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iltascabile

Guerre culturali e neoliberismo di Mimmo Cangiano

Recensione di Rachele Cinerari

abe9fcbd 865f 4edc b334 d261f60deed3 large.jpgLe prime righe di Guerre culturali e neoliberismo, scritto da Mimmo Cangiano e in uscita per Nottetempo, chiariscono cosa il libro vuole, ma soprattutto non vuole, fare.

Questo non è un libro sulla cancel culture (anche se ogni tanto si parla di cancel culture), e neanche un libro sul politicamente corretto (anche se qualche volta si parla di politicamente corretto); è invece un volume che tenta da un lato di ricostruire il dibattito – e la sua genealogia – su tutta una serie di temi che sono diventati il centro delle attuali culture wars (questioni identitarie, di classe, anti-razzismo, anti-sessismo, prospettive liberal, postmodernismo, ruolo della Theory), dall’altro di proporre alcune soluzioni interpretative in un quadro di analisi che, fortemente propenso a prestare orecchio alle nuove questioni emerse, resta ancorato al materialismo storico. Questo libro non è scritto per criticare la cosiddetta woke (…), ma per provare a superare quel non piccolo quid di liberalismo e di culturalismo che le culture wars mi paiono portare con sé; è dunque un libro che mira a sottrarre la woke a sospette derive liberal materializzando i suoi temi attraverso la loro dialettica con i processi socio-materiali (produzione, mercato, lavoro, consumo) in atto.

I nove capitoli del libro si muovono attraverso numerosi esempi, attraversando teorie almeno degli ultimi vent’anni, statunitensi ma anche italiane, per ripercorrere ciò che è accaduto nelle università statunitensi e di come certi processi siano stati inglobati, già masticati e digeriti, da quelle italiane. Partendo dall’esperienza che Cangiano ha fatto lavorando dieci anni nelle università statunitensi ed elaborandole, il libro ricostruisce infatti in modo conciso la culturalizzazione accademica statunitense e il progressivo spostamento delle lotte su un piano esclusivamente simbolico e sovrastrutturale, l’analisi erroneamente a-storica e la naturalizzazione del capitalismo, l’inglobamento (e fraintendimento?) della cosiddetta French Theory.

In sostanza un marxismo sconfitto nella storia che si ripropone a livello accademico solamente come culturalismo, eliminando quindi appunto la sua potenzialità trasformativa su un piano concreto di modifiche sociali. Tutto questo di pari passo con la volontà di qualificare le scienze umanistiche (chiamandole “scienze” per esempio, o utilizzando il calco apparentemente cool di Humanities) basando anch’esse su una categoria prettamente capitalista come quella di utilità.

Lo sforzo di Cangiano in questo libro è quello di far notare come, rinunciando all’analisi materialista e astraendo le lotte e le riflessioni politiche dalla loro componente economica (in sostanza depoliticizzando l’economia) il risultato è un culturalismo che non è (mai) in grado di costituirsi come trasformazione sociale, ma rischia invece (sempre) di porgere il fianco e di contribuire a perpetuare con un atteggiamento riformista quelle stesse dinamiche che a livello speculativo afferma di voler ribaltare.

Il culturalismo non è (mai) in grado di costituirsi come trasformazione sociale, ma rischia invece (sempre) di perpetuare le stesse dinamiche che afferma di voler ribaltare.

Non tenere in considerazione le questioni materiali, il modo in cui il capitale è in grado di muoversi e trasformarsi sempre e solo in nome del profitto e di assimilare lotte e tentativi di modificarlo in strumenti atti alla sua sopravvivenza e al suo rafforzamento, ci porta a credere che tutto ciò che è categorizzabile come altro da, tutto ciò che è definibile in negativo rispetto al capitalismo, sia intrinsecamente positivo. Cangiano mostra bene come questo non sia vero, e come sia un abbaglio non considerare le proprie riflessioni anti-capitaliste anche come sintomo di quello stesso sistema che vorremmo cambiare. Il punto è che finché le nostre lotte restano su un piano simbolico e sovrastrutturale – limitandosi a piani prescrittivi per stabilire come indignarsi, quando e per cosa, ma non andando oltre a questa indignazione prescrittiva – queste avranno al massimo l’effetto di agire cambiamenti su un piano appunto esclusivamente simbolico, e tutti i nostri discorsi anticapitalisti potranno al massimo generare le cosiddette diversity week o diversity awareness months; iniziative di celebrazione della diversità.

Che poi dovremmo ormai sapere che se c’è un diverso da, c’è sempre una definizione ex-negativo che ad altro non serve se non a rafforzare il termine non marcato della definizione, quello considerato “naturale”. Queste iniziative in fondo non servono ad altro che all’unico scopo del capitale (il profitto) e rischiano peraltro di trasformare la sinistra “nel Dipartimento Risorse Umane del capitale”, come scrive Cangiano. Bisogna dunque ricordare la capacità del capitalismo – e forse di tutte le ideologie di destra, lo affermo anche riprendendo e forse manipolando il Lukacs di Distruzione della ragione – di flirtare con il pluralismo e l’ibridazione, adattandoli all’individualismo.

Parlare di materialismo, struttura e sovrastruttura, Cangiano lo sa bene, può far storcere il naso a molte persone attive nell’accademia che vorrebbero riconoscersi nel ruolo dell’intellettuale di sinistra. Le contraddizioni però sono estremamente visibili, se le si vogliono guardare. Un esempio che il libro propone all’interno del micro/macrocosmo accademico è quello di un docente di Gender Studies che metta la sua competenza a disposizione dei processi di branding della sua università. Mi vengono in mente altri esempi, forse più subdoli ma altrettanto sintomatici: un convegno su problematiche di decolonialismo che non parta dall’assunto che l’università nasce come istituzione coloniale; convegni di studi di genere e femminismi in cui chi viene invitata/o abbia 40 minuti di tempo per parlare, mentre le/i dottorande/i 15 minuti, ecc. Organizzare incontri tematici sulla parità di genere senza agire a livello strutturale e sistemico può essere confortante temporaneamente, ma non ha effetto a lungo termine; aprire uno sportello di aiuto psicologico per le/gli studenti, quando le condizioni materiali del loro essere studenti (oltre che le dinamiche di potere e le gerarchie su cui si basa l’accademia) non vengono considerate, è un palliativo, e nemmeno troppo efficace.

Lavorare solamente su un piano simbolico, culturalista, senza che questo lavoro incontri il piano materiale, lavorare con la teoria senza che questa si relazioni dialetticamente con le pratiche, non ha potere trasformativo. Teoria e pratica dovrebbero stare in relazione dialettica, ricordando gramscianamente che l’una si crea e si sviluppa anche grazie all’altra, e non generare un sistema di spinte e controspinte che creano una impasse di respingimento invece che di reciproca influenza.

Teoria e pratica dovrebbero stare in relazione dialettica, ricordando gramscianamente che l’una si crea e si sviluppa anche grazie all’altra.

L’antipatia (forse sarebbe più corretto dire l’ostilità) dei movimenti radicali nei confronti dell’accademia in fondo è spiegabile non solamente per il modo autoreferenziale che quest’ultima utilizza per esprimersi e veicolare le sue riflessioni, ma anche e soprattutto perché tiene sempre meno in considerazione le condizioni materiali quando riflette all’interno delle università, dimenticando quindi inoltre che sta parlando della pelle delle persone e della differenza, talvolta, tra vita e morte. Le derive liberal, all’interno delle accademie e non solo, si accompagnano a una privatizzatione delle lotte che neutralizza il pubblico, facendo cadere quel fondamentale assunto femminista per cui il personale è politico, ma che va anch’esso inteso in senso materiale, e non inteso come individualismo e parcellizzazione – cioè come viene invece assimilato nel “femminismo” neoliberale, facendo leva sui concetti di empowerment, girlbossing, ecc.

Questo è qualcosa su cui nelle assemblee transfemministe (Non Una di Meno ne è un esempio) si dibatte da tempo (numerose volte ho ascoltato e dato ragione a chi diceva “Anche se sono importanti, non vogliamo solo le rappresentazioni e gli immaginari, vogliamo processi di trasformazione sociale”) ma che chi è dentro alle dinamiche accademiche sembra ignorare o voler dimenticare a favore di un femminismo che agisca solo su piani simbolici, dimenticando anche i tentativi delle femministe marxiste, da Zetkin, Luxemburg, Kollontaj in poi. In fondo è evidente il modo in cui femminismo neoliberista – che peraltro ama le narrazioni vittimistiche per reiterare le dinamiche di potere, come spiega molto bene anche Giusi Palomba in La trama alternativa – prescrive modalità di risposta a violenza di genere in senso esclusivamente individualista.

Un esempio dell’azione esclusivamente simbolica di un certo “femminismo” accademico è poi esemplificata dalla convinzione per cui la parità di genere si possa e debba fermare nello smascheramento di un canone letterario maschilista, da modificare semplicemente aggiungendo nomi di autrici (peraltro, se ci si fa caso, in Italia altre soggettività vengono raramente prese in considerazione). Il punto è che se non si agisce su un piano materiale, se non ci si interroga sulle modalità di ciò che si sta agendo, se non si accetta che questa azione è leggibile anche come sintomo del sistema in cui siamo immerse, a poco serve fare corsi aggiungendo l’odioso appellativo di “al femminile”.

Deborah Ardilli ha recentemente pubblicato su Facebook uno stralcio di intervista in cui Monique Wittig afferma: “Sostenere che ci siano state scrittrici escluse dal canone in quanto donne mi sembra non solo inesatto, ma l’idea stessa procede da un’inclinazione verso teorie vittimistiche. […] All’università, roviniamo lo scopo del nostro lavoro se creiamo una categoria speciale per le donne – soprattutto quando insegniamo. Se lo facciamo da femministe, siamo noi stesse a trasformare il canone in un edificio maschile”; era il 1988. Non sono del tutto d’accordo con Wittig: credo sia vero che molte scrittrici sono state escluse dal canone perché donne, ma sono invece molto d’accordo con lei nell’affermare che agire con lo scopo di canonizzare è un debole atteggiamento riformista, che non solo non ribalta il sistema, ma contribuisce a rafforzarlo. Questo credo valga per qualunque soggettività marginalizzata: non basta fare spazio, lo spazio va ripensato e modificato, tenendo conto delle sue condizioni materiali.

Non basta fare spazio, lo spazio va ripensato e modificato, tenendo conto delle sue condizioni materiali.

A più riprese, anche per preparare il terreno della riflessione sulla classe che arriva nell’ultima parte del suo libro, Cangiano torna sui numerosi rischi delle identity politics, del basare le lotte politiche su ciò che si è e non su ciò che si fa e sulla propria relazione con i meccanismi produttivi sui quali la società è basata, processo che genera molte dinamiche grottesche, come la demonizzazione, da parte di certa sinistra, nei confronti delle persone appartenenti a una working class non educata.

Le politiche identitarie, basate su narrazioni di (auto)vittimizzazione, di cui anche Daniele Giglioli parla ampiamente nel suo Critica della vittima, contribuiscono a una parcellizzazione delle lotte politiche e le indeboliscono. Cangiano affronta lucidamente anche la spiegazione di questo processo, anche se a mio avviso la sua prospettiva si incastra leggermente nel momento in cui affianca il concetto di “marginalità” a quello di “vittima”. Nella mia lettura “margine” non ha parentela o affinità con vittimizzazione o subalternità, ma contiene anzi – o, almeno, è certamente così per esempio in bell hooks – un rovesciamento di questa prospettiva vittimizzante. È indubbio però che la logica neoliberale stia riuscendo a inglobare anche questa narrazione. Un altro esempio: se le lotte si riducono a slogan, anche una richiesta potente che viene dalle persone marginalizzate, come quella di rendersi conto dei propri privilegi (check your privilege) si riduce a una mera descrizione dei fatti, disinnescandone la potenza trasformativa.

È ciò che accade anche quando si utilizza il concetto di inclusione, ormai intriso di neoliberismo, a livello aziendale. Se i movimenti più radicali hanno da tempo contestato le pratiche assimilazioniste che si basano sull’inserimento di token (quote di persone che “rappresentano” delle diversità), in nome del profitto le aziende continuano a utilizzare anche questa pratica, con il plauso di molta “sinistra”.

Si arriva infine al discorso della classe, discorso che sta negli ultimi anni provando ad affacciarsi anche in Italia in varie modalità ma che, se sicuramente non piace al mercato, sembra risultare spesso antipatico anche all’interno delle università. Il problema è secondo Cangiano quello di considerare la classe come identità, invece che come un sistema di relazioni, nel senso in cui viene intesa da Marx. Un secondo problema è quello di considerare la classe lavoratrice come vittima, non tenendo in considerazione che questa è centrale non perché oppressa, ma perché sul suo essere forza-lavoro e sulla sua capacità produttiva si basa l’intero sistema economico, dimenticando quindi il suo potenziale (e il suo potere). La classe, sottolinea Cangiano, deriva da ciò che fai, non da ciò che sei, e dal modo in cui si è in relazione con il modo produttivo, con il sistema produttivo che crea oggetti e servizi; in questo senso il suo potenziale rivoluzionario non consiste nell’essere un soggetto omogeneo, ma piuttosto diversi modi di essere in relazione con il mercato.

La classe lavoratrice è centrale non perché oppressa, ma perché sul suo essere forza-lavoro e sulla sua capacità produttiva si basa l’intero sistema economico

Il terreno su cui il libro si muove è potenzialmente scivoloso, poiché costringe a metterci in discussione anche quando pensiamo di stare “dalla parte giusta”, ma a mio avviso Cangiano riesce a tenere insieme la complessità del voler parlare di lotte portate giustamente avanti, parallelamente al rischio del loro essere costantemente assimilate se esse stesse si scollano dal loro piano di concretezza. La troppa fede nella cultura, soprattutto se slegata dal suo piano materiale, permette a questa cultura di essere apparentemente radicale, ma mai sovversiva, mai in grado di convertire la radicalità in azioni di modifica sociale.

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