Il virus dell'Occidente
Recensione di Elena Fabrizio
Stefano G. Azzarà, Il virus dell’Occidente. Universalismo astratto e sovranismo particolarista di fronte allo stato d’eccezione, Mimesis 2020, pp. 425 - ISBN 978-88-5757-155-3
Dopo più di un anno dalla diffusione della pandemia del Covid-19, e dopo aver preso atto delle modalità con le quali l’Occidente ha reagito alla situazione di emergenza, il dibattito mediatico e politico continua a ripetere che niente sarà più come prima; se nell’immediatezza questo riferimento reattivo al passato era ben lontano dal rappresentare una presa di coscienza dei problemi strutturali della democrazia liberale e capitalistica, a tutt’oggi, a fronte della pesante crisi economica e sociale, quei problemi continuano ad essere ignorati dall’agenda politica. Scritto a ridosso della prima fase della crisi pandemica, con questo libro Azzarà riflette sulla questione filosofica fondamentale che essa ha inevitabilmente posto per offrire una chiave di lettura capace di decifrare, in quel richiamo ad un passato che non deve ritornare, la realtà di un’egemonia liberale che rilancia se stessa affinché «non cambi nulla nell’essenziale».
La questione filosofica è molto ben sintetizzata dalla metafora che dà titolo al libro, e con la quale si indica l’operazione di mistificazione e arrogante presunzione che intellettuali, politici, filosofi, politologi hanno messo immediatamente in scena nella costruzione di un nemico virale che cercherebbe di contaminare un organismo che presenta se stesso nella sua astratta purezza (la democrazia liberale e la centralità del mercato) per esimerlo da ogni forma di autocritica. Invece di cogliere l’occasione per prendere coscienza dei problemi della società capitalistica e delle ragioni della aggressività con cui la pandemia si è diffusa, di guardare all’esperienza cinese che è riuscita a reagire all’emergenza grazie ad uno Stato capace di governare l’economia e la produzione per il benessere generale, di provare a immaginare un modello sociale alternativo, l’Occidente è rimasto congelato nella fase storica di regressione fondamentalista riapertasi dopo la fine della Guerra fredda.
Il che si traduce oggi secondo Azzarà nell’incapacità di riconoscere il «totalmente altro» - nel significato che ad esso ha impresso il filosofo e sinologo di François Jullien come estraneità radicale assoluta -, e quindi nel trasfigurarlo in senso simbolico e politico nel «virus giallo» da cui non ci si deve fare infettare, attraverso una delimitazione arrogante dell’alterità, che ha assunto anche toni razziali - trasformata in nemico assoluto. Niente di nuovo, fa notare Azzarà, in fondo è proprio contro queste letture psicopatologiche del conflitto sociale e dei processi rivoluzionari che Marx ha elaborato la teoria della lotta di classe, sicché oggi la costruzione del virus cinese ha la stessa funzione ideologica di rimuovere la crisi della società capitalistica e di occultarne le ragioni oggettive.
Al contrario dell’estraneità analizzata da Todorov nell’incontro-scontro con l’alterità amerinda, un opposto che poteva comunque essere localizzato e definito come assimilabile o reificabile, il totalmente altro descritto da Jullien impedirebbe qualsiasi comprensione e localizzazione, ed è questo secondo Azzarà il caso della Cina, per ragioni certo legate all’incomprensione del suo sistema politico, alla sua progressiva crescita economica avvertita come una minaccia, al suo protagonismo nei rapporti geopolitici in cui non avrebbe diritto di collocarsi. Volendo seguire Jullien, è però sempre possibile entrare in un’esperienza significativa anche con il totalmente Altro, se alla categoria della identità/differenza sostituiamo quella dello scarto, figura non di identificazione, ma di confronto tra due termini in cui ognuno viene messo in tensione dall’altro ed è condotto a osservare se stesso, in modo che tra i due emerga una risorsa che si stacca dal noto e apre al futuro. Niente di tutto questo è evidentemente avvenuto. Al contrario il totalmente altro, il virus cinese, il virus comunista è stato ulteriormente respinto, totalmente escluso.
In vari modi, volgari e meno volgari, la fabbrica mediatica della manipolazione dell’opinione pubblica, da Azzarà ampiamente documentata, si è distinta per uno stile comunicativo che si è spostato con disinvoltura dalle notizie false alle rappresentazioni più retrive di una Cina autoritaria e violenta, totalitaria e imperialista, pericolo per la nostra democrazia. Come non ricordare le continue e ossessive pagine della stampa borghese che con zelo quotidiano reiteravano il proprio monotematico discorso etnocentrico sulla realtà cinese ridotta a sistema totalitario in cui l’individuo non vale nulla, a dittatura capitalista antiliberale, per non parlare di come questa stessa stampa continua a inseguire le pseudo teorie del complotto, della guerra batteriologica, della bioterrorismo con i quali i vertici Nato rappresentano una Cina imperialista intenzionata a destabilizzare i rapporti internazionali a vantaggio della propria economia (Panebianco, Pasquino, Urbinati Ignazi, Rigotti, De Feo, Iam Bremmer, ecc.)?
Una reazione talmente accecata, dogmaticamente difensiva verso il proprio sistema e pregiudizialmente aggressiva verso quello altrui, da ignorare persino quei discorsi autocritici che evidenziano da tempo (almeno dalla fine degli anni ’80) i costi della crisi del Welfare, le criticità del modello Maastricht, la necessità di democratizzare la UE o comunque di impostare un diverso rapporto tra Stato ed economia (Habermas, Gallino, Mazzucato).
Sebbene le ragioni di un misconoscimento così radicale siano certamente speculari all’assenza di autocritica del proprio modello sociale e politico da parte dell’egemonia neoliberale dominante preoccupata della propria legittimazione, Azzarà preferisce inizialmente indagarne le ragioni più profonde e così, evocando Benjamin, si richiama alla struttura religiosa del capitalismo, come pura fede autoreferenziale, culto che ha la forma della durata perenne, in una sorta di fine capitalismo mai che proietta la società capitalistica nella dimensione della a-temporalità. Uno «stato mentale» che ha sottratto ogni condizione di possibilità all’utopia nel senso storico di progettualità critica e alternativa al modello economico, sociale e politico dominante, secondo quel portato tutto moderno di una coscienza storica che si accerta sempre criticamente di se stessa per alimentare le proprie esigenze di trasformazione. Sicché, accolta la fine del processo di modernizzazione e quindi di trasformazione sociale, economica e culturale, la società postmoderna pensa se stessa nella forma di una replica del sistema introiettato nella sua ineluttabile irreversibilità e nella dimensione temporale dell’infinito presente (Jameson). Il che si traduce nell’unico futuro possibile di una globalizzazione del profitto e del lavoro salariato e servile che è a sua volta il risultato di una naturalizzazione della storia, in particolare della naturalizzazione delle leggi del funzionamento dell’economia astratte dalle concrete determinazioni storiche per essere trasformate in eterne forme naturali della produzione sociale, secondo la nota lezione di Marx contenuta nel primo libro del Capitale.
A chi voglia accogliere la sfida dell’alterità cinese Azzarà indica alcune coordinate politiche e culturali di metodo. Innanzi tutto, occorre rigettare il fondamentalismo dell’universalismo liberale che si percepisce come assoluto e definivo, assimilazionista e «disinteressato a riconoscere i diritti del particolare», ovvero forme di democrazia diverse dalla propria che si dovrebbe quanto meno sforzare di conoscere, e che a partire da qui occulta le proprie contraddizioni e dimostra di avere un’autocoscienza talmente scarsa da non riconoscere la violazioni dei diritti che avviene sia al proprio interno sia sul piano internazionale quando si autoproclama difensore delle libertà e dei diritti umani.
La seconda considerazione da fare in termini culturali e politici più generali, è che appena ci si accosta al «totalmente altro» cinese si assiste a un rovesciamento paradossale che ci presenta una Cina coscientemente immersa nella propria continuità storica, che programma se stessa alla luce della sua tradizione millenaria e del suo incontro col marxismo, per realizzare il socialismo dalle caratteristiche cinesi. Questo significa che nessun approccio alla conoscenza dell’universo cinese può prescindere da quella stessa temporalità nella quale la Cina si autocolloca, cioè quel processo di apprendimento verso la democrazia e lo sviluppo che l’ha condotta a scegliere la via socialista e che si è rilevata dirimente per uscire dal secolo dell’umiliazione coloniale che ha caratterizzato la sua storia a partire dalle Guerre dell’oppio. Questo è per Azzarà «il punto di partenza e di arrivo di ogni ragionamento politico». Una storia che spiega in che senso la Cina socialista con la sua crescita e il suo sviluppo abbia contribuito al superamento della prima grande divergenza, quella della diseguaglianza delle nazioni (Pomeranz) e cioè alla fine dell’epoca del colonialismo occidentale; spiega perché il marxismo abbia rappresentato per la Cina il propulsore, concettuale e politico, della propria autodeterminazione anticolonialista, della costruzione del proprio processo di sviluppo e democratizzazione, un riferimento politico che la Cina ha adattato al proprio contesto storico e dal quale è impossibile prescindere. E spiega infine, in che senso oggi la Cina possa contribuire alla possibile costruzione di una società del mercato globale caratterizzata da maggiore equità, rispetto tra i popoli, rapporti democratici tra le nazioni. A questo proposito molto illuminante è la lunga Appendice dedicata al concetto cinese di Tianxia, la «via del cielo» o «tutti sotto lo stesso cielo» (Zhao Tingyang) che propone una visione più armonica e concretamente universalista del mondo globalizzato, in cui ogni particolare viene riconosciuto nel proprio diritto di contribuire alla costruzione della comune umanità, attraverso la cooperazione e una «razionalità relazionale» che integri quella individuale moderna. Un concetto evidentemente molto critico verso le derive imperialiste dell’aggressivo universalismo liberale e che secondo Azzarà può essere recepito anche attraverso le lenti della dialettica hegeliana o del concetto gramsciano di egemonia.
Una prospettiva, potremmo aggiungere, che forse stempera anche la radicalità dell’estraneità assoluta da cui il libro era partito. Lungi dall’entrare nella questione se Jullien abbia ragione o torto nell’affermare che la Cina rappresenti nella sua distanza di pensiero e storia un’alterità paradigmatica, la sua concettualità culturale e politica e lo stesso registro comunicativo col quale si rapporta all’Occidente, non sembrano restituire in termini di reciprocità l’esclusione del totalmente altro, né la rinunzia alla ricerca della dimensione dello scarto.
Attraverso una lettura che attinge a una ricca mole di riferimenti bibliografici (Zhang Boying, Zheng Wang, Bell, Losurdo, Pieranni, Malaschini, solo per citarne alcuni), Azzarà ci restituisce un quadro politico della Cina di oggi senza eluderne le contraddizioni (politiche, sociali, ambientali), ma rimarcando quel faticoso processo di apprendimento che nello stile comunicativo che è proprio di questa cultura è molto ben espresso nella formula «Attraversare il fiume tastando le pietre. Andando di fretta si sbaglia», più volte ripreso anche da Xi Jinping. Un’espressione simbolica che rimanda a un continuo raccogliere le fila del processo di apprendimento rispetto agli obiettivi che si è posto, allo stadio cui è giunto, cercando ogni volta di restituire una visione d’insieme, critica e autocritica, della situazione. La stessa esigenza di realizzare la libertà dal bisogno viene sempre iscritta in un apparato storico e simbolico che deve dare senso ai discorsi, che non si riferisce solo ai bisogni materiali, ma a valori etici come l’armonia, la prosperità, il benessere inteso in senso materiale e spirituale da portare a più di un miliardo e quattrocento milioni di persone. Di qui l’importanza della programmazione continua frutto della consapevolezza di un processo lungo, pieno di contraddizioni e aggiustamenti, scandito da più fasi, quella primaria, cioè quella di uscita dal sottosviluppo, fase nella quale la Cina ancora si colloca, e la seconda fase (quella del pieno sviluppo) che è ancora lontana, forse richiederà «qualche centinaio di anni» (Mao) o forse di più perché ci sono tante fasi intermedie di riflessione sui propri errori e di scansioni finalizzate a non ripeterli. «Tastare le pietre» perché non tutte le sponde del fiume si equivalgono e quindi occorre imprimere a questo attraversamento che si prevede lungo, una direzione che a piccoli passi fondati su solide basi teoriche, sulle esperienze apprese, sulla ricerca degli errori e quindi sul «rafforzamento della progettazione ad alto livello» possa portare avanti la costruzione del socialismo con caratteristiche cinesi. Il che significa anche la propria strada verso la costruzione di una democrazia socialista, che in nessun modo può essere compresa a partire dalle categorie di quella liberale.
Ora volendo riflettere su come la Cina si sia relazionata alla gestione dell’emergenza, i fattori antropologico-culturali pure importanti che sono stati spesso evocati (individualismo versus collettivismo, ruolo del confucianesimo, disciplina) non sono per Azzarà sufficienti a far emergere ragioni ben più oggettive che non si possono ignorare. Esse rimandano a un diverso rapporto tra economia e politica, dovuto agli elementi socialisti della sua economia di mercato e al ruolo dello Stato che «deve fare del mercato uno strumento di governo» (Arrighi), quindi alla prevalenza della proprietà pubblica nei settori strategici, al controllo e al coordinamento statale dell’iniziativa privata, al massiccio investimento nel welfare, dunque al controllo dei profitti per il benessere generale. Ragioni oggettive che nel caso delle risposte dell’Italia e della Ue alla stessa emergenza, rinviano al contrario al conflitto strutturale tra interesse privato e salute pubblica che ha reso più deboli le reazioni degli Stati rispetto alla gestione e delimitazione del contagio e ha impedito alla Ue di cogliere l’occasione per gestire in maniera più integrata sia la fase della crisi che le sue conseguenze economiche. Un conflitto che non dipende da una politica incapace di controllare l’economia, bensì da uno Stato espressione dell’egemonia politica di determinati apparati e interessi economici.
Ed è proprio a partire dal ruolo dello Stato e dal concetto del politico che Azzarà avvia un lungo e tenace confronto con le teorie che hanno dominato il dibattito filosofico-politico sia nella fase della pandemia, sia in realtà negli ultimi anni, mostrando come quand’anche esse partano da posizioni opposte o alternative (universalismo liberale, particolarismo sovranista) finiscano per rafforzare l’egemonia neoliberale o per convergere con essa, se non per seppellire per sempre lo Stato moderno.
In particolare, i filosofi dello stato di eccezione, i «critici del totalitarismo eterno», invece di concedere un minimo di riconoscimento all’esperienza cinese e riflettere su una diversa promozione del ruolo dello Stato, si sono limitati ad adattare le loro teorie astratte alla situazione dell’emergenza e quindi a destrutturare ulteriormente proprio quello Stato moderno progressivo ed emancipatore di cui l’egemonia neoliberale vorrebbe fare volentieri a meno.
Se per Agamben la pandemia rappresenta l’esito di un lungo processo di guerra eterna del potere contro la libera individualità ed espressività, che si manifesta nella forma del perenne stato di emergenza, che riduce la vita a dimensione biologica privandola della socialità e affettività, in modo che non si liberi la creativa protesta contro ogni forma di repressione e disciplinamento, per Di Cesare la pandemia prosegue con altri mezzi la tentazione repressiva di un potere statale «securitario», «fobocratico» e «post-totalitario» che neutralizza la potenzialità eversiva delle masse le quali al contrario diventano disponibili alla sottomissione del principio di autorità e alla medicalizzazione della vita.
Certo, a smentire il paradigma biopolitico della governamentalità basterebbero le parole di Michele Prospero - ampiamente ricordate da Azzarà -, che in un effiace ribaltamento categoriale mette in chiaro che la difesa della vita fonda la genesi della sovranità a tal punto che l’obbligo di preservala lungi dall’irrigimentare per prevenire il tumultus contro il sovrano, è un obbligo che se il sovrano non rispetta al contrario legittima rivolta contro di esso. Un ribaltamento che rovescia il solipsismo egoistico che il paradigma biopolitico vedrebbe all’opera in chi per aver salva la vita sarebbe disposto a sacrificare la socialità - in verità assai più presente in chi non rinuncia al proprio godimento nemmeno quando ciò comporti il rischio della vita degli altri - nel legame sociale a cui invece rinvia la tutela della vita degli altri attraverso la salvaguardia della propria. Aspetto, questo della protezione della vita altrui, che oltre a non trovare spazio nel discorso biopolitico, ne rivela l’astratta semplificazione rispetto alla complessa concretezza della vita in cui dimensione biologica e sociale non possono che essere logicamente ed hegelianamente pensate insieme.
Ed è a questo proposito che le debolezze filosofiche e gli anacronismi politici di questo paradigma si traducono nella decostruzione della critica della biopolitica, la cui «miseria», scrive Azzarà, sarebbe la riproposizione di una concettualità politica ridotta alla sola dimensione verticistica alto-basso, al controllo della soggettività da parte di un potere astratto e centralizzato, e di conseguenza nel ricondurre a questa sola chiave di lettura tutte le cause che hanno portato allo stato di eccezione. Cancellando e ignorando le contraddizioni politicamente più concrete che si compongono nello scontro di classe che impegna orizzontalmente la società civile e la sua capacità di influenzare le politiche dello Stato, e che sono alla base delle note riforme regressive del lavoro, della sanità, della scuola, ai teorici del biopolitico finisce per sfuggire proprio quel potere che le ha realizzate, e di conseguenza che lo stato d’eccezione è stato reso necessario, più che dal disciplinamento, da una sanità depauperata incapace di assorbire l’emergenza. Ma tale «miseria della critica della biopolitica» rivela poi sul piano filosofico l’ingenuità di una fenomenologia del potere di cui Azzarà propone una decostruzione dialettica che attraverso la fenomenologia di Hegel riconduce il politico ai suoi corretti fondamenti ontologico-sociali. La decostruzione dialettica del concetto di nuda vita passa così dalla fenomenologia dell’autocoscienza e dal fondamento ontologico del conflitto racchiuso nella figura signoria servitù. Fenomenologia che concettualizza il travagliato percorso del negativo per avere accesso alla piena umanità, come necessaria negazione del riconoscimento di coloro che non essendo stati all’altezza di rischiare la vita dimostrano di essere ancora legati alla nuda vita e vengono perciò esclusi dalla cerchia dei riconosciuti. Cui seguirà evidentemente l’avanzata dello Stato moderno che erode i confini che delimitano lo spazio sacro dei ben riusciti e li ridefinisce attraverso l’imposizione del governo impersonale nella forma dell’universalità, dando vita da questo momento a nuove lotte e nuove forme di inclusione.
Ora, il paradigma biopolitico assillato dall’autorità sovrana che riduce gli uomini a mero vivere, si rivela prosecuzione trasfigurata della cerchia dei migliori, dell’«anarchismo del Gran Signore» (Lenin) restio ad ogni disciplina, nella quale cerchia i critici del totalitarismo eterno andrebbero a collocarsi. Una decostruzione che rivela nella difesa assoluta della libertà individuale la difesa anarchica della propria libertà e differenza in quanto libertà dei migliori, che si riconoscono tra di loro delimitandosi dai deboli e dai subordinati attraverso il pathos della distanza, rivela insomma «la radice ontologica del misconoscimento» verso coloro che attaccati alla nuda vita rinunciano servilmente alla libertà in nome della salute. Da questa prospettiva, il limite insormontabile che accomuna Agamben e Di Cesare è la rimozione del conflitto interno alla nascita dello Stato moderno e alla sua concreta configurazione di volta in volta assunta nella dialettica con la società civile, legata ai rapporti di forza tra i soggetti interessati a occupare lo spazio dei liberi, in definitiva ai rapporti di classe. Rimozione che più a monte ignora la tensione mai risolta del liberalismo tra il suo lato progressista, quello dei riformatori sociali che difendono un ideale di bene comune, e il suo lato conservatore rappresentato dai sostenitori della libertà individuale come fine assoluto (Dardot e Laval). Lo stesso liberalismo a cui, come rimarcava Losurdo, non sono mai piaciuti gli eccessi di statalismo e che, convivendo felicemente con l’istituzione delle schiavitù moderne e contemporanee, vorrebbe far coincidere questa libertà con l’autogoverno delle classi dominanti, bianche e proprietarie. È una tensione mai risolta, forse genesi di ogni conflitto sociale, e che però in particolari momenti della storia, sicuramente nella lunga stagione del secondo dopoguerra, ha prodotto un’evoluzione democratica del liberalismo stesso grazie allo scontro con i movimenti sociali e politici che da sinistra hanno spinto questo liberalismo a democratizzarsi.
L’auspicio che la politica si diriga verso un mutamento del paradigma economico e verso un nuovo modello di sviluppo, che sappia accogliere almeno timidamente alcune delle proposte sensate che gli intellettuali più avanzati hanno offerto al dibattito pubblico in termini di crescita delle eguaglianze (Nancy), di ruolo attivo dello Stato, di svolta nella politica economica della UE verso un coordinamento politico ed economico che non sfrutti la crisi per avvantaggiare alcuni stati (Habermas), di ripristino del servizio sanitario nazionale pubblico (Prospero) fino addirittura alla nazionalizzazione delle imprese non sostenibili e di alcune banche (Giraud), di un reddito di base universale (Bergoglio), di un piano di investimenti pubblici nel settore sanitario, nel welfare, nella ricerca, nelle infrastrutture, nell’ecologia, cioè in tutti quei settori in cui il mercato ha fallito (Brancaccio, Mazzucato), non sembrano trovare alcuna sponda nel contesto di rapporti di forza che spingeranno verso una ristrutturazione del capitalismo e la riproposizione della ricette neoliberiste (Harvey).
Un trend coerente con gli interventi a gamba tesa del «partito dei capitalisti», largamente sostenuto dalla stampa, nel suo progressivo ruolo di player politico che salta ogni mediazione nella richiesta di sgravi fiscali, finanziamento totale dei debiti privati, riforma dell’impresa e della scuola per rilanciare la produttività, deregulation, tagli alla spesa pubblica, altre deroghe al diritto del lavoro, più precarietà e flessibilità nei licenziamenti. Ed è probabile secondo Azzarà che questi interessi cercheranno di giovarsi dello stato d’eccezione (e solo in questo senso Agamben avrebbe ragione) o di aggirare gli organi rappresentativi stimolando ulteriormente la tendenza bonapartista cui vengono spinte le istituzioni liberali dalla fine degli anni ’90, ampiamente indagata da Losurdo, attraverso un rafforzamento dell’esecutivo e forme di legittimazione tecnocratico-scientifiche o epistocratiche.
Un pericolo che trova conferma non certo nelle riflessioni di chi teme la sconfitta del liberalismo da parte del fascinoso ed efficiente totalitarismo cinese (Urbinati, Cacciari), ma al contrario nelle stesse teorie liberali degli ultimi anni in cui sembra rispecchiarsi la tendenza storica tutta interna alla storia occidentale verso una sorta di «sovversismo dall’alto», che lungi dall’emulare il modello autoritario cinese, nel mentre ne evocano la minaccia ripropongono un ritorno al liberalismo autoritario e conservatore che ci riporta a scenari ottocenteschi o di primo novecento, nelle varie forme di elitismo, bonapartismo e privatizzazione dello Stato. Dunque, per Azzarà, siamo in presenza non di una sconfitta ma di un’egemonia liberale in crisi di legittimazione, talmente resistente da consentire questa nuova «scissione conservatrice» del liberalismo, secondo una tendenza tutta interna agli sviluppi del capitalismo occidentale che nulla ha a che fare con una presunta infezione virale totalitaria esterna.
Non a caso, quando pure si invoca un nuovo ruolo dello Stato, ci troviamo di fronte alle proposte epistocratiche di Jones e Brennan che vorrebbero restringere il suffragio universale ad alcune clausole, sulla base del conflitto tra il diritto universale di voto e il diritto ad avere governi competenti con il quale il primo andrebbe bilanciato; o a quelle di un progressista come Milanovic che, dopo aver opposto il capitalismo meritocratico liberale al capitalismo politico o autoritario cioè cinese, ed aver evidenziato come il primo abbia prodotto una super classe di capitalisti che ha trasformato la democrazia in oligarchia, propone soluzioni di ingegneria dall’alto (per es. ridurre i flussi migratori per evitare il dumping sociale e le reazioni populiste attraverso la regressione verso diritti differenziati) in definitiva sempre all’interno di un rilancio del capitalismo, concepito come unico modo di produzione a cui si assimila anche ogni altra economia possibile.
Anche nel liberale realista Merscheimer la giusta critica del fondamentalismo liberale diritto umanista, che con le sue crociate democratiche ha impresso dopo la Guerra fredda un nuovo disordine del mondo, rivela la sua natura conservatrice e reazionaria laddove si osserva che questa critica non è fatta per proporre un universalismo compiuto nel quale si realizzi l’unità del genere umano attraverso le sue componenti particolari, tanto meno per auspicare un ordine internazionale più democratico; è fatta invece per difendere il liberalismo moderato, particolarista e nazionalista, che sarebbe più coerente conil liberalismo originario, ovvero con la concezione negativa dei diritti e minima dello Stato, che antepone la sicurezza e il benessere dei cittadini ed è disposto, come la sua storia attesta, a relativizzare il criterio universale dei diritti e quindi a tollerare le sue contraddizioni, la schiavitù, il razzismo strutturale, le discriminazioni contro i migranti.
Anche la prospettiva di Aresu, secondo il quale «tutto è capitalismo politico» di cui Usa e Cina non sarebbero che due varianti, rappresenta la metafora di un «realismo devoto» in cui la volontà di potenza del capitalismo ripropone un universo schellinghiano indistinto e indeterminato privo di alternative in cui scompare la dimensione storica tanto delle classi e della democrazia fagocitata dentro il dominio tecnico-burocratico, quanto dello Stato come forma di emancipazione.
Ora a questo apparato teorico liberale che rappresenta il sostegno ideologico della globalizzazione finanziaria del capitale forte, dei vincenti della globalizzazione, tutto spostato a destra, si opporrebbe l’alternativa di un altro apparato teorico, quello del socialismo sovranista (soprattutto nella versione di Zhok), il quale rappresenterebbe il fronte dei perdenti che non hanno retto la competizione economica globale. Ma questo sovranismo nel contrapporre alla contraddizione capitale-lavoro quella tra capitalismo produttivo radicato nel territorio e capitalismo globalizzato della circolazione monetaria da cui il primo è chiamato a difendersi, si riduce di fatto a un «socialismo del capitale» per la piccola borghesia che provoca l’esternalizzazione del conflitto (eurofobia e esclusioni dei migranti dalla lotta), espunge l’egualitarismo marxista, rinuncia al concetto universale di uomo e fa retrocedere in chiave naturalistica le gerarchie sociali e i rapporti di forza tra subalterni e dominanti. Retrocede insomma a una visione comunitarista premoderna del tutto estranea alla tradizione marxista, anzi riproponendone una visione binaria ed economicistica, che vorrebbe superare ma invece non fa che moltiplicare. Il superamento delle categorie destra-sinistra che questo socialismo auspica lo fa scivolare inevitabilmente a destra, in politiche discriminatorie con le quali la destra si identifica. Insomma un pasticcio tutto postmoderno che porta la sinistra presunta tale a convergere, in questo scontro tra due capitalismi, con la destra neoliberale e a rappresentare non l’alternativa a questa egemonia, ma la sua «scissione conservatrice» ovvero un’involuzione che andrebbe ad assecondare e non a contrastare quel processo storico che almeno dalla fine della Guerra fredda ha bloccato la democrazia moderna e indebolito la forza progressiva che le classi subalterne le avevano impresso.
Non è evidentemente a partire da queste prospettive che per Azzarà si può tentare di ricostruire la democrazia moderna. Una democrazia che voglia anche abbandonare il «suprematismo occidentalista» e impegnarsi in uno sforzo di riflessione diverso, deve innanzi tutto ricostruire un’idea di popolo lungo un percorso che si prefigura lungo e complesso di «ricucitura che porti i subalterni a riconoscersi ancora una volta gli uni negli altri – al di là del loro contratto di lavoro, della loro provenienza, della loro lingua nazionale – e a configgere tutti insieme sommando le loro debolezze in un’unica forza che alteri gli equilibri regressivi vigenti». A questa idea di popolo, capace di costruire alleanze sociali all’interno della nazione e tra le nazioni intorno a un progetto politico di emancipazione e di interesse generale, sono dedicate le ultime dense pagine del libro. Anche per questo un libro importante che a mesi di distanza dalla prima fase della pandemia trascende il suo intento polemico, per proporsi come strumento di analisi politica e costruzione di un’alternativa.







































Comments
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Grazie,
Elena Fabrizio