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sinistra 

Il neoliberismo non è una teoria economica

Prima parte*

di Luca Benedini

Una rigorosa disamina delle contraddizioni interne del neoliberismo, dal culto del mercato al “trickle down”, dai piani di austerità alla gestione dell’euro, dal modo di rapportarsi con le “esternalità” alle prospettive generali dell’economia

brevestoriadelneoliberismo 350x541Non lavorerò più nella fattoria di Maggie
[...]
Non lavorerò più per il fratello di Maggie
Lui ti dà 5 centesimi
Ti dà un decino
Ti chiede con un sogghigno
Se ti stai divertendo
E poi ti multa
Ogni volta che sbatti la porta
[...]
Non lavorerò più nella fattoria di Maggie
– Bob Dylan dalla canzone Maggie’s farm, incisa nell’album Bringing It All Back Home (1965)

Tutti sanno che i buoni hanno perso
Tutti sanno che lo scontro è stato risolto I
poveri restano poveri, i ricchi si arricchiscono
È così che le cose vanno
Tutti lo sanno
– Leonard Cohen e Sharon Robinson dalla canzone Everybody knows,
incisa nell’album di Leonard Cohen I’m Your Man (1988)

Quando – quasi vent’anni fa – da fonti interne al Fondo monetario internazionale (Fmi) e alla Banca mondiale sono emersi documenti riservati che dimostravano che queste istituzioni intergovernative operavano imponendo nel Terzo mondo non solo ingiustificate ricette liberiste fortemente antipopolari (come i famigerati “piani di aggiustamento strutturale”) ma anche azioni sottobanco incentrate su pesanti forme di corruzione e di attacco alla democrazia, non scoppiò alcuno scandalo nella “grande politica” internazionale, né si iniziò alcuna azione giudiziaria nemmeno per le più gravi di queste illegalità, né da allora si è avviato alcun sostanziale mutamento di direzione in questi organismi [1].

Ci provò il presidente argentino Néstor Kirchner – in un discorso all’Onu il 21 settembre 2004 – a sollecitare un tale mutamento a sacrosanta tutela delle popolazioni del Terzo mondo (ben consapevoli che, p.es., più un’economia è debole e meno ha interesse a liberalizzare totalmente i rapporti dei suoi mercati con l’estero...). Ma in una decina di giorni i vertici di Fmi ed UE e i governi dei “G7” (sigla che sta per “i sette grandi”, cioè i sette paesi “sviluppati” di maggiori dimensioni) risposero con un documento congiunto che con toni assolutistici rispondeva picche non concedendo alcuno spazio a cambiamenti significativi....

In seguito, anzi, quelle ricette liberiste sono state imposte anche a dei paesi “sviluppati” – come Irlanda, Grecia, Portogallo e Spagna – facendo pagare ai loro interi popoli gli effetti di azioni che di volta in volta erano state compiute praticamente solo da ristrettissime élite: crisi bancarie innescate soprattutto da un fattore sostanzialmente esterno come la “crisi dei mutui” esplosa negli Usa nel 2008, ma provocate in effetti da investimenti estremamente incauti che erano stati deliberati dai vertici delle banche stesse; sconsiderate bolle immobiliari speculative nazionali trasformatesi alla fine in fallimenti societari in serie e, appunto, in grandi accumuli di “crediti inesigibili” per le banche che avevano sostenuto quelle bolle; prolungate forme di malgoverno indotte da partiti fortemente corrotti; intense speculazioni finanziarie internazionali sui titoli di Stato di qualcuno di questi paesi, accompagnate da esagerate penalizzazioni di tali titoli da parte delle agenzie di rating. E – soprattutto col cosiddetto Sixpack e col “fiscal compact” – degli antipopolari meccanismi di austerità privi di effettive giustificazioni economiche sono stati inseriti direttamente nelle norme operative dell’UE, impostando in senso estremamente classista la gestione delle contraddizioni innescate nell’economia europea dall’introduzione dell’euro come moneta comune [2].

Inoltre, da alcuni decenni nel globo un sacco di governi sta approvando il più silenziosamente possibile una serie di abnormi trattati commerciali internazionali di “libero scambio” – bilaterali o multilaterali come il NAFTA entrato in vigore nel 1994 tra Usa, Canada e Messico e il progetto del TTIP tra Usa e paesi dell’UE – nei quali la sottomissione ai mercati si spinge sino ad attribuire di fatto alle multinazionali un potere superiore a quello degli organi stessi di governo dei paesi coinvolti [3].

 

Le enormi contraddizioni strutturali del neoliberismo

Durante questi decenni di neoliberismo rampante (a partire sostanzialmente dai mandati governativi di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli Usa), sempre più sono stati frapposti innumerevoli ostacoli ed enormi difficoltà agli interventi pubblici miranti ad integrare il mercato in modo da affrontare i suoi ben noti “fallimenti” [4].

A dispetto di tali ostacoli e difficoltà, si tratta di interventi che in fondo non fanno che riprendere e rielaborare – in rapporto con la società moderna – ciò che nelle civiltà preindustriali hanno cercato di fare dapprima in origine solitamente le comunità locali e poi, col formarsi di Stati più grandi, i “governanti illuminati” o qualche loro saggio consigliere: evitare che la società diventi una sorta di Far West dominato da un’idea come l’“homo homini lupus” [5] e dare spazio ai molti vantaggi che la collaborazione creativa, la lungimiranza e la solidarietà – affiancandosi al rispetto per la diversità umana e a un po’ di naturale competizione tra le persone [6] – possono apportare alla qualità della vita. Nel contempo, sono interventi che applicano in sostanza alla realtà corrente i princìpi sanciti nella “Dichiarazione universale dei diritti umani” del 1948 e nei trattati da essa derivati, come in particolare il “Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali” entrato in vigore nel 1976 e ratificato ormai da moltissime nazioni (che in pratica con la ratifica lo hanno inserito nella propria legislazione).

Al contrario, quell’idea – incarnata in ideologie sostanzialmente infondate e insulse come il “darwinismo sociale”, che servono da paravento ad atteggiamenti psicologici fortemente egocentrici, narcisisti, anaffettivi, strumentali e umanamente insensibili – costituisce alla fin fine proprio uno dei basamenti culturali del neoliberismo [7].

Riguardo poi a quest’ultimo, scendendo nei particolari è facile mettere in evidenza che l’assunto neoliberista secondo cui in pratica dal punto di vista economico l’attività pubblica o impostata in modo comunitario è sistematicamente più inefficiente di quella privata e quindi, per amore dell’efficienza, bisognerebbe ridurre il più possibile le attività pubbliche o comunitarie lasciando il più possibile al mercato ogni attività definibile come economica – assunto che è divenuto in sostanza il nuovo vangelo di Fmi, UE, ecc. – ha due grandi e gravi difetti di fondo.

Da un lato, è un assunto che non considera che l’economia privata e il mercato tendono comunque a non occuparsi di numerosi aspetti della vita sociale che, se lasciati in una sorta di sistematica incuria, possono avere effetti molto deleteri sulla qualità della vita sociale stessa, inclusa in ultima analisi anche l’attività economica (si tratta in sostanza, appunto, dell’ineludibile questione dei “fallimenti del mercato”).

In altre parole, anche se fosse vero che nell’attività economica l’iniziativa privata e il mercato sono sempre più efficienti dell’attività pubblica o comunitaria, rimane il fatto che numerosi aspetti fondamentali della vita sociale che inequivocabilmente hanno anche significative valenze economiche rimangono comunque esclusi dai campi d’interesse dell’iniziativa privata e del mercato e, quindi, o se ne occupano le attività pubbliche o comunitarie o non se ne occupa praticamente nessuno, a parte eventualmente le associazioni che si occupano di beneficenza e di volontariato (e che risultano essere infatti un tipico complemento delle società dove predomina il liberismo). Evidentemente tali associazioni, però, coprono – o meglio, tamponano – soltanto una piccola parte dei “fallimenti del mercato”, e per di più lo fanno in modi che in molti casi sarebbe praticamente impossibile poter definire “efficienti” e davvero efficaci, dati soprattutto i marcati limiti strutturali insiti nelle operazioni di beneficenza [8]....

Dall’altro lato, in pratica quell’assunto dà per scontato che l’attività pubblica o impostata in modo comunitario sia sempre sostanzialmente preda di fenomeni come l’incompetenza, la corruzione, il menefreghismo e/o la deliberata ed egocentrica pigrizia, il che in molte culture non è affatto vero.

La visione dell’essere umano che sta alla base del neoliberismo è quella di un essere che è praticamente privo di sensibilità umana ed ecologica e che si muove solo sulla base di interessi materiali individuali (accumulare soldi, potere e privilegi e poi utilizzarli in modi strettamente e spietatamente egocentrici) [9], ma in molte culture si ha comunemente – appunto – tutt’altra percezione di se stessi e degli altri. E anche nelle culture in cui – in certi territori e in certe epoche – ha ampiamente predominato una visione del mondo basata sulla “legge del più forte e del più astuto” (legge che in pratica è uno degli aspetti del cosiddetto “darwinismo sociale”), tipicamente vi sono state non poche persone, incluso lo stesso Darwin, che la pensavano altrimenti e sentivano l’esigenza di affetto, aiuto reciproco, solidarietà, lealtà....

Si potrebbe commentare che il neoliberismo fa il possibile per modellare la società in modo tale da trasformare tutti gli esseri umani nel tipo di persona che si muove solo per qualche forma di interesse materiale egoistico e che dà pochissimo spazio a dimensioni non strettamente materiali della vita come la qualità dei rapporti interpersonali, l’affettività (al di fuori eventualmente dei legami familiari), l’introspezione e il senso di unione con l’insieme della natura, ma tutti coloro che si rifiutano di vivere così e che percepiscono ampiamente la vita anche attraverso il cuore, l’etica, le vibrazioni percettive, la spiritualità, il senso intimo della fraternità umana, e così via, non possono che indirizzarsi verso un altro modo di vivere, di percepire se stessi e di sentire gli altri e la natura. Ciò a partire evidentemente dalla vita interiore, nella quale la libertà di ciascuno può in un certo senso essere considerata inviolabile, ma per quanto possibile questa alterità andrebbe espressa anche nella concreta vita sociale, e tanto più nelle molte parti del mondo in cui i diritti umani e la libertà individuale di ogni persona sono ampiamente tutelati dalla legge e da una diffusa consapevolezza presente nella popolazione [10].

L’erroneità di fondo che è insita dunque in quell’assunto – e che è quanto mai evidente per gli “addetti ai lavori” – nasconde a sua volta un’altra questione, più sottile e più centrale nella visione neoliberista: il fatto che si tratta di una visione legata strettamente ed esclusivamente ai “grandi ricchi” (molti dei quali, specialmente nel mondo moderno altamente tecnologizzato, sono convinti di poter by-passare tranquillamente qualsiasi problematica sociale o ecologica grazie a tutto il loro denaro e alla loro possibilità di spostarsi da una parte all’altra del mondo in poche ore e di pagarsi un esercito di architetti, muratori, artigiani, giardinieri, operai, tecnici della produzione, piloti aerei, autisti, meccanici, guardie del corpo armate fino ai denti, medici, fisioterapisti, personal trainer, domestici, eventualmente escort, ecc. ecc. per soddisfare le proprie varie “esigenze”...).

Ovviamente, i tremendi impatti che quelle problematiche possono avere sulla vita di chi “grande ricco” non è fanno parte delle cose di cui i “grandi ricchi” in questione proprio non s’interessano: basti vedere la vera e propria battaglia che le élite economiche che sostengono il neoliberismo fanno da decenni contro molteplici aspetti nodali della qualità della vita delle classi popolari – specialmente gli aspetti di tipo socio-economico o ambientale – soprattutto nei paesi in via di sviluppo (ma in misura crescente ormai anche nel mondo “sviluppato”).... È del resto l’essenza stessa del “darwinismo sociale”: pensare che è normale e del tutto naturale ragionare comunemente secondo il principio “mors tua, vita mea” [11], anziché considerare questo principio come una sorta di disperata ultima ratio per quelle situazioni (che si spera non si presentino mai) in cui ogni tentativo di collaborazione e coesione tra esseri umani e di ricerca di una sintesi e di un punto d’incontro tra le esigenze ed aspirazioni degli uni e quelle degli altri non è giunto a nulla – nonostante una grande disponibilità ad impegnarsi in questa ricerca e a profondere in essa la propria creatività – ed è rimasta solo un’irriducibile conflittualità senza quartiere dalla quale l’unica maniera di tutelarsi è appunto una “legittima difesa”....

In altre parole, tutto ciò di cui il mercato tende a non occuparsi – che si tratti dei disoccupati, dei poveri (sani o ammalati che siano), dei dissesti ambientali, della qualità urbanistica dei quartieri popolari, del paesaggio rurale o montano, dell’efficienza stessa dell’economia (efficienza che può essere messa a repentaglio da un’evoluzione tecnologica che antepone il profitto alla scienza, da un’organizzazione del lavoro scarsamente sensibile alle esigenze dei lavoratori, dalle tendenze monopolistiche od oligopolistiche che solitamente i “grandi ricchi” favoriscono nei vari settori dell’attività produttiva, ecc.), o di altro ancora – è anche qualcosa di cui i “grandi ricchi” stessi tendono a non interessarsi: se e quando saranno interessati a questo o a quello, con i loro soldi ritengono di poter sicuramente combinare qualche futura iniziativa sufficiente a soddisfare a tale proposito il loro tornaconto personale o qualche altro loro obiettivo.... Tra l’altro, questo genere di iniziative, coinvolgendo soldi in quantità, diventerà automaticamente parte del mercato, a meno che non si tratti di una qualche forma di elemosina [12] con la quale mirare a uno o più scopi: cercare di accreditare una propria immagine pubblica di persona – o famiglia – sensibile alle sofferenze e alle “sfortune” altrui (non di rado, nelle famiglie di “grandi ricchi” vi è la tradizione che gli uomini agiscano quotidianamente da veri e propri squali dell’imprenditoria e della finanza e le donne impegnino una parte significativa del loro tempo curando attività di beneficenza); contribuire a ridurre il rischio che le classi lavoratrici – e in particolare i ceti più emarginati – si aggreghino maggiormente dal punto di vista socio-politico dando corpo a crescenti proteste e contestazioni contro le élite dominanti; tentare di tacitare eventuali residue manifestazioni della propria coscienza interiore o eventuali paure dell’aldilà [13]....

Persino i ciclici periodi di recessione e di crisi economica, così come i periodi di stagnazione che per un motivo o per l’altro prendono frequentemente corpo negli intervalli tra i due estremi del tipico ciclo economico liberista (l’estremo espansivo e quello recessivo), in fondo non danno fastidio ai “grandi ricchi”: tali periodi trascinano verso situazioni di tipo fallimentare parecchie imprese e sovente anche i loro proprietari o finanziatori, consentendo quindi ai “più ricchi”, ai “più astuti” e a volte semplicemente ai “più fortunati” (fortunati nel senso che casualmente è capitato loro di investire in qualcosa che non è andato a rotoli in un periodo di diffuse difficoltà economiche ma ha reso dei profitti) di acquistare decisamente a buon mercato quelle imprese o altre proprietà, magari di gran lusso. Mors tua, vita mea, appunto.... Dov’è il problema? Basta essere abbastanza ricchi (o astuti, o fortunati) e anche le stagnazioni, le recessioni e le crisi economiche diventeranno un’occasione per arricchirsi ulteriormente sulle disgrazie altrui....

In breve, il neoliberismo è semplicemente il punto di vista di quei “grandi ricchi” che in sostanza risultano essere fortemente egocentrici, narcisisti, anaffettivi, umanamente insensibili, abituati a trattare in modo strumentale gli altri.

Per motivi pratici, però, a tali “grandi ricchi” conviene cercare di far credere anche altri – possibilmente molti altri – all’efficacia e alla funzionalità della visione neoliberista e ai vantaggi che essa può portare alla società. Il principale di questi motivi è il fatto che anche i ricchi si trovano ad aver a che fare con le moderne democrazie e, più specificamente, con “pericoli” come dover pagare tasse consistenti e – specialmente nel caso di attività industriali o immobiliari – dover intervenire sul patrimonio di cui sono proprietari, amministratori o finanziatori (impianti, attrezzature, ecc.) per adeguarlo a “noiose” questioni come la salute della gente, la tutela dell’ambiente e persino la volontà dei lavoratori di fare un lavoro non disumano e magari almeno un po’ interessante e gratificante.... Più in generale, ogni volta che in un paese c’è un governo le cui scelte sono di fatto dettate in gran parte o addirittura del tutto dai diretti interessi del settore più classista delle élite economiche nazionali e/o internazionali, questo settore e il governo stesso hanno ovviamente l’esigenza politica di avere almeno un minimo di consenso popolare dietro tali scelte, giusto per evitare rischiose possibilità come – a seconda della situazione istituzionale del paese – vittorie elettorali di forze politiche decisamente orientate per i diritti dei lavoratori e per lo “Stato sociale”, contestazioni di massa, rivolte, insurrezioni, ecc..... È un minimo che varia chiaramente con la forma di governo: più un paese è democratico, più il consenso minimo necessario si aggirerà intorno al 50% dell’elettorato (e quindi le élite economiche collegate al governo impegneranno tendenzialmente molte risorse per “produrre consenso”); più un paese è governato in modi imposti dall’alto, con un’impostazione strutturalmente autoritaria o addirittura dittatoriale, più potrà eventualmente bastare anche un consenso molto più basso, se accompagnato da un diffuso atteggiamento popolare di subalternità al potere – al quale molti affidino in pratica una delega politica pressoché totale – e/o da un diffuso timore popolare di azioni repressive da parte dell’esercito, della polizia, ecc. (e quindi quelle élite comunemente mobiliteranno molte meno risorse nella ricerca di consenso e appoggeranno più che altro l’attività persuasivo-manipolatrice e repressiva del regime).

In breve, se appunto non vogliono vaste ribellioni contro le estremamente marcate diseguaglianze economiche tipiche delle società neoliberiste, i “grandi ricchi” che apprezzano e sostengono tali società devono insomma cercare di persuadere almeno una parte consistente del resto dell’umanità riguardo al fatto che il neoliberismo sia vantaggioso per tantissimi. Per cercare di far bere a più gente possibile questa colossale “bufala”, soprattutto nei paesi con istituzioni democratiche pagano profumatamente politici, economisti, giornalisti, ecc. perché la ripetano il più possibile e in tutte le salse possibili. A giornalisti, intrattenitori televisivi e altri operatori dei media spetta anche l’ulteriore compito di dirigere il più possibile l’attenzione della gente non tanto su questi argomenti, comunque rischiosi, quanto su altre tematiche molto meno pericolose per le gerarchie economiche: tematiche come la moda, le telenovelas e gli altri spettacoli incentrati sull’intrattenimento, lo sport (anch’esso trasformato il più possibile in spettacolo), la cucina, i pettegolezzi sui cosiddetti “Vip”, la “cronaca nera” vista in modo banalizzato e morboso, il frequentare assiduamente qualche social network (per pubblicarvi spesso proprie foto con commenti e/o per seguire tramite foto e commenti le vicende di qualche personaggio famoso o di qualcuno dei propri conoscenti), il turismo prettamente vacanziero, il fare shopping in una serie di negozi o in qualche centro commerciale, gli sballi nei fine-settimana (solitamente tra discoteche, gite in auto, alcool ed eventualmente feste scatenate e droghe), il conquistare compulsivamente popolarità nel proprio ambiente di vita, i giochi elettronici, il gioco d’azzardo, la pornografia, ecc. [14].

Il motivo principale per cui un’ampia parte delle élite economiche ci tiene così tanto allo strapotere dei mercati l’ha riassunto con particolare efficacia Karl Marx già in età giovanile. Si trova infatti nelle prime pagine dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 (bozza di un complesso testo rimasto incompiuto): «Il capitalista può vivere senza l’operaio più a lungo di questi senza quello».... E in Lavoro salariato e capitale (del 1849): «L’operaio abbandona quando vuole il capitalista al quale si dà in affitto [...]. Ma l’operaio, la cui sola risorsa è la vendita del lavoro, non può abbandonare l’intera classe dei [...] capitalisti, se non vuole rinunciare alla propria esistenza. Egli non appartiene a questo o a quel borghese, ma alla borghesia, alla classe dei borghesi» [15]....

In altre parole, se nella società si elimina il più possibile il sostegno che le pubbliche istituzioni (mediante leggi, forme di assistenza locale o altri interventi) possono dare ai lavoratori occupati e soprattutto disoccupati riguardo ai loro diritti, al loro reddito, alla loro abitazione, al loro accesso a sanità e istruzione, al loro stesso sostentamento, ecc., se quindi – come predica il neoliberismo – élite economiche e lavoratori si incontrano sul mercato in un modo povero (o addirittura privo) di diritti riconosciuti al lavoro e di cosiddetti “ammortizzatori sociali”, lo strapotere economico di quelle élite sarà strabordante.... Esse potranno così fare pressoché tutto quello che vogliono: o direttamente, o mediante i famosi “ricatti occupazionali” che – minacciando da parte degli imprenditori licenziamenti in serie, cadute degli investimenti, delocalizzazioni, ecc. – minacciano un’imminente caduta locale delle ore lavorative e quindi del reddito delle classi lavoratrici, assieme comunemente a un aumento della disoccupazione e ad altri fenomeni economici particolarmente spiacevoli per tali classi.... Lo strapotere dei mercati serve dunque sì a fare ulteriormente arricchire i “grandi ricchi”, ma ancor più – e in modo primario – serve a mantenere un dominio inflessibile dei “grandi ricchi” stessi sulle classi lavoratrici, dominio che è appunto il primo e più fondamentale obiettivo del neoliberismo.

Il fatto che il culto del mercato non sia affatto un accorgimento economico preso seriamente e applicato con perseveranza ma sia semplicemente un comodo e facile modo di fare gli interessi delle principali élite economiche traspare anche, p.es., dal fatto che dopo la “crisi dei mutui” varie banche centrali – come la Fed negli Usa e la Bce nell’UE – abbiano prestato a una vasta serie di istituti bancari e finanziari cifre colossali a condizioni iperagevolate, mentre soprattutto le famiglie e le piccole e medie imprese (Pmi) hanno continuato anno dopo anno ad avere tipicamente grandi difficoltà di accesso al credito [16]. Più in particolare, nell’UE sono comunemente vietati gli “aiuti di Stato” alle imprese o ai vari settori economici, così che se qualche Stato membro fornisce qualcuno di questi aiuti l’UE interviene, anche multando pesantemente lo Stato stesso (fanno eccezione a questa normativa i settori economici che compiono in pratica servizi che si possono considerare di interesse generale, come p.es. le attività ecologiche e l’agricoltura). Tuttavia, in questi anni l’UE ha continuato senza posa a fornire favori – p.es. sotto forma appunto di prestiti agevolatissimi – al mondo della finanza, il quale opera molto più per i propri esclusivi interessi che per l’interesse generale e anzi agisce spesso contro tale interesse (come ha reso inequivocabilmente palese la “crisi dei mutui”, che è stata generata solo ed esclusivamente dagli istituti bancari e finanziari ma ha avuto effetti molto gravi su gran parte del mondo produttivo e della società in quasi tutto il globo). Tra l’altro, questa evidente predilezione dei politici – e dei burocrati che li affiancano – per il mondo della finanza suggerisce quanto la finanza abbia ormai acquisito una grande capacità di manipolare comunemente i vertici delle istituzioni pubbliche nel mondo contemporaneo (una capacità non particolarmente “strana”, del resto, dal momento che una delle caratteristiche dell’economia contemporanea è proprio l’enorme dilatazione dei guadagni delle élite economiche, i cui esponenti finiscono così col diventare tutti dei tendenziali finanzieri...).

Anche i sussidi che Usa e UE destinano da decenni all’agricoltura – incluse in molti casi le esportazioni agricole verso altre parti del mondo – in realtà costituiscono molto spesso più un modo di evitare la concorrenzialità internazionale dei mercati che un effettivo sostegno all’interesse generale della comunità, tanto più che in pratica un’ampia parte di quei sussidi è indirizzata solitamente a favore di tecniche agricole dannose per la fertilità del terreno, per l’ambiente e per la salute dei consumatori (l’esempio più eclatante ne sono le monocolture, che richiedono tipicamente grandi apporti di sostanze tossiche come i pesticidi, i diserbanti e i fertilizzanti chimici e che implicano pressoché inevitabilmente gravi fenomeni di erosione dei terreni agricoli).

Già questi limitatissimi esempi, scelti fra i tanti che si potrebbero fare, sono ampiamente sufficienti a mostrare che anche lo sbandierato concetto neoliberista secondo cui la pubblica amministrazione (P.A.) praticamente non dovrebbe intervenire nei “sacri” meccanismi del mercato e dovrebbe lasciare che di fatto sia quest’ultimo a indirizzare l’economia – concetto che nel globo continua a ispirare una parte molto grande delle politiche economiche odierne, specialmente quando la prospettiva da cui si guarda ad esse ha a che fare col mercato del lavoro, con le retribuzioni e i diritti dei lavoratori, con la cosiddetta “spesa sociale” dello Stato o con le questioni ambientali – non è altro, per i neoliberisti stessi, che uno slogan quanto mai fasullo, riservato ai creduloni e in particolar modo alle masse lavoratrici....

Anche la cosiddetta teoria del “trickle down” o “sgocciolamento” – che nel neoliberismo sarebbe in pratica l’unico ipotetico aspetto assimilabile appunto a una teoria economica e vissuto forse in questo senso per qualche breve periodo da qualche economista in cerca di alternative alla corruzione, alla burocrazia e all’incompetenza diffusesi nella P.A. in un gran numero di paesi come deformazioni manipolate delle politiche keynesiane – nei fatti non è altro che una sostanziale bufala, come mostrano inequivocabilmente i vasti dati economici internazionali sintetizzati in italiano p.es. in Dietro le quinte dell’economia internazionale (Rocca, 15 giugno 2016) [17]. In breve, non è affatto vero che far arricchire ulteriormente i ricchi alla fin fine fa automaticamente arricchire pure gli altri anche se ci si trova in un sistema economico di tipo liberista. Le prove sono incontrovertibili. Eppure una gran quantità di istituzioni pubbliche nazionali e internazionali continua a comportarsi come se lo “sgocciolamento” spontaneo dei redditi e della ricchezza dai ceti più ricchi a tutti gli altri fosse invece una sacrosanta verità, una precisissima, fedele e innocente descrizione di quanto avviene nell’economia....

Del resto, la questione era quanto mai evidente già nell’Europa ottocentesca, dove ogni miglioramento delle condizioni operaie costava enormi sforzi e prolungate lotte agli operai stessi. Analogamente, la cosa è ben nota alle masse lavoratrici di molti paesi del Terzo mondo nei quali, durante gli ultimi decenni, si sono formate delle piccole élite straricche ma nel contempo per le masse stesse non è cambiato pressoché nulla, o addirittura la loro situazione complessiva è peggiorata.

La realtà è che nella moderna economia industrializzata – così come in altri periodi della storia – non esiste affatto un tale “sgocciolamento” automatico: ogni concreto miglioramento delle condizioni di vita delle classi lavoratrici richiede che vi sia in tal senso una precisa volontà delle pubbliche istituzioni (a seguito p.es. di risultati elettorali favorevoli a tali classi) o delle élite economiche stesse (o perché preoccupate per il crescere delle proteste dei lavoratori, o perché esplicitamente e fattivamente desiderose di accrescere nelle classi lavoratrici la capacità di consumo al fine di espandere la produzione industriale e quindi poter ricavare maggiori profitti, o perché intenzionate ad evitare che tra i lavoratori si radichi una forte e generalizzata disaffezione al loro lavoro, o perché divenute maggiormente coscienti in campi della vita interiore e relazionale come l’etica, la sensibilità umana e il senso sociale, o per un miscuglio di diversi di questi motivi).

Oltre tutto, va aggiunto che molto spesso i neoliberisti non si accontentano di ostentare – a dispetto dei dati economici concreti – la teoria del “trickle down” come una delle teorie economiche che possono funzionare per accrescere in modo effettivo il benessere della società intera, ma arrivano a sostenere che questa sia la maniera più efficace, o addirittura l’unica efficace.... E la cosa più paradossale è che, dal momento che in un modo o nell’altro il punto di vista dei “grandi ricchi” ha conquistato – o forse si dovrebbe dire acquistato – il potere politico in molti paesi, questa sistematica adorazione pubblica del concetto totalmente fasullo secondo cui il continuo e indisturbato arricchimento dei ricchi è il miglior modo, o addirittura l’unico modo, di far arricchire anche gli altri è diventata una specie di mantra politico quasi da un capo all’altro del mondo....


Note
* A questa prima parte dovrebbero fare prossimamente seguito altre due parti.
[1] Cfr. Democrazia in vendita, di Greg Palast (Tropea, 2003) e la nota 28 in La caduta della politica in Italia (e non solo) (Mantova Beppe Grillo Meetup Group, 2007). Per un inquadramento economico più generale, cfr. in special modo Una pietra al collo, di Roberto Bosio (Emi, 1998), I meccanismi del debito e le possibili vie d’uscita, di Riccardo Moro (“http://web.peacelink.it/tematiche/consumatori/capire_debito.htm”, conferenza tenuta il 4 febbraio 2000 a Cormano), Il Fondo monetario? Opaco e stupido (AltrEconomia, luglio 2000) e La globalizzazione e i suoi oppositori (Einaudi, 2002), entrambi di Joseph E. Stiglitz, e Aiuti ai paesi poveri: solo parole (La Civetta, dicembre 2010). Il dossier del 2007 e l’articolo del 2010 sono disponibili a questi rispettivi indirizzi:
“https://grillimantovani.files.wordpress.com/2008/01/dossier-benedini-la-caduta-della-politica-in-italia.pdf”;
“http://www.civetta.info/download/civetta_11_10.pdf” (pag. 16).
Il potere che di fatto Fmi e Banca mondiale riescono ad esercitare su molti paesi poggia sulla vasta possibilità di queste due istituzioni di erogare prestiti alle varie nazioni e di imporre delle condizioni a chi fa appunto richiesta di un prestito. Per chi non ne fosse a conoscenza, va ricordato che in base ai loro statuti e regolamenti sia il Fmi che la Banca mondiale sono diretti in pratica dai governi dei paesi ricchi: tra essi, addirittura, il governo statunitense ha di fatto nel Fmi un diritto di veto in tutte le decisioni più importanti.
In modo apparentemente paradossale, numerosi dei provvedimenti socio-economici che vengono tipicamente imposti all’interno di quelle condizioni sono molto lontani da quanto hanno fatto e fanno comunemente a casa loro i governi dei maggiori paesi ricchi.... Ma in realtà non c’è nulla di veramente paradossale: si tratta semplicemente delle varie e spesso complesse forme che la lotta di classe e la competizione economica interna alle classi privilegiate assumono nelle varie parti del mondo a seconda delle circostanze, dei momenti storici, ecc..
Il presente intervento si inserisce in una serie di scritti incentrata su tematiche economiche internazionali, iniziata con Dietro le quinte dell’economia internazionale (Rocca, 15 giugno 2016) e proseguita con Oltre Keynes (id., 1° luglio 2017) e poi con Quale economia oggi per il bene comune?, un intervento pubblicato nell’ottobre 2018 nel sito di “Sinistra in rete” e basato sull’ampliamento di un articolo apparso su Rocca del 15 gennaio 2018: Tracce per un’economia verso il bene comune. Ecco i rispettivi indirizzi attuali in rete:
“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/7398-luca-benedini-non-una-vera-crisi-economica-ma-una-strategia.html”;
“https://www.sinistrainrete.info/keynes/10306-luca-benedini-oltre-keynes.html”;
“https://www.sinistrainrete.info/teoria/13528-luca-benedini-quale-economia-oggi-per-il-bene-comune.html”.
[2] Per uno sguardo complessivo, cfr. in special modo La battaglia contro l’Europa - Come un’élite ha preso in ostaggio un continente, e come possiamo riprendercelo, di Thomas Fazi e Guido Iodice (Fazi, 2016), e L’euro - Come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa, di Joseph E. Stiglitz (Einaudi, 2017, 2018). Anche Wikipedia, su Internet, ha trattato in diverse lingue con notevole ampiezza e precisione le crisi economico-finanziarie dei quattro paesi europei in questione.
Ampie analisi e proposte alternative si trovano anche p.es. in I progetti europei di stabilizzazione economica dopo Bruxelles: l’assurdità di fondo di uno “scudo europeo anti-spread”, il possibile ampio significato di una calmierazione istituzionale del mercato primario dei titoli di Stato e la basilare conquista di una separazione amministrativa tra bilanci nazionali e banche in crisi (intervento datato 6 luglio 2012 e diffuso attraverso Internet), Transizione ecologica - La finanza a servizio della nuova frontiera dell’economia, di Gaël Giraud (Emi, 2015; titolo originale: Illusion financière - Des subprimes à la transition écologique, cioè “Illusione finanziaria - Dai mutui subprime alla transizione ecologica”), Cosa sono, come nascono e contro chi sono diretti i Trattati Europei, di Franco Russo (“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/12528-franco-russo-cosa-sono-come-nascono-e-contro-chi-sono-diretti-i-trattati-europei.html”, 7 giugno 2018), La follia delle clausole di salvaguardia sull’IVA, di Thomas Fazi (“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/15696-thomas-fazi-la-follia-delle-clausole-di-salvaguardia-sull-iva.html”, 27 agosto 2019), e Il “Grande Nord” cala la maschera: qui comandiamo noi, di Claudio Conti (“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/15850-claudio-conti-il-grande-nord-cala-la-maschera-qui-comandiamo-noi.html”, 18 settembre 2019). Soprattutto sul ruolo delle agenzie di rating, cfr. p.es. Perché continuiamo a lasciarli fare?, di Francesco Cappello (“https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/15826-francesco-cappello-perche-continuiamo-a-lasciarli-fare.html”, 15 settembre 2019). Sulla specifica questione del Mes (o ESM) – cioè il cosiddetto “fondo salva-Stati” che è entrato in vigore nell’eurozona nel 2012 e che, a dispetto delle sue molteplici assurdità politico-sociali e giuridiche, è attualmente oggetto di proposte istituzionali di modifica che moltiplicherebbero ulteriormente quelle assurdità – cfr. Urgenze finanziarie e prospettive istituzionali nell’UE, alla luce della manifesta incongruità del “Meccanismo europeo di stabilità” nel diritto internazionale, europeo e costituzionale (intervento pubblicato su Internet nel gennaio 2015). L’intervento del luglio 2012 e quest’ultimo del gennaio 2015 sono attualmente disponibili ai seguenti rispettivi indirizzi:
“https://share.mail.libero.it/ajax/share/0eff010e03ada24ee4b25483ada244cba9cba631011c9706/1/8/MjY/MjYvMTY”;
“https://share.mail.libero.it/ajax/share/03b8dc490481e84b30cf80f481e8426ab7340219546f8f7b/1/8/MjY/MjYvMTU”.
Per un commento di fondo a partire dalle scelte economiche dei governi italiani e dal loro modo di schierarsi nell’ambito dell’UE, cfr. Governanti sotto zero - Per un ABC dell’azione pubblica in tempi di crisi economica, un intervento pubblicato su Internet nell’ottobre 2013 (ma pienamente valido ancora oggi anche perché i governi italiani in seguito non hanno cambiato nella sostanza le loro scelte) e disponibile attualmente al seguente indirizzo:
“https://share.mail.libero.it/ajax/share/0eae6ece0720d94be1a4a88720d94f90ae113b2f722d7d3e/1/8/MjY/MjYvMg”.
Alcune vicende interne all’UE verranno prese maggiormente in esame nella seconda parte.
[3] Oltre tutto, è una procedura che in molti paesi appare incostituzionale in quanto il potere sovrano di tali organi si configura come un’emanazione della sovranità popolare, e dunque senza un esplicito consenso popolare essi non appaiono poter devolvere il loro potere a delle entità “estranee”, e tanto più se si tratta di soggetti privati. Si veda p.es. l’art. 1 della Costituzione italiana.
Su questo genere di trattati cfr. p.es. Il trattato transatlantico, un uragano che minaccia gli europei, di Lori Wallach (Le Monde Diplomatique - Il Manifesto, novembre 2013), e più specificamente Tribunali pensati per rapinare gli Stati, di Benoît Bréville e Martine Bulard (id., giugno 2014).
[4] Sulla questione dei “fallimenti del mercato” – notissima appunto tra gli economisti – cfr. in special modo Quale economia oggi per il bene comune?, cit..
[5] Questa frase latina significa in pratica che “l’uomo è un lupo per ogni altro uomo” e la sua attestazione nota più antica si trova – con le parole disposte in un altro ordine – in una commedia di Plauto: Asinaria (del 2° secolo a.C.).
[6] C’è un vero e proprio rapporto dialettico – non solo evidente, ma anche ineludibile e vitale – tra la solidarietà, il senso egualitario e la cooperazione da un lato e la diversità individuale e la presenza di una relativa competizione in certe sfere dell’esistenza umana dall’altro lato. È un rapporto che – anche se in tempi e luoghi differenti tende ovviamente ad assumere forme diversificate – ha una propria struttura dinamica di fondo.
In dimensioni come specialmente quella affettiva, quella spirituale e quella emozionale, la competizione appare in linea di massima fuori luogo, incongrua. L’affetto crea tra le persone una sorta di “fusione elastica” – da non confondere con la dipendenza (poiché fare esperienza di una tale tendenza alla fusione non significa affatto un annullamento o una subordinazione della propria personalità individuale) o con l’esclusivismo (perché si può voler bene a molte persone) – nella quale l’“io” e il “tu” diventano anche un vero e proprio “noi”. La spiritualità è senza confini (già due millenni e mezzo fa p.es. Eraclito osservava che «i confini dell’anima, per quanto tu vada, non li troverai, nemmeno percorrendo tutte le strade», come dice il suo frammento noto come 45 Diels-Kranz) e in essa quindi non esiste più una precisa separazione tra l’“io” e il resto del mondo. L’emozionalità è un fatto squisitamente individuale (e in pratica non si può competere con altri in qualcosa che sostanzialmente non è confrontabile, anche se in buona parte è comunicabile).
Vi sono invece altri aspetti e momenti della vita relazionale e sociale (p.es. nel gioco, nell’attività fisico-sportiva, nell’evoluzione tecnico-scientifica, nell’attività economica e nell’arena politica) in cui un po’ di competizione – che dovrebbe comunque essere basata per lo meno sul basilare rispetto umano, oltre che quando possibile (ed effettivamente sensato) sull’amichevolezza – può essere un’esperienza efficace e feconda. Può infatti avere vari effetti creativi e positivi: agire da stimolo reciproco tra le persone, uno stimolo non solo pungolante ma – a volte, a seconda delle situazioni – anche direttamente piacevole; facilitare il confronto tra idee, progetti, ipotesi, ecc.; spingere l’attività produttiva a mantenere un’elevata qualità dei suoi prodotti e a migliorare progressivamente i suoi metodi; dare un intenso contributo all’ottenimento di un’allocazione tendenzialmente ottimale delle risorse umane in una società; e così via. Riguardo a tale allocazione, va ricordato che in un mondo in cui le risorse umane disponibili non sono infinite è evidentemente opportuno che la società trovi metodi efficaci per assegnare alle persone – in base ai loro talenti e alle loro capacità – i ruoli specifici di cui una comunità ha fondamentalmente bisogno. È da questa esigenza che sono nati p.es. i moderni concorsi per posti pubblici di insegnante, medico, scienziato, magistrato, orchestrale, e così via. E in altre epoche, preindustriali, generalmente era p.es. ciascun mastro artigiano stesso a selezionare il suo successore scegliendo tra i suoi apprendisti quello che gli appariva più adatto e più capace.
Per un approccio scientifico alla filosofia dialettica, dotato della capacità di assorbire in sé ed ampliare le forme dialettiche prevalentemente intuitive che erano necessariamente caratteristiche delle epoche precedenti alla rivoluzione tecnico-scientifica iniziata nell’Ottocento, approccio che pervade ampiamente tutta l’opera marx-engelsiana, cfr. in modo particolare due libri di Friedrich Engels: l’Antidühring (del 1878), realizzato in collaborazione con Marx, che approvò l’intero testo e ne scrisse un capitolo, e Dialettica della natura, una raccolti di scritti risalenti soprattutto agli anni ’70 e ’80 dell’Ottocento e pubblicata solo postuma perché l’autore non era riuscito a completarla a causa dei troppi impegni. Per recenti ricerche e approfondimenti che si possono considerare come una conferma e un aggiornamento di tale approccio, cfr. p.es. su un piano più umanistico e storico Marx e Freud - Oltre le catene dell’illusione, di Erich Fromm (Il Saggiatore, 1968, 1989), e, di Riane Eisler, Il calice e la spada (Pratiche, 1996; Forum, 2011) e Il piacere è sacro (Frassinelli, 1996; Forum, 2012; titolo originale: Sacred Pleasure, cioè semplicemente “Piacere sacro”), mentre su un piano più collegato alle scienze fisiche, biologiche e mediche Il Tao della fisica, di Fritjof Capra (Adelphi, 1982), Microcosmo - Dagli organismi primordiali all’uomo: un’evoluzione di 4 miliardi di anni, di Lynn Margulis (Mondadori, 1989), e Sani fino a cent’anni, di John Robbins (Corbaccio, 2008). Particolarmente significativi sono anche i ciclici rapporti realizzati da organismi internazionali come l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), lo United Nations Environmental Programme (UNEP) e l’Agenzia europea per l’ambiente (Aea), rapporti nei quali si mostrano in modo particolareggiato le profonde ed ineludibili interconnessioni che le varie parti della biosfera – inclusa ovviamente l’umanità – hanno tra loro. Il discernere le interconnessioni presenti tra i vari aspetti dell’essere umano, della società, della storia e della natura costituisce appunto il più nodale dei temi approfonditi nella filosofia dialettica.
Come ha sintetizzato tra gli altri Rob Van Drimmelen – riprendendo un documento del Consiglio ecumenico delle Chiese (Cec) – all’interno di un testo molto attento alle alternative che si possono sviluppare nei confronti della globalizzazione neoliberista (Economia globale e fede, Claudiana, 2002), «la natura umana ha spazio tanto per la competizione quanto per la cooperazione, e la pratica economica dovrebbe consentirle entrambe». Finché non emergerà nella vita concreta della società una soluzione più efficace e funzionale, allo stato attuale appare quanto mai sensato che la funzione di “spazio economico competitivo” continui ad avercela il mercato. Su ciò cfr. p.es. Quale economia oggi per il bene comune?, cit.. Non a caso, tutte le società non primitive tecnologicamente che durante il ’900 hanno tentato di cancellare del tutto o quasi al loro interno la competizione economica hanno decisamente rinunciato dopo un po’ di decenni o si trovano in difficoltà socio-economiche estremamente profonde. Si tratta, in fondo, degli effetti della continua evoluzione tecnologica messi in evidenza già a metà ’800 da Marx ed Engels nel loro Manifesto del partito comunista (del 1848), approfonditi in modo particolare da Marx in varie parti dei primi tre libri del Capitale (il I del 1867 e il II e il III apparsi postumi rispettivamente nel 1885 e nel 1894) e confermati in special modo da Engels nel suo ultimo scritto corposo – che è anche una sorta di “testamento politico” – e cioè l’Introduzione del 1895 al testo marxiano Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850. Più che mirare a cancellare rapidamente la competizione economica, allo stato attuale appare palesemente opportuno – dal punto di vista della qualità della vita dell’umanità (e delle classi lavoratrici in particolare) – riuscire a regolare tale competizione in modo tale da salvaguardare dialetticamente e irrinunciabilmente sia i suoi effetti socialmente più stimolanti ed efficaci sia il concreto manifestarsi dello spirito collaborativo tra le persone, tra i vari paesi e anche tra l’umanità e il resto della natura.
Tra l’altro, il mercato offre anche ai consumatori (che in gran parte non sono altro che i lavoratori medesimi) la possibilità potenziale di dirigere indirettamente in buona parte il mercato stesso – e quindi alla fin fine l’attività produttiva – attraverso le scelte nei consumi, come si è già messo in particolare evidenza in un articolo apparso su Rocca del 1° dicembre 2018 col titolo Dall’Internazionale ai rapporti col capitalismo. Un ampliamento di tale articolo è stato pubblicato lo stesso dicembre – col titolo Dopo gli errori di Seattle – nel sito di “Sinistra in rete”, al seguente indirizzo:
“https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/14007-luca-benedini-dopo-gli-errori-di-seattle.html”.
Su quella possibilità potenziale, cfr. p.es. Guida al consumo critico, del Centro Nuovo Modello di Sviluppo (Emi, 1996, ..., 2011), Manuale per un consumo responsabile, di Francesco Gesualdi (Feltrinelli, 1999, 2002), La conquista silenziosa - Perché le multinazionali minacciano la democrazia, di Noreena Hertz (Carocci, 2001) (in particolare il capitolo “Comprare e non votare”), Il consumo critico, a cura di Luisa Leonini e Roberta Sassatelli (Laterza, 2008), ed Encyclopedia of the Consumer Movement, a cura di Stephen Brobeck (ABC-CLIO, 1997). Tra l’altro, moltissime delle organizzazioni nazionali di consumatori si sono associate assieme in Consumers International, cioè in pratica “l’Internazionale dei consumatori”.
Va sottolineato che anche il potenziale ruolo di consapevole indirizzo che i consumatori – se sufficientemente informati e se non oppressi da problemi di povertà – potrebbero avere nei confronti dell’attività produttiva ha a che fare con quella complementarità dialettica tra il mercato e le iniziative pubbliche capaci di integrarlo che «consente anche di far esprimere al mercato feconde e più complesse potenzialità che altrimenti rimarrebbero silenti e ignorate e delle quali può tendenzialmente beneficiare l’intera società» (come si osservava nell’intervento già ricordato Quale economia oggi per il bene comune?).
[7] Va messo in evidenza che Charles Darwin non c’entra per nulla col “darwinismo sociale”, sia perché le sue principali ricerche e teorie scientifiche si occupavano di biologia e in particolare di dinamiche genetiche di lungo periodo (e non certo di una valutazione delle varie forme di conflittualità sociale nella nostra specie), sia perché nella sua interpretazione dell’evoluzione delle specie era ampiamente presente il peso non solo della competizione ma anche della capacità di adattamento e di cooperazione, sia perché lui stesso considerava fondamentale nello specifico sviluppo umano – come scrisse nella Parte I di L’origine dell’uomo e la selezione naturale (del 1871) – la presenza di caratteristiche come l’etica, la socievolezza, l’empatia, il senso della collaborazione, la coscienza sociale. Non a caso, Karl Marx nel 1873 gli inviò in dono una copia del primo volume del Capitale (nell’edizione originale in tedesco) con una dedica di propria mano, esprimendo ammirazione per il lavoro dello scienziato britannico.
In altre parole, il “darwinismo sociale” è basato su una pesante ed incongrua deformazione semplicistica delle scoperte scientifiche e delle effettive idee di Darwin, in un senso classista e spesso razzista che Darwin avrebbe aborrito e considerato profondamente erroneo alla luce di quelle scoperte. E anche le ricerche scientifiche che dagli ultimi decenni dell’Ottocento in poi hanno proseguito la sua opera sono giunte a conclusioni radicalmente in contrasto con le basi etologiche stesse del “darwinismo sociale”, in quanto hanno scoperto nell’evoluzione delle specie ulteriori aspetti di cooperazione su piani maggiormente complessi e difficili da cogliere che hanno richiesto un maggiore sviluppo anche tecnico-strumentale per poter essere messi in luce e mostrati in maniera indiscutibile: piani come il trasferimento di materiale genetico tra individui unicellulari, la simbiosi, ecc.. Su questi aspetti cfr. in special modo Microcosmo - Dagli organismi primordiali all’uomo: un’evoluzione di 4 miliardi di anni, di Lynn Margulis, cit., e Dazzle Gradually: Reflections on the Nature of Nature (Sciencewriters Books, 2007), scritto dalla stessa Margulis e da Dorion Sagan. In questa direzione si possono aggiungere anche degli studi molto recenti sui rapporti che appaiono esistere tra flora batterica intestinale e attività cerebrale, come ha sintetizzato p.es. Giovanni Sabato in Dalla pancia al cervello (Rocca, rubrica “Notizie dalla scienza”, 1° dicembre 2019). E sulla totale inconsistenza scientifica del concetto di “razza” nella specie umana cfr. in particolare Chi siamo - La storia della diversità umana, di Luca e Francesco Cavalli Sforza (Mondadori, 1993; Codice, 2013), Storia e geografia dei geni umani, di Luigi Luca Cavalli Sforza, Alberto Piazza e Paolo Menozzi (Adelphi, 1997), e Gli africani siamo noi, di Guido Barbujani (Laterza, 2016).
Comunque, a rendersi conto di tale inconsistenza c’erano già arrivati in tanti, per via intuitiva ed esperienziale, anche prima che si pronunciasse inoppugnabilmente la genetica: per tutti, possono bastare p.es. William Shakespeare nella sua opera teatrale Il mercante di Venezia, di quasi mezzo millennio fa, e lo stesso Darwin in diversi passi della sua raccolta epistolare Viaggio di un naturalista intorno al mondo - Lettere (1831-1836), a cura di Pietro Omodeo (Feltrinelli, 1982). Indirettamente, anche Sulla questione ebraica, di Karl Marx (del 1844), mostra quanto la critica al razzismo antisemita contenuta in quell’opera shakespeariana si fosse diffusa in modo crescente in Occidente sino alla metà dell’Ottocento, anche sull’onda dell’Illuminismo (prima del crescente ripresentarsi di tale razzismo su basi ideologiche di matrice etnico-nazionalista, come avvenne soprattutto con fenomeni come il nazismo e, in misura minore, il panslavismo che finì col caratterizzare in modo consistente anche la cultura dell’Urss). Marx infatti in quel lungo articolo, in cui vengono discusse le tendenze allora in corso in vari paesi dell’Europa e del Nordamerica, tratta la “questione ebraica” solamente come un fatto con molteplici aspetti socio-culturali (di tipo religioso, politico ed economico), non certo biologici (del tipo che si potrebbe definire razziale).
Per approfondimenti sui limitatissimi rapporti epistolari intercorsi tra Marx e Darwin – e su ipotesi formulate a tale proposito da degli storici novecenteschi e rivelatesi poi del tutto errate – cfr. in particolare due articoli di Margaret A. Fay: Did Marx offer to dedicate Capital to Darwin? - A reassessment of the evidence (Journal of the History of Ideas, gennaio-marzo 1978) e, in traduzione italiana, Marx e Darwin, un romanzo poliziesco (Monthly Review ediz. ital., luglio 1980).
[8] Alcuni di questi limiti sono alquanto ovvi. A titolo di esempio, basti ricordare l’antico detto cinese – noto e apprezzato ormai in molte parti del mondo – secondo cui è molto meglio insegnare a un affamato cronico a pescare piuttosto che limitarsi a fargli l’elemosina di un pesce: un detto che coglie sia l’aspetto personale della questione (perché così l’odierno affamato saprà in futuro come procurarsi del cibo da sé senza dipendere da altri), sia l’aspetto sociale (perché così la comunità umana non avrà più da risolvere più o meno quotidianamente una questione come l’aiutare a sopravvivere quella persona sinora priva di risorse, e magari potrà anche ricevere da lei un contributo produttivo utile ad altri). Spesso quel detto non è più applicabile alla lettera nel mondo moderno (e ciò per molti motivi che vanno dall’inquinamento delle acque all’urbanesimo, al fatto che per molti la sopravvivenza è messa a repentaglio non solo dalla mancanza di cibo ma anche dalla mancanza di un riparo efficace e/o dal mancato accesso a cure mediche, e via dicendo), ma egualmente il suo significato simbolico permane con piena validità. In sintesi, il lavoro produttivo porta con sé effetti di grande valore, come la capacità di risolvere problemi e di contribuire alla vita della società e – grazie anche a tale capacità – l’attuazione della dignità umana, mentre il vivere passivamente di beneficenza non risolve né apporta alcunché e non consente a una persona di estrinsecare costruttivamente la propria dignità. La rinuncia neoliberista ad affrontare in modo stabile e puntuale questioni come la disoccupazione e la miseria, che in un mondo basato sul liberismo raggiungono spesso punte di grande estensione soprattutto in concomitanza con i periodi di recessione economica e che tendono comunque a rimanere considerevolmente diffuse pure nei periodi di sostanziale stagnazione, costituisce appunto uno dei tanti aspetti fortemente controproducenti – controproducenti sia in generale per la qualità della vita sociale sia in particolare per il rigoglio della vita economica – che sono insiti nei “fallimenti del mercato”.
Sugli specifici limiti strutturali che pesano attualmente sulle forme di beneficenza attuate su una scala internazionale (e che a livello popolare non sono molto noti), cfr. p.es. La politica degli aiuti alimentari, di Lloyd Timberlake (in: Rapporto Terra, a cura di Edward Goldsmith e Nicholas Hildyard, Gremese, 1989), L’illusione umanitaria, di M. Deriu e al. (Emi, 2001), e La carità che uccide, di Dambisa Moyo (Rizzoli, 2010).
[9] Si tratta di un’antica frase latina, che in pratica significa “la tua morte è la mia vita”. Si pensa – anche se non se ne è certi, a causa di una mancanza di documentazione storica – che fosse una sorta di motto dei gladiatori coinvolti nei combattimenti che facevano parte dei cosiddetti “giochi” (circenses) organizzati nella Roma imperiale con modalità spesso estremamente sanguinarie in stadi come il Colosseo.
[10] Si tratta, per certi versi, di una tematica comune a qualsiasi società povera appunto di quelle dimensioni esistenziali non strettamente materiali, di sensibilità umana, ecc.. In una tale società, l’espressione della propria alterità consente in effetti sia di rendere tendenzialmente più vivo e creativo il mondo in cui gli altri crescono e vivono (proprio perché la ricchezza interiore di ciascuno, quando espressa, può servire da stimolo, arricchimento e ispirazione per altri), sia di iniziare a costruire potenzialmente una propria vita concreta in cui ci sia finalmente un po’ più di spazio per la propria autenticità e per esperienze relazionali stimolanti, appaganti ed evolutive, sia magari di contribuire anche a qualche inizio di “cambiamento in positivo” – verso una cultura maggiormente umana – nella vita sociale e politica. Ovviamente, fanno tendenzialmente eccezione a tutto questo le situazioni in cui una società o uno specifico gruppo di popolazione sono impostati in una maniera così oppressiva e repressiva che ogni espressione alternativa rischia di innescare ulteriori repressioni violente: in questi casi la scelta di esprimersi autenticamente in modo critico rispetto a tale impostazione andrebbe presumibilmente valutata con particolare attenzione per evitare danni sostanzialmente inutili e ancor più gravi a sé ed eventualmente ad altri. Se ci sono stati comportamenti individuali radicalmente alternativi che hanno addirittura avviato consistenti e diffusi miglioramenti sociali e culturali (come fece p.es. il rifiuto di Rosa Parks di sottostare alle regole razziste che venivano applicate nel 1955 sugli autobus a Montgomery e in altre parti degli Stati Uniti), altre volte scontrarsi individualmente con le regole dell’ambiente circostante non è invece servito praticamente a niente, se non a provocare sofferenze ancora maggiori alla persona stessa e magari anche ad altri.
Uno degli esempi di questa problematica più drammatici e più sordidi è costituito da quei gruppi di popolazione in cui il potere maschile è così autoritario e tendenzialmente violento che gli uomini di una famiglia (e non di rado anche diverse donne di questa, costrette a una sorta di succube sottomissione per salvare la propria pelle) sono pronti ad uccidere una figlia – o sorella o nipote – solo perché lei non accetta di sposare chi suo padre vorrebbe, o di vestirsi e comportarsi in pubblico secondo tradizione, o più in generale di essere profondamente remissiva nella vita famigliare: un deliberato assassinio premeditato, solitamente allo scopo privatamente asserito di salvaguardare di fronte al resto della società locale il cosiddetto “onore” della famiglia, e specialmente degli uomini che ne fanno parte (pubblicamente di solito gli autori dell’assassinio cercano di far attribuire il decesso in questione a un incidente, in quanto le leggi ufficiali di pressoché ogni paese non autorizzano più gli omicidi “per onore”).... Si tratta di situazioni in cui non la discussione e l’esprimersi con autenticità, ma la vera e propria fuga e l’autoesilio dal proprio ambiente d’origine costituiscono spesso la scelta decisamente più efficace per chi non è d’accordo con i diktat di questi brutali dittatori famigliari.... Un altro esempio parallelo è rappresentato dai figli che nascono in famiglie mafiose (o legate ad altre forme di violenta criminalità organizzata) e che non apprezzano il crimine, considerandolo magari addirittura insopportabile. In molti casi, per loro l’unico modo di restare fedeli a se stessi e di salvare la propria vita è andarsene lontano, senza troppe polemiche con i propri famigliari.
A parte questa possibilità di autoallontanamento, la formazione di gruppi e movimenti per la trasformazione della cultura e della società appare essere il modo fondamentale di agire quando si avverte l’inadeguatezza di qualche diffuso aspetto della società in cui si vive (come mostra chiaramente la storia dell’umanità). In presenza di forme di potere fortemente oppressive e repressive, la parziale o totale clandestinità tenderà pressoché inevitabilmente ad essere un aspetto di tali organizzazioni, mentre in presenza di condizioni non così proibitive potrà trattarsi di organizzazioni sia pubblicamente note ed accessibili sia scopertamente attive. Non solo la critica a singoli aspetti culturali di una società, ma anche le forme di lotta contro le oppressioni di classe passano tipicamente per questo genere di circostanze e situazioni. Particolarmente pregnante a questo proposito risulta essere la già citata Introduzione di Engels del 1895 a Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, di Marx. Sulla lotta politica – e sulla parallela resistenza interiore – contro i condizionamenti culturali che anche nei movimenti alternativi tendono a provenire dalla mentalità dominante corrente e in particolare dal suo classismo e dal verticismo che inevitabilmente lo accompagna, cfr. in particolar modo, per quanto riguarda l’Ottocento, i Manoscritti economico-filosofici del 1844 (pubblicati postumi nel 1932) e la Critica al programma di Gotha (del 1875, pubblicata postuma nel 1891), entrambi di Marx, il già citato Antidühring e Per la critica del progetto di programma socialdemocratico 1891 (pubblicato postumo nel 1901), entrambi di Engels. In epoche più recenti, nel Nord del mondo cfr. a quest’ultimo proposito l’opera complessiva di autori come Erich Fromm, Elvio Fachinelli, Mary Daly e Riane Eisler (che nei loro lavori, rispetto alle possibilità disponibili nell’Ottocento, hanno potuto usufruire – essendone magari anche parte – di processi complessi come lo sviluppo della psicoanalisi e dell’antropologia culturale, le elaborazioni del moderno movimento femminista e l’incontro con filosofie orientali come il taoismo, lo yoga, lo Zen, ecc.). Nel Sud del mondo spiccano in questo senso personalità come Gandhi, Léopold Sédar Senghor, Krishnamurti, Nelson Mandela, Thich Nhat Hanh, il Dalai Lama Tenzin Gyatso, Vandana Shiva e José Mujica, oltre a una scrittrice come Marlo Morgan nella sua interconnessione con la cultura aborigena australiana (diverse di queste personalità possono sembrare a uno sguardo superficiale legate strettamente a forme religiose, ma approfondendo quanto da essi realizzato e scritto si scopre che si tratta di tematiche propriamente filosofiche, non religiose in sé e per sé, analogamente al fatto che il buddhismo stesso e altre odierne religioni sono nati originariamente come filosofie di vita e solo col passare delle generazioni sono stati poi sostanzialmente trasformati appunto – e tanto più nell’ambito della cultura clericale e di quella popolare – in religioni...).
[11] Proprio questa visione dell’essere umano viene usata dal neoliberismo anche come motivazione del tendenziale rifiuto delle attività pubbliche o comunitarie. Se gli esseri umani sono in realtà incapaci di dare importanza al bene comune e riescono ad interessarsi veramente solo a ciò che dà loro qualche vantaggio strettamente personale, ogni volta che si cerca di operare in termini pubblici o comunitari quello che in realtà avviene è che dietro a tali termini si nasconderanno interessi personali, incapacità di ragionare lucidamente sulle esigenze della collettività (un’incapacità spesso definibile anche come incompetenza), sprechi di denaro pubblico, forme di corruzione, ecc., di modo che l’azione pubblica o comunitaria non farà che peggiorare ulteriormente le cose. Tanto varrà allora lasciare al mercato le cose da fare.... In altre parole, secondo l’ideologia sbandierata dai neoliberisti non esistono politici o esponenti di comunità veramente capaci: il massimo che possono fare coloro che hanno l’uno o l’altro di questi ruoli è sorvegliare che la politica e la comunità facciano il meno possibile e non disturbino l’iniziativa privata e le sue attività....
Oltre alla cosiddetta “amministrazione della giustizia” (che per avere socialmente efficacia e non scatenare continuamente diatribe e disordini richiede almeno una parvenza di operatività super partes, necessitando quindi di un funzionamento di tipo non privatistico), l’unico campo in cui di fatto i neoliberisti sostengono con forza e solitamente apprezzano la concreta iniziativa pubblica – rendendosi probabilmente conto che sarebbe troppo rischioso lasciare completamente all’iniziativa privata le guerre e la questione degli armamenti – è appunto quello degli eserciti e delle azioni belliche: più grandi e più armati sono gli eserciti, più profitti industriali potranno fare le industrie delle armi; e, più potenti e più disposti ad agire aggressivamente sono gli eserciti dei paesi economicamente più forti, più facilmente le imprese private aventi base in tali paesi potranno affermarsi nel mondo.... La questione verrà messa più ampiamente in luce nella seconda parte.
Vale la pena di mettere in evidenza che gli eserciti, se intesi semplicemente come strumenti di (legittima) difesa in sé e per sé e non come entità minacciose e tendenzialmente aggressive, non risultano molto interessanti per il neoliberismo: non c’è molto da guadagnarci sopra per le industrie e, per di più, l’esperienza umana che si può fare in essi potrebbe anche stimolare tra le persone “pericolosi” pensieri di coesione sociale, di prevenzione delle tensioni socio-economiche internazionali e persino di generale solidarietà collettiva (tutte cose estremamente fastidiose per i neoliberisti...).
[12] Esistono forme di elemosina più “classiche” e altre più “strutturali”. Le prime sono riassumibili nel concetto di “dare soldi per i bisogni immediati dei poveri, dei bisognosi”; le seconde nel “regalare qualcosa dall’alto per rispondere nel tempo ad alcuni dei bisogni dei poveri, dei bisognosi”: p.es., far costruire a proprie spese un ospedale pubblico accessibile gratuitamente a tutti (e specialmente a chi non è in grado di pagarsi i servizi di una clinica privata), o un ricovero per persone rimaste senza casa a causa della povertà, ecc.. Benché ovviamente non si possano considerare “sbagliate” queste varie forme di elemosina (che in fondo possono anche essere viste come un primo inizio di un riequilibrio economico attuato nei confronti di gravi diseguaglianze sociali, in modo simile al ruolo socialmente codificato che il dono ha in molte culture preindustriali, specialmente di tipo tribale), tuttavia in tali forme permane l’estremo difetto di lasciare immodificata la situazione di fondo, cioè le radici da cui in una società deriva la presenza di miseria, di pesante emarginazione sociale, ecc..
La differenza tra l’elemosina e la collaborazione sta principalmente nel fatto che la seconda mira anche a rimuovere queste radici, cioè a far sì che nella società operino dinamiche attraverso cui – come già si è accennato nella nota 8 – tutti possano dare concretezza alla propria dignità di esseri umani e alla propria capacità di contribuire costruttivamente alla vita della società stessa.
[13] Benché dell’aldilà non abbiamo prove del tutto “scientifiche”, vi sono molti indizi del fatto che effettivamente la nostra esistenza non si concluda totalmente con la morte fisica ma prosegua in altre forme: indizi come specialmente gli stati di pre-morte (da cui non poche persone sono “tornate” riferendo sia di modalità spirituali di esistenza sia di incontri appunto con entità “disincarnate”), i viaggi astrali (che formano un parallelismo con tali stati) e i ricordi di cosiddette “vite precedenti”. Dal punto di vista interpretativo, numerose di tutte queste esperienze personali possono essere lette in modo alquanto incerto e controverso, ma una parte di esse risulta notevolmente solida. Cfr. p.es. Paradiso in rianimazione, di Enrico Verdecchia (Panorama, 22 agosto 1993), Esperienze di premorte - Scienza e coscienza al confine tra fisica e metafisica, di Enrico Facco (Altravista, 2010), Il bambino che visse due volte, di Jim B. Tucker (Sperling & Kupfer, 2009), e – per un’introduzione sul piano storico – Tornare al Mondo - Resurrezioni, rinascite e doppi nella cultura antica, di Stefania Rocchetta (Il Mulino, 2013). Dell’argomento si è occupato, decisamente a sorpresa, anche lo straordinario teatrante, contestatore di dogmi ed ideologie, rivivificatore della tradizionale creatività del teatro popolare e premio Nobel per la letteratura Dario Fo, nell’articolo Fo: “Ho sentito Jannacci. Che splendido sogno” (Il Fatto Quotidiano, 26 marzo 2014).
A parte il fatto che numerose religioni erano in origine semplicemente delle filosofie di vita (come già si è ricordato nella nota 10), tra le tante filosofie e religioni in cui sin dalla loro origine è autenticamente presente la nozione di un aldilà vi sono fondamentalmente due modi di vedere quest’ultimo: o una spenta dimensione di grigiore per tutti, incentrata su stati d’animo come la tristezza e il rimpianto per la corporeità ormai perduta, e ciò indipendentemente da quanto ciascuno abbia fatto nella propria vita terrena; o una dimensione in cui si sta bene, male oppure in modo tendenzialmente neutro a seconda soprattutto della qualità etica e spirituale della vita terrena precedentemente vissuta da ciascuna singola persona (e in questa dimensione può essere eventualmente inclusa la possibilità di una rinascita che, dopo un certo periodo di esistenza puramente spirituale, dia luogo ad un ritorno a qualche forma di esistenza terrena). Si tralasciano qui le culture in cui la concezione dell’aldilà è basata in modo pacchiano sulla proiezione dei desideri personali della classe dominante, come p.es. i “paradisi dei guerrieri” elaborati tipicamente uno o più millenni fa in molte culture fortemente bellicose. Mentre nell’antica Grecia, nell’antico Israele, nell’antica Roma e in altre culture di quell’epoca predominava ampiamente il primo di quei due modi di vedere (come si mostra p.es. nella concezione omerica dell’Ade, grigio mondo di ombre, e nei testi dell’intera Bibbia ebraica, fatta eccezione per un brevissimo accenno in senso contrario nell’ultimo capitolo del libro in essa contenuto che probabilmente fu l’ultimo ad essere completato, il Libro di Daniele, al cap. 12, vv. 2-3), già nella Grecia classica il secondo di tali modi era proposto in varie forme da correnti misteriche come l’orfismo e da filosofi di primo piano come Pitagora e Platone. E, ancor prima, visioni di questo tenore appaiono essersi diffuse in Asia attraverso da un lato antichi testi induisti come le Upanisad e dall’altro lato lo zoroastrismo (rimangono peraltro in grandissima parte sconosciute le concezioni riguardanti questa tematica presenti nelle innumerevoli civiltà prive di scrittura che si sono susseguite durante i millenni nelle varie parti del mondo). Tutte quelle che oggi sono divenute le cosiddette “grandi religioni” condividono in sostanza questo secondo modo di vedere, anche se in esse molti dei loro cosiddetti “credenti” hanno alterato nettamente nei fatti la visione dell’aldilà che era stata presentata nei messaggi originari che stanno alla base di tali religioni.
P.es., nel cristianesimo è stato spessissimo trascurato il brano del Vangelo di Matteo (cap. 25, vv. 31-46) in cui, mentre si affronta direttamente e ampiamente il tema del “giudizio finale”, si chiarisce in modo ineludibile che la questione verte intorno alla nostra capacità di dare concretamente amore e solidarietà agli altri, così come spessissimo sono stati messi letteralmente da parte i brani in cui Gesù disse che per entrare nel “regno di Dio” occorreva saper essere anche come bambini (cfr. Matteo 18,1-4 e 19,13-15; Marco 9,33-37 e 10,13-16; Luca 9,46-48 e 18,15-17) e che il “regno di Dio” era già qui (cfr. Luca 17,20-21). In breve, in molte religioni – come p.es. anche la galassia induista, il buddhismo e l’Islam – molte correnti (tra le quali in modo particolarmente spiccato quelle integraliste) tralasciano gli insegnamenti principali delle scritture fondamentali della religione in questione e si concentrano su aspetti secondari (talvolta, per di più, estrapolati totalmente dal contesto in cui erano stati presi in considerazione in quelle scritture), allo scopo di poter insistere su concetti religiosi del tutto inesatti e fuorvianti ma comodi agli interessi politico-materiali di vari esponenti di quelle correnti e/o a qualche ideologia da esse sviluppata. In tal modo – come è avvenuto molto frequentemente appunto nel cristianesimo – anche in queste altre religioni i loro valori essenziali originari (incentrati chiaramente su tematiche come l’etica, l’empatia concretamente espressa agli altri esseri viventi, il senso della giustizia e la freschezza interiore) sono stati spesso sostituiti, nella mentalità di settori di popolazione molto ampi, con orientamenti che rispetto a quei valori sono alquanto diversi o addirittura si configurano come il loro contrario da molti punti di vista.
Rimane comunque il fatto che, fatta eccezione per le correnti integraliste (che in realtà – nella loro peculiare proliferazione di dogmatismi infondati, nei loro tipici atteggiamenti sciovinistici, arroganti, aggressivi e/o assolutistici e nella loro frequente tendenza a forme istituzionali di violenza – sono sistematicamente così lontane dai messaggi originari cui asseriscono di far riferimento che andrebbero definite chiaramente ed apertamente come correnti rispettivamente pseudocristiane, pseudoinduiste, pseudobuddhiste, pseudoislamiche, ecc.), un certo senso etico tende a rimanere, anche se generalmente molto annacquato, nei modi comuni di intendere ciascuna delle “grandi religioni” attuali. Non stupisce dunque che qualche “grande ricco”, in questo mondo strapieno di miseria e di sfruttamento, possa provare timore di fronte alla possibile e paventata prospettiva di un aldilà in cui gli verrà chiesto dov’era il suo senso etico durante questa vita terrena e si senta quindi di mettere le mani avanti e di compiere un po’ di elemosina per cercare di sgravarsi almeno in una certa misura da quel timore....
Nelle varie religioni storicamente esistenti c’è molto spesso una tensione intrinseca tra due poli contrapposti: da un lato, il veicolare delle autentiche aspirazioni umane e l’esprimere genuinamente delle effettive dinamiche presenti nell’esistenza umana; dall’altro lato, la tendenza a deformare e frenare tali aspirazioni e tali dinamiche irregimentandole in una istituzionalizzazione culturale e comportamentale che rispecchi la stratificazione corrente delle classi sociali, i limiti conoscitivi e gli eventuali timori dell’ignoto tipici della cultura locale, gli interessi specifici di un ceto clericale-ecclesiastico e/o il ristretto orizzonte esperienziale ed umano che finisce non di rado con l’affliggere tale ceto quando pretende di distinguersi e separarsi dall’universo dei laici. Su ciò e sulla relativamente moderna ricerca scientifica dell’effettiva “verità storica” che sta dietro alle diverse religioni, cfr. p.es. l’Introduzione alla critica della filosofia del diritto di Hegel, di Karl Marx (del 1844), La sacra famiglia, di Marx ed Engels (del 1845), l’Antidühring, di Friedrich Engels (del 1878), L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, di Max Weber (del 1905), In God we trust - Evangelici e fondamentalisti cristiani negli Stati Uniti, di Sébastien Fath (Lindau, 2005), Blessed: A History of the American Prosperity Gospel, di Kate Bowler (Oxford University Press, 2013), Eresie attuali del cattolicesimo, di José Ignacio Gonzáles Faus (Edb, 2019), Contro il celibato - 16 tesi sul matrimonio dei preti, di Hubert Wolf (Donzelli, 2019), e Brasile: la spalla teologica al credo neoliberista, di Giacomo Salvarani (Rocca, 15 maggio 2019); Gesù, la verità storica, di E. P. Sanders (Mondadori, 1995), Storia del cristianesimo: I. L’età antica (secoli I-VII), a cura di Emanuela Prinzivalli (Carocci, 2015), e Satana contro gli evangelisti - Un dibattito in cielo, di José Luis Sicre (Edb, 2017); l’agile antologia Umanesimo ebraico, di Martin Buber (Il Melangolo, 2015), Il calice e la spada, di Riane Eisler, cit., Breve introduzione alla Bibbia ebraica, di John J. Collins (Queriniana, 2011), e le riflessioni sull’antica storia ebraica contenute nel libro a più voci Il giubileo del debito, a cura di Antonio De Lellis (Bordeaux, 2015); il volume antologico Le grandi religioni, di Mohandas Karamchand Gandhi (Newton Compton, 2009), e Gli indù, di Wendy Doniger (Adelphi, 2015); La religione buddhista, di Richard H. Robinson e Williard L. Johnson (Ubaldini, 1998), Buddhismo impegnato, a cura di Arnold Kotler (Neri Pozza, 1999), e Ribellatevi!, del Dalai Lama Tenzin Gyatso con Sofia Stril-Rever (Garzanti, 2018); Lo specchio divino - Studio sullo yin e yang e lo Shinto, di M. Nahum Stiskin (Ubaldini, 1972); La malattia dell’Islam, di Abdelwahab Meddeb (Bollati Boringhieri, 2003), Islam - Passato, presente e futuro, di Hans Küng (Rizzoli, 2005), Femminismo islamico - Corano, diritti, riforme, di Renata Pepicelli (Carocci, 2010), Testo sacro e libertà, di Nasr Hamid Abu Zayd (Marsilio, 2012), e L’esoterismo islamico, di Alberto Ventura (Adelphi, 2017); L’essenza della vita - Il risveglio della consapevolezza nel cammino spirituale, di Willigis Jäger (La Parola, 2007), e Il corpo sottile - La grande enciclopedia dell’anatomia energetica, di Cyndi Dale (Bis, 2013).
Col loro sostanziale bisogno di credenze codificate, di riti e di forme di culto, le religioni possono in sostanza essere considerate dal punto di vista umano come delle forme relativamente “primitive” di rapporto con dimensioni come in particolar modo l’etica, la spiritualità e la percettività interiore; tuttavia nel contempo è anche vero che, finché un gruppo di popolazione non ha effettivamente e liberamente sviluppato forme di tale rapporto più profonde e più “evolute”, la religione può essere efficacemente un consistente veicolo ed espressione di quelle dimensioni – che sono di grande significato per la qualità della vita nella società umana – e quindi anche l’impegnarsi per rendere più autentica, congrua e umana una religione originariamente (o potenzialmente) sensibile ad esse può essere un’azione capace di arricchire e far evolvere in modo considerevole la cultura corrente di quel gruppo di popolazione.
In effetti, dal punto di vista culturale il neoliberismo – così come molte altre mentalità, ideologie e correnti di pensiero nate nella cornice storica della civiltà patriarcale e caratterizzate da atteggiamenti dualisti, da un forte senso della gerarchia nella società, dal potere maschile, dal facile uso della violenza, ecc. – può essere considerato come un secco e brutale impoverimento qualitativo rispetto al senso etico, spirituale e interiormente percettivo che è tipicamente presente non solo nelle varie filosofie che in diverse epoche e regioni possono essere associate all’umanesimo ma anche nelle correnti di pensiero più autentiche, congrue ed umane che fanno parte delle “grandi religioni” attuali e di altre religioni ancora. L’istituzionalizzazione e la banalizzazione da cui sono generalmente affette da tempo le varie religioni e la vera e propria deformazione che col tempo queste hanno solitamente avuto in senso classista, moralistico e/o ritualistico – senza essere popolarmente sostituite appunto da quelle forme di etica, spiritualità e percettività interiore filosoficamente più profonde e più “evolute” suggerite in vari modi da autori ricchi di senso dialettico e di umanesimo come p.es. gli “antichi” Eraclito, Lao-tze e Hui Neng e i “moderni” Karl Marx, Friedrich Engels, Erich Fromm, Mary Daly e Riane Eisler – possono essere considerate come una sorta di “tappeto rosso” che di fatto ha preparato simbolicamente la strada al fiammante, rapido e decisamente brutale carro armato del neoliberismo e alle altre ideologie usate durante gli ultimi secoli per soffocare e reprimere le aspirazioni e rivendicazioni popolari miranti ad una elevata qualità del lavoro e della vita in generale, ad un’efficace democrazia e ad un salubre e creativo rapporto tra cultura e natura....
Di quegli autori, cfr. in special modo a questo proposito i Frammenti riguardanti Eraclito (costituiti dagli sparsi brani dell’autore giunti dal 5° secolo a.C. sino a noi e dai successivi commenti di altri scrittori sulla sua opera), il Tao tê ching, di Lao-tze (del 4° secolo a.C. circa; il titolo è traducibile approssimativamente con “Libro della Via e della Virtù vitale”), Il Sutra di Hui Neng (dell’8° secolo d.C.), le due già menzionate bozze incompiute costituite dai Manoscritti economico-filosofici del 1844, di Karl Marx, e da Dialettica della natura, di Friedrich Engels, L’arte d’amare, di Erich Fromm (Il Saggiatore, 1963), Al di là di Dio Padre, di Mary Daly (Editori Riuniti, 1990), e Il piacere è sacro, di Riane Eisler, cit..
[14] Con ciò non si vuol asserire in modo sostanzialmente moralistico e intellettualistico che si tratti di tematiche tutte radicalmente fuori luogo e sbagliate. In diverse di esse – in particolar modo la cucina e lo sport, specialmente quando vissuti e attuati in prima persona e non soltanto come spettatori – ci sono aspetti indubbiamente interessanti e vitali. Inoltre, sta a ciascuno decidere a che cosa dedicare la propria attenzione in questo o quel momento della sua vita. La questione è che queste tematiche, oltre al fatto che dovrebbero essere comunque vissute e gestite in modi non pericolosi per la propria salute fisica e psichica e per quella degli altri, dovrebbero anche occupare tutt’al più uno spazio secondario nella vita delle persone (tranne evidentemente per chi è coinvolto in professioni come il cuoco, l’atleta, il sarto o lo stilista), perché nella vita di ognuno ci dovrebbero essere altri temi molto più significativi, collegati innanzi tutto a delle genuine esperienze vissute intensamente in prima persona sia nella vita concreta che in quella interiore e a dei rapporti interpersonali reciprocamente intensi e profondi (incluso possibilmente in tutto questo l’indirizzarsi verso una partecipazione attiva, liberamente vissuta, consapevole, “impegnata” e creativa nell’ambito politico-sociale).
Invece – e non certo per caso – in tutte quelle tematiche predomina una sostanziale assenza della dimensione sociale e in quasi tutte, e tanto più nella loro forma mediatica (solitamente spettacolarizzata in misura più o meno intensa), predominano anche la superficialità, una tendenziale passività di fondo e, col passare del tempo, una sostanziale automaticità interiore. E la “cultura di massa” diffusa instancabilmente dalle maggiori potenze mediatiche tenta sistematicamente di accreditare l’idea che i pensieri e il cosiddetto “tempo libero” di ognuno dovrebbero essere riempiti pressoché completamente, oltre che con le vicende squisitamente personali della propria vita quotidiana, con tematiche come quelle in questione.
Ovviamente, l’attenzione mediatica rivolta a ciascuna di tali tematiche non è necessariamente indirizzata verso le medesime persone: p.es., chiunque si può rendere conto che l’interesse mediatico per le telenovelas e per i pettegolezzi sui “Vip” mira ad attrarre gruppi di persone completamente diversi da quelli cui mira l’interesse mediatico per i giochi elettronici o per la pornografia.... Non è la singola tematica, ma l’insieme di queste tematiche ciò con cui la “cultura di massa” cerca di addormentare soprattutto sul piano politico-sociale l’intelligenza e la creatività delle persone che fanno parte delle classi lavoratrici.
[15] Come si è già notato nella nota 10, il primo di questi due testi è stato pubblicato postumo solo nel 1932, ma il secondo invece è stato pubblicato nel 1849 stesso (originariamente nella forma di una serie di articoli) e poi ristampato più volte in forma di opuscolo già nel corso dell’Ottocento. Nella riedizione del 1891 – concepita per un pubblico particolarmente vasto – Friedrich Engels ha voluto fornire specificamente una versione “aggiornata” del testo in base allo sviluppo verificatosi nel pensiero di Marx dopo il 1849 (in pratica, una versione realizzata come se fosse stata brevemente riveduta dopo qualche decennio da Marx stesso). In pratica, Engels ha soprattutto inserito nel testo il concetto di “forza-lavoro”, che Marx in età giovanile non aveva ancora elaborato e che è poi divenuto uno dei pilastri del pensiero economico e politico marxiano. L’espressione “vendita del lavoro”, contenuta nella citazione di Marx qui presentata, è diventata in tal modo “vendita della forza-lavoro”.
[16] Cfr. p.es. Prestiti istituzionali? È una questione di classe... (La Civetta, luglio-agosto 2012) e Governanti sotto zero - Per un ABC dell’azione pubblica in tempi di crisi economica, cit.. Ecco l’indirizzo in rete del primo di questi interventi:
“http://www.civetta.info/download/civetta_07_12.pdf” (pag. 10);
[17] Per l’indirizzo Internet di tale articolo, apparso nel sito di “Sinistra in rete” col titolo Non una vera crisi economica, ma una strategia, cfr. la nota 1.

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Solomon
Tuesday, 31 May 2022 00:28
Buone notizie!!! buone notizie!!!,
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Domenico Accorinti
Wednesday, 04 March 2020 17:13
Condivido nel complesso quanto esposto nell’articolo da Luca Benedini ma ritengo che, purtroppo, per evitare “l’adorazione pubblica del concetto totalmente fasullo secondo cui il continuo e indisturbato arricchimento dei ricchi è il miglior modo, o addirittura l’unico modo, di far arricchire anche gli altri” temo che la strada politico-filosofica da percorrere sia molto lunga e che passi dall’esame critico dei presupposti di tutto il pensiero occidentale degli ultimi duecento anni e, tra l’altro, anche dalla rimessa in evidenza della dottrina politica (ma forse sarebbe più corretto dire antipolitica) dell’anarco-capitalismo.
Questa, che a mio avviso è alla base della legittimazione della globalizzazione economica, sta operando in modo strisciante da quando si smise di nominarla agli inizi di questo millennio (a mia memoria ricordo come ultima citazione del termine anarco-capitalismo sulla stampa quella che, mi sembra di ricordare nel 2000, rinvenni sul Corriere della Sera, pagina economica, in cui veniva schematizzata la “Galassia degli economisti anarco-capitalisti”, tra i quali veniva anche elencato il nostro Antonio De Martino), forse diventata poi innominata per togliere un’arma terminologica ai fautori della sovranità della politica sull'economia.
Per un maggior approfondimento della questione rinvio, chi fosse interessato, al mio articolo pubblicato su questa newletter in data 17 febbraio 2020.
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Paolo Selmi
Monday, 09 December 2019 10:08
Caro Luca,
bentornato! E' un piacere rileggerti. Molto interessante, specialmente perché molta terminologia specifica mi manca. Parliamo di "trickle down". Il 23/10/1985, in un discorso divenuto famoso, Deng Xiaoping pronunciò la famosa frase: “让一部分人先富起来, 带动大部分地区, 然后达到共同富裕。" (Lasciate che un gruppo di persone si arricchisca per primo, che faccia da volano alla maggior parte della popolazione e dei territori, e poi si raggiungerà la prosperità comune).
Quel non specificato "gruppo di persone" (一部分人) in questa frase che, dal punto di vista storiografico, costituisce la data ufficiale di "apertura delle gabbie", diede il la a pratiche corruttive sempre più generalizzate e generate, alla fonte, da motivi discrezionali il cui tentativo di rimedio a posteriori sanzionatorio, anche pesante (ergastolo o pena capitale), appare sempre più come gesto simbolico che, tuttavia, non ne educa più cento come nei tempi che furono e che, invano, tenta di evocare.
A parte questa considerazione a latere, tale affermazione costituì la fonte principale di legittimazione per portare la biglia dell'economia cinese su un piano sempre più inclinato, quello delle ZES prima e dell'unica, grande ZES poi, quello di "liberare le forze produttive" (解放生产力, Jiang Zemin, da che cosa è facilmente intuibile), quello delle "tre rappresentatività" (三个代表) che ha consentito l'ingresso dei padroni nel PCC in quanto "forze produttive avanzate" (先進生产力), la crescente finanziarizzazione dell'economia, lo sganciamento della moneta emessa al valore prodotto e un rapporto debito-pil ufficiale del 300%, l'esportazione di capitali e altri malanni tipici di questo capitalismo globalizzato e globalizzante, sia pur "con caratteristiche cinesi".

E tutto iniziò con far passare il concetto di "trickle down"...

Ciao Luca e attendo le altre due parti!
buon proseguimento

Paolo
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