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malacoda

La ragione neoliberista e i suoi critici

Al tempo della Globalizzazione

di Giorgio Mele

La fine del compromesso socialdemocratico e il mercato globalizzato mettono in discussione uguaglianza e democrazia. La crisi aperta dal 2008 svela i limiti del modello, ma non emerge ancora un'alternativa di sistema. Le diverse analisi critiche e le proposte di intervento elaborate da Picketty, Stiglitz, Rosanvallon, Streeck, Dardot e Laval

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Quali sono gli elementi che caratterizzano questa epoca detta della globalizzazione neoliberista?[1].

A me sembra che si possano riassumere in questo modo: a) il dominio del mercato; b) l'eclissi della uguaglianza; c) la crisi della democrazia; d) la scomparsa di un disegno alternativo allo stato di cose presente.

Come evidente i quattro elementi non possono essere presi singolarmente, ma sono profondamente intrecciati fra loro e tutti concorrono al dominio del neoliberismo che si presenta non solo come la potenza, dominante, ma come la struttura naturale del mondo, o meglio, la ragione[2] del mondo.

Marx nella Ideologia tedesca nel 1845 scrive con qualche capacità previsionale e come se parlasse a questo secolo: "Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l'allargarsi dell'attività sul piano storico universale, sono stati asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del cosiddetto Spirito del mondo, Weltgeist, etc.) a un potere che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale".[3]

Il capitale inteso in ultima istanza, come dice Marx, come mercato mondiale è oggi la "situazione del mondo" che ha immanentizzato la ragione, che accoglie dentro di sé, relativizzandole, tutte le domande di senso. E' la dimensione naturalmente immediata in cui ogni individuo è immesso, gettato. Ma la ragione neoliberista è una ragione deviata tesa alla giustificazione della metamorfosi negativa del mondo. Come afferma Jean Luc-Nancy[4] la globalizzazione ha trasformato il globo in "glomus", pura agglomerazione, ammasso, accumulazione che concentra il benessere nelle mani di poche persone, tutto da una parte, e tutto il resto, una infinita miseria, altrove. Nel glomus si assiste simultaneamente alla crescita indefinita della tecnoscienza, alla crescita correlativa della popolazione, all'aggravamento delle ineguaglianze di ogni tipo e allo smarrimento delle certezze, delle immagini e delle identità che componevano il nostro mondo e la nostra umanità.

Pur tuttavia il neoliberismo, in quanto ragione del mondo, ha la forza di presentarsi come l'unico modo di vivere possibile senza alternative immaginabili e da questo punta di vista punta ad espungere e neutralizzare la possibilità di qualsiasi pensiero critico, perché "ontologicamente inammissibile", in quanto esterno ed estraneo alla realtà così com'è. Una nuova e totalitaria forma della concezione "dell'uomo normale", ma con una potenza pervasiva finora inedita nella storia umana, la razionalità neoliberista si presenta come una forma granitica della governamentalità dell'attuale forma capitalistica tesa a organizzare, come ha individuato Michel Foucault, non solo l'azione dei governanti, ma direttamente anche la condotta individuale dei governati.

Con la crisi del 2008 la marcia trionfale del neoliberismo si è interrotta e sono venuti in chiaro i guasti di questa razionalità deviata, a partire dalla voracità e il cinismo dei centri finanziari e i milioni di uomini portati alla disperazione in America come in Europa. Sono finalmente sorti movimenti di resistenza e di opposizione, si è aperta una fase di conflitto aspro in special modo in Europa, con la rivolta popolare ed elettorale in Grecia e in Spagna, la nascita di nuovi leader come Jeremy Corbin o Bernie Sanders, che non rappresentano purtroppo ancora una alternativa al neoliberismo, ma certo un primo importante barlume di speranza in questo senso. A cui però si contrappongono imponenti e pericolosi movimenti di destra o regimi apertamente fascisti come quello ungherese o personaggi grettamente reazionari come Donald Trump negli United States.

Come è noto il nuovo modello sociale e culturale che governa il mondo è l'esito dell'offensiva liberista iniziata a metà degli anni 70. Gli anni a cavallo tra i settanta e gli ottanta fanno da spartiacque della vicenda sociale, politica e culturale dell'occidente. Dalla fine della seconda guerra mondiale e sino alla fine degli anni sessanta, in quasi tutto l'occidente si assiste ad un rafforzamento dei programmi di protezione sociale, che accresce i livelli di benessere di settori crescenti delle classi medio-basse (sia di lavoratori autonomi, che dipendenti). "Nella maggior parte dei paesi avanzati la spesa sociale si espande anche perché sono anni di sensibile crescita del Pil, di valori legati all'equità, di rafforzamento del potere sindacale; questi elementi determinano sia una estensione delle provvidenze che lo sviluppo delle grandi infrastrutture sociali (scuole, ospedali, edilizia popolare, servizi sociali, ecc) come garanzia di accesso all'educazione, alla salute, alla casa, il tutto attraverso un ruolo molto attivo dei sindacati e in presenza di un clima politico culturale aperto agli interventi dello Stato in campo sociale quale strumento di redistribuzione del reddito e della ricchezza (non a caso questo periodo viene unanimemente definito come l'epoca d'oro dello stato sociale)" [5].

Nel 1942 Lord William Beveridge (1879 - 1963, Regno Unito) presentò un Rapporto in cui si delineavano i caratteri essenziali di un moderno stato sociale che doveva essere gestito da un'unica entità e, quindi, centralizzato per una maggiore efficienza ed economicità ; essere universale ( accessibile a tutte le classi sociali senza alcun limite di reddito e coprire tutte le evenienze ) e finalizzato alla sconfitta di cinque flagelli : l'insicurezza del reddito, la malattia, l'ignoranza, la miseria, l'ozio determinato dalla disoccupazione. Conseguentemente venivano indicate politiche e provvedimenti di grande importanza come un reddito minimo sufficiente, nel momento in cui la capacità di guadagnare del singolo si interrompe per svariati motivi; assegni familiari per i figli sino a 15 anni, servizi per la salute, per l'educazione e, naturalmente, politiche per la piena occupazione perché nessun piano sarebbe finanziariamente sostenibile in presenza di una disoccupazione di massa.

La proposta di Beveridge ebbe una grande eco e contribuì in maniera determinante all'accettazione e alla diffusione, subito dopo la seconda guerra mondiale dell'idea di uno Stato capace di farsi carico di tutti i problemi sociali dei suoi cittadini in ogni momento della loro esistenza. Questa proposta politica troverà una legittimazione importante nella formulazione delle grandi costituzioni democratiche post belliche e nella carta dei diritti dell'ONU. A partire dalla fine della seconda guerra mondiale si avvia, certo con differenze e contraddizioni, in tutto l'occidente sia capitalistico che socialista, la stagione più avanzata dal punto di vista sociale di tutta la storia umana.

Il fatto che ciò sia avvenuto dopo il conflitto più devastante e distruttivo della storia del mondo non è un fatto marginale, ma forse una delle cause determinanti. Thomas Piketty[6] spiega nel suo ultimo lavoro che la costituzione dello stato sociale è direttamente collegata con l'ampliarsi delle leve della fiscalità. Fino al 1914 le imposte equivalevano al 10% del reddito nazionale, per cui l'intervento dello stato nell'economia e nel sociale era minimo[7] . Poteva assolvere solo alle grandi funzioni pubbliche: spese militari in primo luogo, polizia, giustizia, affari esteri, amministrazione in generale; venivano finanziate anche alcune infrastrutture minori e un certo numero molto limitato di scuole, università e centri sanitari. Dal 1918 la devastazione prodotta dal primo conflitto mondiale e il rischio di contagio della rivoluzione russa costringe i governi a istituire la imposta progressiva che porta il prelievo fiscale fino al 40% e in Usa e Gran Bretagna viene approvata addirittura una imposta confiscatoria su quelli che vennero chiamati i redditi eccessivi.

"E'importante - afferma Piketty - comprendere che l'imposta progressiva, decisiva nella costruzione dello stato sociale, è stata il prodotto delle guerre almeno quanto lo è stata della democrazia"[8] . Lo stato liberale aveva la necessità di ricostruire la sua credibilità politica e non poteva farlo senza il consenso di quelli a cui aveva chiesto di combattere e morire nella mattanza della guerra e senza che masse sempre più ampie venissero conquistate dal fascino del comunismo e dalla rivoluzione bolscevica del 1917. Negli Stati uniti questo processo si consoliderà ulteriormente a fronte della crisi del '29, che imporrà un forte intervento dello Stato.

Ciò che è avvenuto dopo la prima guerra mondiale si rafforzerà con il disastro colossale, inedito, del secondo conflitto mondiale con i suoi cento milioni di morti. Il tasso di prelievo della fiscalità arriverà a toccare in alcuni paesi come gli Usa l'80%. E lo Stato seguendo in forme diverse le indicazioni di Beveridge provvederà a garantire ai cittadini, in primo luogo in Europa, la più ampia fruibilità dei diritti alla salute, alla educazione, alla casa, al lavoro.

Agli inizi degli anni '70 questo equilibrio si rompe e si apre una crisi di tipo sistemico che cambierà tutto l'assetto dell'economia e della politica mondiale. La crisi nasce negli Stati uniti che, colpiti da spinte speculative, con un debito enorme causato dai costi della guerra ventennale contro il Vietnam, decisero nel 1971 di far saltare gli accordi di Bretton Woods con cui era stata regolata l'economia internazionale dalla fine della seconda guerra mondiale. In questo modo gli USA invece di aumentare le tasse per colmare il proprio deficit, decisero di scaricare i costi enormi della guerra in Vietnam su tutto il mondo con la svalutazione del dollaro. Ciò provocò un pesante contraccolpo in tutto l'occidente, a cui si aggiunse nel '73 l'esplosione della crisi energetica.

Il cambio di fase, che abbatteva le certezze postbelliche, fece emergere attorno alla metà degli anni settanta analisi economiche sempre più critiche nei confronti dell'intervento dello Stato nell'economia e nel sociale, che consideravano la spesa pubblica e la spesa in campo sociale o inefficaci oppure insostenibili e per questo vennero indicate come le principali cause di tutti i mali dell'economia (riduzione del tasso di crescita del Pil, degli investimenti, inflazione e disoccupazione elevata, debito pubblico, ecc). Queste posizioni trovarono, come noto, la più coerente interpretazione nella scuola di Chicago, che coniò il termine neoliberismo e che sperimenterà le proprie ricette- deregulation, privatizzazione, riduzione delle spese sociali, distruzione del sistema pensionistico pubblico - con determinazione e non casualmente nella giunta cilena di Pinochet e poi in quasi tutti regimi dittatoriali dell'America latina.

La situazione cilena offriva una condizione ottimale per dimostrare al mondo come il neoliberismo fosse la cura migliore per far uscire dalla crisi un paese come il Cile stremato da anni di recessione economica e di lotte sociali. Venne implementato un programma ambizioso di drastiche privatizzazioni di aziende e beni dello Stato, di riforma del mercato del lavoro che rendeva perfettamente "flessibile" la forza-lavoro, di totale apertura all'estero, sia in termini di import/export che di libera circolazione dei capitali in entrata ed uscita. Gli effetti sociali, culturali, ed economici si avvertirono drammaticamente all'inizio degli anni '80. La maggioranza della società cilena subì un vistoso processo di impoverimento, che colpì i lavoratori attraverso l'aumento esponenziale della disoccupazione e l'abbassamento dei salari, una parte rilevante del ceto medio, soprattutto intellettuale, e le minoranze etniche che vennero espropriate della terra e ghettizzate.

"El milagro chileno", sostenuto massicciamente da interventi e prestiti finanziari molto generosi degli Stati Uniti si rivelò un disastro, che agli inizi degli anni 80 dovette essere corretto, anche se non abbandonato, perché non sostenibile nemmeno dalla dittatura fascista di Pinochet.

L'esordio storico del neoliberismo mostra plasticamente la sua ostilità, se non la sua contrapposizione alla democrazia. E che la democrazia fosse un problema e dovesse essere limitata viene confermato anche dalla nascita nel 1973 della commissione Trilaterale su iniziativa di David Rockfeller, che riunì altissime personalità della finanza e della politica, docenti universitari, esponenti sindacali e giornalisti provenienti da Stati Uniti, Europa e Giappone. La commissione si riuniva in Giappone e nel 75 viene pubblicato il Rapporto di Kyoto con un titolo significativo, ricco di promesse per il futuro: "La crisi della democrazia", pubblicato in Italia con la prefazione di Gianni Agnelli. Lo studio denunciava una debolezza strutturale delle democrazie uscite dagli anni sessanta (cioè dalle crisi, a partire dal 68, organizzate e dirette dai poteri forti): debolezza degli esecutivi, perdita di credibilità e di autorità. La Trilaterale auspicava, come rimedio, una maggiore dose di autorità. Gianni Agnelli, in un'intervista rilasciata al "Corriere della Sera" il 30 gennaio 1975 afferma: "Probabilmente dovremo avere dei governi molto forti, che siano in grado di far rispettare i piani cui avranno contribuito altre forze oltre a quelle rappresentate in parlamento; probabilmente il potere si sposterà dalle forze politiche tradizionali a quelle che gestiranno la macchina economica; probabilmente i regimi tecnocratici di domani ridurranno lo spazio delle libertà personali. Ma non sempre tutto ciò sarà un male. La tecnologia metterà a nostra disposizione un maggior numero di beni e più a buon mercato". Personaggi meno eleganti dell'Avvocato come Kissinger, ispiratore del golpe cileno, insisteva ancora con più nettezza sulla incompatibilità tra economia e democrazia.

Dopo gli esperimenti condotti nelle dittature sudamericane negli anni 70, il credo neoliberista si imporrà sempre più in tutto l'Occidente liberale a partire dall'America di Reagan e l'Inghilterra della Thatcher, che non potevano essere conquistati con la forza, ma con una potente operazione culturale e politica, a cui furono chiamati tutti gli apparati culturali e massmediatici, che travolse l'opinione pubblica. Era cominciata l'epoca del "grande freddo" che dura tuttora.

A partire dagli anni 80 in tutto l'occidente verranno introdotte, in misure diverse, provvedimenti di liberalizzazione, privatizzazione, attraverso una rigida selettività nell'erogazione degli aiuti sociali e i costi dei servizi saranno trasferiti gradualmente, ma decisamente, dalla fiscalità generale ai loro diretti fruitori, imponendotariffe sempre più vicine ai costi del servizio stesso e un'ampia liberalizzazione del mercato del lavoro, seguita da un violento attacco al ruolo del sindacato e a tutte le organizzazione dei lavoratori.

Negli anni novanta questo processo avrà uno sviluppo ulteriore con la fine di un'altra guerra, quella fredda, con la caduta dell'URSS e del sistema del cosiddetto socialismo reale e lo sviluppo della globalizzazione, che sancisce definitivamente la crisi dello stato sociale e il passaggio dall'era della solidarietà all'era della concorrenza generalizzata, che è il cuore della ideologia neoliberista. A quel punto non vi sono stati più limiti all'apertura al mercato di diverse aree del sociale e al tendenziale esautoramento del settore pubblico nei grandi comparti della sanità, della previdenza, pensioni, dell'assistenza, della scuola.

"Si assiste, così, ad un processo di internalizzazione dei costi dello stato sociale all'interno dell'unità familiare rispetto all'esternalizzazione sul sistema sociale ed economico; era la vittoria, sancita dalle politiche concrete, dei neo-liberisti, che ritengono che ciascuno debba far fronte agli eventi della vita con le proprie forze e che uno stato sociale universale rappresenti solo un costo eccessivo per la collettività (crisi fiscale), modesti sussidi potranno essere elargiti a coloro che non riusciranno, con le loro forze, a farsi carico degli eventi sgradevoli della vita (i perdenti). Si riapre, così, l'antico conflitto di classe tra chi ha le risorse per accedere ai servizi del mercato (una minoranza) e la maggioranza della popolazione che si ritrova nell'impossibilità di accedervi".[9]

L'attacco ai fondamenti dello stato sociale ebbe come corollario il ribaltamento della politica fiscale e la messa in discussione della imposta progressiva in primo luogo negli USA e in Gran Bretagna.

In altre parole a partire dagli anni 80 si riapre in tutto l'occidente, e non solo, il problema dell'uguaglianza. L'ampliamento della spesa sociale aveva permesso fino agli anni 70, se non di eliminare, almeno di ridurre le disuguaglianze e di rafforzare di conseguenza la coesione sociale e la democrazia. L'attacco alla spesa sociale degli ultimi tre decenni non risponde solo alla logica contabile degli equilibri di bilancio, ma scaturisce direttamente da una rivincita di classe che ha prodotto nel corso del tempo una divaricazione impressionante della distribuzione delle ricchezze. Si calcola attualmente che il 10% della popolazione mondiale detenga il 58% delle ricchezze, il resto sia diviso tra gli alti 6,3 miliardi di persone. E le ultime cifre indicano che la crisi del 2008 non ha attenuato questa tendenza, anzi l'elite mondiale della ricchezza ha allargato ulteriormente il proprio patrimonio a scapito di tutti gli altri.

In questi ultimi 30 anni si è sviluppata una vera propria "mutazione antiegualitaria" che ha trasformato profondamente la struttura sociale e culturale delle nostre comunità. Si è verificata una sorta di secessione dei ricchi dal resto della civitas, che si presenta nelle forme di un moderno assolutismo, con la formazione di una moderna e ristretta aristocrazia, che guarda con sufficienza e disprezzo il resto del mondo, quelli che non ce la fanno. E domina con protervia secondo le proprie convenienze e interessi.

La crescita delle diseguaglianze produce una regressione drammatica della cittadinanza sociale, che svuota dal di dentro anche la cittadinanza politica. "La crescita delle diseguaglianze produce una decomposizione silenziosa del legame sociale e simultaneamente della solidarietà". E oblitera il principio strutturale della democrazia dei moderni.

"Questo cambiamento di rotta - afferma Rosanvallon - corrisponde a una vera cesura intellettuale nella comprensione dell'essenza dell'ideale democratico. Infatti la rivoluzione americana e quella francese non avevano separato il concetto di democrazia in quanto regime della sovranità del popolo da quello di democrazia come forma di una società degli eguali"[10].

La causa principale della rivoluzione era stata l'insofferenza verso le diseguaglianze e le ricchezze spropositate.

Tuttavia non possiamo non segnalare come in questi anni, nonostante il mugugno, la diseguaglianza abbia goduto di un consenso diffuso; la sete di giustizia non ha messo in discussione il carattere oggettivo delle disuguaglianze, che vengono ritenute inevitabili nella dinamica economica e sociale. Si condannano le diseguaglianze di fatto mentre si riconoscono come legittime le cause della diseguaglianza che le condizionano. Questo paradosso è l'involucro vischioso da cui occorre uscire se si vuole ricreare una prospettiva di giustizia e se si vuole invertire un corso che sta impoverendo milioni di uomini e di donne.

Guardiamo meglio i caratteri di questo paradosso che è la coltre ideologica neoliberista che ha conquistato il mondo e ha reso l'eguaglianza una "divinità lontana" e impossibile.

Il centro di questo disegno potente è stato ed è la ridefinizione della condizione umana, quella che Dardot e Laval chiamano "la costituzione del soggetto neoliberista", come unica e insuperabile dimensione esistenziale.

La politica di contenimento e smantellamento delle protezioni sociali si accompagnava ad una grande offensiva culturale che aveva l'obiettivo di conquistare il consenso ad essa orientando la "condotta" simbolico/pratica degli uomini. Lo stato sociale o previdenziale non veniva attaccato solo perché produceva deficit, ma anche e soprattutto perché era causa della "demoralizzazione" degli uomini, frustrava la loro dinamicità. I sussidi per la disoccupazione venivano indicati come una delle cause della disoccupazione, perché disincentivano a cercare lavoro, la gratuità degli studi distruggeva la serietà degli studi, le politiche redistributive reprimevano gli sforzi delle persone a cercare altri sbocchi e svalorizzavano la loro personalità. Lo stato sociale o "burocratico distrugge le virtù della società civile, l'onestà, il senso del lavoro ben fatto, l'impegno personale, la civiltà, il patriottismo"[11]. Il mercato al contrario favorendo l'avidità del guadagno non distrugge la società civile. Mentre lo stato con le sue provvidenze "smorza le spinte della moralità e della dignità individuale".[12] Il neoliberista è quindi il contrario del degradante uomo assistito e ridà vigore al processo sociale con la sua volontà di autoaffermazione individuale competitiva.

La società neoliberista è la società del rischio in cui l'individuo è il solo responsabile della sua sorte, "la società non gli deve nulla, e anzi deve sostenere prove continue per meritare le condizioni della propria esistenza".[13]

L'uomo immerso nella competizione globale neoliberista quindi non è più un soggetto titolare di diritti, ma semplicemente un soggetto proprietario del proprio capitale umano da spendere nelle diverse offerte che la società privatizzata gli offre e che rischia mettendosi in gioco giorno. Egli deve far conto solo su stesso, sul suo corpo e la sua famiglia, come un capitale da valorizzare; scegliere la migliore scuola, i migliori servizi - tutto privato naturalmente - ne va della propria dignità e considerazione nell'ambito della propria comunità.

Occorre dire che il capolavoro del neoliberismo è stato quello di inglobare e valorizzare la spinta all'autonomia individuale che emerse negli anni 60/70, anche a partire dalla rivolta antiautoritaria del 68, ricollocandola, da un quadro solidale proprio di quegli anni, all'interno di una dimensione ipercompetitiva.

L'uomo neoliberista è l'esito di una doppia operazione politico-culturale-sociale, da un lato la retorica del fattore umano tesa a far identificare il lavoratore completamente con la logica d'impresa e con il suo destino e dall' altro la contemporanea trasformazione del lavoratore in semplice mercanzia con l'erosione progressiva dei suoi diritti, la precarizzazione di tutte «nuove forme di occupazione», la maggiore facilità del licenziamento, l'indebolimento del potere d'acquisto fino all'impoverimento di interi settori delle classi popolari.

La mancanza di un'alternativa culturale a questa visione ha determinato la oggettiva introiezione nel soggetto neoliberista della naturalità della diseguaglianza propria della logica d'impresa, dei rapporti di subordinazione vigenti che essa impone, ed è spinto a ciò dalla convinzione, che in fin dei conti non c'è niente da fare, che il mondo va così e per questo si deve adattare e se non riesce è solo colpa sua.

La condizione umana del soggetto neoliberista sembra essere, quindi, una "normalità" unidimensionale senza alternativa: un soggetto imprenditoriale, ontologicamente diseguale, individualisticamente antiegualitario, competitivo, aggressivo, hobbesianamente immerso nella competizione mondiale.

Questa mutazione della condizione umana ridefinisce le categorie sia della cittadinanza sociale che della cittadinanza politica, cambia il senso della politica e della funzione dello Stato e delle istituzioni pubbliche. Il neoliberismo non è antistatalista, non rappresenta un semplice ritorno al passato, non richiede una ritirata dello stato; il suo obiettivo è quello di trasformare la funzione dell'azione pubblica. Le parole d'ordine della dottrina liberista sono "economia, efficienza, efficacia" come strumenti d'azione nella concorrenza generalizzata. Il neohobbesianesimo liberista ha da un lato l'esigenza di destrutturare la funzione sociale dello stato denunciando l'insostenibilità dei suoi costi, ma dall'altro costruire un nuovo Leviatano che usi tutti i mezzi per costringere gli uomini ad accettare il nuovo ordine.

Questa situazione si è fatta ancora più complessa con l'esplodere della crisi del 2008 che ha sconvolto la vita di milioni di uomini e ha aperto un conflitto politico strategico che non si è ancora concluso, perché la crisi non è finita ed è destinata a durare ancora a lungo a segnare di sé varie generazioni future. Le forze neoliberiste, nonostante il fallimento evidente delle loro ricette, tentano di regolare i conti a loro favore e comunque di imporre le loro regole e le loro politiche. In questi anni l'epicentro di questo conflitto è stata l'Europa, il continente del compromesso socialdemocratico, che conserva sacche di resistenza alla deriva liberista a cui è stata imposta quella che Étienne Balibar definisce, una «dittatura commissaria».

La costruzione dell'unità europea nasce infatti con il sigillo della dottrina liberista e cioè con l'imposizione della unità monetaria e con il primato delle politiche di bilancio, al di fuori di qualsiasi controllo democratico. Questa scissione tra politica ed economia ha elevato ad unico governo il sistema finanziario e la Bce, mentre l'unione europea è diventato una sorta di super stato internazionale anch'esso di fatto estraneo alla democrazia dei governi degli stati.

Questo predominio della tecnica sulla politica sta alla radice della crisi democratica esplosa a partire dal 2008, e della modalità autoritaria con cui si sono imposte le politiche dette dell'austerità, o delle "riforme strutturali": deregulation, privatizzazione, riduzione delle spese sociali, tendenzialedistruzione del sistema pensionistico pubblico, liberalizzazione del mercato del lavoro.

Seguendo una rigida interpretazione della disciplina di bilancio, come impone la scuola monetarista e la moneta unica, le economie più deboli, hanno proceduto ad una sorta di "svalutazione interna", ovvero tagli salariali, tagli alle prestazioni sociali, crescente flessibilità del mercato del lavoro. Ma il processo non ha risparmiato gli strati più deboli delle economie più forti.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la distruzione del modello sociale europeo, la mortificazione di popoli, la desertificazione dell'origine dell'Occidente. E in questa desertificazione, sotto la pressione delle tensioni internazionali, si sono pericolosamente affermate le tendenze reazionarie, xenofobe e nazionaliste.

Il punto critico di questa situazione è che non vi è un'altra Weltanschaung, che sappia opporsi con la forza di un punto di vista, un disegno alternativo allo stato di cose presente e all'origine di questa mancanza c'è, come ha sottolineato recentemente Habermas, la volatilità della sinistra che, per la sua maggior parte, ha fatto propria quella che venne chiamata nel 1989 la "verità interna" del pensiero conservatore e neoliberista e cioè l'impossibilità dell'eguaglianza e la centralità non più del lavoro, ma dell'impresa. Ciò che residua della sinistra novecentesca è oggi per lo più parte integrante della ragione liberista. Nei discorsi della sinistra la parola eguaglianza trova ancora posto, ma "risuona solo come una conchiglia vuota", come un termine fra gli altri per evocare una maggiore equità, "ma senza più disegnare l'immagine di un mondo desiderabile. Non ha più una portata universale", sembra una rivendicazione generica, "spesso associata solo all'idea riduttiva di una lotta contro la povertà più evidente, per questo la sinistra ha perso ciò che storicamente aveva costituito la sua forza e la sua legittimità"[14]. Questo inaridirsi della sinistra, la sua resa culturale, ha impedito e impedisce di creare gli anticorpi contro il modello sociale liberista e il connesso degrado della vita democratica risucchiata sempre più dai demoni dell'identità, dell'omogeneità, della xenofobia, della guerra e da una evidente deriva di destra.

A fronte di questa situazione è interessante vedere, anche se a grandi linee, le proposte di intervento degli studiosi già citati e di alcuni altri come Joseph Stiglitz e Wolfgang Streek.

In quasi tutti non vi è un disegno alternativo o la proiezione di un modello altro da quello capitalistico. Per lo più si tratta di interventi che mirano alla ricostituzione in forma rinnovata di un compromesso socialdemocratico e alla salvezza dello stato sociale. In questa direzione, ma con proposte molto diverse, vanno gli studi di Joseph Stiglitz, di Thomas Piketty e Wolfgang Streek, Pierre Rosanvallon. Altri propongono pratiche rivoluzionarie e sociali che alludono a un modello sociale alternativo come Toni Negri o Dardot e Laval.

Nel suo ultimo libro "Le nuove regole dell'economia", Stiglitz ripropone la analisi che è andato svolgendo in questi anni indicando soluzioni che possano correggere le distorsioni della economia globalizzata. Il punto di partenza dello studioso americano è la denuncia del livello insopportabile raggiunto dalla disuguaglianza sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo. Per Stiglitz la disuguaglianza non è stata l'evoluzione naturale del sistema capitalistico ma una scelta che come abbiamo visto si è andata affermando a partire dagli anni 70 con precise regole economiche che hanno ampliato a dismisura il potere del mercato e fatto crescere il potere finanziario. Ciò ha comportato la creazione di una ristretta elite di dirigenti le cui retribuzioni sono arrivate alle stelle. Questo processo è stato accompagnato dalla fine della politica monetaria finalizzata allo sviluppo della piena occupazione, la riduzione dei diritti dei lavoratori con il crollo "alle fondamenta delle norme di lavoro". A questo, sostiene Stiglitz, con particolare sguardo al suo paese, si deve aggiungere la crescita della discriminazione razziale e di quella di genere.

A fronte di questa situazione il nostro propone di voltare pagina e riscrivere le regole al fine di "ridurre la disuguaglianza e a migliorare la performance dell'economia"[15]. Le proposte contenute nel suo ultimo libro fanno riferimento alla situazione degli Usa e agiscono fondamentalmente su due fronti di intervento. Il primo intervento "consiste nel contrastare quelle forme di rendita he avvantaggiano indebitamente i più ricchi accrescendo i costi per il resto della società riducendo l'efficienza e la stabilità della nostra economia"[16]. A tal fine si propone di varare regole per ridurre il potere smodato dei mercati e ridurre la autonomia e la tracotanza del potere finanziario che è alla base della crisi del 2008.

Il secondo campo di interventi è quello dedicato, possiamo dire, alla re-istituzione dello stato sociale che in America è stato praticamente azzerato. Sotto questo rispetto Stiglitz propone per il suo paese un programma volto a "ristabilire regole e istituzioni che garantiscano sicurezza e opportunità alla classe media"[17]. E i passi, come sottolinea l'economista americano, sono piuttosto semplici. "Occorre ripristinare la piena occupazione e investire in infrastrutture pubbliche, aggiornare e applicare le norme che tutelano i lavoratori per fare in modo che i salari tengano il passo della produttività, ridurre gli ostacoli della partecipazione al mercato del lavoro specie per le donne, le persone di colore e per gli immigrati"[18]. Infine assicurare ad ogni cittadino "istruzione, cure sanitarie, assistenza all'infanzia, prestazioni finanziarie accessibili e prestazioni pensionistiche adeguate e sicure". Insomma un programma di ripristino delle precondizioni di base della democrazia che specialmente negli States, ma non solo, sono fortemente deteriorate e in gravissima crisi.

Piketty partendo da un punto di vista simile a Stiglitz e dalla insostenibilità del livello di disuguaglianza raggiunto, propone quella che chiama "un'utopia utile" e cioè una imposta mondiale sul capitale per regolamentare il capitalismo patrimoniale globalizzato. "Perché la democrazia possa riprendere il controllo del capitalismo finanziario globalizzato del nuovo secolo vanno creati strumenti del tutto nuovi adatti alle sfide attuali. Lo strumento ideale sarebbe un'imposta mondiale progressiva sul capitale, accompagnata da un altissimo grado di trasparenza finanziaria." Secondo lo studioso francese una tale misura sarebbe in grado di arrestare la spirale della disuguaglianza e arginerebbe "l'inquietante" concentrazione mondiale dei patrimoni.

Wolfgang Streek, guardando all'Europa, propone di superare la crisi del vecchio continente attraverso la riacquisizione da parte dei singoli stati della sovranità monetaria, ora appannaggio della carattere sovranazionale dello Stato europeo. La svalutazione è stata lo strumento con cui i singoli stati hanno potuto bilanciare nei decenni passati democrazia e competitività. L'euro è stato un" esperimento frivolo", che ha impoverito gli stati, per cui per salvaguardare democrazia e stato sociale occorre uscire dalla moneta unica, perché significherebbe avviare una politica che definisca e limiti i confini della cosiddetta globalizzazione. Se la globalizzazione significa sottomissione ad una legge di mercato, allora la soluzione è quella di andar oltre l'euro che "impone proprio questo modello all'Europa".[19]

Una posizione più radicale e geneticamente diversa è quella esposta da Dardot e Laval nei loro ultimi due libri. I due studiosi francesi, pur sottolineando il carattere pervasivo e vincente del neoliberismo, ricordano a se stessi e al mondo che esso, in quanto costruzione storica, "non è un destino necessario che incatena l'umanità" e che occorre consentire che un nuovo senso del possibile si faccia strada. E che alla ragione neoliberista si opponga un'altra ragione del mondo, la ragione del comune.

A tal fine i due sociologi propongono una rivolta etico-politica di resistenza alla governamentalità neoliberista, che non ha come obiettivo primario il governo delle istituzioni rappresentative, che esercitano una costrizione esterna degli individui, ma quello di costruire una "contro-condotta" umana fondata sul rifiuto della condotta neoliberista e cioè il rifiuto di comportarsi verso se stessi come un'impresa e verso gli altri secondo la modalità competitiva della concorrenza e rifiuto del lavoro come dettato da queste norme. Tale pratica del rifiuto non si fonda su un soggetto collettivo come aveva individuato Marx, né può rimandare alla costituzione di un partito o come di diceva una volta a farsi Stato. Il rifiuto è, in quanto tale, fatto soggettivante che attiva una diversa condotta. È l'atto di rottura che si determina secondo un "desiderio senza scopo e senza causa". La sua causa è la rottura della causalità (della produzione, della divisione del lavoro) e gli scopi "non preesistono alla rottura." Di qui si può ampliare la soggettivazione "secondo le pratiche della comunizzazione del sapere, di mutua assistenza, e di lavoro cooperativo"[20] e disegnare le linee della nuova ragione e governamentalità del comune. Questa pratica, come indicava la riflessione dell'ultimo Foucault, deve contribuire a creare una dissimmetria tra potere e contropotere. Il legame del desiderio con la realtà non deve fuggire o rifugiarsi nelle "forme della rappresentazione", o dare alla pratica politica valore di verità. La soggettivazione è moltitudine in movimento non cristallizzabile né temporalmente, né formalmente, è pratica spontanea del comune. Pura distanza dal presente. In questo quadro Dardot e Laval, sembrano riprendere molte delle tesi contenute nelle opere di Toni Negri e Michael Hart, Empire e Moltitude, ma ne contestano radicalmente la tesi principale, ovvero che la moltitudine, i lavoratori cognitivi, la figura sociale di massa del nuovo capitalismo siano pensabili come il nuovo "soggetto" forte e alternativo al capitalismo contemporaneo, ovvero come gli uomini nuovi del comunismo. Una tale idea è un'illusione per Dardot e Laval perché "fondata, (come accadeva anche in Marx per la classe operaia) su un privilegio ontologico di esteriorità che collocherebbe la moltitudine in un al di fuori radicale rispetto ai rapporti di potere in cui gli attori di una società dono da sempre inviluppati"[21].

Non sfugge il fatto che la pratica soggettivante e non soggettiva della politica è conseguente ad una visione non molto convincente del capitale descritto come a-soggettivo, inafferrabile, né precisamente identificabile, per cui la rivoluzione è una modalità di distanziamento critico che agisce sul bordo dell'essere sociale, teso a corrodere la sua struttura come forma concorrente della pratica sociale sulla base di una spinta etica, che si struttura al momento e che non deve costruire sovrastrutture che possano ingabbiare l'individuo.

E' questa, dicono gli autori, "la lezione da trarre a modo nostro dal neoliberismo: il soggetto è sempre da costruire. Il punto è come combinare la soggettivazione con la resistenza al potere"[22]. Il rifiuto etico delle modalità neoliberiste è già di per sé attivazione di politica come affermazione di una contro condotta sociale alternativa che sarà positiva se diventa "un'invenzione collettiva", prodotta dalla moltiplicazione e dall'intensificazione delle contro-dedotte di cooperazione".

Devo dire che in questa visione teorica-politica si intrecciano lucidità analitica della contemporaneità e arcaismo politico. Un'attitudine non nuova alla sinistra. Che il neoliberismo si presenti come la ragione del mondo dovrebbe condurre a pensare ad un'altra ragione che però non emerge, non si va oltre la petizione del Comune e delle forme di associazione cooperativistica. La pratica soggettivante che dovrebbe abbattere il neoliberismo si concretizza simbolicamente in forme, luoghi fisici e politici dove praticare la contro-dedotta antiliberista come esempi da moltiplicare. Un'idea che alla fine scinde politica e struttura sociale e si rinchiude, come è avvenuto in altri momenti, in enclaves di forte alternatività simbolica e di bassa intensità di incidenza strutturale nei meccanismi sociali. In più questa visione antistatuale contraddice uno degli aspetti più importanti della analisi dei nostri autori, i quali diversamente dalla vulgata corrente, spiegano con chiarezza che nel mondo neoliberista non viene meno il ruolo dello stato, che muta, ma rimane l'asse fondamentale della struttura politico sociale e quindi risulta ancor più stupefacente la mancanza di una riflessione strategica su questo punto decisivo o la considerazione della sua inutilità rispetto alla prospettiva rivoluzionaria.

Il nodo attorno a cui si struttura questa visone è il concetto di moltitudine che sia per Dardot e Laval che per Negri e Hardt è la nuova figura sociale indotta dal neoliberismo, che deriva dal carattere globale del capitalismo e dalla conseguente crisi della forma democratica che mette fine alle soggettività novecentesche, a partire dalla nozione di classe operaia. La moltitudine come soggettività non ingabbiabile mette fine all'idea di popolo come riduzione dei molti all'uno e quindi a ciò che ruota attorno ad esso e cioè lo Stato, il sovrano, la volontà generale. La moltitudine si coniuga come risorsa pubblica interpsichica che strutturerebbe una nuova modalità della pratica collettiva esterna ai confini statuali e tendente verso una diversa universalità intesa come preliminare e non come fine. È importante sottolineare che in questa concezione la crisi della democrazia viene assunta come data e non revocabile e si tenta una strutturazione sociale in termini speculari al neoliberismo fuori dagli schemi della democrazia nei termini di uno scontro tra "condotte" concorrenti.

Più complessa, diversa e in generale più convincente la posizione di Rosanvallon che nel suo libro la Società dell'eguaglianza vuole contribuire a ricostruire una prospettiva socialista del XXI secolo e a tal fine indica la necessità di recuperare e rielaborare una nuova e aggiornata concezione dell'eguaglianza, fondata sui concetti di singolarità, reciprocità e comunalità, su cui regolare una nuova politica redistributrice e l'idea di un nuovo modello di sviluppo ispirato alla sobrietà, la quale afferma Rosanvallon, è diventata una condizione perché la specie umana sopravviva. Un nuovo modello di sviluppo è invocato "dal fatto che, sul lungo termine, la crescita si stabilizzerà meccanicamente sull'1 e il 2 %" e sul fatto che la riduzione delle disuguaglianze deve essere associata "ad una impresa di de-mercificazione del mondo, che metta l'accento sullo sviluppo e sulla suddivisione dei beni comuni". In un mondo in cui è impossibile abolire le disuguaglianze di reddito e di patrimonio, il mantenimento del posto dedicato ai beni pubblici e allo spazio pubblico rappresenta infatti un elemento decisivo per correggere gli effetti distorsivi delle disuguaglianze. Ma perché questo possa aver luogo occorre, secondo Rosanvallon, anche un progetto di rilegittimazione della democrazia, attraversata da fenomeni di contro-democrazia, intesi sia come necessità di controllo dei cittadini nei confronti dei comportamenti della politica, sia come atteggiamenti di antipolitica. Occorre una riappropriazione della democrazia attraverso un più complessa e trasparente raccordo/confronto tra potere e società e in questo quadro egli propone anche la ri-nazionalizzazione della democrazia, intesa come recupero roussoviano di un ambito geopolitico compatibile, in cui poter sviluppare la coesione e la solidarietà sociale.


Note
[1] Avvertenza: in alcuni casi utilizzerò per le citazioni riferimenti di ebook on line che, specie nel caso del Kindle Amazon, non corrispondono alle pagine cartacee. Per questo non citerò il numero delle pagine ma la posizione digitale, ad esempio: pos. 250.
[2]Cfr. Pierre Dardot e Christian Laval , La nuova ragione del mondo. Roma. Derive e approdi 2013.
[3] Karl Marx L'ideologia tedesca Editori Riuniti, Roma, 1967, pag. 27-28.
[4]Cfr. Jean-Luc Nancy La creazione del mondo, Einaudi, Torino, 2003
[5] Economia e Politica Sociale 2009-10 Terzo modulo: welfare e modelli di welfare, Carmela D'Apice 1Welfare e modelli di welfare, pag.4
[6] Thomas Piketty Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano, versione KIndle Amazon 2016
[7] Ivi pos. 735
[8] Ivi pos. 781
[9]Carmela D'Apice op. cit. Ivi pag.4-5
[10]Pierre Rosanvallon "La Società dell'Uguaglianza", Castelvecchi, Roma, 2013 versione KIndle, pos. 208
[11][11]Dardot-Laval op. cit. pag. 308
[12] ibidem
[13] Ivi pag. 311
[14] P. Rosanvallon op. cit KIndle pos 277.
[15] Joseph E. Stiglitz Le nuove regole dell'economia", IL Saggiatore, Milano, 2016, pag. 93.
[16] Ivi, pag 94
[17] Ivi, pag 94
[18] Ivi ppg 94.
[19] Wolfgang Streek, Tempo Guadagnato, Feltrinelli, Milano, 2015, versione KIndle pos. 2941.
[20] Dardot- Laval op. cit. pag 492
[21] Ivi pag 487.
[22] Ivi pag. 488

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