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Uber, Facebook, Twitter e YouTube: il capitalismo californiano non è più intoccabile

di Redazione

images 71Una inchiesta esplosiva e misure senza precedenti. Il mondo dei social e delle piattaforme è sotto attacco da più parti. Il tratto comune è la fine della sua ‘eccezionalità’ che fino ad ora ha circondato con un’aura di intoccabilità tutto quel che odorava di capitalismo californiano.

1. La Guardia di Finanza ha svolto un’indagine sui fattorini ed i subfornitori della Uber Italia S.r.l., articolazione di una società olandese ed emanazione della casa madre di San Francisco. Per un anno, su disposizione del Pubblico Ministero la società sarà gestita in regime di “amministrazione giudiziaria” dal tribunale di Milano. Per il magistrato l’azienda operava in regime di omessi controlli e si creavano “i presupposti della sopraffazione retributiva e trattamentale”. Che cosa significa? Che, tramite società subordinate, per 3 euro a consegna in qualunque condizione e giorno il sistema creato intorno a Uber Eats vessava i fattorini, per lo più immigrati, minacciandoli anche fisicamente e sottraendogli le mance e le ritenute. Il titolare e l’amministratore della società fornitrice, ovvero del subfornitore di servizi (in forza di un “contratto di prestazione tecnologica”) sono indagati per reati gravi come “caporalato” e riciclaggio, avendo trovato ingente denaro contante nella sede. L’intera catena di società macinava utili, canalizzati verso i paradisi fiscali europei, mentre i lavoratori venivano sfruttati selvaggiamente in spregio a norme e regolamenti sulla sicurezza del lavoro e sanitari. Come si legge su La Repubblica, il Corriere della Sera ed il Sole 24 Ore, i giudici di Milano ritengono che le società fornitrici sfruttassero migranti, anche irregolari, richiedenti asilo e persone risiedenti presso centri di accoglienza temporanea.

2. Un altro magistrato ha imposto a Facebook di ripristinare le pagine di una nota formazione politica (che non ha la nostra approvazione), perché il ban era immotivato a termini di legge. Si è trattato in questo caso della conclusione, in secondo grado, di una lunga vicenda giudiziaria e di un complesso bilanciamento giuridico. I giudici hanno ritenuto che l’associazione, da molto tempo sull’agone politico e “non illecita secondo l’ordinamento generale”, non possa essere censurata unilateralmente dal social americano. La motivazione è rilevante, si parla di: “impossibilità di riconoscere a un soggetto privato, quale Facebook Ireland, sulla base di disposizioni negoziali e quindi in virtù della disparità di forza contrattuale, poteri sostanzialmente incidenti sulla libertà di manifestazione del pensiero e di associazione”. La difesa della piattaforma si muove su un altro piano: in quanto fornitore di un servizio si ritiene in diritto di scegliere quali contenuti possano e non possano andarvi, precisamente il portale ha emesso regolamenti che censurano persone o gruppi che “diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono”. Potrebbe sembrare anche ragionevole, se, purtroppo esistesse un metro univoco e indipendente per decidere cosa è “odio” e cosa significa “attaccare gli altri sulla base di chi sono (o pensano)”. Una breve riflessione può far concludere che solo la magistratura, in quanto a ciò delegata dai poteri legittimi democratici, secondo un giusto procedimento nel quale siano rispetti i diritti di difesa, potrebbe stabilire se un dato enunciato è “odio”, o solo “critica”, “opposizione”, “legittima divergenza”, “scontro politico”.

Ma si potrebbe replicare che Facebook è in fondo un editore, dunque può pubblicare, e non pubblicare, quel che vuole sulle sue pagine. Nello stesso modo di You Tube, Twitter, e via dicendo. Peccato che no, loro non si sentono responsabili se qualcuno pubblica contenuti che diffamano, offendono, qualcun altro. In questo caso, il responsabile è solo chi lo ha fatto. In sostanza loro offrono la piattaforma, non controllano e selezionano i contenuti. Però nel 2019 Facebook ha chiuso di sua iniziativa, come fosse un editore, centinaia di pagine che non rispettavano “i propri criteri”. E senza alcuna spiegazione, un visibile procedimento e possibilità di efficace ricorso. In genere si trattava di pagine critiche con la Ue, la mondializzazione, i toni ed i modi del “politicamente corretto” così caro alla cultura californiana di cui l’azienda è imbevuta. Una cultura libertaria ma, curiosamente, indisponibile a fornire le ragioni delle proprie azioni e di sottoporsi a procedure democratiche.

La logica direbbe che non si può conservare la torta se la si mangia. Bisognerebbe scegliere: o sono un editore, responsabile per i contenuti, e quindi ho diritto di sceglierli, o non lo sono, mettendo solo a disposizione uno spazio; ma allora posso solo eliminare le cose palesemente illegali. Ed è illegale ciò che viene dichiarato tale dalla magistratura, non da un privato. Almeno in uno stato di diritto.

3. Qui cade il terzo fatto. Dopo una lunga preparazione il Presidente americano ha emanato un Atto esecutivo per porre fine alla stringente censura, politicamente orientata in senso progressista, che le piattaforme social stanno sistematicamente compiendo nella sfera social statunitense. Il regime di estraterritorialità che era stato in sostanza garantito alle piattaforme quando erano appena nate è stato sospeso ed ora rientrano sotto il monitoraggio delle agenzie federali (Ftc e Fcc), cui il presidente ha demandato il compito di verificare la correttezza delle misure di censura. In particolare, Fcc dovrà emanare dei regolamenti per la verifica contenuti e Ftc perseguire i casi di violazione.

Nulla di strano, si potrebbe dire. Una o più aziende private, che operano entro un’area regolamentaria di uno o più Stati, sono da questi regolamentate secondo le leggi vigenti e le procedure istituite.

In realtà questi tre casi, e diversi altri, mostrano che la misura comincia ad essere colma. Il capitalismo della sorveglianza privatizzato, delle piattaforme e dei social, ha operato in questi ultimi dieci anni al di fuori di qualsiasi norma e regolamento, o meglio, tra le maglie delle norme che non erano state disegnare per essi e giovandosi della presunzione di modernità e progresso. Venuto dopo decenni di deregolazione e sfruttando le sacche di povertà e debolezza di una società che, ormai, lascia troppi indietro ha occupato quasi interamente le nostre vite ed esercita su di esse un enorme potere. Riesce a influenzare le elezioni, controllare le interazioni e le reti relazionali (modulando gli algoritmi che decidono cosa vediamo e cosa non vediamo), identificare con grande precisione i flussi di sentiment, le idee che si affermano, le notizie che passano. Questo immane potere è esso stesso un bene pubblico, non può essere lasciato in mani private e messo a disposizione del miglior offerente.

Per una sorta di riflesso condizionato accuratamente addestrato tanti, anche e soprattutto nell’area che si sente “ribelle”, sono sensibilissimi quando l’amministrazione pubblica sviluppa strutture di controllo e informazione, per perseguire i suoi scopi, ma sono ciechi a questa immane manipolazione per scopi commerciali o di manipolazione del potere. Uno dei ritornelli più ribadito degli ultimi venti anni è stato infatti che gli stati nazionali sono un relitto della storia, e che il futuro sono le piattaforme, gli scambi senza limiti, la piena libertà di fare e dire quel che si vuole, la mobilità. Il capitalismo californiano ne era il prototipo.

Questi esempi mostrano che non è vero. Le uniche regole legalmente stringenti sono quelle emesse dagli Stati nazionali, quando vogliono farlo. Bisognerà riprendere il controllo, se non vogliamo che ogni nostro pensiero ed azione sia a disposizione del miglior offerente e tale diventi anche la nostra democrazia.

Tre passi in questa direzione.

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