimo mezzo secolo, assumendo in ciascuno dei paesi implicati una forma specifica fortemente elitaria e internazionalizzata (e spesso intensamente sfruttatrice), attuata sotto la supervisione politica del partito nazionale al potere.
Nel complesso, così, durante il tardo ’900 l’economia capitalistica ha ampiamente riconquistato quasi tutte le parti del mondo che una per una avevano cercato di distaccarsene con le riuscite rivoluzioni novecentesche di ispirazione socialista, e l’ha fatto quasi senza colpo ferire (solo in Cina vennero messi in carcere i principali oppositori di questa svolta politica, cioè i membri della “Banda dei quattro” e vari loro associati). Le uniche eccezioni a questa riconquista sono rimaste in pratica la Corea del Nord e – ma solo in parte – Cuba: eccezioni dove peraltro molta gente vive da tempo in difficoltà economiche più o meno gravose e il sistema di governo – come del resto avviene anche in Cina e nei paesi del sud-est asiatico ad essa politicamente vicini – appare godere di poco consenso effettivo tra la gente [184].
A margine dell’opera di Syroežin si può fare un’ulteriore considerazione di fondo. Se nella Russia degli scorsi anni ’30 fosse stata presa una strada simile a quella che qualche anno fa è stata riassunta ad esempio in Quale economia oggi per il bene comune? (specialmente nel paragrafo “Integrare pluralisticamente il mercato”), cioè un mix progressista di iniziativa economica pubblica, di attività effettivamente cooperativistiche, di lavoro artigianale ed autonomo, di possibilità concesse all’economia comunitaria (che in Russia era ancora ampiamente presente nelle zone rurali soprattutto con l’obšcina, una tradizionale forma contadina di proprietà comune della terra) e – proseguendo con più efficacia lo stile della Nep – di economia capitalistica non solo accompagnata da un sapiente uso del fisco sui redditi elevati e da un consistente incoraggiamento governativo all’azione sindacale dei lavoratori, ma anche influenzata dal pensiero keynesiano, che proprio allora stava emergendo potentemente in Occidente [185], non ci sarebbe affatto da stupirsi se Syroežin qualche decennio dopo trovasse comunque spazio per i suoi studi sulla pianificazione economica: in altre parole, non bisogna pensare che la creatività e la genialità di Syroežin – che era nato nel 1933 – avrebbero potuto esprimersi solo in un’economia rigidamente statalista come quella dell’Urss staliniana e post-staliniana. E magari in una tale società progressista Syroežin sarebbe pure riuscito ad essere un economista non soltanto teorico, ma anche coinvolto profondamente nell’evoluzione concreta dell’economia vissuta e sviluppata dalla popolazione russa....
Se a proposito di questa serie di tematiche si cerca di compiere una sintesi essenziale mettendo a confronto col pensiero marx-engelsiano (quale “punta di diamante” del socialismo ottocentesco) le maggiori correnti della cosiddetta sinistra novecentesca (tutte sostanzialmente attive ancora oggi), spicca in modo particolare il fatto che la “sinistra rivoluzionaria”, pur insistendo comunemente sull’essere rigorosamente “marxista”, ha avuto un approccio estremamente riduttivo rispetto a quello marx-engelsiano sull’intera questione degli assetti sociali post-rivoluzionari (una questione ovviamente cruciale per chi si autodefinisce “rivoluzionario”) e, nel contempo, ha finito tipicamente col tornare al volontarismo utopistico – o addirittura “rozzo” e reazionario – che predominava in molte delle correnti socialiste precedenti appunto a Marx ed Engels. Questa riduttività e questo ritorno sono stati accompagnati non solo da un sostanziale predominio di comportamenti autoritari, sessisti e complessivamente oppressivi, ma anche da una comprensione delle elaborazioni marx-engelsiane decisamente scarsa e da una serie di drammatiche distorsioni, di pesanti fallimenti e di colossali ipocrisie che di fatto finiscono con l’essere pressoché inevitabilmente collegati al volontarismo stesso, se questo persiste nel tempo: si tratta infatti di una serie di fenomeni che esprimono nella vita concreta l’intrinseca tendenza del volontarismo alla forzatura, o in altre parole al pretendere di far dominare sul mondo la propria soggettività indipendentemente dalle esistenti “condizioni oggettive” e/o dall’autentica soggettività della popolazione di un determinato territorio considerata nel suo insieme. In modo pressoché speculare, le altre principali correnti della sinistra novecentesca sono tipicamente tornate invece, in vari modi, all’altra maggiore caratteristica presente nel socialismo precedente a Marx e ad Engels, e cioè la tendenza alla genericità e ad una confusionaria superficialità (una caratteristica cui Engels associava in particolare – in senso chiaramente negativo – l’aggettivo “eclettico”, come si trova ad esempio nel primo capitolo dell’Antidühring e di L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza).
Tra l’altro, tutto questo fornisce un’ulteriore conferma sia della erroneità delle principali tesi concretizzate da entrambe le correnti politiche novecentesche che – provenendo direttamente dal pensiero socialista ottocentesco – hanno dato un valore sostanzialmente generalizzato, totalizzante e strategico al loro approccio politico-culturale (cioè la “sinistra moderata” e la “sinistra rivoluzionaria”), sia della fondamentale giustezza delle principali osservazioni e previsioni del “socialismo scientifico” marx-engelsiano.
Una congrua risposta politica al neoliberismo: integrare l’approccio marx-engelsiano con le scoperte storiche ad esso successive e con le più profonde elaborazioni culturali del ’900
Ciò riporta l’ago della bussola del discorso politico alla selezione e setacciatura (quasi da “selezione darwiniana delle specie”...) che avvenne nel movimento socialista ottocentesco tra le varie impostazioni e le varie correnti presenti in tale movimento e che, col tempo, vide alla fine – per l’appunto – una sorta di positivo e nitido riconoscimento generale della particolare profondità e capacità evolutiva dell’approccio marx-engelsiano, che a partire da quegli anni ’70 venne anche definito come “socialismo scientifico” [186]. Come ha riassunto retrospettivamente ad esempio Paul M. Sweezy nel 1949 (nella Presentazione di un volume pubblicato in italiano nel 1971 da La Nuova Italia col titolo Economia borghese ed economia marxista e contenente scritti risalenti al periodo a cavallo tra ’800 e ’900 e dovuti alla penna di Eugen von Böhm-Bawerk, Rudolf Hilferding e Ladislaus von Bortkiewicz), «in Europa, il socialismo organizzato godette di una rapida ascesa negli ultimi tre decenni del diciannovesimo secolo; proprio durante questo periodo, entro il movimento socialista del continente, il marxismo prese il sopravvento sulle scuole e sulle dottrine rivali» [187].
Purtroppo, dopo la scomparsa prima di Marx e poi di Engels, nessun altro all’epoca sembrò riuscire a districarsi altrettanto creativamente ed esaurientemente tra filosofia, senso sociale, rapporti umani, politica, economia e storia. In tal modo, lo spirito del “socialismo scientifico” marx-engelsiano finì lentamente – ma progressivamente – col perdersi per la società, in un crescente dissolvimento che esplose in maniera eclatante nel 1914, con lo scoppio della prima guerra mondiale e con la sostanziale accettazione che finirono col darle molti partiti di tendenza socialista: un’accettazione quanto mai incredibile, a confronto ad esempio con quanto aveva pubblicato la “prima Internazionale” nel 1870 sulla crisi bellica franco-prussiana e l’anno seguente sulla connessa vicenda della “Comune di Parigi” [188].... Quella perdita sostanziale si moltiplicò ulteriormente nei successivi anni ’20 e ’30, che videro gran parte dell’altra principale corrente di sinistra – la corrente cosiddetta “rivoluzionaria” (che rifiutando la prima guerra mondiale si differenziò intensamente dalla corrente di orientamento sostanzialmente “moderato” che appunto aveva finito con l’accodarsi ai governi guerrafondai) – invischiarsi dapprima nello scarso interesse per la democraticità mostrato in Russia dai bolscevichi e precipitare infine nello stalinismo, che trasformò le idee democratiche, libertarie, profondamente umane e politicamente trasparenti del socialismo ottocentesco praticamente nel loro contrario....
Nel corso del ’900 e sino ad oggi, altri gruppi di sinistra – solitamente alquanto minoritari o tipici di specifici territori – hanno preso posizioni sia per molti versi più congrue sia più in sintonia con le origini del moderno movimento socialista e con la sua storia (gruppi definibili in linea di massima come “socialisti massimalisti” prima del ’68 e come “sinistra spontaneista”, “sinistra riformista-keynesiana”, “sinistra ecologista”, “sinistra radicale” o “sinistra bioregionalista e tribale” dal ’68 in poi) [189], ma anch’essi, nonostante appunto svariati loro punti di vista molto interessanti e stimolanti, sono rimasti tipicamente preda di quello che Engels chiamava “eclettismo”, mantenendo atteggiamenti eccessivamente superficiali e/o sostanzialmente irrisolti su diverse questioni basilari di fondo che risultano impossibili da trascurare per un movimento che si proponga come universalistico. E per l’appunto – mentre il “socialismo primitivo” caratteristico di popolazioni come quelle tribali era (ed è tuttora, dove sopravvivono culture marginali di tipo tribale) basato inevitabilmente su degli orizzonti fondamentalmente locali, anche se disponibili generalmente ad ampie forme di collaborazione con altre popolazioni – il “socialismo moderno” non può che essere universalistico, essendo immerso strutturalmente nel proliferare del commercio e delle comunicazioni su una scala sempre più ineludibilmente planetaria, o in altre parole in quelle che sono diventate sempre più chiaramente durante questi ultimi secoli l’economia e la cultura del “villaggio globale”.
1. Pesanti errori concettuali
Il principale perno concettuale su cui si è poggiata l’estrema distorsione novecentesca del pensiero marx-engelsiano dalla quale hanno preso l’abbrivio gli antidemocratici regimi del cosiddetto “socialismo reale” può essere considerato probabilmente il “feticismo della rivoluzione” cui si è già accennato, o in altre parole l’idea semplicistica e riduttiva – spesso molto più emotiva che ragionata e complessivamente motivata – che la “conquista del potere” fosse l’unica cosa veramente significativa che potevano fare i lavoratori. È un’idea che a un primo sguardo potrebbe magari sembrare semplicemente superficiale e un po’ troppo incline a dei sogni ottimistici, e in fondo potrebbe anche essere in effetti così, se non fosse stata trasformata a poco a poco in qualcosa di irriducibilmente persistente, di incrollabile, di dogmatico: in tal modo, quella iniziale e semplice tendenza alla superficialità e ad un eccessivo ottimismo è diventata col tempo un modo assurdamente rigido e catastroficamente fuorviante di pensare e di prospettarsi il futuro, con conseguenze drammatiche, distruttive, spesso mortali in varie maniere. Dietro e a fianco di quell’idea ci sono comunque gravi errori, sia nei confronti del pensiero marx-engelsiano e dei suoi frutti, sia nei confronti di quella che può essere considerata una “saggezza umana di fondo”, sia nei confronti specifici dell’evoluzione storica (tecnico-scientifica, economica, climatico-ambientale, ecc.) che ha avuto luogo dopo la scomparsa dei due fondatori del “socialismo scientifico”. Di tali errori – diventati tanto più gravi proprio a seguito di quell’atteggiamento persistente e dogmatico – si possono qui sottolineare in modo specifico diversi aspetti principali.
In primo luogo, anche se quei regimi si sono sempre compiaciuti di autodefinirsi come i continuatori dell’opera di Marx ed Engels, in realtà essi hanno spezzato in maniera tragica il senso stesso sia del socialismo marx-engelsiano sia – più in generale – di gran parte del pensiero socialista ottocentesco, separando l’economia dalla politica: in termini più particolareggiati, separando l’economia considerata come orientata al socialismo dalla politica vissuta e gestita in maniera democratica. Che in aggiunta alla democrazia diretta (come quella utilizzata molto spesso nel ’900 in Svizzera con i diversi tipi di referendum) si trattasse di democrazia di tipo rappresentativo, nello stile tipico del moderno Occidente (ma possibilmente con un sistema elettorale proporzionale), o di democrazia dei Consigli, nello stile della “Comune di Parigi” (considerato probabilmente più adatto in effetti alla transizione al socialismo che alla società borghese), non pare importasse moltissimo a Marx ed Engels, ma importava loro – e tanto – che nella società ci fosse della democrazia come effettiva capacità popolare di partecipare alla vita sociale e soprattutto di decidere su di essa, un’idea condivisa appunto da gran parte dei socialisti ottocenteschi. Mentre la visione dialettica marx-engelsiana mirava proprio a ricomporre le secche fratture indotte nella vita sociale e nell’essere umano stesso dalle società fortemente classiste, il cosiddetto “socialismo reale” novecentesco ha letteralmente santificato la frattura tra economia e politica e l’ha trasformata addirittura nel fulcro della sua ideologia (estremamente dogmatica, tra l’altro, al contrario dell’antidogmaticità di Marx ed Engels).
In altre parole, si tratta di una separazione incongrua, socialmente e filosoficamente errata, storicamente figlia di società palesemente ed apertamente classiste, ideologica, una separazione priva di senso dal punto di vista socialista (se non strettamente per un eventuale periodo breve e momentaneo di assestamento – al massimo pochi anni – dopo un evento rivoluzionario): tutto ciò in quanto essa accetta come “normale” – e stabile nel tempo – la frattura tra economia e politica e, per di più, ritiene economicisticamente e dualisticamente che si possa parlare di economia di tipo socialista senza prendere in esame la politica e la questione della democrazia. Ma un socialismo senza democrazia non esiste. Un socialismo senza democrazia non è socialismo: è solo un altro tipo di classismo. Su questa tragica frattura – che rispetto al socialismo marx-engelsiano venne operata in una certa misura da Lenin e dagli altri bolscevichi quando la loro decisione di esautorare i soviet (cioè i Consigli) andò oltre un semplice breve periodo d’emergenza bellica e giunse progressivamente al medio-lungo periodo, e che venne poi moltiplicata e gonfiata a dismisura da Stalin, Mao, Castro, Deng, ecc. – il “socialismo reale” ha costruito i suoi palazzi, i suoi “culti della personalità”, le sue élite dorate (non molto dissimili da quelle dell’Occidente capitalistico) e la sua aspra repressione dell’effettiva democrazia e persino della libertà di pensiero.... In breve, il “socialismo reale” è diventato una società estremamente classista e oppressiva, basata non sulla borghesia e sui più o meno ampi meccanismi almeno formalmente democratici ad essa solitamente collegati [190], ma su un’altra modalità: il controllo centralizzato dell’economia consentito da una proprietà statale dei principali mezzi di produzione e la stabile attribuzione del potere statale ad un’élite autocratica. Oltre tutto, in origine i meccanismi democratici di tipo borghese erano tipicamente limitati dal censo e dal sessismo (di modo che i ceti svantaggiati e le donne erano comunemente esclusi dalle procedure della democrazia), ma poi in un modo o nell’altro queste limitazioni sono state sistematicamente superate e fatte cadere dalle rivendicazioni delle classi popolari e delle donne stesse, mentre invece l’antidemocraticità strutturale del “socialismo reale” è tendenzialmente senza limiti e pressoché senza freni, avendo una dogmatica e assolutistica base ideologica nell’identificazione – in realtà quanto mai forzata, fragile, pretenziosa e manipolativa – che in esso viene fatta tra lo spirito stesso della rivoluzione e la dirigenza del partito uscito vincente dalla rivoluzione nel paese in questione (identificazione che viene poi imposta all’intera popolazione)....
Questo tragico equivoco prosegue ancora oggi. I vari regimi del “socialismo reale” manipolano i significati originari dei termini “socialismo”, “comunismo” e “democrazia” per attribuirsi caratteristiche popolari che in realtà non hanno [191], e una parte significativa degli intellettuali e delle persone che si interessano di politica cade nella trappola ideologica e brutalmente classista di questi regimi, accettando di definirli normalmente come “società socialiste”. Si può immaginare che alcuni di tali intellettuali possano esserci cascati in buona fede (a dispetto di tutte le fonti storiche e informative cui possono avere piuttosto facilmente accesso...), ma alla fin fine si tratta comunque della medesima buona fede degli economisti borghesi del primo ’800, che non si rendevano conto di essere espressioni – e miopi propagandisti – non del “bene comune”, ma dell’interesse di classe della borghesia (e ci pensarono allora Marx, Engels e altri autori socialisti a chiarire in modo esplicito e indiscutibile l’argomento). In questo caso molto più recente, non è in gioco l’interesse di classe della borghesia, ma quello delle ambiziose élite formatesi nei regimi del cosiddetto “socialismo reale” (che del socialismo ha soltanto una facciata sottilissima e ipocrita, divenuta ormai trasparente per chiunque voglia usare i propri occhi e non le veline – nel senso di “dichiarazioni ufficiali” – di quei regimi...): élite che oltre ad essere estremamente potenti nel loro paese – con tutti i vantaggi che questo comporta per loro – sono anche decisamente ricche e quindi sono in grado di compensare lautamente, in un modo o nell’altro, intellettuali e commentatori che dall’estero sono disposti a dare supporto mediatico al punto di vista da esse espresso e a propagandarlo.
In secondo luogo, è vero che nel pensiero marx-engelsiano la prospettiva a lungo termine è sempre costituita dal socialismo e dal suo superamento dell’economia capitalistica (così come avveniva, del resto, in gran parte del pensiero socialista dell’Ottocento, anche perché i movimenti dei lavoratori non orientati a tale superamento assumevano di solito altre definizioni, come laburisti, democratici, ecc.), ma questo non significa che per Marx ed Engels non vi fossero anche obiettivi a breve-medio termine considerati come estremamente significativi, cruciali, fondamentali. Per cogliere questo aspetto del pensiero marx-engelsiano bisogna prendere in esame soprattutto i programmi socialisti alla cui stesura i due fondatori del “socialismo scientifico” parteciparono personalmente o indirizzarono dei commenti: la marxiana Critica al programma di Gotha (del 1875), il programma socialista francese pubblicato su L’Égalité del 30 giugno 1880, l’engelsiano Per la critica del progetto di programma socialdemocratico 1891 e il parallelo programma socialista tedesco approvato a Erfurt appunto nel 1891. Da questi materiali si comprende non solo che la concezione marx-engelsiana della transizione al socialismo e del socialismo stesso era estremamente democratica e non certo autoritaria (come si è già argomentato ampiamente sia qui che in precedenti occasioni), ma anche che secondo Marx ed Engels nel momento corrente in cui essi si trovavano – o in altre parole nella società principalmente ad economia di mercato in cui vivevano loro e molti altri loro contemporanei, soprattutto in Europa e in Nordamerica ma anche ormai in altri continenti – c’erano moltissime cose nodali da fare anche senza tirare direttamente e strettamente in ballo la conquista del potere e la transizione al socialismo. In sintesi, oltre all’evidente esigenza di contribuire alla crescita e lievitazione della coscienza sociale e politica delle classi lavoratrici, c’era da rendere il più possibile democratica e progressista la società contemporanea e soprattutto c’era da tutelare e sviluppare quanto possibile la “qualità della vita” di tali classi. Oltre tutto, va considerato che le complesse e sfaccettate esperienze collettive di crescente “gestione popolare” della vita politico-sociale che hanno a che fare evidentemente con queste cose nodali sono anche un terreno fondamentale e cruciale proprio per lo sviluppo sia di quella coscienza tra i lavoratori sia delle capacità concrete collegate ad essa: capacità che sono profondamente significative tanto per la qualità della vita popolare stessa quanto per il riuscire ad incidere come classi lavoratrici – non solo nel presente ma anche in qualsiasi futuro – sulla politica, sull’economia e in generale sulla società. Si tratta di cose da fare che quindi sostengono e sospingono un vero e proprio “circolo virtuoso” tra esperienza, coscienza e capacità concrete nella vita popolare.
La sottovalutazione di quelle tre tipologie di fondo di “cose nodali da fare” (e tanto più nodali perché, «dove si tratta di una trasformazione completa delle organizzazioni della società, ivi devono partecipare le masse stesse; ivi le masse stesse devono già aver compreso di che si tratta», e «affinché le masse comprendano quel che si deve fare è necessario un lavoro lungo e paziente, e questo lavoro è ciò che noi stiamo facendo adesso», come scriveva Engels – accennando alla tematica della transizione al socialismo – nella sua Introduzione del 1895 al marxiano Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850) e parallelamente l’intensa tendenza al “feticismo della rivoluzione”, l’attribuzione di gran parte dell’impostazione della costruzione del socialismo a un piccolissimo gruppo di dirigenti di partito e la tipica adesione al tradizionale sessismo patriarcale implicano di fatto una serie di aspetti politico-culturali quanto mai cruciali [192]. Tra questi spiccano i seguenti, che appaiono essere strutturalmente compresenti tutti assieme nel medesimo tempo: un’intensa tendenza a pensare in modo semplicistico e rigidamente dualista (secondo cui, ad esempio, alla fin fine un’impostazione della società in senso anticapitalista è sempre e comunque buona e una in senso capitalista è sempre e comunque cattiva, a patto ovviamente che l’impostazione anticapitalista risulti per lo meno possibile in base agli equilibri politico-sociali locali del momento); una pesante sminuizione del ruolo fondamentale e insostituibile che Marx ed Engels attribuivano appunto alle masse e alla loro creatività per quanto riguarda la costruzione del socialismo; una debole sensibilità umana, pronta a trascurare e sacrificare le esigenze correnti delle classi popolari (e ciò dapprima in nome di un futuro evento praticamente messianico – cioè “la rivoluzione” – che si pretende trasformerà tutto e tendenzialmente risolverà ogni corposo problema, e poi in nome di un dirigismo statalista post-rivoluzionario considerato tipicamente più importante di qualsiasi altra cosa...); una duttilità interiore, una sensibilità filosofica e un senso critico decisamente scarsi, come viene mostrato ad esempio dall’abitudine al sessismo, alle modalità di pensiero ideologiche e al dogmatismo; nel complesso, dunque, una grave ristrettezza di mentalità....
In terzo luogo, tutto questo si è moltiplicato ulteriormente di significato a partire dagli anni ’30 del secolo scorso, quando il New Deal rooseveltiano negli Usa e altre esperienze simili soprattutto in Scandinavia hanno mostrato che Keynes non aveva affatto torto ad asserire che si poteva gestire molto più efficacemente ed umanamente l’economia di mercato se all’iniziativa privata si aggiungevano iniziative pubbliche in campo economico in funzione anticiclica (cioè per “compensare” le tipiche crisi cicliche dell’economia liberista) e più in generale come integrazione del mercato (visti i grossi limiti che quest’ultimo ha da vari punti di vista molto rilevanti per la vita della società umana e che sono stati spesso definiti come i “fallimenti del mercato”) [193]. In altre parole, mentre il capitalismo liberista dell’Ottocento e del primo terzo del Novecento tendeva ad essere estremamente aspro in senso sociale anche nei casi migliori (cioè nei casi costituiti dalle imprese che erano dirette dai loro proprietari con una certa attenzione per i lavoratori e con una certa sensibilità umana) – e ciò in quanto le varie imprese si trovavano comunque a dover fronteggiare sia la lacerante problematica delle brutali “crisi cicliche” (approssimativamente una ogni decennio) sia tipiche forme esasperate di concorrenza – con le “politiche keynesiane” si sono aperte al capitalismo possibilità socialmente molto più creative ed umane. In tal modo, a partire da quegli anni ’30 l’impostazione socialista/statalista della società ha dovuto confrontarsi e paragonarsi non solo con l’asperrimo capitalismo liberista dei tempi di socialisti come Fourier, Proudhon, Marx, Engels, Bebel e Lenin, ma anche con il molto più duttile e sfaccettato capitalismo delle “politiche keynesiane”.
Eppure, a dispetto di quest’evoluzione molto significativa avviatasi nell’economia di mercato, gran parte dei maggiori esponenti della cosiddetta “sinistra rivoluzionaria” novecentesca e odierna ha invece continuato in modo imperterrito a sostenere in pratica l’idea semplicistica e dualista – e oltre tutto non suffragata dalla realtà, come del resto è decisamente comune per le idee semplicistiche e dualiste... – che un’impostazione anticapitalista della società sia sempre e comunque buona e una capitalista sia sempre e comunque cattiva (a patto, naturalmente, che la prima delle due appaia politicamente e socialmente possibile). Ciò salvo magari deviare – come ha fatto la Cina a partire dal successo politico della corrente di Deng Xiaoping e come stanno facendo sempre più anche altri paesi post-rivoluzionari che hanno seguito la Cina – su un’intensissima collaborazione con l’attuale capitalismo neoliberista delle multinazionali (che è solitamente una forma quanto mai brutale di capitalismo), senza però rinunciare ad un monopartitismo gerarchico e politicamente iper-accentratore....
Un’ultima considerazione a questo proposito, tra politica e storia: se l’impostazione statalista che era sostenuta da Stalin e dai suoi successori, da Mao, ecc. aveva modalità piuttosto simili al “socialismo di Stato” bismarckiano radicalmente criticato – e politicamente sbeffeggiato – in maniera esplicita e inequivocabile da Engels (e da Marx), la “deviazione” caldeggiata e sospinta con particolare intensità da Deng ha unito tra loro uno Stato istituzionalmente autoritario e antidemocratico e un’economia caratterizzata in parte da una sopravvivenza di quello statalismo e in parte dalla forte presenza di forme privatistiche di capitalismo aventi una modalità estremamente vicina a quella del capitalismo liberista pre-keynesiano, che era comunemente protetto politicamente e militarmente a livello di ciascun singolo Stato ad opera del governo del paese e che all’epoca era criticato profondamente dai socialisti di tutte le correnti (inclusa persino la “sinistra moderata”, che pure già intorno al 1900 – sulla spinta principalmente del tedesco Eduard Bernstein – tendeva ad assumere una posizione subalterna per molti aspetti alla classe borghese) [194]....
2. Le scoperte novecentesche sulla preistoria
Riguardo alla tematica storica inerente alle culture di tipo patriarcale, si può approfondire il discorso mettendo in evidenza che con il tardo ’900 si è giunti a una serie di ricerche soprattutto archeologiche che hanno portato a una nozione più chiara di diversi aspetti del passato della società umana sul nostro pianeta, come si è già messo in rilievo nella parte I dell’intervento già ricordato Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali. È emersa così l’antica – e un tempo evidentemente diffusa – esistenza di società, tipicamente organizzate in senso matrilineare a livello famigliare, nelle quali il progressivo superamento del “comunismo primitivo” non aveva affatto portato direttamente al mondo patriarcale e classista che sta predominando da millenni in una grandissima parte della Terra, ma a forme di organizzazione socio-economica in cui si erano già prodotte una notevole “divisione del lavoro” e una certa stratificazione sociale però il senso comunitario, la solidarietà umana e lo spirito cooperativo tendevano nettamente a predominare comunque sulle ambizioni individuali delle persone e sulla tendenza al formarsi di pesanti diseguaglianze sociali e politiche nelle varie comunità. Questo tipo di evoluzione storica era già stato notato espressamente da Marx ed Engels (come quest’ultimo esplicitò ampiamente nel 1884 in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, sulla base anche di varie annotazioni lasciate da Marx), ma senza poter valutare – per un’oggettiva mancanza di dati storico-archeologici, a quell’epoca – quanto tale evoluzione fosse stata presente sulla Terra.
Tra l’altro, la progressiva riscoperta novecentesca di antiche civiltà particolarmente avanzate ma perdute da lungo tempo – come quella cretese (chiamata comunemente “minoica”) e come la cosiddetta “civiltà della Valle dell’Indo” (tra i cui insediamenti riemersi il più noto è quello di Mohenjo Daro) – ha anche chiarito che quel particolare stadio di società non patriarcale, non pesantemente classista e non aggressiva militarmente che era stato identificato sommariamente già dalla ricerca ottocentesca era stato appunto anche in grado di evolversi dal punto di vista tecnico-produttivo, linguistico e artistico-architettonico sino a livelli molto più elevati di quanto abbiano continuato a fare ancora per secoli e secoli le società patriarcali, classiste e militariste. Questo ha mostrato storicamente che non necessariamente la dissoluzione del “comunismo primitivo” e l’incremento della “divisione del lavoro” e della complessità istituzionale di una società devono portare con sé il formarsi di società sessiste, militariste e fortemente classiste. La formazione di quest’ultima tipologia di società è dunque una complessa questione anche socio-culturale, che può pure essere legata a delle circostanze storiche molto particolari, e quindi non è provocata automaticamente appunto dall’aumentare della “divisione del lavoro” e della complessità istituzionale.
In altre parole, mentre Marx ed Engels e i loro contemporanei non potevano in pratica spiegarsi in maniera sufficientemente documentata e motivata come si fosse introdotto effettivamente nella società umana l’orientamento strutturalmente patriarcale, classista e militarista – oltre che tendenzialmente conquistatore ed espansionista – che predomina enormemente nella storia planetaria degli ultimi millenni (questa incertezza è evidente tanto nelle opere marx-engelsiane, incluse quelle più tarde e storicamente documentate come l’Antidühring e appunto L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, quanto negli scritti di altri storici dell’epoca), e mentre tale impossibilità ha continuato a presentarsi anche per alcune generazioni successive, durante l’ultimo mezzo secolo l’incertezza in questione appare essersi notevolmente dissolta. Per quanto riguarda la ricerca sul campo, il lavoro più corposo è stato probabilmente quello di Marija Gimbutas (della quale si veda La civiltà della Dea - Il mondo dell’antica Europa, Stampa Alternativa, 2 voll., 2012-13, ediz. originale in inglese 1991), mentre le opere complessivamente più efficaci in senso storico e antropologico sono state rappresentate probabilmente da due testi di Riane Eisler: Il calice e la spada (Pratiche, 1996; Forum, 2011; ediz. originale in inglese 1987) e il già citato Il piacere è sacro, con qualche aggiornamento ulteriore in Il potere della partnership (Forum, 2018; ediz. originale in inglese 2002) [195].
Nonostante quell’incertezza, che tra le altre cose attesta per l’ennesima volta la correttezza metodologica e l’onestà intellettuale di Marx ed Engels (oltre che di altri storiografi e commentatori che hanno operato prima che appunto diventassero disponibili le ricerche storiche emerse negli ultimi decenni), negli scritti marx-engelsiani si avverte anche il desiderio di ipotizzare delle spiegazioni per quell’evidente e drammatico passaggio storico dal molto antico “comunismo primitivo” – sopravvissuto ancora, con più o meno compiutezza, in diverse culture economicamente marginali e tendenzialmente pacifiche scoperte dalla civiltà moderna sia durante l’Ottocento che in seguito (specialmente in aree forestali, semidesertiche o molto fredde e in popolazioni tribali) – alla tipologia di società che popola abitualmente i periodi storici a noi più noti in gran parte del pianeta: per l’appunto, una tipologia gerarchica, patriarcale, classista, militarmente impegnata e solitamente – tranne per quanto riguarda l’ultimo centinaio di anni – monarchica o addirittura imperiale. E si avverte che, comprensibilmente, Marx ed Engels erano inclini a supporre che si fosse trattato di un passaggio di tipo endogeno, cioè avvenuto dall’interno delle società in questione: comprensibilmente anche perché si tratta di un’ipotesi in conformità col “rasoio di Occam”, che è un notissimo principio logico che suggerisce che nel caso di una questione problematica che abbia più soluzioni possibili (alternative tra loro) la più probabile è la più semplice, cioè quella che richiede meno presupposti e meno costruzioni esplicative [196]. Diversamente, l’ipotesi di un passaggio di tipo esogeno, cioè proveniente dall’esterno di quelle varie società, avrebbe previsto alla propria base situazioni alquanto più complesse che teoricamente avrebbero dovuto anche lasciare delle consistenti tracce storiche, che invece non risultavano alla ricerca storiografica ottocentesca. La cauta supposizione marx-engelsiana (che era anche sostanzialmente giustificata proprio da quel principio e dai suoi significati di fondo) ipotizzava tendenzialmente che alla base di quell’antico passaggio storico ci fosse appunto un crescente emergere endogeno di ristrette ambizioni e di egoismi nelle varie società. Ed è anche del tutto evidente che – endogeni o esogeni che fossero in origine – si sia trattato di egoismi ed ambizioni vissuti sia a livello di gruppo (come è stato mostrato in modo particolarmente inequivocabile dal diffusissimo affermarsi del sessismo maschilista e dal frequente costituirsi di caste dominanti come quella dei guerrieri), sia a livello personale (come a sua volta è stato mostrato in modo particolarmente spiccato dalla tendenza – generalmente un po’ successiva dal punto di vista temporale, a quanto parrebbe storicamente – all’istituirsi di un singolo e autoritario capo in molte popolazioni). Quella cauta supposizione è stata poi “trasformata” – sull’onda del tipico dogmatismo ideologico e quanto mai aggressivo che è esploso nelle modalità politico-culturali staliniste, maoiste, ecc. – nell’idea che il classismo sia stato nel corso della storia una sorta di malattia sociale tipica delle persone appartenenti alle classi militarmente o economicamente dominanti (e malauguratamente espansasi poi a coloro che, pur non facendo parte di tali classi, avrebbero molto intensamente voluto entrarvi): una malattia che “quindi” andava combattuta in ogni maniera ed estirpata quanto possibile.
Questa volta, però, il “rasoio di Occam” risulta aver proprio sbagliato il bersaglio (come capita ovviamente ogni tanto, trattandosi di un principio che opera strutturalmente sulla base della probabilità, non della certezza). Come si è già sottolineato appunto in Storia e democrazia: alcuni nodi cruciali, nella seconda metà del ’900 si sono moltiplicate le prove archeologiche che indicano che nel continente eurasiatico, solitamente intorno ai 5 millenni fa, le culture allora esistenti – che erano comunemente pacifiche, solidali, non sessiste e non pesantemente classiste – sono state invase e conquistate da società guerresche, autoritarie, pesantemente armate e tipicamente maschiliste, che appaiono essersi evolute in quel modo sulla spinta di cambiamenti climatici che provocarono gravi inaridimenti e altri effetti ambientali dannosi per l’agricoltura e per la pastorizia in certe regioni dell’Asia, trasformando queste ultime in territori stepposi o semidesertici. Un fattore concomitante pare sia stata l’ormai generalizzata diffusione della specie umana sostanzialmente in tutto il pianeta, di modo che quei cambiamenti climatici e ambientali spinsero – come risultato finale – le popolazioni dei territori colpiti a mettersi in aperta (e spessissimo violenta) competizione con le popolazioni già stanziate in altri territori. Le invasioni in questione ebbero luogo ad ondate progressive, spesso sovrapponendosi l’una sull’altra a distanza di qualche secolo o anche soltanto di qualche decennio, e proseguirono per millenni in una grandissima parte dell’Europa e dell’Asia, innescando sia innumerevoli conflitti locali (poi spesso moltiplicati ulteriormente dall’atteggiamento espansionista affermatosi tra gli strati dominanti di molte delle società che si formarono attraverso queste vicissitudini) sia enormi trasformazioni sociali, culturali, politiche, ecc.. A fianco di tutto ciò, si sa che anche nel passato delle Americhe – e probabilmente pure dell’Africa – popolazioni divenute molto bellicose si imposero con la violenza su delle preesistenti culture pacifiche.
In breve, nella gran parte dei casi quello strabordante emergere di egoismi e di ristrette ambizioni (di gruppo e/o personali) fu collegato a mutamenti sociali e culturali di tipo sostanzialmente esogeno: mutamenti cioè portati nelle culture in questione a partire dall’esterno. E anche le società conquistatrici che portarono con sé quei mutamenti, e che erano precedentemente divenute per conto loro profondamente bellicose ed espansioniste, appaiono esserlo diventate – a quanto pare – per motivi per lo più esogeni, cioè nel loro caso particolare soprattutto a seguito appunto di cambiamenti localmente molto negativi sul piano climatico e/o ambientale. Nel contempo, il fatto che culture particolarmente avanzate come quella minoica e quella della Valle dell’Indo scomparvero letteralmente e rapidamente dalla faccia della Terra perché sostanzialmente distrutte o schiacciate da degli invasori sciovinisti che nel complesso erano molto meno progrediti praticamente da tutti i punti di vista tranne che da quello bellico (ed eventualmente da altri punti di vista specifici strettamente collegati all’ambito bellico, come ad esempio l’addomesticamento del cavallo o la metallurgia delle armi) mostra anche che in questi scontri tra popolazioni è avvenuto più volte che non vinsero affatto i più evoluti ma semplicemente i più abili a combattere. Oltre tutto, non di rado questi ultimi erano anche più cinici umanamente, più insensibili interiormente e più rozzi filosoficamente, e le loro vittorie finirono col provocare di fatto clamorosi arretramenti culturali all’umanità [197]....
Da un punto di vista più generale, appare che in quell’epoca di enorme cambiamento sociale e di ribaltamento culturale l’umanità si sia trovata di fronte all’emergere di alcune problematiche fondamentali (che sono rimaste presenti e pressanti sino ad oggi), quali un diffondersi della pressione demografica, una spiccata disparità di risorse tra varie regioni del globo (una disparità che tendenzialmente era sempre più “statica” e stabile a causa proprio dell’ormai generalizzata diffusione della specie umana nel pianeta, mentre in precedenza era più facile trovare fertili e piacevoli luoghi ancora disabitati nei quali migrare) e un accumularsi molto disomogeneo di disagi e fatiche nel complesso della società umana: disomogeneità associata specialmente a quella disparità regionale e/o a certe attività produttive specifiche. E senza trovare soluzioni creative e soddisfacenti a tali problematiche rimarrà probabilmente molto difficile poter risolvere ampiamente le conflittualità sociali e le ferite culturali che si sono sviluppate nell’umanità a partire da quel periodo storico, con la comparsa appunto di mentalità basate sul militarismo, sullo “spirito di conquista”, sul sessismo, sul classismo, ecc..
In altri termini, in gran parte del globo questa tipologia di mentalità appare chiaramente essersi imposta in modo esogeno, dall’esterno, mediante invasioni di popolazioni che provenivano da altrove e che avevano già sviluppato una tale tipologia di mentalità soprattutto come reazione ad eventi climatico-ambientali avversi che le avevano poste in difficoltà di sopravvivenza particolarmente gravi, ma dietro a tutto questo si può constatare il coagularsi appunto di nuove problematiche – cruciali di fatto per l’umanità – che l’umanità stessa non è riuscita a risolvere pienamente, né allora né di fatto tuttora. Peraltro – come si è già accennato in precedenza [198] – durante l’ultimo centinaio d’anni appaiono essere state sviluppate delle nuove possibilità di soluzione di tali pressanti problematiche, grazie specialmente all’evoluzione della creatività in campo socio-economico e del comparto tecnico-scientifico e ad una serie di esperienze che hanno messo localmente in atto vari aspetti di tale evoluzione, ma in questo periodo le élite dominanti hanno mantenuto un atteggiamento sostanzialmente negativo nei confronti di gran parte di queste possibilità, che evidentemente metterebbero in discussione in misura consistente il particolare assetto gerarchico e patriarcale che attualmente sta continuando a predominare nel mondo....
A questo proposito si può sottolineare che l’attuale strenua autoconservazione delle élite in questione non riguarda soltanto l’essenza dell’assetto gerarchico e patriarcale oggi predominante, ma anche vari “segmenti” specifici di tale assetto. Ad esempio, malgrado gli enormi danni che l’ampio uso attuale di combustibili fossili sta continuando a provocare alla società umana e agli ecosistemi, i petrolieri insistono a non voler mollare la loro presa sul sistema produttivo internazionale. Tra l’altro, una parte dei finanzieri collegati a tali combustibili e anche dei petrolieri stessi appare oggi disponibile ad investire in qualcuna delle “energie rinnovabili” un po’ delle grandi ricchezze da essi accumulate, ma la tendenziale positività di questa scelta viene molto spesso controbilanciata da un atteggiamento complessivo pervicacemente “calato dall’alto”, tipico di chi è abituato da decenni a indiscusse posizioni concrete di comando pressoché pieno e totale nei propri affari e nel loro contesto (grazie anche alla frequentissima compiacenza sia di politici che di manager operanti in altre industrie, tutti pronti ad assecondare ed incamerare qualcuna delle sostanziose profferte provenienti dai vari esponenti della lobby petrolifera...) [199]: un atteggiamento in base al quale si pretenderebbe di impostare e gestire in maniera assolutistica i propri investimenti in tali energie senza alcun accordo con le comunità locali dei luoghi individuati a tale scopo (come se queste non significassero nulla in un mondo in cui quelle élite vorrebbero che contasse solamente il potere dei soldi, con l’ormai abituale capacità di questi ultimi di comprare sostanzialmente i favori dei vertici politici sia locali che nazionali e internazionali...). E su un piano ancor più sfaccettato come quello degli assetti militari – piano che implica un’amplissima serie di aspetti politici, giuridici, diplomatici, tecnologici, ecc. – quasi tutti i governi dei maggiori paesi del mondo insistono a considerare l’incremento degli armamenti come il principale deterrente contro i rischi di guerre e contro le guerre stesse (seguendo pedissequamente in ciò le logiche del “complesso militare-industriale” e gli enormi pericoli che esse pongono alla società, logiche e pericoli che vennero denunciati già nel 1961 dall’allora presidente statunitense Eisenhower e che si sono visti all’opera in un numero ormai innumerevole di brutali conflitti armati locali da allora ad oggi) e come il principale mezzo per evitare che qualche guerra porti a dei risultati conclusivi indesiderati: il tutto come se l’Onu non esistesse o non potesse fare nulla di concreto, mentre invece l’Onu in passato è intervenuta in modi cruciali in diverse crisi internazionali e d’altro canto è ormai pienamente chiaro che anche il “diritto di veto” che i governi di Usa, Cina, Russia, G. Bretagna e Francia hanno nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu (diritto che, se usato, può di fatto bloccare del tutto quest’ultimo) può essere completamente aggirato e superato dall’Assemblea Generale dell’Onu stessa, a patto che tale Assemblea si assuma corpose responsabilità mediante le quali prospettare iniziative operative anche di portata molto complessa [200].
Se dunque si prendono in considerazione le antiche dinamiche storiche qui messe in evidenza (e la loro prosecuzione che giunge sino ad oggi), ci si accorge chiaramente che esse – più che porre l’accento sul combattere direttamente le persone che fanno parte delle classi privilegiate (o che ne hanno fatto parte in passato), come se la loro esistenza stessa fosse una malattia da debellare, cancellare e distruggere – suggeriscono l’essenzialità dello sviluppare capacità efficaci (e dunque stabili, sostenibili, ulteriormente evolvibili, adattabili alle diverse condizioni climatiche e ambientali del globo e, ovviamente, complessivamente soddisfacenti per le popolazioni che vivono nelle varie parti del mondo) in una serie di campi specifici. Tra questi in particolar modo il controllo delle nascite, la sfera agroalimentare, l’impiego delle molteplici risorse del pianeta, le varie tecniche produttive (incluse le macchine in esse utilizzabili per ridurre le fatiche umane), l’organizzazione di un efficiente commercio tra le svariate parti del mondo in base alle esigenze espresse da ciascuna di queste, la difesa della nostra salute (e ovviamente lo studio scientifico che dovrebbe contribuire in modo basilare a tale difesa) e – su un piano più generale – la messa a punto di forme di economia aventi appunto la capacità di essere efficaci, stabili, sostenibili, adattabili e complessivamente soddisfacenti. Questo dovrebbe rendere alquanto meno difficile ridurre (e possibilmente superare) nell’umanità le aspirazioni persistentemente classiste, in modo analogo – tra l’altro – a quanto proponevano Marx ed Engels col loro discorso sul progresso tecnico-scientifico e produttivo, che essi vedevano come una delle basi di fondo della possibile costruzione non solo di società più eque e democratiche in linea generale, ma anche di una eventuale transizione al socialismo.
Ovviamente, i campi in questione sono semplicemente quelli che appaiono aver avuto già millenni fa un ruolo particolarmente marcato nel formarsi stesso della mentalità classista, gerarchica, ecc., e non si tratta certo degli unici campi cui dovrebbe dedicarsi l’umanità: basti pensare ai significati fondamentali delle attività scolastiche, delle arti espressive, dei mezzi di comunicazione, della cura del paesaggio a tutti i livelli (rurale, urbano, montano, costiero, ecc.), della ricerca interiore e filosofica, e via di seguito, inclusa in tutto questo la sfera dell’affettività e della costruzione di dirette relazioni interpersonali di elevata qualità comunicativa, sfera che è per molti versi la “dimensione umana per eccellenza” ed è la prima e principale difesa dal prodursi – e poi stabilizzarsi – del sessismo e delle altre forme del classismo. E riguardo a Marx ed Engels non si dimentichi che è vero che un livello elevato di quel progresso costituiva, in breve, l’aspetto principale di quelle che si possono chiamare “condizioni oggettive” di un possibile passaggio al socialismo nella sua forma definibile come “moderna” (o, in altre parole, complessa tecnologicamente e caratterizzata da una consistente “divisione del lavoro”, diversamente da quello che può essere definito come “socialismo primitivo”), ma vi erano anche delle altrettanto necessarie “condizioni soggettive” di un tale passaggio, le quali appunto – come ricordava ad esempio Engels osservando in quel suo scritto del 1895 che perché si possa costruire il socialismo nel mondo moderno «le masse stesse devono già aver compreso di che si tratta» – avevano a che fare soprattutto con la coscienza sociale, politica ed esistenziale delle classi lavoratrici e con la loro capacità effettiva di incidere profondamente sulla società [201].
3. Implicazioni e approfondimenti
Dietro al dogmatismo affermatosi nei regimi del “socialismo reale” non c’era soltanto un’esasperazione del volontarismo e dell’economicismo – esasperazione che ha portato a ritenere appunto che basti una generica e piuttosto diffusa volontà rivoluzionaria per costruire effettivamente in una nazione una moderna e industrializzata società egualitaria di transizione al socialismo e che il controllo statalizzato dell’economia da parte dei rivoluzionari più ferrati, convinti e competenti sia la chiave di volta per concretizzare una tale società – ma anche, dunque, una particolare interpretazione storico-antropologica dell’originaria nascita del classismo, interpretazione secondo cui quest’ultimo può essere considerato come una malattia sorta per conto suo in certe persone particolarmente inclini alle ambizioni: una malattia che nel mondo presente può quindi ripresentarsi di nuovo sia soprattutto in ambienti sociali culturalmente influenzati da tendenze classiste, sia in altre persone particolarmente caratterizzate da quell’inclinazione.
Questa interpretazione, che poggia per certi versi sull’ipotesi interpretativa che si avverte riguardo a tale nascita anche negli scritti marx-engelsiani, è però molto in difficoltà di fronte al fatto che Engels – in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (del 1884) – valutò che nel corso della storia la prima «oppressione di classe» fu quella dell’uomo sulla donna [202] (e ovviamente si trattò di un’oppressione diffusa, non di singoli casi sporadici, altrimenti non sarebbe stato un fenomeno definibile “di classe”). È estremamente difficile combinare quell’interpretazione del classismo sostanzialmente come malattia e questa valutazione engelsiana (che molto probabilmente era condivisa anche da Marx, sugli appunti storici del quale Engels si basò per lanciarsi nella stesura del libro in questione). E questa difficoltà fece verosimilmente parte dei motivi per cui i due fondatori del “socialismo scientifico” non andarono oltre qualche ipotetica suggestione interpretativa riguardo alla nascita storica del classismo. Se per millenni gran parte degli uomini ha condiviso e fatto propria una “oppressione di classe” verso le donne, allora questa tendenza a dominare su qualcun altro non è una malattia tipica di particolari individui smodatamente ambiziosi dai quali si sono poi costituite delle élite privilegiate (prima generalmente come ceti o caste e poi anche come classi vere e proprie), ma è evidentemente qualcosa di più complesso.... Non a caso, i principali esponenti dei regimi del “socialismo reale” hanno sostanzialmente ignorato quell’osservazione di Engels e hanno mantenuto – come niente fosse – una mentalità quanto mai sessista e patriarcale (per la quale Engels li avrebbe indiscutibilmente definiti appunto come “oppressori di classe”...) [203]. In tal modo, essi hanno potuto sviluppare senza troppi “problemi teorici” la loro interpretazione dogmatica tanto della nascita del classismo quanto – e soprattutto – dei significati correnti di quest’ultimo (dai quali è derivata una sorta di ossessione a combattere sia concretamente le classi economicamente privilegiate e i loro “residui” post-rivoluzionari, sia culturalmente ed esistenzialmente il classismo inteso appunto come una patologia in parte “sociale” – riguardante comunemente borghesi, aristocratici, prelati, accademici, alti funzionari pubblici partecipanti a forme di Stato borghesi o aristocratiche, ecc. – e in parte “personale”, quando qualcuno mira in modo eclatante e sfacciatamente individualistico a mettersi stabilmente al di sopra di gran parte degli altri).... Ed è particolarmente importante che in questa dimensione personale ci fosse un aspetto “sfacciatamente individualistico”, perché in pratica ciò esentava da queste considerazioni critiche le ambizioni espresse attraverso il partito “rivoluzionario” al potere e i suoi vari organismi, di modo che questa specifica tipologia di ambizioni diventava automaticamente “legittima” perdendo ufficialmente così il carattere di “ambizione personale” (come hanno “insegnato” a intere generazioni nei loro paesi non solo leader come Stalin, Mao o Fidel Castro, ma anche quei tanti dirigenti – anche locali – che hanno usato il partito soprattutto per la propria “scalata sociale” ma non sono mai stati accusati ufficialmente di eccessiva ambizione).... Quando poi, specialmente attraverso Deng, lo “spirito borghese” è stato sdoganato anche nel “socialismo reale”, l’ossessiva caccia dei cosiddetti rivoluzionari ai “malati di classismo” è per molti versi finita (ma così il classismo evidente e sovente pacchiano è ridiventato in pratica la “normale norma” anche nel “socialismo reale”...).
Se invece il classismo è qualcosa di molto più complesso (come Marx ed Engels avevano sanamente e giustamente colto dalle palesi e incontrovertibili prove storiche già disponibili all’epoca, nonostante la limitatezza di queste ultime rispetto alle conoscenze oggi accessibili), allora per affrontarlo adeguatamente occorre una maniera di porsi non incentrata sul combatterlo direttamente cercando di distruggerlo, debellarlo e cancellarlo tout court e sull’umiliare, terrorizzare, incarcerare o addirittura massacrare – anche a schiere, come è successo più volte nella storia del “socialismo reale” – le persone nei cui atteggiamenti si possa intravedere qualche aspetto dei vecchi classismi economici che la tipica “sinistra rivoluzionaria” novecentesca intendeva far sparire (quelli appunto legati specialmente alla borghesia o alle precedenti aristocrazie militari e terriere e che si sono poi solitamente espansi anche a parallele forme di burocrazia, di istituzioni religiose o di accademismo), ma incentrata sul superare tutte le forme di classismo cercando di togliere loro le basi materiali su cui esse possano poggiarsi e di costruire rapporti sociali e dinamiche culturali alternativi al classismo stesso. In questo ci potranno essere naturalmente anche occasioni e momenti per combattere il classismo con puntualità (come è avvenuto tante volte in lotte di tipo sociale come ad esempio quelle sindacali, quelle delle donne per una piena parità giuridica o quelle popolari miranti a rafforzare e completare l’insieme dei diritti civili in un paese, o, su un piano più personale e fisico, nell’eventualità di doversi difendersi da un’aggressione violenta, magari motivata principalmente proprio dall’intento di qualcuno di affermare una sua posizione sociale di superiorità su qualcun altro), ma in tali situazioni dovremmo riuscire a rimanere nello spirito della legittima difesa e nei parametri di fondo di una vita civile, democratica, tendenzialmente nonviolenta. In altre parole, anche se può esserci qualche spazio secondario per scontri diretti col classismo nei casi in cui in pratica la cosa diventa inevitabile, l’atteggiamento prioritario e predominante va evidentemente collegato al superamento del classismo. E comunque anche in quei particolari casi – come si è già messo specificamente in rilievo in precedenza [204] – si dovrebbe evitare decisamente di assorbire il dualistico “spirito della guerra” che è tipicamente insito nelle forme di classismo più aggressive e di farsi conquistare interiormente da tale spirito.
Diversamente, nel “socialismo reale” orientato nel senso statalista tipico dell’Urss, della Cina maoista, ecc., l’atteggiamento prioritario e predominante nei confronti del classismo – che era visto come una problematica di tipo specificamente borghese o aristocratico – era rappresentato dallo scontro diretto, aggressivo, repressivo e spesso molto violento, con solo qualche spazio secondario per la logica del superamento: una logica che in questi paesi era molto importante a parole – anche perché ispirata ai concetti marx-engelsiani (che lì erano appunto molto esaltati a parole) – e che però nei fatti ha avuto ben pochi spazi, e ciò anche perché un fattore decisamente fondamentale in tale superamento è la democraticità dell’assetto sociale, in quanto questa consente di smontare progressivamente gli aspetti classisti della società stessa attraverso il potere riconosciuto all’insieme della popolazione e la creatività politica che essa può esprimere. Ma nel cosiddetto “socialismo reale” non c’è praticamente mai stata democraticità e ci sono state soltanto forme di gerarchia e di autoritarismo: persino la “rivoluzione culturale” maoista, che asseriva di colpire il potere del Comitato centrale del partito, era in realtà gestita nella vita pratica da gruppi di “guardie rosse” – e simili – che tipicamente si rapportavano con gli altri in modo molto aggressivo e autoritario.... E anche la radicale svolta denghista – pur avviando uno stabile ribaltamento vero e proprio dell’economia cinese (e non solo cinese) dopo la scomparsa di Mao – non ha minimamente modificato né il perdurante ed intenso sessismo rimasto sempre predominante nel “socialismo reale” né il fatto che in quest’ultimo il potere politico è stato sempre associato in un modo o nell’altro a delle ristrette “avanguardie della classe operaia”, mai e poi mai all’insieme degli operai e alla popolazione lavoratrice in genere.... Vi è stata dunque una colossale presa in giro ideologica che ha coinvolto in maniera sistematica – generalmente dopo un breve periodo iniziale post-rivoluzionario relativamente ricco di fermenti in ciascun paese implicato – l’intera esperienza del cosiddetto “socialismo reale”, specialmente dagli anni ’30 del secolo scorso in poi....
Gli equilibri interni della maniera marx-engelsiana di porsi nei confronti del classismo si sono dunque rovesciati letteralmente sottosopra – e invertiti nel loro opposto – nell’ambito dei regimi del “socialismo reale”: ciò che in quella maniera era principale è divenuto estremamente secondario, mentre ciò che era secondario è divenuto di gran lunga principale. Come risultato finale, al posto di un atteggiamento dialettico e consapevole della complessità della questione si è imposto in pratica un atteggiamento sostanzialmente dualista e quanto mai riduttivo, che tra l’altro ha preteso di concentrarsi sugli aspetti del classismo strettamente connessi a tematiche economiche inerenti al passato o al piano internazionale e, nel contempo, ha decisamente “scordato” gli aspetti sessisti e quelli legati alle disparità sia di poteri nella dimensione politico-istituzionale post-rivoluzionaria sia di possibilità nel presente dell’economia del paese....
Questa serie di considerazioni aiuta a comprendere come dietro al “feticismo della rivoluzione” ci fosse appunto anche una concezione dello “spirito classista” inadeguata, superficiale e molto sbrigativa: una concezione però rivelatasi quanto mai “comoda e vantaggiosa” per i nuovi dirigenti post-rivoluzionari nel loro progressivo installarsi come casta dirigente. Se ci si lascia dietro le spalle una tale concezione, si potrà riscoprire molto più facilmente l’equilibrio dialettico tra “obiettivi di breve-medio termine” e “obiettivi di lungo termine” che c’era nel “socialismo scientifico” marx-engelsiano e che appare estremamente centrato anche oggi, a circa un secolo e mezzo di distanza.
Se la “sinistra rivoluzionaria” e il suo “feticismo della rivoluzione” hanno posto in ampio rilievo quasi solo gli obiettivi marx-engelsiani di lungo termine, cioè la costruzione del socialismo (costruzione che però – non lo si dimentichi – avrebbe tanti aspetti essenziali, non solo politici, sociali ed economici ma anche culturali, esistenziali e relazionali, e tutti questi aspetti dovrebbero essere profondamente alternativi agli stilemi patriarcali, altrimenti finisce con l’essere non socialismo in costruzione ma semplicemente un’altra versione dei “soliti” autoritarismi e paternalismi patriarcali...), e se la “sinistra moderata” ha fatto praticamente il contrario, mettendo in risalto solo degli obiettivi popolari di breve-medio termine (che così sono anche divenuti sottilmente un’anticipazione del lungo termine...), quell’equilibrio dialettico è qualcosa che ha finito con l’andare sostanzialmente perduto sino ad ora a livello della cultura popolare, anche se intimamente diversi protagonisti della vita intellettuale – specialmente a partire dagli scorsi anni ’60 – hanno evidentemente colto parecchio di tale equilibrio, o facendo principalmente un esplicito riferimento al pensiero marx-engelsiano o sviluppando delle proprie elaborazioni anche sulla base della propria partecipazione alle esperienze di qualche particolare movimento alternativo [205]. Ciononostante, è evidente che questi protagonisti non sono riusciti ad incidere con forza nel “muro di gomma” prodotto nella vita popolare dalla “cultura di massa” – tipicamente banale e sottomessa agli interessi di potere delle varie élite dominanti – che nei diversi paesi viene propagandata e propagata dai maggiori mass-media.
È una perdita che si è verificata anche perché uno degli aspetti di fondo della filosofia dialettica – e ineludibilmente della realtà stessa nella quale viviamo – è che in qualsiasi evidente polarità del vivere o della natura stessa la vitalità e la complessità di un polo sono profondamente collegate all’altro polo e, in sostanza, sono inscindibili da questo: in tal modo, separare – nel pensiero e soprattutto nell’agire – i due poli di una tale polarità implica per ciascuno dei due poli stessi una menomazione e una vera e propria diminutio (cioè l’esser percepito e vissuto in una maniera nettamente riduttiva). Così, l’enfasi soltanto sulla rivoluzione ha finito col menomare profondamente il significato intrinseco e prospettico anche di quest’ultima (e non solo degli obiettivi socio-politici di breve-medio termine, colpiti direttamente dallo scarso interesse ad essi dedicato): basti confrontare tra loro l’idea di società di transizione al socialismo per Marx ed Engels e l’idea che ne ebbero Stalin e – in seguito – i vari altri leader dei paesi in cui durante il ’900 sono avvenute delle rivoluzioni ispirate al socialismo.... A sua volta, l’enfasi soltanto su obiettivi popolari di breve-medio termine ha finito con lo svuotare letteralmente – tra i lavoratori influenzati dalla “sinistra moderata” novecentesca (rispetto a quanto fecero durante l’Ottocento ad esempio la “prima Internazionale” e poi la seconda) – non solo il senso interiormente vissuto di una futura prospettiva socialista, ma anche gran parte della carica, dell’entusiasmo e della creatività politico-sociale: in particolare, uno dei principali effetti di questo svuotamento è stato l’“ipostatizzare” anche nella cultura di quei lavoratori il capitalismo come sistema economico-sociale tendenzialmente eterno, copiando in pratica – in questo – la mentalità tipica che da più di due secoli è storicamente caratteristica della grande borghesia....
Oltre tutto, queste menomazioni politiche di fondo sono ulteriormente rafforzate dal fatto che è molto abituale, nelle varie forme di “cultura di massa” prodotte e diffuse nelle diverse parti del mondo, la presenza di maniere sostanzialmente dualiste di vedere e prendere la vita nelle quali l’unità interiore di ciascuna persona risulta spezzata (da rigide e ingiustificate idee preconcette, da conflitti interni presentati come inevitabili e “naturali”, da ipocriti moralismi o al contrario da forme di strabordante visceralità, e via dicendo), e ciò in quanto alle élite dominanti conviene enormemente che le classi popolari siano caratterizzate da questo tipo di atteggiamenti dualisti che indeboliscono di molto la capacità di tali classi di incidere in modo creativo sull’assetto sociale circostante [206]....
Pure il fatto che – durante il ’900 ed oltre – nemmeno le altre correnti principali nate nella sinistra abbiano recuperato quell’equilibrio non ha certo risolto le cose, anche se sovente queste correnti hanno saputo sia criticare giustamente diversi aspetti negativi tanto della “sinistra moderata” o della “sinistra rivoluzionaria” quanto delle tipiche forme locali della “cultura di massa”, sia dare spazio e respiro a diversi aspetti creativi delle proposte di certi movimenti alternativi. In tal modo, anche nei casi migliori gli obiettivi della sinistra sono rimasti comunque parziali e sostanzialmente menomati, a paragone con le elaborazioni del “socialismo scientifico” ottocentesco, che – non si dimentichi neanche questo – è stato stabilmente la principale corrente della sinistra durante gli ultimi decenni di quel secolo, per lo meno in Europa (che di fatto è stata la culla sia dell’industrializzazione sia, parallelamente, del pensiero socialista e libertario moderno) [207].
4. Il senso reale di quell’equilibrio
Visto che da più di un secolo il senso di quell’equilibrio dialettico tra “obiettivi di breve-medio termine” e “obiettivi di lungo termine” appare radicalmente – e drammaticamente – perduto nella cultura popolare contemporanea, qual è il significato che tale equilibrio aveva nel “socialismo scientifico” marx-engelsiano e che può avere fecondamente oggi?
Dal momento che il contesto storico-culturale in cui ci troviamo tende ad influenzare molto significativamente non solo il nostro vissuto ma anche il nostro pensiero, per approfondire dal punto di vista politico tale contesto possiamo partire dalle esperienze di tipo politico vissute popolarmente in questo lungo periodo, che copre ormai diverse generazioni.
Da un lato, il cosiddetto “socialismo reale” e la cosiddetta “sinistra rivoluzionaria” ci hanno abituato a pensare che gli “obiettivi di lungo termine” posti dal “socialismo scientifico” ottocentesco sono molto più importanti dei suoi “obiettivi di breve-medio termine” e tendono – paradossalmente – a venire prima di questi ultimi. Una radice fondamentale di questo modo di pensare è l’abitudine – ormai diffusamente acquisita – di prendere come “normali” e validi i concetti staliniani del “socialismo in un paese solo” e del “socialismo fortemente industrialista in paesi economicamente ‘non sviluppati’”: una coppia di concetti che, oltre ad essere in grande contrasto con la visione storica marx-engelsiana, rispetto ad essa ha reso appunto molto più “facile” pensare di poter attuare una rivoluzione socialista. In tal modo, l’essenza degli obiettivi marx-engelsiani di lungo termine, cioè la progressiva costruzione del socialismo, è diventata nel pensiero di Stalin, Mao, ecc. molto più raggiungibile ed attuabile degli obiettivi marx-engelsiani di breve-medio termine, i quali in pratica riguardavano tematiche sostanzialmente interne alla società ad economia di mercato. Peccato – per i sostenitori del tipo di pensiero politico consolidatosi appunto con Stalin – che quella di Stalin e poi quelle di Mao, di Castro, di Deng, ecc. fossero anche concezioni del socialismo antidemocratiche, patriarcali, gerarchiche, autoritarie, repressive, semplicistiche, ecc., cioè fasulle alla fin fine.... Addirittura ci si potrebbe chiedere con una certa ironia se non è proprio per questo che le concezioni in questione appaiono essere state così “attuabili” (60-70 anni o più in Russia, in Corea del Nord, in Cina, in Vietnam e a Cuba, quasi mezzo secolo negli altri paesi del “patto di Varsavia”, in Jugoslavia, in Albania e più recentemente in Laos, e via dicendo): il problema di fondo, infatti, si direbbe essere il fatto che generalmente la maggioranza delle popolazioni di questi paesi non voleva in effetti ritrovarsi in una prospettiva rigidamente statalista e per di più diretta dall’alto dai vertici di un partito identificatosi con il potere statale, ma avrebbe preferito un’impostazione politico-sociale molto più democratica, sfaccettata, progressista, sensibile alle autonome rivendicazioni sindacali dei lavoratori e aperta sia al senso comunitario localmente tradizionale sia ad un certo spirito imprenditoriale borghese. In tal modo, l’unica maniera per stabilizzare nel tempo un’impostazione sociale rigidamente statalista era in pratica proprio il ricorrere ad un “sistema di potere” autoritario, antidemocratico, repressivo, calato dell’alto, ecc.: un sistema che poi è diventato sempre più autoreferenziale e che anche quando ha deciso di aprirsi ad un’intensa collaborazione col capitalismo (come è avvenuto con la svolta denghista) non ha voluto rinunciare minimamente ai privilegi e al potere personale accumulati dai propri dirigenti.... Storicamente, nell’epoca contemporanea risulta essere stata attuabile anche la forma di “socialismo primitivo” affermatasi nella regione messicana del Chiapas dopo una rivoluzione strettamente locale condotta in profonda sintonia con la cultura popolare della regione stessa, ma sino ad ora qualsiasi tentativo di concretizzare in quest’epoca qualche forma di “socialismo moderno e industrializzato” ha confermato ampiamente le previsioni e le prospettive espresse da Marx ed Engels e la mancanza di validità di quei concetti staliniani, in quanto da tali concetti sono emerse soltanto società prive di un socialismo effettivo e non sfacciatamente fasullo [208].
Quel modo paradossale di pensare contiene però in sé anche qualche stimolante motivazione che appare pienamente degna non solo di nota, ma anche di un certo approfondimento: in particolare, è un modo che tende a considerare l’economia come chiave di volta della società moderna (cosa che, se non viene esasperata nell’economicismo, appare piuttosto vera sin dai tempi di Adam Smith, cioè dal tardo ’700) e quindi tende a pensare che nell’economia capitalistica, dove i capitalisti hanno un enorme potere di fatto, la lotta delle classi lavoratrici per gli “obiettivi di breve-medio termine” è sempre su un terreno fragile e per certi versi perdente, perché i ricatti della classe capitalistica possono sempre mettere in gravi difficoltà i lavoratori e costringerli pertanto a sostanziali sconfitte riguardo a quegli obiettivi. Probabilmente il principale errore fatto da questo modo di pensare è sottovalutare due aspetti delle dinamiche sociali in corso: in primo luogo, le possibilità che possono venire offerte alle classi lavoratrici da pubbliche istituzioni lucidamente e trasparentemente democratiche (possibilità che erano state colte ampiamente già dal “socialismo scientifico” ottocentesco e in linea di massima anche da altre correnti politiche ad esso contemporanee) [209]; in secondo luogo, le possibilità nascenti dall’economia keynesiana e dalla cosiddetta “economia mista” (che in pratica affianca all’economia privata una forte capacità di azione economica di tipo pubblico o comunitario) come modi di gestire l’attività produttiva a favore anche – o persino soprattutto – delle classi lavoratrici. Ovviamente, si tratta di direzioni di intervento economico che non erano disponibili all’epoca di Lenin, essendo state elaborate inizialmente soprattutto da Keynes durante gli anni ’20 del ’900 e avendo cominciato ad emergere concretamente solo nei successivi anni ’30 (e ancor più tra gli anni ’50 e ’70). In sintesi, classi lavoratrici che non sappiano impiegare le opportunità loro offerte da una democrazia ben impostata, dall’economia keynesiana e dall’“economia mista” tendono effettivamente ad essere ricattate facilmente dalla classe capitalistica – e facilmente sconfitte da questa su tutta una serie di terreni – nell’ambito delle vicende politico-economiche dell’economia di mercato, ma le cose possono essere alquanto diverse se le classi lavoratrici sanno effettivamente impiegare tali opportunità [210].
Dall’altro lato, la “sinistra moderata” novecentesca ha praticamente messo tra parentesi – trascurandoli e ignorandoli sempre più – gli “obiettivi di lungo termine” del “socialismo scientifico” marx-engelsiano, cioè la costruzione di una società socialista. Specialmente dopo l’avvento di Stalin, è stato piuttosto facile per questa corrente – e soprattutto per la borghesia stessa – spaventare sempre più le classi popolari del mondo di fronte all’idea del socialismo, visto che il “socialismo realizzato” che avevamo e abbiamo tutti di fronte è quello praticamente dittatoriale, fortemente statalista e sistematicamente repressivo di leader come Stalin stesso, Brežnev, Mao, i cubani Castro, i coreani Kim, ecc., o più recentemente quello iper-affarista e “affabilmente multinazionalizzato”, ma altrettanto repressivo e sostanzialmente dittatoriale, di ulteriori leader come Deng e Xi (e persino Lenin aveva pesantemente e consapevolmente mentito rivendicando pubblicamente prima della “rivoluzione d’ottobre” tutto il potere ai soviet...) [211]. In altre parole, lo stalinismo e i suoi epigoni sono stati a lungo andare una sorta di manna per la borghesia internazionale e per i suoi sostenitori (tra i quali si possono includere alla fin fine i principali esponenti della “sinistra moderata”)....
Questo aiuta anche a comprendere come mai l’impostazione culturale borghese – con il suo guardare al mondo con uno sguardo individualistico o tutt’al più famigliaristico – sia così predominante ormai pure nel Terzo mondo, e specialmente nelle sue aree urbanizzate (dove si è progressivamente ridotto il tradizionale tessuto sociale comunitario e per di più sono spesso presenti vaste baraccopoli in miseria) e in generale nei suoi territori drammaticamente sconvolti in passato da forme di dominio locale schiaviste e/o pesantemente violente o dal colonialismo. In sintesi, dove l’originario senso comunitario si è assottigliato e sempre più dissolto, ha comunemente faticato a formarsi una coscienza politica autenticamente popolare e contemporaneamente densa di senso sociale, dal momento che nel Terzo mondo la critica di sinistra alle società tipicamente classiste è stata profondamente e stabilmente influenzata in modo negativo – e pressoché svuotata intrinsecamente di significato – dalla massiccia presenza concreta e politico-culturale di quel presunto “socialismo realizzato” che ha letteralmente distrutto in sé l’idea ottocentesca del socialismo come società in tutti i sensi finalmente democratica e che ha cercato di riportare le masse all’idea che le rigide gerarchie sociali e l’autoritarismo siano qualcosa di normale, stabilmente giusto e magari addirittura naturale, specialmente se all’autoritarismo si affianca un certo paternalismo (come quello che in maniere un po’ diverse ha solitamente accomunato i leader di cui sopra) [212]....
Se da una parte attraverso una lucida e intelligente utilizzazione delle succitate opportunità collegate alla democrazia e alle forme di economia keynesiana e mista si può ridare respiro e spazio agli “obiettivi di breve-medio termine” del “socialismo scientifico” marx-engelsiano (obiettivi che invece la “sinistra rivoluzionaria” novecentesca ha generalmente trascurato e messo decisamente in secondo piano), dall’altra parte proprio criticando il “socialismo reale” in quanto essenzialmente fasullo e recuperando il senso profondamente democratico, creativo ed evolutivo che gran parte dei socialisti ottocenteschi attribuivano ad una futura costruzione del socialismo si può smontare l’operazione con cui la “sinistra moderata” novecentesca ha messo tra parentesi gli “obiettivi di lungo termine” del medesimo “socialismo scientifico” e rispondere a tale operazione in maniera positiva e tendenzialmente risolutiva. Questo ripristinare l’idea e il concetto di una transizione al socialismo aperta al vivo e incisivo contributo partecipativo di tutti, non sbrigativa e non stressante, non forzata, giuridicamente ed esistenzialmente libertaria in un riconoscimento universalistico sia dei tanti diritti individuali sia di alcuni doveri sociali di fondo [213], non incentrata molto più sugli uomini che sulle donne, non frettolosamente e rigidamente statalista, non in rigida contrapposizione con i lati piacevoli e costruttivi dell’economia keynesiana, non pronta a reprimere con forza e con minacciosa aggressività gli eventuali “dissenzienti”, e via di seguito, significherebbe una (ri)liberazione del lato prospettico e socialmente progettuale dell’umanità (e sarebbe in pratica l’opposto di quanto hanno fatto a proposito di tale transizione ambedue le correnti novecentesche in questione).
Tra l’altro, trovando in questi modi un’efficace risposta ai fallimenti concettuali e alle estreme lacune comunemente caratteristici delle due maggiori e più datate correnti della sinistra novecentesca [214], si potrebbe contribuire in maniera corposa anche ad incoraggiare negli altri gruppi e correnti, più recenti, una serie di approfondimenti che giungano a colmare gli specifici limiti concettuali che sinora sono stati tipici di questi altri movimenti.
5. Tante strade, una strada
In conclusione, ormai è più di un secolo che – per quanto riguarda gli obiettivi di fondo elaborati lucidamente nel tardo ’800 dal “socialismo scientifico” marx-engelsiano – il “socialismo realizzato” e parallelamente la “sinistra rivoluzionaria” hanno tipicamente sminuito in maniera intensa sia il significato umano e l’importanza degli obiettivi di breve-medio termine sia la qualità intrinseca e il senso profondo degli obiettivi di lungo termine, arrivando in questo anche a ribaltare tendenzialmente l’ordine temporale di tali obiettivi (anteponendo di fatto cioè quelli di lungo termine a quelli di breve-medio termine e sacrificando comunemente così questi ultimi ad un’epoca post-rivoluzionaria più o meno futura che invece – come si è già vissuto a lungo in Russia, in Cina, ecc. – non è stata affatto ricca di libertà e di democrazia e in tal modo ha tradito seccamente gli obiettivi marx-engelsiani non solo del lungo termine ma anche del breve-medio termine...), mentre la “sinistra moderata” ha finito col rimandare pressoché ad infinitum gli obiettivi di lungo termine e ha tipicamente sminuito in maniera molto intensa la qualità esistenziale degli obiettivi di breve-medio termine. In seguito, col passare del tempo, vari gruppi di altre correnti hanno rimesso in discussione parti più o meno ampie di questi approcci, ma generalmente senza un adeguato approfondimento né “politico complessivo”, né storico, né – in molti casi – teorico-filosofico. Come effetto e risultato di tutto questo, oggi noi ci troviamo di fronte alla questione del ritrovare – o ricostruire – un senso profondo e congruo in questa tematica costituita dall’insieme degli obiettivi che i movimenti collegati ai lavoratori possono darsi.
Procedendo per varie possibili strade in questa ricerca della congruità e della profondità percettiva, elaborativa e propositiva, l’impressione di fondo è che – se si tratta di strade ricche di significati e di senso generale – tendano tutte alla stessa direzione, allo stesso approdo, alla stessa “piazza concettuale”, caratterizzata dalla sintesi fra tutte le dinamiche della vita umana (esperienze, sviluppi tecnico-scientifici, tematiche filosofiche o esistenziali) che nel corso della storia sono emerse come contraddistinte da una valenza positiva e costruttiva e/o – più in particolare – da una capacità liberatoria in questo o quell’aspetto della vita umana stessa [215]. Si torna, in sostanza, a quanto si è già osservato qui a proposito delle svariate cose nodali da fare in base al pensiero marx-engelsiano:
- tutelare e sviluppare quanto possibile la “qualità della vita” delle classi lavoratrici, poste tipicamente in posizione svantaggiata nel mondo odierno (e ciò senza dimenticare, più in generale, l’umanità intera) [216], il che evidentemente è anche collegato strettamente alla salvaguardia della nostra salute fisica, psichica e relazionale, alla tutela dell’ambiente, alla difesa della pace, alla realizzazione di un’urbanistica impostata sulla misura umana (e non su quella degli speculatori immobiliari o delle automobili) e ad una serie di basilari tematiche culturali come un’efficace e sfaccettata istruzione ricca di creatività e di senso critico, un’informazione pluralistica e un consistente spazio per forme espressive quali la musica, la danza, le altre arti (teatro, letteratura, cinema, pittura, scultura, architettura, ecc.) e lo sport;
- rendere il più possibile democratica e progressista la società contemporanea, approfondendo in particolar modo questa “direzione di sviluppo” sia nella sfera economica, sia in quella istituzionale, sia in quella tecnico-scientifica, sia in quella dei valori etico-filosofici ed esistenziali, sia nella capacità di dialogo e di collaborazione tra popolazioni di diverse parti del mondo, cioè i cinque campi che oggi rappresentano per molti versi – e tanto più sulla scala internazionale – le chiavi della vita sociale;
- contribuire alla crescita e lievitazione della coscienza sociale e politica soprattutto delle classi lavoratrici in vista non solo del rendere più vivibile e umano il presente, ma anche del prefigurare forme di società ancor più libere, soddisfacenti e stimolanti che per poter essere costruite avranno bisogno della diretta partecipazione creativa di tutti, o per lo meno di tantissimi (come prevedevano appunto le prospettive socialiste di cui si parlava ampiamente nei movimenti dei lavoratori specialmente durante l’Ottocento, prima dell’affermarsi di un pressante e quanto mai deleterio leaderismo che si è avviato in pratica con Stalin e che socialmente appare estremamente pericoloso anche per la sua intrinseca tendenza a prolungarsi incrollabilmente nel tempo ben oltre questo o quello specifico “sistema di potere”, una tendenza messa in evidenza in modo particolarmente esplicito in Russia da Putin e in Bielorussia da Lukashenko ma suggerita comunque anche da ulteriori figure politiche come ad esempio Orbán in Ungheria e, più in generale, dalle molte vittorie elettorali di partiti più o meno pesantemente autoritari pure in altri paesi provenienti da decenni di “socialismo realizzato”) [217].
In questo, un aspetto che appare del tutto fondamentale è ritornare in linea di massima ad una scansione temporale in cui la tipologia di obiettivi che era considerata di breve-medio termine dal “socialismo scientifico” marx-engelsiano venga di nuovo posta prima degli obiettivi da esso considerati di lungo termine (“in linea di massima” perché ovviamente non si tratta di uno schema prospettico rigido e prefissato una volta per tutte, ma semplicemente di una prospettiva che comunemente appare profondamente sensata per molti specifici motivi concreti) e naturalmente, in maniera parallela, riportare l’idea del socialismo ad essere appunto – come già si è osservato nella parte finale della precedente sezione di testo – qualcosa di non forzato, di profondamente democratico e soprattutto di molto più complesso e caleidoscopico del semplicistico statalismo nazionale che durante il ’900 è stato eretto a sinonimo di socialismo da gran parte delle correnti politiche (inclusi innumerevoli partiti di destra e di centro – oltre che di quella che si autodefinisce “sinistra moderata” e che, visti i suoi equilibri politici complessivi, andrebbe solitamente considerata parte appunto del centro – che avevano un pieno interesse a spaventare appunto le masse con l’equazione “socialismo = stalinismo e sue varianti”, così da spingere le masse stesse a riabbracciare con convinzione per l’eternità il capitalismo...). Nel contempo, il socialismo andrebbe anche riportato ad essere non qualcosa da costruire per una sorta di obbligo morale e/o di dovere volontaristico e atemporale (obbligo e dovere nascenti in sostanza dal fatto che – secondo un modo di vedere intellettualistico, teorico e in pratica idealistico – si tratterebbe sempre e comunque di un tipo di società assolutisticamente più “evoluto” degli altri, anche se trasformato per esempio in un delirio dittatoriale e oppressivo come sono riusciti a fare Stalin per primo in Russia e poi vari altri in diverse parti del mondo...), ma una eventualità che potrà essere realizzata progressivamente se – e solo se – un’ampia maggioranza degli esseri umani lo vorrà liberamente con consapevolezza, determinazione, perseveranza e soprattutto reciproca amorevolezza e spontanea gioiosità, volendolo proprio perché in quel periodo dell’evoluzione umana riterrà con concretezza e lucidità che dovrebbe trattarsi chiaramente di una società più felice ed evoluta e più soddisfacente dal punto di vista pratico rispetto agli altri tipi di società già conosciuti (o ipotizzati) nella storia umana [218].
In estrema sintesi, si tratta di approfondire gli spazi di integrazione tra il “socialismo scientifico” marx-engelsiano, l’esperienza femminista, i movimenti ambientalisti, il pensiero fondamentalmente nonviolento, i movimenti per i diritti civili e per la solidarietà umana (questi ultimi collegati molto spesso in modo particolare alla dimensione del volontariato), il pensiero olistico, le capacità economiche operative di tipo keynesiano, la ricerca esistenziale per la “qualità della vita” e le esperienze di tipo scolastico indirizzate a una didattica creativa, partecipativa e aperta al piano ludico [219], il tutto in un intreccio dialettico non solo opportuno e necessario, ma in fondo anche pienamente naturale. Questa integrazione (che naturalmente include una spinta ulteriore verso l’evoluzione tecnica e soprattutto scientifica, in quanto è un’evoluzione che fa parte delle aspirazioni di tutti i movimenti e le correnti di pensiero in questione) pone in pratica le basi di fondo di una “politica alternativa” capace di essere davvero congrua ed efficace, in questo mondo estremamente complesso in cui viviamo specialmente dalla metà del ’900.
Comments
Grazie mille per aver citato Syroežin e il suo lavoro. Qualche precisazione si rende necessaria.
La proprietà sociale dei mezzi di produzione non si può limitare alla sola proprietà statale. Altrimenti si cade nel burocratismo.
Allo stesso modo, "trasferire potere dallo stato ai cittadini" non deve coincidere, come invece fatto da Gorbaciov, con l'inserimento di una accumulazione originaria di capitale all'interno di un'economia completamente socializzata quale quella sovietica. Pena, il collasso di quest'ultima.
Alla fine, Gorbaciov smantellò i cardini di un sistema delicatissimo di equilibri e trasferimenti interni di risorse all'interno di un modo di produzione pianificato che, vedendo così sempre più non collimare quanto scritto da quanto verificatosi all'atto pratico, una volta esaurita la cosiddetta, e tanto di moda oggi, "resilienza", collassò. Con qualche spintarella prima da parte dei FUTURI, oligarchi che, appena si accorsero che ciò era possibile e l'avrebbero fatta franca, divenne SCOSSONE. fino a un vero e proprio patto di spartizione.
Syroežin non ebbe seguito perché il suo è un modello teorico. Lo finirò di tradurre, quando tutto questo finirà, proprio perché utile oggi a costruire un modello di pianificazione complesso dove il TRASFERIMENTO di POTERE dal centro (gosplan) alla periferia (ultima officina o ultimo mercato colcosiano), così come dal PIANIFICATORE al PRODUTTORE, torna a essere un MECCANISMO A DOPPIO SENSO DI MARCIA.
Questa è stata l'intuizione di Syroežin: non semplici "feedback", come dicono gli anglofoni, ma un'intera parte propositiva che non si riduce a trentamila euro all'anno di bilancio partecipato (iniziativa meritoria ma che sta al nostro ragionamento come il bottone e la giacca) che si traduce già nella fase di pianificazione, con alle spalle una pianificabilità che mette sul piatto la misura della coperta, dove si andrà a coprire e dove resterà scoperta e un piano che rappresenta la concretizzazione di questo intero processo.
Syroežin insegna a porre obbiettivi non solo quantitativi ma anche qualitativi. Syroežin insegna a costruire insieme il percorso che deve condurre alla realizzazione di tali obbiettivi.
Naturalmente, socializzazione dei mezzi di produzione e conduzione pianificata degli stessi sono CONDIZIONE NECESSARIA, ma non sufficiente.
Per suonare non mi basta avere un pianoforte e dieci dita... possibilmente in una sala senza vicini di casa che ascoltano dall'altra parte di un muro di cartone musica a palla o riempiono l'aria delle loro colorite e animate discussioni, comprese di piatti volanti e vetri a terra, dalla mattina alla sera.
Oltre a tutto quello... mi serve saperlo suonare, il pianoforte. I sovietici stavano imparando a suonare questo nuovo strumento, stavano imparando a tirar fuori da quella cassa armonica, da quelle corde, note stupende. Stavano iniziando a fare apprezzare al proprio popolo la bellezza di tutto questo.
Poi arrivò qualcuno e disse che il futuro era musica campionata, spartiti fatti con chatgpt e voci sdoppiate e pure con l'autotune. E solo un povero pirla poteva fare dieci anni di conservartorio. Il mondo è pieno di lucignoli e di paesi dei balocchi. E così un popolo intero si trovò senza nulla. Perso irrimediabilmente il primo, e col miraggio del secondo.
Un abbraccio e grazie ancora per aver citato il buon Syroežin... quando tutto questo finirà, forse, riuscirò a finire di tradurlo.
Paolo