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Wolfgang Streeck, “Come sarà la nostra società nei prossimi anni?”

di Alessandro Visalli

william hogarth tailpiece1In questo articolo, pubblicato da Sinistrainrete, e tradotto da Franco Senia, Wolfgang Streeck torna sul tema della previsione, compiendo uno dei più organici e radicali esercizi di pessimismo che si possano leggere sulla letteratura internazionale.

Già in “Come finirà il capitalismo ”, del 2014 (su New Left Review) aveva pronosticato l’esaurimento del capitalismo, nella forma che conosciamo, per effetto di un insostenibile stress, disancorante la legittimazione di sistema. Uno stress riferibile ai tre fenomeni sinergici della fine della crescita economica, dell’aumento dell’indebitamento e della crescita delle ineguaglianze. Non è difficile vedere come siano tre etichette dello stesso fenomeno. In sostanza, rifiutando la visione neoclassica (di derivazione dalla fisica dell’ordine dell’ottocento) di un sistema che tende naturalmente, prima o poi, all’equilibrio, Streeck crede che il degrado continuerà fino ad un crollo complessivo, graduale ma irresistibile, a termine del quale, dopo un certo tempo caotico, emergerà qualcosa di nuovo che oggi non può essere previsto (in tono più ottimista è anche l’opinione di Paul Mason in “Postcapitalismo”).

Questo è il punto cruciale.

Il degrado, rafforzato dalla convenienza di molti, continuerà a disgregare la società e potrebbe portare ad un collasso, anche in assenza di un’alternativa, cioè di un progetto concorrente (che, invece, Mason cerca di individuare).

Come in questo nuovo contributo a tre anni di distanza Streeck vede in sostanza la distruzione di ogni agenzia collettiva, operato sistematicamente negli ultimi trenta anni, come non reversibile. Dunque definisce come impossibile il controllo politico. 

Vediamo ora cosa aggiunge (alla previsione di un nuovo 1933 con cui si chiude il vecchio testo) tre anni dopo. Ancora un’immagine di lunga decadenza, declino sociale, crescente disuguaglianza, stagnazione, aumento dell’insicurezza e frammentazione politica. Di totale perdita di controllo sulla direzione.

Il modello storico della caduta e riorganizzazione (in almeno due secoli) dell’Impero Romano sembra qui presentarsi alla mente. L’attuale sistema è, secondo Streeck, organizzato da una fonte di legittimità non collettiva che chiama “consumismo edonista” e che si prende il compito di unificare la società. Questo “sistema sociale”, però, non riesce più a mantenere le sue promesse; purtroppo nessun altro sistema è disponibile ad assumerne lo spazio (non “fonti collettive di legittimità” in cui non crediamo più, e per le quali non disponiamo delle vecchie “agenzie”, né di esempi) e dunque siamo esposti senza soluzione alla disgregazione ed all’anomia.

Commentando il vecchio saggio emergeva quindi la visione di un sistema ormai diretto a danneggiare sempre di più, lentamente ed inesorabilmente, integrazione sociale e coesione. Un processo accelerante di accumulazione di disfunzioni piccole e grandi, di crescita dell’incertezza, di focolai di crisi di legittimità e rallentamenti di produttività, che determinano un sistema sempre più incomprensibile ed ingovernabile. Un processo anomico sempre accelerante. Un sistema che non riuscirà più a mantenere la sua promessa fondativa, sin dal 1700, di garantire benefici pubblici dai vizi privati e da un assetto che prevede l’insorgenza spontanea di questi dall’individuale massimizzazione del profitto, nel contesto di proprietà privata e mezzi di lavoro mercificati.

Per Streeck le disfunzioni crescenti provocheranno naturalmente proteste politiche e tentativi di organizzazione, ma questi resteranno sostanzialmente al livello “luddista”: locali, disperse, scoordinate e primitive. Fonte di disordine e non occasione di eventi rivoluzionari o riformisti radicali. Ciò perché “il capitalismo disorganizzato è disorganizzante non solo in sé, ma anche per la sua opposizione e capace di privarla sia della capacità di sconfiggerlo sia di salvarlo”.

Perché, in sostanza, dice questo? La ragione di fondo, sia nel 2014 come adesso, è che ogni possibile opposizione politica è ormai da tempo “fermamente nella morsa del consumismo, con beni collettivi, azione collettiva e organizzazione collettiva accuratamente fuori moda”.

In effetti il “consumismo” è la promessa fondativa del capitalismo.

Ma questo ormai degenera costantemente, per effetto della “rapida espansione dell'economia capitalista su scala globale”. Questo è l’altro punto qualificante della tesi di Streeck: come la cattura di ogni forma di organizzazione sociale alternativa alla riduzione dell’uomo a individuo consumatore è stata annientata per ora definitivamente in occidente, così l’allargamento ad ogni residua enclave (qui, probabilmente si pensa alla Russia e poi alla Cina, le uniche enclave non consumiste di qualche capacità esemplare) determina la chiusura di ogni orizzonte di speranza. Al consumismo edonico non c’è alternativa. Tutte le voci che si sono alzate sono dimenticate.

Anche la democrazia, ovvero “le regole della politica democratica”, che si è opposta allo spirito del capitalismo cercando di limitarlo nel corso del novecento, è ormai incapace di arrestarne la diffusione, si potrebbe dire, “in ogni poro della società”. E dunque lo sviluppo delle tendenze disgregatrici ad esso intrinseche non hanno freno. Ovvero domina la tendenza a creare uomini ad una dimensione, reificati, incapaci di agire collettivamente in modo consapevole.

La “mercificazione” (ovvero la riduzione a merce, che si calcola, numera, si fa oggetto di mercato) delle tre “merci fittizie” indicate da Polanyi, “lavoro, denaro e natura” accelera ancora una volta, dopo l’ubriacatura nella prima età imperiale inglese che portò, disgregandosi lungo un ventennio, alle due guerre civili europee. Ecco, Streeck individua questa simmetria storica che si impone irresistibilmente a molti con la forza di un riconoscimento fisiognomico. Non c’è nulla di eguale, in questo volto invecchiato, ma è lui.

I risultati di questa reificazione e dell’inserimento come “merce” di segmenti essenziali della vita individuale e collettiva, e dello stesso pianeta, sono, nell’elenco del nostro: “mercati del lavoro deregolamentati con successo; peggioramento generale delle condizioni di lavoro; rapido avanzamento del degrado ambientale; il proseguimento di una crisi finanziaria sempre più grave”.

Quel che chiama “marciume sociale”, e vede aumentare, è determinato quindi da una economia capitalista che si è liberata di ogni controllo. Essendo divenuta più forte ora non ha più bisogno di restare con la democrazia, che serviva alla legittimazione. Con la caduta di questa relazione si manifesta per il sociologo tedesco la rottura di un reciproco sostegno tra “società capitalista” ed “economia capitalista”.

L’economia non supporta più la società (creando una tendenza crescente e disarticolante alla polarizzazione, alla perdita di stabilità fondata sulla promessa edonica alle classi medie).

Questa perdita di rapporto, che fonda la diagnosi negativa di Streeck, ora come nel 2014, è resa più chiara se si fa mente al fatto che il capitalismo in quanto tale (tesi anche di Polanyi) è un sistema precario, sempre instabilizzante, un sistema distruttivo, che necessita di essere tenuto sotto controllo, stabilizzato, ma che è incapace per costituzione di farlo da sé. Il capitalismo è, cioè, espressione di un hybris illimitata. La logica della pura merce, ovvero quella del puro numero, lo porta a costantemente scavare nuovi livelli di efficienza bastevole a se stessa. Ma cosa, nel tempo, ha contribuito a “mantenere sotto controllo, proteggendolo da se stesso” il capitalismo? L’elenco di Streeck è noto e ovvio: “religione, conservatorismo, socialismo, anticomunismo, nazionalismo e democrazia”.

Tutte queste forze sociali o politiche (dunque soggette a logiche a-economiche) oggi “sono scomparse oppure si trovano ad essere indebolite in maniera critica, forse fatalmente, grazie alla modernizzazione, alla globalizzazione, al consumismo, al secolarismo, ed altre energie del genere”.

Se Streeck ha ragione in questo lo ha anche nella sua diagnosi finale. Nulla altro si può dire.

Non si può dire altro se il capitalismo “governa da solo”: imponendo il suo non-ordine sociale, volatile ed imprevedibile, completamente inabitabile; esigendo quindi che “i suoi membri si prendano cura di sé stessi e che si sforzino quanto basta per affrontare l'incertezza sistemica, improvvisando correzioni della forma privata e creando aspettative che abbiano un minimo di affidabilità”; magari lasciandogli sfoghi come i “social network” (che Streeck chiama “infrastruttura sociale fai-da-te, o meglio, fatta-dal-capitale” e vede a servizio del profitto delle grandi multinazionali).

Se la democrazia cioè non riesce più efficacemente, e sempre meno, a “redistribuire opportunità nella vita sociale, proteggendo la società dal potere schiacciante del denaro”, allora resta solo la vittoria costante di chi ha una “migliore allocazione iniziale di risorse” (non solo denaro, ma soprattutto); allora la solidarietà e la coesione sociale continueranno ad indebolirsi, e con essa “l'impulso collettivo all'uguaglianza”.

Ancora più profondamente precipiteremo in un instabile ordine fondato sulla falsa promessa fatta a lavoratori precari di potere essere consumatori, mentre una costante “immigrazione incentivata andrà a produrre una riserva illimitata di lavoratori disposti a lavorare per salari sempre più bassi”.

Con questo passaggio Streeck, che nei primi anni di Schoeder fu il protagonista di un tentativo di impostare un sistema di organizzazione del lavoro capace di competere, creando un settore a bassi salari, ma senza svendere tutte le conquiste dei lavoratori (tentativo fallito e poi sostituito, su decisione della Cancelleria, dal ciclo di riforme di “Agenda 2010” con il nuovo consulente Hartz, come abbiamo visto nel libro di Massimo D’Angelillo), prende posizione chiara sulla questione dell’immigrazione e del suo funzionamento di fatto.

Quel che cresce, qui si arriva al cuore dell’argomento pessimistico dell’ex direttore del Max Planckt Institute, è solo un “consumismo sfrenato”, camuffato da espressione di libertà personale, e promosso dalle “pressioni sociali generate continuamente dalla grande industria della pubblicità e dell'intrattenimento, alleata ad un settore finanziario sproporzionato”. Un “edonismo secolare” (dunque sostituto dell’integrazione religiosa) che riesce a catturare completamente l’immaginazione, inibire le “energie morali”, ma nasconde una fragilità irrimediabile della vita economica. Una promessa che si sa di non poter mantenere.

Anzi una promessa fatta per creare il divario. L’industria culturale tutta “vende” infatti, come modello di vita soddisfacente e quindi come fonte della legittimità di sistema, il consumismo edonico individuale che si nutre di una promessa di distinzione, di divaricazione, radicalmente aporetico. La promessa a tutti è di godere di beni distintivi, capaci di farne un individuo riuscito e di successo in un mondo che vede solo competizione, quando contemporaneamente le risorse vengono concentrate nelle mani dei più forti e sottratte a tutti gli altri. La promessa distrae dallo spettacolo, anzi spettacolarizza la distrazione.

Oggi, quindi, “esaurite tutte le altre fonti di solidarietà sociale, si tratta di sapere ora fino a quando l'industria culturale continuerà a vendere il consumismo come un modello di vita soddisfacente, mantenendo in questo modo la legittimità del capitalismo avanzato”.

Ora, quale è il futuro?

Sulla base di questa diagnosi spietata Streeck vede solo un futuro di sempre maggiore frammentazione. 

Si rileggono qui alcuni toni dell’ultimo, disperato, Pasolini, che vedeva “della vita un mucchio di insignificanti e ironiche rovine”, LL, p.86, e denunciava nel 1975 l’irresistibile tendenza alla borghesizzazione dell’intera società come progetto senza i mezzi per essere realizzato, spinto dalla cieca e muta (perché registrata sulla semplice esposizione) forza dei consumi. Cioè dal linguaggio delle cose e dei corpi mostrati dai nuovi mass media e dalla sua forma linguistica primaria, la pubblicità.

Il punto, come in Streeck, è dare uniformemente obiettivi puramente quantitativi (di consumo come rappresentazione di vita buona), senza i mezzi per ottenerli. Ciò apre per Pasolini lo spazio di una “falsa felicità”, che “rende superflua la vita”, mentre “umilia orrendamente” (SC, p 60) mettendo quindi in evidenza una inferiorità sociale senza soluzione. Quel che si ricava “almeno per ora”, come dirà nella sua replica all’amico Moravia, “è pura degradazione”, una vera e propria “tragedia, che si manifesta come delusione, rabbia, taedium vitae, accidia e, infine, come rivolta idealistica, come rifiuto dello status quo” (SC. P.107).

Ma andiamo al meccanismo socio-politico immaginato dal sociologo tedesco:

- “la politica dei paesi capitalisti avanzati, in quanto effetto di tutto questo, diverrà sempre più frammentata.

- Gli immigrati, che andranno a fornire in misura crescente servizi privati a prezzi accessibili all'alta classe media - a causa della preferenza generale, sempre più irrinunciabile, per un modello orientato al mercato - verranno esclusi, formalmente e di fatto, dai diritti civili.

- Le classi medie, incantate da un individualismo meritocratico e disposti a pagare privatamente per l'ottenimento dei servizi, perderanno interesse alla politica.

- Come contropartita, crescerà il dominio tecnocratico sulla spesa pubblica da parte delle banche centrali e delle organizzazioni sovranazionali.

- Si imporrà sempre più l'austerità ed il risanamento del bilancio governativo come forma per aprire spazi all'investimento privato e per rafforzare la fiducia dei mercati finanziari” (allo “Stato di Consolidamento” non c’è alternativa in questo sistema).

Non basta:

- “Fra le classi inferiori, la partecipazione politica diminuirà ancora di più, in quanto tali classi non avranno più niente da aspettarsi dalla politica pubblica - eccetto, forse, ottenere qualche partecipazione ai passatempi scandalosamente volgari riservati ai ricchi ed ai potenti.

- [Quindi], esclusi dalla ‘società della conoscenza’, la loro partecipazione al consumismo sarà sempre più limitata.

- [Infine], verrà loro negata anche la cittadinanza democratica”.

L’unica mobilitazione politica residuale che i crescenti sconfitti del conflitto distributivo potranno tentare sarà allora reattiva, quella con “i partiti xenofobi di destra”. Avvantaggiati perché “continueranno a stimolare una reazione irrazionale alla concorrenza esercitata dai migranti, i quali saranno sempre più disposti a lavorare per meno e a sopportare condizioni più dure di lavoro”.

In sostanza questa pressione politica esterna, però, determinerà solo l’arroccamento dei partiti di centro in grandi coalizioni (l’esempio tedesco qui pesa), e ciò determinerà solo una “esclusione politicamente destabilizzante di una parte crescente dell'elettorato”.

Sul piano geopolitico alla frammentazione interna dei paesi ricchi farà da contraltare la proliferazione di “Stati falliti” e di conflitti insolubili. Quindi di “interventi militari da parte delle nazioni capitaliste ricche” che “agiranno cinicamente nel nome della democrazia, della costruzione delle nazioni e dei diritti umani, ma solo per mantenere un'offerta illimitata di mano d'opera a basso costo, formata da rifugiati ed immigranti”.

Tra la pressione migratoria funzionale alla concentrazione dei profitti ed al disciplinamento dei lavoratori e le crisi internazionali è presente un cerchio che Streeck non esita a vedere come funzionale alla prosecuzione di un sistema che lentamente procede verso il nulla. Una “società decadente” che non va da nessuna parte, con le sue politiche.

Alla fine tutto “cadrà a pezzi”, il centro e la periferia, malgrado ogni “autoimmagine di società tollerante, pacifica, non-violenta ed egualitaria”.

Questa la diagnosi realmente senza speranza.

Per capirla meglio torniamo a Pasolini, torniamo agli anni in cui tutto questo comincia: per il grande poeta bolognese questo nuovo modo di produzione che denuncia “non è solo produzione di merce, ma di umanità”. Con la sua affermazione il consumismo edonico, cioè, ha fatto “ruotare” la realtà, ha cambiato il senso della stessa povertà, e delle vite “povere”, che prima non lo erano mentre ora sono “misere” e disperate. Edonismo, falsa tolleranza, laicismo connesso al consumo, creano cioè una massa impietrita, che chiama “da SS” (Pasolini giudica questo processo, compiuto in Germania tra la prima guerra e la Repubblica di Weimar causa dello sradicamento di massa che ha creato le condizioni dell’emergere di Hitler, e vede questo rischio proiettato nel futuro se dovesse insorgere una recessione, magari a seguito dell’austerità).

Esercizi profetici, come si vede.

Per l’ultimo Pasolini, a pochi mesi dalla morte improvvisa, i vecchi proletari e sottoproletari sono diventati, nell’era dei consumi trascinata dalla televisione e dai prodotti di massa, sostanzialmente dei piccolo borghesi ma senza la possibilità materiale di esserlo davvero, quindi sono “divorati dall’ansia economica di esserlo”, e sono ormai dunque una massa di criminaloidi. Vivono le proprie esistenze in un mondo ormai “irreale”, in cui “non c’è più scelta possibile tra il bene ed il male” (LL,p185).

Questo è quello che in più luoghi (ad esempio in un discorso alla Festa dell’Unità nell’estate del 1974) chiama “un genocidio [culturale], ossia l’assimilazione al modo e alla qualità di vita della borghesia”, attraverso la persuasione occulta indotta dai media e dalla pubblicità. L’edonismo determinato nell’uso di certe scarpe, di un certo comportamento, modo di vestire, di sorridere, di pettinarsi, agire, usare cose. Tutti modelli che sono esposti come naturali, e che sono irraggiungibili per i più, provocando “ansie e frustrazioni che lo portano alla soglia della nevrosi” (SC. ,p. 228). Oppure la stessa permissività e la falsa tolleranza, incorporata nel nuovo tipo di uomo che serve ai consumi. O, infine, la perdita delle lingue locali.

Per Pasolini, leggiamolo:

 “il nuovo potere consumistico e permissivo si è valso proprio delle nostre conquiste mentali di laici, di illuministi, di razionalisti, per costruire la propria impalcatura di falso laicismo, di falso illuminismo, di falsa razionalità [che dunque va rimessa in questione per rispondere al dovere dell'essere realmente intellettuali]. Si è valso delle nostre sconsacrazioni per liberarsi di un passato che, con tutte le sue atroci e idiote consacrazioni, non gli serviva più. In compenso però tale nuovo potere ha portato al limite massimo la sua unica possibile sacralità: la sacralità del consumo come rito, e, naturalmente, della merce come feticcio. Nulla più osta a tutto questo”.

E, come prosegue (dopo aver indicato la televisione come focus del potere di attrazione irresistibile, perché meramente esposto e non declinato della “nuova qualità di vita che il potere promette”, e dunque de “la sacralità, non nominata, della merce e del suo consumo”) “in questo contesto, i nostri vecchi argomenti di laici, illuministi , razionalisti, non sono solo spuntati ed inutili, ma, anzi, fanno il gioco del potere”. Per questo, parlando a Moravia, afferma che “al contrario di Calvino, io dunque penso che - senza venire meno alla nostra tradizione mentale umanistica e razionalistica - non bisogna aver più paura - come giustamente un tempo - di non screditare abbastanza il sacro o di avere un cuore”.

Ma l’articolazione maggiore è nell’articolo “Sviluppo e Progresso”, inedito, Sc,. P.175. Il punto è che senza accompagnare allo sviluppo economico (pure necessario, ma da estendere a chi non ne è interessato) un corretto progresso culturale e civile, che introduca valori allineati ed idonei al popolo il rischio è enorme.

Facciamolo ancora parlare direttamente:

“la distruzione di valori in corso non implica una immediata sostituzione con altri valori, col loro bene e il loro male, col necessario miglioramento del tenore di vita e insieme con un reale progresso culturale. C’è, nel mezzo, un momento di imponderabilità, ed è appunto quello che stiamo vivendo; e qui sta il grande, tragico pericolo. Pensate a cosa può significare in queste condizioni una recessione e non potete certo non rabbrividire se vi si affaccia anche per un istante il parallelo –forse arbitrario, forse romanzesco- con la Germania degli anni trenta. Qualche analogia il nostro processo di industrializzazione degli ultimi dieci anni con quello tedesco di allora ce l’ha: fu in tali condizioni che il consumismo aprì la strada, con la recessione del ’20 , al nazismo. … quando vedo intorno a me i giovani che stanno perdendo gli antichi valori popolari e assorbono i nuovi modelli imposti dal capitalismo, rischiando così una forma di disumanità, una forma di atroce afasia, una brutale assenza di capacità critiche, una faziosa passività, ricordo che queste erano appunto le forme tipiche delle SS: e vedo così stendersi sulle nostre città l’ombra orrenda della croce uncinata”.

Quaranta anni dopo Streeck, che forse non ha mai letto Pasolini (ma magari ha visto uno dei suoi straordinari film), vede che la stessa dinamica, tracimata attraverso la crisi che il nostro grande poeta vedeva arrivare, ha rafforzato la frammentazione politica. E può essere “accompagnato dall'aumento della vigilanza”, proprio come spesso sottolineo, intrinseca alla tecnica “poiché l'infrastruttura microelettronica della nuova società facilita lo spionaggio da parte delle agenzie statali” (cfr da ultimo qui).

Dunque andiamo alla chiusa dell’articolo: “come immaginare la società del futuro? Il futuro cui faccio riferimento è quello dei prossimi venti o trent'anni. Temo che questa sarà un'epoca di profonda confusione, di disorientamento crescente, di disordine, senza che un nuovo ordine qualsiasi appaia nell'immediato. Sarà un'epoca del ‘si salvi chi può’, non senza che ci siano nuove forme di violenza, sia degli Stati che degli insorti. Non mancheranno nemmeno immagini false dello spettacolo prodotto dall'industria culturale. Ci sarà bisogno di una transizione lunga e dolorosa verso qualcosa che appare ancora impercettibile”.

Ha ragione?

Ma, “Wo aber Gefahr ist, waechst das Rettende auch”.

Guadagnare la consapevolezza del ‘pericolo’, della sua natura e dinamica, può aiutarci a far crescere, o ad accorgerci che comunque ‘cresce’, nel nostro essere nel mondo, uno stare insieme che ‘salva’.

Per non arrendersi al nichilismo, per combattere perché i limiti dell’immaginario che ci cattura diventino visibili, direi che Pier Paolo e Wolfgang aiutano.

Ma il lavoro lo dobbiamo fare noi.

Comments

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Ernesto Rossi
Sunday, 26 March 2017 19:35
Finalmente un pezzo serio e non una pugnetta come d'abitudine. Non si può non concordare con l'autore su quanto scrive eppure vi sono degli errori di fondo; l'antropomorfizzazione di concetti quali "Capitale" e "Denaro". Allo stesso modo si parla di consumismo ancor più correttamente legato al concetto di edonismo. Quel che dunque non sembra ancora chiaro per il resto invece bisognerà invocare un:"finalmente", che il Capitalismo non è un soggetto, mentre capitalisti in qualche misura lo siamo ormai tutti, almeno nella misura in cui ci viene concesso ovvero conquistiamo il nostro personale consumo e la nostra razione di edonismo. Il fulcro del discorso dunque è questo, essere capitalisti ognuno nella propria misura significa avere accesso nella quantità e qualità corrispondente ai beni della Terra, alle materie prime. ecco che già si intravede la più grossolana delle mancanza nelle analisi socialiste, la Questione Ecologica la quale ingloba la logica malthussiana; i beni non bastano per tutti e gli umani sono troppi... Chi impedisce ogni dibattito evolutivo sulla Questione Sociale non è dunque il Capitalismo ma i fascisti, dove Fascismo significa rapina, violenza, sopraffazione e in sintesi:"la Lite Infinita". Costoro vanno eliminati fisicamente loro e i corrispondenti sottoufficiali, ovvero andrebbero superati culturalmente, ma senza chiarezza su "Chi" certo non si può far nulla e restare così senza speranza, ovvero la speranza che a sua volta attende... L'imprevisto!
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