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sinistra

Draghistan: se non riusciamo a uscire dal tunnel... almeno arrediamolo*

di Luca Busca

Qui e qui le puntate precedenti

lonely passerby man dark tunnel light end tunnel 406939 4413Il fatto che il governo Draghi sia caduto non comporta in alcun modo la fine del Draghistan. Al contrario lo scivolone politico assume sempre di più le caratteristiche di un golpe bianco. Per l’ennesima volta in Italia ha avuto luogo un evento straordinario, mai accaduto prima ma perfettamente in linea con i dettami costituzionali. Il premier si è dimesso pur avendo ottenuto la fiducia tutte le volte, moltissime, l’abbia richiesta. Caso ha voluto che fosse scelto il mese di luglio per rassegnare quelle anomale dimissioni, raccolte con spontanea complicità dal Presidente Mattarella, che con poco italica sollecitudine ha fissato le elezioni al 25 settembre. Il solerte Capo dello Stato ha poi avallato un espediente legislativo che, pur infierendo sulla già stremata costituzione, ha esentato tutte le forze politiche allineate con il regime dalla raccolta firme per la presentazione delle liste. Nel più assoluto rispetto dei principi democratici e di uguaglianza le costituende alleanze antisistema sono state, invece, costrette a rincorrere i firmatari tra ombrelloni e lettini o in estenuanti trekking d’altura. Per bilanciare la sicura vittoria della destra la povera Giorgia Meloni è stata obbligata a rinnegare le proprie origini fasciste, qualsiasi forma di correlazione con il mostro Putin, ogni sfumatura avversa al green pass e al vaccino. Si è dovuta dichiarare atlantista convinta e anche da sempre, in compenso e stata lasciata libera di esprimere tutta la sua propensione alla guerra e alla distruzione ambientale mediante ripristino del nucleare. Al fine di mantenere le strette relazioni politiche e programmatiche che legano i due fronti immaginari della scena italiana, è toccato al solito Berlusconi perdere qualche pezzo importante per il bene della patria. Così, come fece Angelino Alfano, i cagnolini più fedeli (Brunetta, Carfagna e Gelmini) hanno dovuto trasmigrare verso la fazione opposta, alla corte di Calenda e del più privo di vergogna dei politici italiani, Matteo Renzi.

Il PD ha cercato di raccogliere a sé tutti i cadaveri della sinistra tutt’altro che indipendente, ha provato a stringere un accordo con Calenda, rifiutando l’apparentamento con il M5S, per poi accontentarsi dei soliti “fratelli minori”: Sinistra Italiana “cocomerizzata” con i Verdi; i poco Liberi e Uguali a se stessi, detti MDP Articolo 1 in memoria di quel diritto al lavoro su cui si dovrebbe fondare la Repubblica e che il segretario Speranza si è sentito in dovere di calpestare. Non contento, il PD per rendere più chiara all’elettorato la profondità del proprio programma ha riservato “diritti di tribuna” ad altri servi della gleba di alto rango come Giggino Di Maio.

Questa ennesima anomalia italiana, a prima vista, sembra essere il frutto della proverbiale inettitudine e approssimazione che caratterizza la classe politica del nostro paese. Guardando meglio, però, si intravedono le manovre che, con estrema precisione e puntualità, hanno reso difficilissimo il cammino della rappresentanza di quella vasta area di dissenso, creata dalle politiche draghiane in materia di pandemia, guerra e gestione economica del paese. Senza una presenza capillare sui territori le forze politiche antisistema incontreranno non pochi scogli nel difficile cammino verso il parlamento, alla luce anche della peggiore legge elettorale di tutti i tempi, il Rosatellum Bis, incostituzionale ma inamovibile. Sarà così facile per la governance post-democratica, con il beneplacito della Nato, dell’Europa e del presidente Mattarella, costituire una maggioranza politica istituzionale, molto probabilmente di destra, che darà agli italiani la parvenza di un’alternanza democratica senza modificare in alcun modo lo status quo. Qualsiasi maggioranza prenda le redini del paese, infatti, si troverà a dover seguire i diktat europei e della Nato, assicurando il mantenimento, senza intoppi o incertezze, degli impegni assunti con l’Agenda Draghi. Nel rispetto del canovaccio della commedia post-democratica verrà creata anche una finta opposizione che, nel più classico dei manuali Cencelli, parteciperà per il 30-40% alla spartizione del malloppo. L’opposizione quella vera, dovesse riuscire ad ottenere qualche seggio, verrà prima marginalizzata e poi comprata a suon di incarichi e rielezioni assicurate. Al palesarsi della benché minima difficolta il sempre pronto Mattarella provvederà alla costituzione di un governo di larghe intese presieduto dal Messia di turno, disposto a traghettare l’Italia verso la salvezza. In tal senso non è il caso di escludere un recupero dello stesso Draghi, da collocare poi sullo scranno di Mattarella ormai stremato dal secondo mandato. Questo schema molto ben congegnato assicura per altri cinque anni, e quindi oltre la fatidica data del 2026, in cui verrà erogata la seconda rata del PNRR, la piena operatività del piano strutturato da Draghi per defraudare il popolo italiano dei propri diritti civili, di quelli umani, di quelli sociali e, infine, di quei pochi beni comuni rimasti tali dopo i depauperamenti perpetrati dai precedenti governi.

In quest’ottica la caduta del governo Draghi, lungi dall’essere un evento drammatico, assume le caratteristiche di un vero e proprio “golpe bianco” ideato e realizzato al fine di compiere il cammino del presidenzialismo di fatto, che Draghi era riuscito a plasmare grazie alla strutturazione di uno stato di eccezione permanente. Il Draghistan è quindi più vivo che mai e, per poter sperare di uscire dal tunnel oscuro in cui ha relegato il popolo italiano, è bene studiarne la configurazione e le dinamiche per poter quanto meno “arredare” l’ambiente ostile creato.

 

La cultura dell’odio è l’ingresso del tunnel

Negli ultimi due anni abbiamo vissuto un’escalation di odio senza freni. La reclusione forzata imposta dalla pandemia ha avviato quel processo di “stress psichico”, che ha trovato terreno fertile per crescere e svilupparsi nello stato emergenziale prolungato. La sostituzione dell’allarme pandemico con quello bellico ha fatto deflagrare la rabbia accumulata in odio brutale e incontenibile. Dalla criminalizzazione del “Novax” si è passati senza soluzione di continuità a quella del “Filoputin”. In entrambi i casi l’odio si è diffuso grazie alla creazione del nemico pubblico immaginario: per la pandemia è stato scelto il Novax, inteso come chiunque esprimesse dubbi sulla Verità unica e “scientifica” della campagna vaccinale estorta a colpi di green pass; per la guerra come capro espiatorio è stato chiamato il Filoputin, termine con il quale sono stati definiti l’intero popolo russo, tutte le sue espressioni culturali, incluse le incolpevoli insalate italiane cui è stato dato un nome inopportuno, e chiunque nel mondo non si fosse immediatamente dichiarato propenso a entrare in guerra con la Russia, ivi inclusi i pacifisti.

Questo odio, diffusosi più velocemente del virus e della macchina bellica russa, è riuscito a radicarsi nell’animo popolare con una solidità impensabile sino anche a tre anni fa. Questo risultato non può essere casuale o attribuito con leggerezza all’efficienza dei nuovi mezzi di comunicazione. No, caso e media non sono sufficienti a giustificare la nascita e lo sviluppo della “cultura dell’odio”. Per diventare cultura, per di più diffusa, un pensiero, in questo caso quello dell’odio nei confronti di un colpevole anche se solo presunto, deve essere strutturato. Una volta strutturato deve essere divulgato a tappeto nella rete mediatica per mezzo di una programmazione articolata e pianificata fin nel minimo dettaglio. Questo lavoro deve essere progettato e realizzato da qualcuno, non può nascere dal caso, altrimenti la forma culturale impiegherebbe anni per diffondersi e lo farebbe solo in maniera parziale e con scarse possibilità di radicarsi così repentinamente. Guardando al passato è facile trovare ampia dimostrazione di questo. Tutte le culture fondate sull’odio, come il fascismo e il nazismo, furono programmate con metodo “scientifico”, di solito facendo leva sulle differenze razziali. Furono poi diffuse mediante il megafono della paura e la promessa di una maggiore sicurezza, ottenibile solo per mezzo della coercizione violenta esercitata sul colpevole di turno, all’epoca rappresentato da ebrei, comunisti e zingari. Nonostante l’impiego diffuso di mezzi e risorse, i regimi nazi-fascisti impiegarono diversi anni per convincere una parte, anche se maggioritaria, dei propri sudditi. Non solo ma l’odio riuscì a radicarsi solo parzialmente e gli “hater”, non esitarono un attimo a salire sul carro del nuovo vincitore, una volta che gli orrori della guerra ebbero dimostrato la menzogna scientifica su cui si fondava tale cultura.

Oggi i più raffinati strumenti della propaganda hanno permesso una maggior velocità e un radicamento più profondo dell’odio. Quello che risulta prioritario, al fine di curare il male, è comprendere le ragioni che inducono un regime a promuovere “la cultura dell’odio”. La prima motivazione che ha indotto il governo, all’epoca quello Conte con la spalla del PD, a promuovere la disinformazione che a lungo andare ha ingenerato l’odio, è stata quella di nascondere la propria incapacità a gestire la pandemia. La strage di Bergamo, il disastro della sanità lombarda, sostanzialmente privatizzata, le conseguenze economiche del lockdown generalizzato, la dismissione della ricerca pubblica, rappresentavano l’immondizia da nascondere sotto il tappeto della propaganda mainstream. Quando il tappeto è diventato troppo piccolo per contenere le menzogne pandemiche è stato chiamato il Messia di turno a risolvere gli italici problemi. Con abile mossa dell’ex Rottamatore, ormai divenuto consumato politico sostenitore del Rinascimento arabo, è stato incoronato Mario Draghi a guidare la più larga coalizione politica mai chiamata a sostenere un governo “tecnico”. È rimasta fuori solo la Meloni a raccogliere il consenso del dissenso destrorso, che era facile immaginare sarebbe sorto in seguito ai provvedimenti da adottare per far fronte allo “stato di emergenza”. Sul fronte opposto, a farsi carico della stessa funzione, si sarebbe dovuta ergere Sinistra Italiana che, purtroppo in attesa della futura elemosina elettorale, non è riuscita a cogliere l’opportunità di difendere almeno il diritto al lavoro, quantomeno per una questione di rispetto del significato del proprio nome.

Scopo prioritario del Messia, e degli stakeholder che ne muovevano i fili, era il ripristino del sistema economico “mercatista”. Sistema che, grazie al saccheggio dei beni comuni, consente una sempre maggiore concentrazione del capitale e con essa una centralizzazione sempre più efficiente del potere politico. Questo scopo doveva essere realizzato ad ogni costo, anche a discapito della salute dei cittadini, della democrazia, del rispetto dei diritti civili e umani. Come realizzare questo progetto mantenendo larga l’area di consenso popolare? Ma è ovvio: con la paura, come si è sempre fatto. Per mesi si è instillato il terrore, costruendo un nemico invincibile, il virus.

Nessuna arma sembrava in grado di abbattere il mostro, la cura con il plasma iperimmune del dottor Giuseppe De Donno fu giudicata frettolosamente non idonea, nonostante una ricerca abbia recentemente confermato che il plasma iperimmune costa poco e funziona. I soldi stanziati per la ricerca furono destinati tutti alle major farmaceutiche per lo studio dei vaccini, rinunciando all’esame delle terapie domestiche. Cure precoci e antinfiammatori furono bollati addirittura come dannosi e sostituiti da “tachipirina e vigile attesa”, il nefasto protocollo adottato aspettando che si manifestasse il “Salvatore”, sua Grazia il vaccino che, in anticipo sui tempi stabiliti da Santa Madre Scienza, arrivò a fine del 2020.

Perché il governo ha puntato in maniera esclusiva su una campagna vaccinale a dir poco compulsiva? Anche qui la risposta è semplice: per ripristinare il sistema mercatista era necessario “riaprire” le attività e incentivare i consumi. Una cura però è più lenta e meno efficace nel rassicurare dalla paura instillata in precedenza. Non solo, la cura domestica precoce si avvale anche di un sistema distribuito già esistente, può essere prescritta dal medico di base, comprata in farmacia e assunta autonomamente, lasciando così libero il paziente di decidere della propria sorte. Il vaccino è uno strumento centralizzato che favorisce il controllo a prescindere dalla sua efficacia.

Così il “governo dei migliori” (figuriamoci gli altri) scatenò la propaganda a suon di “esperti” e di menzogne profumatamente retribuite. Il popolo corse a vaccinarsi, sicuro di salvare se stesso, di compiere il proprio dovere nell’interesse comune e per il benessere di tutti. Ovviamente sin da subito si svilupparono sacche di resistenza, che sono andate ampliandosi man mano che l’inefficacia e le reazioni avverse della “unica arma che abbiamo contro il virus” prendevano forma. Purtroppo per il “governo dei peggiori”, la palese disabilità dell’unica arma su cui avevano puntato ha rischiato di mettere a repentaglio il progetto mercatista. Ma il Messia ha saputo dirottare a proprio favore tutte le grandi menzogne: protezione dal contagio al 95%; immunità di gregge; protezione dalle forme gravi; validità per tutte le varianti, anzi no per la Delta no, forse sì ma la Omicron sicuramente sì, anzi no forse nì, etc. etc. Ha inventato ex novo un strumento duttile ed efficiente, il green pass, con le sue molteplici forme, base, super e rafforzato. In un sol colpo è riuscito a costituire un obbligo vaccinale di fatto, dividere l’Italia in due, diffondere la “cultura dell’odio”, sospendere tutti i diritti civili, umani e sociali previsti dalla costituzione, sopprimere la democrazia, accentrare il potere nelle proprie mani, abbozzare un piano di ripresa economica fondato su privatizzazioni e sostegno alle aziende.

Il tutto è stato realizzato, con il pieno consenso del gregge impaurito e sottomesso, per mezzo di uno strumento di rara inutilità terapeutica ma di particolare efficacia repressiva, il green pass appunto. Un provvedimento che ha di fatto reso obbligatoria la vaccinazione, riuscendo a realizzare, come mai prima, il motto romano “divide et impera”. Da una parte i “civis optimo iure”, che in quanto vaccinati godevano pienamente dei diritti, dall’altra gli schiavi reietti non vaccinati e quindi privati di ogni diritto. Con un farmaco sperimentale non in grado di immunizzare, però, le due categorie hanno avuto la stessa capacità di infettare, anzi lo schiavo Novax, dovendo fare il tampone ogni due giorni, ne aveva anche di meno, così come il Liberto guarito. Nonostante ciò la discriminazione si è rivelata estremamente utile per il “governo dei peggiori”, che ha potuto scaricare sull’innocente capro espiatorio appositamente creato, il Novax, tutte le responsabilità della propria inettitudine.

La propaganda urlante ha sobillato l’odio schierando i soliti “esperti” divorati dal conflitto di interesse e schiacciando sotto la macchina del fango ogni voce autorevole di dissenso. Così la peggior gestione della pandemia è diventata fonte di orgoglio nazionale. Grazie alle varie forme di green pass sono stati raggiunti i 250mila contagi giornalieri e il secondo posto in Europa per tasso di mortalità. Non appena la palese contraddizione insita nell’attribuzione delle responsabilità pandemiche a una minoranza, peraltro costretta agli arresti domiciliari, e per giunta senza il sostegno del lavoro e dello stipendio, ha cominciato a manifestarsi, l’establishment politico, senza alcuna logica “scientifica”, ha iniziato a elemosinare spiccioli di libertà anche per i pericolosissimi schiavi Novax. Queste concessioni non hanno determinato variazioni sostanziali sulla diffusione del virus, dimostrando la totale estraneità della minoranza non vaccinata nel processo di “unzione” pandemica. Nonostante ciò il Messia e i suoi discepoli hanno lasciato intatto l’impianto discriminatorio per usi futuri e, invece di chiedere scusa e recuperare l’unità del popolo italiano, hanno perseverato nel diffondere la “cultura dell’odio”.

Tra fine febbraio e marzo del 2022 l’affievolirsi della credibilità della tesi del Novax come figura criminale responsabile di tutti i mali poneva, con 70.000 casi e quasi 200 morti al giorno, seri problemi di attendibilità al castello di menzogne costruito intorno al progetto “mercatista”. Ma il Messia è riuscito a realizzare un altro “miracolo”, tirando fuori dal cilindro un altro capro espiatorio: il Filoputin. Anche in questo caso la propaganda ha avuto un ruolo fondamentale nell’ulteriore sviluppo impresso alla “cultura dell’odio”. Chiunque abbia osato sollevare qualche dubbio in merito alle menzogne guerrafondaie dei media mainstream è stato sotterrato sotto il fango profuso dai soliti “esperti” di regime, trasformati da virologi in specialisti di geopolitica.

Così, una guerra intrapresa con oltre centomila militari diventa lampo nelle menti semplici degli strateghi militari da poltrona; i nazisti diventano buoni e leggono Kant; trecento morti in un teatro di Mauripol diventano forse uno; moschee sommerse dalle bombe riemergono in pochi giorni; il Babi Yar di Kiev viene distrutto ma trovato sano da un giornalista israeliano. Una ragazza di Mauripol fotografata all’ospedale pediatrico si lascia andare ad opinioni filorusse e immediatamente fonti più che attendibili la danno per rapita e obbligata dai russi a girare il video; salvo ricomparire due giorni dopo libera con figlio e marito a fianco di un fotoreporter italiano. Svastiche tatuate sulla pancia di una civile uccisa diventano “Z”; cadaveri lasciati in strada per due o tre settimane si conservano integri; i militari russi hanno smesso di mangiare bambini ma ora li stuprano, salvo poi licenziare la responsabile dei diritti umani del governo ucraino, Lyudmila Denisova, perché le sparava troppo grosse; centrali nucleari diventavano oggetto di auto-bombardamento, così come importanti personaggi dell’establishment russo; crimini di guerra assumono caratteristiche diverse secondo quale fronte li commette. Giornalisti, anche mainstream, hanno scritto lettere per dissentire con questa tipologia di informazione che è solo propaganda. Ma il pensiero unico ha imposto una e una sola linea editoriale, chi non è d’accordo è fuori. Così la “Novax fobia” in pochi giorni è stata fusa con la “Russo fobia”. Al colmo dell’idiozia gli “hater” scatenati hanno trovato studi attendibilissimi, pubblicati sulle maggiori riviste scientifiche, che attestavano come “Novax” e “Filoputin” fossero un unico gruppo di pervertiti da combattere a colpi di vaccino e cannoni. La propaganda sarebbe risultata di altissimo livello comico, se non ci fossero migliaia di civili morti a drammatizzare il contesto. Insalate, letterati, musicisti, sportivi, editori, ballerini e tutte le altre espressioni della cultura russa sono finiti nel tritacarne del pensiero unico per essere poi conditi con odio contro il Novax. Nel bailamme nessuno si è accorto che il popolo ucraino è risultato essere il più contrario al vaccino in tutta Europa, inclusi tutti i profughi accolti in Italia senza alcun obbligo da assolvere in merito, ma si sa il Novax ucraino è scientificamente molto meno pericoloso di quello autoctono.

I diritti di libertà di espressione e di pensiero sono rimasti sospesi senza soluzione di continuità in favore di un superiore, anche se diverso, interesse. Durante la pandemia la verità doveva essere celata per non dare spazio al pensiero “Novax”, con la guerra invece a dover essere penalizzate sono le ragioni del “mostro” russo. In entrambi i casi, in realtà, la verità da nascondere è l’incapacità del regime nell’affrontare la pandemia e nel ricercare la pace. Così le responsabilità della propria inettitudine vengono attribuite prima al criminale “Novax” e poi a quel “pazzo”, “macellaio”, “bestia”, “dittatore” di Putin, idolatrato come amico fidato e grande statista fino a pochi giorni prima.

Grazie all’assunzione a tempo indeterminato dello stato emergenziale, i diritti civili e umani insieme alle istituzioni democratiche continuano ad essere sospesi e gli strumenti di controllo, come il green pass, sono mantenuti attivi. Una volta strutturato lo strumento digitale può essere adattato a qualsiasi situazione dividendo i cittadini in buoni (vaccinati, favorevoli alle sanzioni, etc.) e cattivi (no vax, no green pass, filo Putin o semplicemente pacifisti). Ai cattivi vengono così sospesi i diritti civili secondo le esigenze del governante di turno, come già successo ai lavoratori non vaccinati durante la pandemia. Il gioco è estremamente pericoloso perché rende obsoleta qualsiasi forma di democrazia il popolo abbia scelto di seguire. Se un governo ha la possibilità di sospendere i diritti civili, umani e sociali senza autorizzazione popolare e, come nel caso italiano, esautorando di fatto il parlamento, non esiste più alcuna differenza tra un regime democratico e uno totalitario.

Questo stato di cose è frutto di un lavoro intenso e scientemente organizzato che ha visto, nel corso degli anni, aumentare sempre più il distacco tra popolo e rappresentanza. La crescente dipendenza di quest’ultima dal denaro al fine di essere rieletta ha reso la classe politica sempre più schiava del potere economico e gli elettori sempre più sfiduciati e distanti dalla politica. Il “mercato” ormai controlla sia la classe politica sia l’apparato di propaganda. La Rai viene gestita attraverso i politici, i media privati sono di proprietà diretta di grandi aziende o sopravvivono per mezzo del ricatto pubblicitario. I media indipendenti sono soggetti alla macchina del fango di regime e confinati nella sfera complottista. La cultura dell’odio, promossa dal pensiero unico, dal green pass e dalla condanna della pace ha però avuto i suoi effetti collaterali indesiderati: ha esasperato gli animi che alimentano il poco dissenso rimasto in vita nel fiaccato popolo italiano.

La cultura dell’odio genera dissenso, antagonismo e voglia di uscire dal tunnel La cultura dell’odio è divenuto un cardine fondamentale dei totalitarismi post-democratici. Regimi, questi, che hanno comunque bisogno di strumenti atti a creare quelle aree di consenso dietro le quali nascondere le contraddizioni democratiche. Contrapposizioni create dalla necessità delle governance economiche reali di dominare e opprimere le minoranze, nazionali o internazionali che siano. La cultura dell’odio innescata con la guerra e la pandemia ha svolto appieno il proprio compito, riuscendo a giustificare, agli occhi del gregge sopito, il carattere dispotico e la durezza dei provvedimenti adottati. Dal lato opposto, però, chi ha sperimentato sulla propria pelle la soppressione dei diritti umani, civili e sociali, promossa durante la pandemia, così come le conseguenze della partecipazione attiva dell’Italia a una guerra che nessuno ci ha dichiarato, ha sviluppato una forma di dissenso radicato e ben motivato.

Tutti coloro che non hanno potuto o voluto fare il vaccino sono stati vessati in maniera inaudita, così come chi, pur se vaccinato, ha condiviso con loro le discriminazioni. Vessazioni che hanno assunto caratteristiche criminali nel caso della larga schiera di minorenni dai cinque ai diciotto anni che, per scelta o per impedimento, hanno deciso di non sottoporsi alla somministrazione del farmaco. Professori chiusi negli stanzini, bambini privati dello sport e delle attività ludiche hanno cementato in chi dissente la disumanità di quello che il governo è stato in grado di fare. La cultura dell’odio, la russofobia, la cancellazione della cultura russa e di quella pacifista, promosse dalla propaganda mainstream, hanno rafforzato la demarcazione del confine tra chi è schierato con il pensiero unico e odia, e chi dissente e l’odio lo subisce.

Questa demarcazione sempre più netta è una diretta conseguenza del modello di governance che l’Occidente ha scelto. La politica mercatista necessita di una sempre maggiore concentrazione di capitali e di potere politico per rendere efficiente la favola della crescita economica infinita. Mito questo che nei regimi post-democratici deve anche acquisire quella credibilità necessaria a farlo passare come modello imposto dalla volontà popolare. Per raggiungere i propri obiettivi l’establishment mercatista ha bisogno di “privatizzare” aree sempre più ampie di spazi e beni comuni. Se una pandemia (a prescindere dalla sua reale pericolosità) si abbatte su una regione, un paese, un continente o sull’intero pianeta, le dinamiche mercatiste vengono immediatamente messe in discussione. La centralizzazione e l’organizzazione verticistica della sanità, che tanti benefici apportano alla crescita, si rilevano inefficienti nell’affrontare la lotta a un virus che non riconosce i confini imposti dalle recinzioni del privato. La salute è un bene comune e la sanità, per essere efficace deve essere ugualitaria e distribuita.

Quindi la “crescita infinita”, fondata sul delicato equilibrio di domanda (indotta) e offerta (controllata), viene seriamente minacciata da tutti quegli elementi che tendono a sfuggire al controllo economico e politico centralizzato. Il mercato, o meglio chi lo gestisce, deve reagire subito per evitare che i danni diventino irreparabili. In Italia siamo avvezzi, nei momenti di bisogno, a trovare il Messia di turno e a nominarlo Condottiero della rinascita, cioè del ripristino delle condizioni che favoriscono la “crescita”. Il Salvatore, però, questa volta si è trovato di fronte a un ulteriore elemento di disturbo. Dopo due anni di emergenza pandemica Putin, il fido amico e indispensabile partner commerciale, esasperato dalle politiche espansionistiche della Nato, decide di invadere le province del Donbass dove è in atto da tempo una guerra civile. Invece di attivarsi per mediazione diplomatica alla ricerca della pace, il Messia Italico ha chiesto istruzione al padre padrone statunitense il quale tramite la Nato ha ordinato di protrarre la guerra il più a lungo possibile, così alla piccola colonia Italia e al suo Redentore non è rimasto che obbedire.

Il risultato, però, non poteva essere altro che l’aggravarsi delle dinamiche economiche che regolano la “truffa” della crescita infinita. Così, lo scontro bellico da un lato ha stimolato lo sviluppo della paura e della conseguente cultura dell’odio, dall’altro ha creato, però, ulteriori conflitti interni che hanno

generato a loro volta nuovi antagonismi. In una situazione di questo genere, grazie alla promulgazione di uno stato di eccezione perenne, è nato e prospera tuttora il primo di questi antagonismi figli del “mercatismo”: la soppressione dei diritti umani, civili e sociali tanto utile alla concentrazione del potere politico, a sua volta “conditio sine qua non” risulta difficile promuovere la concentrazione dei capitali. Nel caso italiano, uno dei peggiori al mondo dal punto di vista delle istituzioni democratiche, a giustificare la durata infinita dell’emergenza è stata chiamata prima una pandemia dalle caratteristiche molto variabili e mai chiarite del tutto, seguita dalla partecipazione a una guerra “difensiva” che nessuno ci ha dichiarato. L’inconsistenza delle motivazioni (nessun altro paese al mondo a protratto lo stato di emergenza, o meglio di eccezione, così a lungo come l’Italia), non ha inciso minimamente sulla credibilità né sull’efficienza del provvedimento. Se, infatti, lo stimolo della crescita economica viene assunto come obiettivo prioritario, è fondamentale non perdere tempo in lungaggini parlamentari o addirittura in consultazioni referendarie. Meglio lasciare spazio all’Uomo Forte, al Salvatore che farà le scelte “migliori” per tutti. Così le istituzioni democratiche sono state demolite, il patrimonio di beni comuni defraudato, l’iva sulle armi rimossa, chi dissente è stato schedato con il green pass, sospeso dal lavoro e privato del sostentamento dello stipendio.

Per poter destinare il grosso dei fondi disponibili con il PNRR alle grandi aziende, a discapito delle piccole imprese e dei lavoratori, occorre infatti un potere centralizzato e dotato di strumenti di gestione autonomi che scavalchino agilmente i vincoli imposti dai diritti costituzionali, umani, civili o sociali che siano. D’altra parte, per chi vive rinchiuso nel pensiero unico lo stimolo della crescita rappresenta il benessere di tutti e, quindi, val bene qualche rinuncia e, per chi la pensa diversamente, in fondo è sufficiente smettere di dissentire: “vaccinatevi, prendete la vostra tessera verde e aiutate il popolo ucraino a fare la guerra!” Instillando la paura, prima della pandemia e poi della guerra, si stimola la “domanda” di sicurezza per soddisfare la quale la massa moderata rinuncia volentieri ai propri diritti. Processo questo che dà luogo al secondo antagonismo della politica economica mercatista: la discriminazione e l’oppressione del dissenso.

Il fascismo “originario” risolveva questo antagonismo con la violenza e la coercizione, fattori che, a lungo andare, hanno determinato la formazione della “Resistenza”, una fascia sempre più ampia di dissenso alla sospensione dei diritti civili. Il fascismo mercatista ha affinato molto le proprie armi, così continua a sopprimere il diritto di associazione, di manifestare, di espressione ma lo fa in nome di un fantomatico interesse comune creato dalla pandemia. In realtà la salute, che costituisce l’interesse comune reale, continua ad essere vessata de-finanziando la sanità e la ricerca pubblica e favorendo il settore privato, ma l’opinione pubblica viene distratta mediante la criminalizzazione del dissenso. In questo modo un po’ di sane manganellate agli studenti, che manifestavano per la morte sul luogo dello stage professionale di un loro compagno, appaiono meritate perché date in difesa della salute dei più fragili. La propaganda soffoca il dissenso con la propria macchina del fango, con i “panini” televisivi di chiunque si esprima fuori dal coro, con le bufale dei propri fact checker, con l’omissione di dati e notizie. E, pur se gli strumenti sono più fini, più articolati e più efficienti, le conseguenze sono le stesse: la coercizione stimola la costituzione di una “Resistenza” e l’area di dissenso si amplia con il tempo.

Il terzo antagonismo è il più ovvio, il più importante e, per questo, il più complesso da analizzare: l’inasprimento delle disuguaglianze. Illustrare nel dettaglio come si siano evoluti i meccanismi economici del capitalismo (i mezzi di produzione marxiani) determinando l’avvento di quelli mercatisti, ha richiesto centinaia di pagine in altra sede, e non possono essere inserite in questa. È sufficiente però esaminare i dati degli ultimi anni, quelli relativi alla pandemia, in attesa di poter valutare quelli della guerra, per comprendere come la politica economica mercatista fondata sulla crescita determini una sempre maggiore concentrazione del capitale e con essa anche quella del potere politico. Potere quest’ultimo ormai nelle mani delle oligarchie economiche nei sistemi totalitari e sempre più dipendente da esse nelle pseudo democrazie occidentali. Per i dati basta andare sul sito di Oxfam: la-pandemia- della-disuguaglianza o oxfamitalia Disuguitalia 2020 e innumerevoli altri rapporti.

Il quarto antagonismo insanabile per le politiche economiche mercatiste è centrale per la sopravvivenza stessa del genere umano e dell’unico pianeta che abbiamo a disposizione: la questione ambientale. Un processo di crescita continuo e infinito è “scientificamente” impossibile in un pianeta “finito”. Le risorse, di tutte le tipologie, non sono illimitate, hanno un termine. Continuare a cercare di risolvere i problemi di inquinamento con la causa che li genera è una forma di antagonismo incurabile. Infatti, per crescere, secondo i dettami mercatisti, e necessario avere più energia, produrre e consumare di più per ottenere quella maggior ricchezza che consenta di far fronte ai problemi ambientali. Peccato che la maggiore produzione di energia e di beni alimenti l’inquinamento. Il classico cane che si morde la coda. Per nascondere questo sillogismo ai propri sudditi i governanti, non solo italiani, hanno ideato due meravigliose mistificazioni: lo “Sviluppo sostenibile”, che ha dato vita alla “Agenda 2030”, e più recentemente il “Great reset” dell’economia patrocinato addirittura da un noto rappresentante della classe operaia: Carlo Principe del Galles. La seconda teoria, per altro, si rifà ampiamente al raggiungimento degli obietti della prima, agli ormai famosi 17 SDGs (Sustainable Development Goals). Anche questa analisi richiederebbe tempi e spazi non presenti in questa sede, ma per evidenziare l’antagonismo basta notare che il SDG numero 8 recita: “Promuovere una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, la piena e produttiva occupazione e un lavoro dignitoso per tutti”.

Molto bello sulla carta, se non fosse che in una logica mercatista il lavoro dignitoso e la piena e produttiva occupazione dipendano dalla buona salute e dalla competitività delle aziende che, per ottenerle, hanno bisogno di flessibilità sul lavoro e di poter delocalizzare la produzione. Non solo, ma è la stessa crescita economica duratura ad essere delegata alle aziende e, quindi, per essere inclusiva e sostenibile la crescita lo deve essere anche dal punto di vista della sostenibilità economica delle stesse imprese. Un’azienda per creare ricchezza in un regime di libera concorrenza deve essere competitiva, ridurre i costi e aumentare i ricavi, abbassando però i prezzi di vendita, il che significa produrre e vendere di più, a più persone e più spesso, in sostanza il consumismo. Questo vuol dire, per esempio, che se, ai fini della sostenibilità ambientale, si vuole convertire l’intero parco automobilistico nazionale italiano attuale con uno elettrico, questo debba avvenire progressivamente nel tempo per essere sostenibile economicamente per le imprese. Una volta raggiunto l’obiettivo, presumibilmente in almeno dieci anni, per sostenersi le varie aziende automobilistiche dovrebbero vendere, solo in Italia, almeno due milioni di pezzi all’anno. Tra produzione, consumo di freni, pneumatici e filtri, approvvigionamento elettrico e mancato riciclaggio il tasso di inquinamento sarebbe praticamente identico a quello attuale.

Infine, un quinto antagonismo risulta insanabile per il sistema mercatista: la guerra. Il sanare i conflitti con le armi è, per diversi motivi, un punto imprescindibile dell’organizzazione economica della crescita continua e infinita. Il primo è dovuto al principio base della logica capitalista, liberista e mercatista: il margine di profitto. Ridurre i costi e incrementare le entrate sono i due fattori fondamentali per la costituzione di quel profitto che costituisce l’ingrediente base della ricetta economica della crescita. Il primo, la riduzione dei costi, si ottiene creando sacche di povertà dove delocalizzare la produzione e creando profughi da impiegare sul mercato interno come mano d’opera a basso costo. Il secondo fattore, l’incremento delle entrate, si ottiene con l’apertura di nuovi mercati che vanno prima assimilati culturalmente, magari mediante l’esportazione di democrazia, al fine di creare una specifica domanda di beni precostituiti.

Inoltre, l’industria bellica è una delle più floride e remunerative, assicura ingenti introiti i cui costi vengono addebitati ai popoli coinvolti, spesso a loro insaputa, in conflitti che riguardano gli interessi delle élite. Per far sì che la domanda cresca, però, bisogna implementare anche i consumi. Motivo,

questo, che ha indotto gli Stati Uniti, sicuramente i maggiori “consumatori” mondiali, a “esternalizzare” le proprie guerre (appena ventisette in settant’anni anni). Oltre a ciò, le politiche economiche neocolonialiste, tendenti all’appropriazione delle risorse dei paesi poveri, sobillano quelle guerre civili che permettono ai paesi “colonizzatori” di rientrare dei costi della corruzione fornendo armi e assistenza militare alla parte alleata. Spesso, una volta instaurato il regime prescelto, nulla impedisce alla potenza colonizzatrice di annientare la parte precedentemente armata, inventando crimini di guerra o armi di distruzione di massa come accaduto in Libia e in Iraq.

In questo modo l’appropriazione delle risorse avviene in maniera diretta, con minor aggravio di spese senza nulla togliere al comparto “sacche di povertà” e “profughi”. A determinare il cambio di rotta di solito è il deterioramento delle relazioni commerciali con la colonia precedentemente acquisita, che non risultano più valide dal punto di vista economico. In questo caso il paese prescelto per essere invaso e distrutto viene assimilato culturalmente mediante l’insediamento di governi fantoccio imposti “democraticamente”. Viene avviato il processo di ricostruzione profumatamente pagato dal popolo annesso che, sempre “democraticamente”, sceglie di concedere lo sfruttamento delle risorse e la privatizzazione dei propri beni comuni in favore di aziende del paese colonizzante, le uniche ad avere il know how necessario. Questo processo stimola tre diversi fattori di “crescita”: quello dei concessionari, ad esempio dei pozzi petroliferi in Iraq; quello delle ditte interessate alla ricostruzione e alle privatizzazioni; la creazione di un nuovo mercato dove collocare prodotti. In sostanza senza le guerre l’impalcatura di menzogne su cui si fonda il mito della crescita infinita crollerebbe inesorabilmente.

 

La cultura dell’odio ha prodotto un dissenso eterogeneo

L’insieme di questi cinque antagonismi ha creato una vasta area di dissenso in Italia. Nel nostro paese questo dissenso ha assunto caratteristiche di straordinaria eterogeneità, probabilmente dovute alla particolare durezza delle restrizioni pandemiche che hanno coinvolto segmenti sociali diversi tra loro. Le restrizioni pandemiche iniziali, ad esempio, hanno istigato il dissenso soprattutto in frange dell’estrema destra, abitualmente indifferenti se non addirittura favorevoli alla riduzione delle forme egualitarie di libertà personale. Con la strutturazione della sospensione dei diritti civili l’area del dissenso si è allargata molto. Così da un’anomala comunità di intenti che riguardava solo fascisti e anarchici, si è passati alla partecipazione della destra moderata, che si è erta a paladina dei diritti sociali neanche fosse un sindacato. Fratelli d’Italia è stato l’unico partito a schierarsi contro il green pass, rimanendo anche fuori dal governo Draghi.

La sinistra radicale, come consueto, si è divisa sul tema con una parte contraria al green pass e l’altra impantanata nella trappola della vaccinazione obbligatoria fatta passare come necessaria per il bene comune. Inganno, va riconosciuto, talmente ben costruito da aver reso plausibili le inesistenti basi scientifiche di un vaccino truffa e l’efficacia di un green pass che ha contribuito in maniera sostanziale all’aumento del contagio. Sul fronte della guerra il dissenso ha acquisito ampie fasce dell’area cattolica ma ha perso la destra interventista. I cambiamenti climatici sono usciti di scena, lasciando il palco alle questioni economiche, considerate prioritarie soprattutto in merito alla necessità di privilegiare la spesa militare a discapito di quella sanitaria e per l’istruzione. Controversia questa che è riuscita nel difficilissimo compito di ripristinare una netta divergenza tra la sinistra radicale e la destra, nelle sue espressioni moderata ed estrema.

La confusione ha regnato sovrana nel movimento che, piano piano tra manifestazioni del sabato e proteste di lavoratori, abbandonati dai sindacati, come nel caso dei portuali di Trieste, è andato a formarsi contro una gestione a dir poco delirante della pandemia. Non pochi sono stati i tentativi di mettere in ordine i pezzi anche grazie all’intervento di scienziati e medici, subito triturati dalla propaganda di regime a prescindere dai titoli precedentemente acquisiti. Indimenticabili gli interventi, solo per citare i più continui, di Giovanni Frajese (Professore associato all’Università degli Studi di Roma), di Andrea Zhok (filosofo e professore presso l'Università degli Studi di Milano), e della Commissione Dupre, che ha messo insieme Carlo Freccero, Massimo Cacciari, Giorgio Agamben e Ugo Mattei, che con i loro incontri hanno coinvolto un’infinità di personaggi della cultura del dissenso in merito a pandemia e guerra.

Il professor Ugo Mattei è andato anche oltre fondando il nuovo CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) con lo scopo di amalgamare tutte le forze politiche e tutti i cittadini in un Comitato attraverso il quale strutturare la lotta contro il nemico comune: il neoliberismo rappresentato da Draghi e dai seguaci che lo sostituiranno alla guida del paese. Il Comitato per statuto non si può presentare alle elezioni e costituisce un spazio di partecipazione politica aperto a tutti coloro, associazioni e singoli individui, che reputano funzionale lottare insieme per difendersi dagli attacchi portati dal governo ai diritti civili, sociali e umani e al patrimonio comune. Il CLN individua i valori intorno ai quali compattarsi iniziando dalla “ricostituzione” di quelli costituzionali, massacrati dalla pandemia e dalla guerra. In sostanza la Libertà, l’Uguaglianza, l’Autonomia, il Territorio e la riappropriazione dei Beni Comuni costituiscono la base intorno alla quale cominciare a discutere. Il CLN, pur non essendo un partito ma un movimento, ha già dato avvisaglie di “verticismo” che precludono quell’organizzazione dal basso, con vincolo di mandato per i rappresentanti, che è presupposto indispensabile per avere garanzie di trasparenza e egualitarismo.

A fronte di queste posizioni intellettuali piuttosto diffuse, fa riscontro una galassia di associazioni e partiti molto più eterogenea che raccoglie il dissenso altrettanto difforme: si parte dai “duri e puri” come la deputata Sara Cunial e R2020 di Davide Barillari, da subito schierati sul fronte Novax, seguiti dai più morbidi Alternativa e Italexit di Gianluigi Paragone, tutti fuoriusciti dal M5S che, al contrario, latita da ogni forma di dissenso, sia per quanto riguarda il “Partito di Conte” sia per Luigi Di Maio con il suo “Insieme per il futuro” poi “Impegno Civico” e infine, nella peggiore delle forme di “trasformismo” con il “Diritto di Tribuna” nella coalizione del PD. Netta invece la posizione del PCI di Marco Rizzo, di Rivoluzione Allegra, di Ancora Italia e Forza del Popolo. Le forze politiche parlamentari non hanno certo brillato nella difesa dei diritti costituzionali lesi dal governo Draghi. Come si è visto le finte opposizioni, FdI della Meloni e Sinistra Italiana di Fratoianni, si sono immediatamente integrate nel PUM, i primi con le varie abiure i secondi con le elemosine. Una piccola lucina di speranza viene da Unione Popolare di De Magistris in cui sono confluite anche Rifondazione, Manifesta, Potere al Popolo e Risorgimento Socialista. Le posizioni di UP sono rigide sulla contrarietà a eventuali alleanze e alla guerra, più blanda quella al green pass e alla soppressione pandemica dei diritti civili che vede idee differenti all’interno dell’alleanza, con la speranza che la matrice di “sinistra” porti a un ravvedimento completo in merito.

La destra estrema di Forza Nuova e Casapound, dopo aver cavalcato insieme l’onda Novax, si è spaccata tra l’appoggio al nazismo ucraino e quello al fascismo russo, ma è probabile che, con le dovute assicurazioni amministrative, i due contendenti possano convergere verso un “appoggio esterno” agli eredi della “Fiamma Tricolore”.

Compatto invece il fronte sindacale confederato sempre più asservito agli interessi economici che dominano il paese, ampiamente confermata dalla dichiarazione di Landini di totale appoggio al governo Draghi in occasione dell’anomala crisi di luglio. Peraltro l’unica circostanza di scontro tra i due “amanti” si è verificato durante lo sciopero generale del 16 dicembre del 2021 che, lungi dal voler difendere il diritto al lavoro, ha inscenato una blanda avversione alla legge di bilancio. Lo sciopero generale, infatti, riguardava “l’intero mondo del lavoro con esclusione della sanità e degli appalti in sanità impegnati nella campagna vaccinale e nella gestione dell’emergenza”. Dal canto loro i Cobas si sono attivati contro il green pass con iniziative locali e con l’appoggio ai portuali di Trieste, nulla hanno potuto però contro i licenziamenti piovuti sugli animatori della protesta. Infine le uniche sigle sindacali a schierarsi fermamente contro il green pass sono state la FISI e OSA (l’Associazione Operatori di Sicurezza).

Sicuramente meno frastagliato di quello politico è stato il dissenso “tecnico”. La vasta popolazione sanitaria che si è schierata contro l’obbligatorietà della campagna vaccinale sperimentale si è divisa tra due associazioni: Ippocrate.org e CMSI (Commissione Medico Scientifica Indipendente). La prima impegnata con risultati eclatanti nella cura di pazienti Covid con protocolli di cura preventiva molto più efficaci del vaccino. La seconda ha fornito un supporto fondamentale con la diffusione di studi scientifici che hanno smascherato il castello di menzogne edificato dalle istituzioni per avvallare la campagna vaccinale compulsiva.

Infine va rilevato che la devastante campagna mediatica architettata per dare credibilità alla demenziale lotta alla pandemia ha prodotto, come reazione e in appena due anni, la nascita di più testate giornalistiche indipendenti di quante avessero visto luce negli ultimi trent’anni. Anche in questo caso il panorama intellettuale del dissenso è estremamente eterogeneo e spazia dalla sinistra antagonista, marxista, anarchica e ambientalista, alla destra trumpiana, negazionista e sovranista.

L’eterogeneità del dissenso risulta divisiva e rischia di minare le fondamenta stesse del movimento. Motivo questo che ha indotto l’intellighenzia a lanciare appelli per superare le naturali divergenze politiche che caratterizzano una platea così difforme. Il primo obiettivo in tal senso è stato quello di rendere evidente la falsità della dicotomia parlamentare destra-sinistra e superare i preconcetti ideologici creati appositamente per dividere il dissenso e renderne arduo il cammino comune. “Il terreno politico che si apre oggi deve partire da un’esigenza di superamento dell’opposizione storica tra destra e sinistra. Non si tratta di una mera scelta estetica, né di una moda da cavalcare per ricavare uno spazio di originalità. Destra e sinistra sono opposizioni prive di una qualunque definizione teorica stabile: esse sono semplicemente opposizioni che si sono prodotte nel corso del tempo, a partire dalla Rivoluzione francese, rivestendo di volta in volta ruoli e incarnazioni molto diverse. Nell’ultimo trentennio tanto i partiti sedicenti di destra che i partiti sedicenti di sinistra hanno contribuito ad alimentare e rinforzare un modello liberale e globalista di società. Entrambi hanno contribuito all’adozione di strategie che hanno liquefatto il tessuto sociale, sradicato gli individui, minato il funzionamento di famiglie e comunità territoriali. Entrambi hanno contribuito ai processi di privatizzazione di beni e servizi pubblici senza attenzione ad interessi strategici nazionali, entrambi hanno supportato la cessione di sovranità ad organismi sovranazionali, entrambi hanno accompagnato l’erosione del welfare e delle tutele del lavoro, entrambi hanno sostenuto una modernizzazione di facciata dell’istruzione pubblica che ne ha decretato il tracollo. Entrambi hanno sostenuto il progressivo passaggio da un ordinamento democratico ad un ordinamento tecnocratico, dove la sovranità viene delegata ad élite opache di sedicenti “competenti”. ... Nel contesto del cosiddetto “crollo delle ideologie” l’accoppiata destra-sinistra è divenuta un vero e proprio trucco cosmetico funzionale a mantenere in sella alcuni residuati delle ideologie che furono, mentre di fatto si imponeva – travestita da realtà ultima – l’ideologia onnicomprensiva del neoliberalismo. L’esigenza di mobilità della forza lavoro sul mercato mondiale è stata dipinta strumentalmente come “flessibilità”, “dinamicità”, o magari come “accoglienza” e “ospitalità”. Le richieste di affidabilità del grande capitale, tutelato dalla BCE, sono state presentate come gaia apertura europeista, in opposizione a biechi nazionalismi. Le esigenze di avere capitale umano sempre a disposizione senza remore è stato raccontato come “liberazione dai vincoli oppressivi della famiglia”. La tendenza liberalcapitalistica alla liquefazione di ogni legame, che siano luoghi, persone, culture o tradizioni, è stata presentata come forza emancipativa, che finalmente consentiva agli individui di esprimere le proprie potenzialità (mentre in effetti creava generazioni di individui sempre più solitari e disorientati). L’uscita dall’oramai falsa e fuorviante opposizione tra destra e sinistra deve prendere la strada di un recupero di principi e valori rimasti latenti e minoritari in entrambe le aree. Un elenco esaustivo non è qui possibile, ma alla luce di quanto detto possiamo almeno menzionare:

La libertà ... L’autonomia ... L’eguaglianza ... La comunità ... La famiglia ... Il territorio come ambito di appartenenza ... La cultura ... (sinistrainrete andrea-zhok-riflessioni-preliminari-ad-un-programma-politico).

Sia Ugo Mattei sia Andrea Zhok fanno affidamento sul superamento del dualismo destra/sinistra e sulla definizione dei valori costituzionali quali elementi di aggregazione del movimento del dissenso. Che questi principi da soli siano sufficienti a sanare le profonde divergenze interne al vasto mondo del dissenso è, però, tutto un altro discorso. Fatto questo ampiamente dimostrato dalle divisioni laceranti che hanno portato tre liste diverse alla campagna elettorale e la perdita di molte altre lungo l’irto cammino predisposto dal “golpe bianco” di luglio.

 

Un dissenso etereogeneo si smarrisce nel tunnel e dura poco

L’esperienza storica insegna che i movimenti di dissenso divisi e impostati esclusivamente sul “NO” come strumento di lotta hanno durata breve. Quando il NO viene urlato in merito a temi universali come la soppressione dei diritti umani, civili e sociali e la guerra, è facile trovare l’amalgama nel dissentire. I problemi però insorgono non appena il regime vigente concede l’elemosina del ripristino di alcuni diritti e, con la propaganda, normalizza lo stato di guerra. Il dissenso fine a se stesso, per quanto radicato possa essere, ha vita breve e finisce sempre per essere assimilato dal sistema politico al potere. Il neoliberismo o mercatismo che dir si voglia, nelle sue versioni banco-centriche e mercato-centriche, pseudo democratiche o totalitarie, risulta sempre molto efficiente nel processo di assorbimento dell’opposizione. A conferma di questa straordinaria abilità è sufficiente esaminare il percorso del M5S che, nonostante abbia potuto cavalcare il dissenso generato dalla più grave crisi economica del dopoguerra superando il 30% dei consensi elettorali, è stato disgregato tra mercato delle poltrone, acquisto di parlamentari e un’autogestione quanto meno discutibile.

Il motivo della breve durata di tutti i movimenti fondati su uno o più NO è proprio l’assenza di una proposta politica alternativa di costruzione di un “mondo migliore”. La caduta del Muro di Berlino e poi dell’Unione Sovietica hanno decretato la vittoria del capitalismo, poi neoliberismo e mercatismo. Sull’onda dell’entusiasmo l’Impero Americano è partito alla conquista del mondo con l’esportazione di democrazia e con l’omologazione culturale che hanno causato la prematura scomparsa della sinistra e con essa anche quella dell’ideologia. La deideologizzazione del confronto politico, fondata sulla schiacciante vittoria del “capitalismo” sulla controparte “comunista”, ha permesso ai vincitori di radicare nell’opinione pubblica la grande favola mercatista: “la fine della storia”. Secondo questa leggenda la democrazia rappresentativa e il neoliberismo rappresenterebbero lo stadio ultimo del miglior sistema politico ed economico realizzabile, il raggiungimento dell’Eden non più perfettibile.

In questo modo si millanta anche il superamento delle ideologie, come se il neoliberismo non fosse l’espressione di un ideologia dominante e, in quanto tale, oligarchica e totalitaria. Con la “fine della storia” il dissenso viene incanalato nel binario del riformismo che nulla può cambiare. Questo pensiero è diventato l’arma migliore a disposizione dell’Impero mercatista per assimilare qualsiasi forma di opposizione, cui viene lasciata solo la libertà di esprimere i propri NO. Questi vengono recintati nell’angusto spazio operativo che oscilla tra posizione keynesiane (di sinistra) e politiche liberiste (di destra), trasformati in “nì” e privati di ogni velleità di cambiamento. In questo modo si evita facilmente la formazione di un’ideologia antagonista al Mercatismo, che trasformi il dissenso in proposta politica. Il welfare keynesiano ha assunto il compito di assorbire il dissenso di sinistra, il “trickle down” del liberismo economico ha raccolto, invece, il dissenso libertario di destra. Le forme antagoniste, anarco- comuniste a sinistra, sovraniste-dittatoriali a destra, sono state relegate nel limbo di un passato ormai morto e sepolto o nel complottismo. Essendo giunti alla “fine della storia”, le etichette destra e sinistra sono state deprivate delle proprie basi ideologiche rendendole così prive di senso. L’ideologia stessa come concetto è stata deturpata, mistificata e rinchiusa nel contenitore ermetico dei rifiuti tossici della “Guerra Fredda”, ormai divenuta incompatibile con il nuovo corso degli eventi dettato dalla “fine della storia”. Così con la presunta scomparsa delle ideologie siamo alfine entrati nella demenziale era del post-ideologismo, in cui le ideologie o gli “-ismi” sono divenuti simulacri di primitivi stregoni della politica.

L’ideologia, invece, dovrebbe essere, almeno etimologicamente parlando, la “logia” (λογία, der. di - λόγος: v. – logo) delle idee. Sono stati scritti interi tomi sul significato di “logos”, ma per quanto si cerchi un’accezione negativa del termine questa risulta impossibile da trovare. Al contrario pensare di poter andare oltre (post) il pensiero, la parola, l’espressione, la teoria, lo studio, la trattazione delle idee può significare solo essere privi delle stesse. Non è un caso se con post-democrazia si definisce la morte della stessa, il post-ideologismo per la proprietà transitiva costituisce il trionfo della “fine della storia” con la prematura scomparsa dei “laboratori delle idee” soprattutto se alternative. L’unico valore negativo che l’ideologia può assumere è quello, di marxiana memoria, del suo divenire dominante. Circostanza questa nella quale l’ideologia pretende di non essere più tale, sostiene di rappresentare la fine della storia ed esige di dominare come se questo fosse una libera espressione della volontà di chi viene oppresso.

Il passato è un bacino enorme di conoscenze a cui attingere per non commettere errori già fatti e per operare le scelte migliori. In tal senso è facile notare che, per quanto forte possa essere, il dissenso finisce per essere velocemente assimilato dal regime vigente ogni qual volta non è in grado di strutturare una proposta politica alternativa solida. Quindi ben vengano tutte le iniziative, come il CLN, che tentano di organizzare una lotta univoca contro l’oppressore ma a condizione che, all’interno di questa ampia ed eterogenea area di pensiero sociale, si articolino le diverse proposte politiche che rappresentano le differenti fonti del dissenso. Come avvenne nel caso del CLN originale comunisti, socialisti, democristiani e liberali si unirono per cacciare i nazi-fascisti ma, mentre combattevano, strutturavano sul territorio la propria “ideologia” per poi dividersi una volta raggiunto lo scopo. Allo stesso modo ora mentre si combatte per difendersi dall’oppressione del pensiero unico liberista le diverse anime del dissenso dovrebbero strutturare le loro “ideologie”, senza le quali ogni proposta politica alternativa verrebbe fagocitata dal regime, come è successo a tutti i movimenti di protesta che si sono autodefiniti “post-ideologici”.

Molto probabilmente il golpe bianco, con cui è stato fatto cadere un governo che godeva di ampia fiducia parlamentare, aveva ed ha scopi molteplici. Il primo di questi è stato quello salvaguardare l’immagine di Draghi e della sua Agenda dagli strali derivanti dalla crisi energetica, che si trasformerà a breve in economica. Il secondo è costituito dall’esigenza di nascondere sotto il tappeto della Nato lo sporco generato dall’essere una colonia statunitense. Tra gli altri ma non ultimo, il “golpe bianco” si è ripromesso di privare le forze antisistema del tempo necessario a unificarsi sotto la stessa bandiera. Così frammentati e con lo scoglio delle 40mila firme da raccogliere in dieci giorni le formazioni politiche antagoniste arriveranno alle urne divise, senza un programma politico degno di questo nome e con pochissime possibilità di conquistare qualche scranno parlamentare.

Alle difficoltà create dal regime si aggiungono inevitabilmente quelle insite nelle diverse scuole di pensiero che animano il movimento antisistema. Una larga parte di questo non ha intenzione di andare a votare per due motivazioni fondamentali: la prima dettata dalla sfiducia nel sistema, unita alla scarsa conoscenza delle dinamiche elettorali; la seconda è fondata su un approccio più cosciente che vede nella cancellazione della rappresentanza e nell’organizzazione di una struttura politica a “piramide rovesciata” l’unica possibilità di realizzare la democrazia, sistema in cui dovrebbe essere la “base” partecipata di tutta la cittadinanza a trasmettere al “vertice” i propri voleri politici. Principio giustissimo che però hacome unica possibilità di affermazione una rivolta popolare radicale ed estesa che è lungi dall’essere realistica se non nel lunghissimo termine.

Allo stato attuale non votare, qualsiasi sia la ragione della scelta significherebbe solo dare maggior vigore al PUM (Partito Unico Mercatista). Come sta emergendo giorno dopo giorno dai patti, dalle alleanze, dalle finte liti e dalle solite promesse mai mantenute, è evidente che è in corso l’ennesima farsa della propaganda, che ha come unico scopo quello di rendere la competizione elettorale il meno partecipata possibile. Il massimo risultato raggiungibile da questo punto di vista sarebbe quello in cui i due virgola cinque schieramenti fittizi si spartissero equamente i consensi, anche in base ad alleanze post elettorali. In questo modo, la consueta incertezza politica che caratterizza il nostro paese permetterebbe al secondo Presidente della Repubblica, chiamato a sostenere un anomalo secondo mandato, di chiamare per l’ottava volta consecutiva un “esterno” a guidare l’ennesimo governo di “larghe intese” (leggi PUM). Ovviamente il compito di questo governo sarà quello di completare l’Agenda Draghi, traghettando il paese verso la solita iniqua distribuzione della seconda trance dei fondi del PNRR. A questo punto non è il caso di escludere un ritorno, a grande richiesta, del Messia.

Qualora, invece, la destra riuscisse a conquistare una larga maggioranza sarà divertente assistere ai giochi di potere che si scateneranno per evitare che la prima donna ad essere nominata Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, sia addirittura una simpatizzante fascista. Fatto che la dice lunga di quanto fascismo misogino circoli nella sedicente sinistra italiana, mai stata in grado di produrre una candidata donna alla Presidenza del Consiglio e a quella della Repubblica.

Alla luce della tempistica dettata dal golpe è fondamentale, non essendo riusciti ad organizzarsi per uscire dal tunnel del Daghistan, riuscire quantomeno a creare un “arredamento” idoneo a sopravvivere per i prossimi cinque anni. Senza una rappresentanza parlamentare, anche se soggetta alle solite compravendite di incarichi e poltrone, sarebbe alquanto difficile dare corpo alle istanze del movimento di base. Il regime nel corso degli anni ha spogliato tutte le forme di non voto di qualsiasi forza rivoluzionaria. Le schede nulle non vengono più conteggiate, così come le bianche, il rifiuto della scheda elettorale è stato equiparato al non voto. Quindi è bene sapere che non votando non si crea alcun percorso politico alternativo, non essendoci alcun modo per distinguere il rivoluzionario anarchico dal più becero dei qualunquisti. In secondo luogo più si riduce la percentuale dei votanti più è facile per il regime gestire il potere. Qualora si recassero alle urne anche solo poche migliaia di persone il risultato sarebbe valido e consegnerebbe ad un governo di minoranza il potere di decidere per tutti. Meglio quindi cercare di convincere quel 50% di non votanti a farsi rappresentare da una forza antisistema, anche a rischio di vederla poi corrotta dal potere come accaduto con il M5S. Poco male, alle successive tornate elettorali le forze assimilate dal potere vedranno i loro consensi crollare in favore di chi è rimasto integro.

Allo stato attuale lo scenario di queste forze antisistema è alquanto confuso e rappresenta piuttosto bene l’eterogeneità del movimento del dissenso. Anomale alleanze si sono create e modificate per far fronte al problema della raccolta delle firme. Così Italexit ha già perso Alternativa per far spazio a un paio di ex Casapound. In Italia Sovrana e Popolare sono confluiti Ancora Italia, il Partito Comunista, Riconquistare l’Italia, Azione Civile, Rinascita Repubblicana, Comitati No Draghi, Italia Unita e con la partecipazione di Andrea Zhok e Giorgio Bianchi. Anche i “duri e puri” Sara Cunial, Davide Barillari, 3V di Luca Teodori si sono uniti nel partito Vita che ha avuto il via libera per partecipare alla tornata elettorale. Non ce l’ha fatta, invece, Forza del Popolo guidata da Massimiliano Musso con le associazioni Mille Avvocati per la Costituzione, Mille Medici per la Costituzione, Scuola per la Costituzione. I programmi politici dei vari raggruppamenti antisistema non appaiono molto distanti tra loro, facendo tutti riferimento alle ragioni del dissenso: No alla Nato; No all’Europa; No all’Agenda Draghi; No al green pass e all’obbligo vaccinale; No alla guerra; No al lavoro precario; No alla mafia e alla corruzione; No alle privatizzazioni (ma non tutti).

Tra le forze antisistema che sembrano garantire l’indipendenza dai partiti di regime, in particolare con quelli della sedicente sinistra di destra, vanno anche considerati i partiti che si sono riuniti sotto il cappello di Unione Popolare e la leadership di Luigi de Magistris. Anche se in questo caso la lotta contro il green pass e gli altri provvedimenti fascisti adottati durante la pandemia e stata debole e frammentata, la posizione rispetto agli altri quattro antagonismi prodotti dal liberismo economico del Draghistan appare inequivocabile. Altri piccoli gruppi sorgono o si fondono ma con scarse possibilità di riuscire ad affacciarsi sulla scena parlamentare.

Se si va oltre il programma politico, stilato per raccogliere consensi nell’area del dissenso e per questo motivo fondato più sui “No” che su un processo ideologico costruttivo, e si analizzano le origini dei diversi personaggi e gli elementi divisivi cha hanno portato alla formazione di partiti e movimenti diversificati tra loro, le differenze emergono e divengono, in alcuni casi, sostanziali. È evidente che il dissenso eterogeneo si è trasformato in una proposta politica altrettanto differenziata. Il golpe bianco ha sicuramente la responsabilità, non avendo concesso i tempi necessari, della mancata focalizzazione dei punti politici comuni su cui fondare una proposta politica unitaria. D’altra parte è anche vero che il superamento della dicotomia destra sinistra, sostenuto da quasi tutte le forze antisistema in campo, si è rilevato molto meno fondato del previsto. L’inserimento di candidati di Casapound nelle liste di Italexit ha suscitato, giustamente, indignazione in tutti coloro che ancora pensano che esistano differenze ideologiche irrisolvibili tra gli interpreti delle diverse forme di fascismo che abitano la scena politica attuale, da un lato, e le varie espressioni di egualitarismo che popolano gli animi dell’ala sinistra del movimento.

Allo stato attuale un ammasso eterogeneo di dissidenti, in gran parte intrappolato nel post-ideologismo (inteso come assenza di idee), si trova a dover affrontare una lotta contro un regime molto ben strutturato, occultato dalla coltre nebbiosa della postdemocrazia del PUM. Il risultato è l’incapacità di articolare una proposta politica antagonista in grado di prolungare questa lotta oltre l’alito di vento che alimenta ogni rivolta.

 

Il dissenso, per vedere la luce alla fine del tunnel, ha bisogno di una proposta politica solida

Il dissenso eterogeneo per poter sopravvivere ed avere la possibilità di costruire un “mondo migliore” necessita di una proposta politica solida e alternativa. Un progetto politico che si prefigga di risolvere realmente gli antagonismi generati dall’interesse particolare perseguito dal regime vigente. Senza di esso movimenti e partiti alternativi diventano facile preda della governance mercatista, dell’indifferenza politica e del disimpegno.

L’eterogeneità dell’attuale movimento di dissenso, il superamento della falsa dicotomia destra/sinistra, l’assenza di ideologia e soprattutto l’esigenza di sfatare il mito della “fine della storia” non rendono facile, però, la strutturazione del progetto. Tutte le idee espresse finiscono per rimanere intrappolate nel finto conflitto tra le soluzioni keynesiane e quelle “trickle down” del libero mercato. Molti analisti, tendono così a superare il dualismo destra/sinistra sostenendo che il conflitto sia oggi tra “sovranismo” e “globalismo”, con il primo a sostegno dell’autonomia politica degli Stati, delle classi meno abbienti, di un sistema economico liberista ma un po’ più autarchico che appare di non facile comprensione. Il globalismo è invece aperto sul mercato mondiale, liberista sino al midollo, favorevole alla sovranità europea e all’euro, nel nostro caso, e propenso a promuovere la favola di un sistema economico della crescita ecosostenibile. Questa visione della dicotomia politica è, però, in realtà del tutto fittizia nè più nè meno che quella destra/sinistra, perché riguarda solo la parte deideologizzata del pensiero politico. In realtà questa divergenza è solo apparente e appartiene più alla commedia della politica, rappresentata nel teatrino parlamentare, che non al pensiero politico concettuale.

In Italia la rappresentanza democratica si divide tra una destra sovranista e una pseudo sinistra globalista, con il perenne tentativo di ricostruire il Grande Centro di democristiana memoria. Come si è visto, però, questa divisione è palesemente falsa. La destra di origine fascista, non appena si affaccia all’orizzonte il miraggio di poter governare il paese, è prontissima a dichiararsi fervidamente atlantista, guerrafondaia, anti Putin e in definitiva anche favorevole a forme coercitive di contenimento della pandemia. Dall’altro lato Sinistra Italiana non esita, dopo essersi fusa nei Cocomeri rosso verdi, ad elemosinare al PD un posto nella coalizione. Tornando indietro negli anni la dicotomia destra/sinistra appare ancora più fittizia alla luce di patti, alleanze, salti di poltrona e operazioni varie di compravendita di parlamentari. Non solo ma la pseudo sinistra di regime è stata la protagonista di quelle “riforme” che hanno schiantato la scuola e la sanità pubblica, favorendo le forme private, e annientato i diritti dei lavoratori. Difficile dire quale governo dal Berlusconi I ad oggi abbia causato più morti nella gestione dei flussi migratori.

In sostanza la rappresentanza parlamentare aderisce tutta al PUM, il Partito Unico Mercatista. Partito manovrato e manovrabile dall’interesse particolare economico che governa il mondo direttamente o tramite compagini nazionali. Sovranismo e globalismo diventano così due facce della stessa medaglia, quella del sistema economico mercatista. La finta dicotomia si assume il compito di assorbire il dissenso: la destra sovranista prende in carico la protesta contro il green pass e la limitazione della libertà; la pseudo sinistra in parte e il centro cattolico assumono le difesa della pace. In questo modo tra canovacci, equivoci e lazzi la commedia politica italiana va avanti senza traumi, il green pass resta pronto all’uso e l’Italia entra in guerra senza che il dissenso abbia ottenuto la benché minima considerazione.

Il dissenso non ideologizzato, privato delle fondamenta, finisce per crollare su stesso, durando giusto il tempo necessario ai “servi di scena” per allestire l’atto successivo della commedia politica. Atto in cui un “colpo di scena” ben architettato monopolizzerà l’attenzione dello “spettatore”, consenziente o dissidente che sia. Carlo Formenti, in un articolo dal titolo “Momento populista e rivoluzione passiva” (sinistrainrete.info-carlo-formenti-momento-populista-e-rivoluzione-passiva.html) centra in maniera sostanziale la problematica insita nell’affidare il dissenso a un movimento eterogeneo privo di un’ideologia politica: “… un fenomeno come il movimento NoVax risponde pienamente ai requisiti dell’analisi empirica di cui sopra: catene equivalenziali in cui convergono rivendicazioni eterogenee sotto l’aspetto “ideologico” (estrema destra vs estrema sinistra), socioeconomico (piccoli e medi imprenditori che temono l’immiserimento vs frange sindacali che temono l’uso del Green Pass come strumento di discriminazione sui luoghi di lavoro), psicologico (paura della potenziale dannosità del vaccino vs insofferenza per le limitazioni alla libertà individuale) e l’elenco potrebbe proseguire. Altrettanto eterogeneo il ventaglio dei nemici su cui si indirizza la rabbia: i media che fanno terrorismo e diffondono false notizie, Big Pharma che sfrutta la pandemia per accumulare sovraprofitti, i governi e i partiti politici che li sostengono e sfruttano la situazione per instaurare uno stato di emergenza permanente e ridurre i diritti individuali e collettivi. Tutti questi motivi di insofferenza hanno fondamento reale, ciò che manca è invece un soggetto politico che interpreti razionalmente le diverse ragioni di conflitto, le ordini gerarchicamente e le imputi a una logica sistemica, invece di affogarle in una melassa complottista in cui tutto si confonde. Manca cioè un reale momento di verticalizzazione che può essere solo politico- organizzativo e non “affettivo”, discorsivo/simbolico.”

La pandemia e la guerra e soprattutto lo sviluppo impresso dai media alla cultura dell’odio, hanno però strutturato nelle fasce di popolazione vessata una forma particolarmente forte di dissenso. Il momento sarebbe quindi propizio all’ideologizzazione dell’opposizione, l’unica possibilità che il dissenso ha di sopravvivere a se stesso. Solo strutturandosi in proposta politica alternativa a quella vigente, responsabile di aver generato i conflitti antagonisti che hanno creato il dissenso stesso, quest’ultimo potrà riuscire a durare oltre il breve lasso di tempo in cui la rabbia viene smaltita. Questa indispensabile proposta politica può essere costruita solo da un soggetto politico che, una volta analizzata l’eterogeneità del dissenso, sia in grado di aggregarsi intorno a valori, a soluzioni politiche e a interessi comuni omogenei e radicati nel territorio. Questo soggetto sociale deve trovare quelle caratteristiche comuni necessarie alla costruzione di una proposta politica solida in grado di risolvere gli antagonismi generati dal mercatismo. Il marxismo, come proposta politica alternativa al capitalismo, è durato duecento anni, e secondo alcuni durerà ancora a lungo, proprio perché è riuscito in questo arduo compito. Ha individuato nel proletariato il soggetto sociale antagonista e ha elaborato delle soluzioni per il superamento degli antagonismi creati dal capitalismo. Oggi ci troviamo con un nemico ancor più strutturato, che ha saputo destabilizzare il soggetto sociale antagonista ed imporre il pensiero unico della “fine della storia”. Il nuovo soggetto sociale deve quindi nascere da quella “moltitudine” di individui vittime degli antagonismi mercatisti e deve aggregarsi intorno al proprio interesse comune per poter elaborare un programma politico che dipani la “melassa complottista”, analizzi le cause dei conflitti ed elabori una soluzione politica agli stessi.

È sufficiente riepilogare questi conflitti per far emergere le cause univoche che li hanno generati:

    1. la soppressione dei diritti umani, civili e sociali
    2. la discriminazione e l’oppressione del dissenso
    3. l’inasprimento delle disuguaglianze
    4. la questione ambientale
    5. la guerra

Come appare evidente dalla sommaria descrizione degli antagonismi fatta precedentemente le cause di tutti e cinque hanno radici profonde nel sistema economico capitalista, poi liberista e oggi mercatista. I primi due nascono direttamente dall’esigenza della governance di ottenere un controllo politico sempre più centralizzato, finalizzato all’efficientamento del processo di concentrazione dei capitali. Potere economico e potere politico diventano, anche nei regimi democratici, sempre più un’unica realtà ormai svincolata dai legami con la cittadinanza. La pandemia ha fornito un esempio eclatante di come il potere economico, rappresentato in questo caso dalla Pfizer, detti abitualmente le regole ai diversi Stati.

L’azienda è, infatti, riuscita a ottenere il sostanziale monopolio della vaccinazione nonostante abbia proposto il prezzo più alto (22 dollari di media a inoculazione); si è assicurata l’impunibilità per quanto riguarda le reazioni avverse e dove non è riuscita ad averla, come in Africa, ha fatto in modo di non inviare i vaccini; ha conseguito l’autorizzazione alla terza dose per tutti anche se deleteria ai fini della lotta al virus per via dell’abbassamento delle difese immunitarie; ha promosso la vaccinazione infantile pur se inutile; ha mobilitato la campagna di disinformazione più capillare mai realizzata, battaglia che è riuscita a manipolare la realtà in materia di iter di approvazione, reazioni avverse, durata e efficacia della copertura, etc.

Questo processo di condizionamento dell’opinione pubblica è stato perfettamente rodato negli ultimi trent’anni dalle Istituzioni internazionali e dai vari organismi finanziari inter-governativi e privati. I grandi fondi finanziari hanno gestito direttamente, con le loro speculazioni, lo Spread e il Pil di paesi, ormai sovrani solo sulla carta, al fine di ottenere privatizzazioni e flessibilità sul lavoro. Così, ad esempio, la Grecia di Tsipras nel 2015 e l’Italia, negli ultimi undici anni grazie ad una sequenza infinita di governi “tecnici”, sono state ridotte all’impotenza mediante il ricatto economico. Quando le speculazioni provocano crisi economiche strutturali a livello mondiale, le stesse Istituzioni intervengono, con largo impiego di fondi pubblici, a risanare i bilanci di coloro che sono “too big to fail”.

Il terzo e il quarto antagonismo (l’inasprimento delle disuguaglianze e la questione ambientale) sono una conseguenza diretta della politica economica della “crescita”. Il meccanismo della crescita, infatti, per essere efficiente tende inevitabilmente a concentrare sempre di più nelle mani di pochi le ricchezze necessarie ai “nuovi investimenti”. Una ridistribuzione dei profitti risulterebbe inammissibile in quanto renderebbe inefficiente la dinamica stessa della crescita. Non ci può essere crescita, infatti, senza la disponibilità di grandi capitali da investire sulla competitività, con la riduzione dei costi, derivanti dalla delocalizzazione della produzione su larga scala, e con lo sviluppo delle vendite grazie alla “apertura di nuovi mercati”. Più si concentra il capitale più il meccanismo diviene efficiente ma maggiori diventano le disuguaglianze. Allo stesso tempo più si riducono i costi e più si aumenta la produzione maggiore sarà l’inquinamento generato. Per entrambi gli antagonismi si tratta di un inesorabile rapporto di proporzionalità diretta. Le grandezze relative alle disuguaglianze e al depauperamento delle risorse del pianeta sviluppano una relazione con quelli della crescita economica, perseguita dal mercatismo, che assume valori il cui rapporto è costante.

Infine, la guerra, il quinto antagonismo, ha origini, ragioni di sviluppo e sempre più spesso anche strategie che trovano nel sistema economico liberista e mercatista le proprie radici. Analizzando le ultime trenta guerre del dopoguerra così come gli infiniti interventi (quali i golpe, la fornitura di armi, di mezzi e di consulenze, le campagne mediatiche, etc.) intrapresi dalle superpotenze nei paesi subordinati, è facile ricondurre tutti questi eventi a ragioni prettamente economiche. In primo piano risulta ovviamente l’appropriazione e la gestione delle risorse; in secondo luogo risalta la creazione di sacche di povertà e di flussi migratori necessari a mantenere basso il costo della mano d’opera e flessibile il lavoro; infine, ultimamente i conflitti bellici scaturiscono anche da questioni geopolitiche appositamente innescate da una potenza imperialista al fine di indebolire economicamente qualche pericoloso concorrente.

Una volta identificati gli antagonismi più importanti appare evidente che esiste una netta dicotomia tra l’interesse particolare espresso dalla governance economico-politica e l’interesse comune della “moltitudine” delle vittime di questa ideologia dominante. Se il dualismo destra/sinistra appare illusorio a livello parlamentare, occorre riconoscere che in sede di politica concettuale si ricostituisca con tutto il suo vigore. Fatto questo che impone un’analisi particolareggiata del percorso ideologico che il dissenso deve intraprendere per poter affrontare il nemico mercatista con qualche minima possibilità di successo.

 

Per uscire dal tunnel la proposta politica deve essere antagonista

Anche solo per tentare di uscire dal tunnel occorre individuare il percorso giusto, in grado di evitare le trappole e gli ostacoli che il mercatismo pone a difesa del proprio interesse. Per questo motivo la mappa di questo cammino deve essere frutto dello studio di idee nuove. Concepire soluzioni parziali a problemi reali, cioè inserirsi nel meccanismo perverso della “realpolitik”, non farebbe altro che rafforzare le pareti del tunnel e offuscare la luce al termine di esso. Solo una solida proposta politica costruita su fondamenta ideologiche alternative ai regimi post-democratici, può riuscire nel difficile compito di trovare la via di uscita. In questo senso la dicotomia “destra-sinistra” è tutt’altro che superata, in quanto i termini identificano valori e soluzioni politiche molto diverse tra loro. Poco conta, al fine di amalgamare il consenso intorno a valori duraturi e alle soluzioni degli antagonismi mercatisti, la manipolazione semantica che la propaganda di regime ha operato sui due termini per avvalorare la tesi della “fine della storia”. È ora di recuperare significati e valori originali se si vuole strutturare una proposta politica che duri più a lungo del battito di ali di un determinato dissenso.

La dualità destra/sinistra è più viva che mai, ha solo bisogno di una descrizione più analitica di quel sentire comune che, orfano di un’ideologia strutturata quale era il socialismo nelle sue diverse forme (anarchismo, comunismo e socialismo), fatica ad uscire dal dimenticatoio in cui è stato relegato dalla “fine del mondo”. La destra, ad esempio, tende storicamente a “conservare” i valori tradizionali e con essi lo status quo vigente, è riformista ma mai rivoluzionaria. È utilitarista e liberista, grazie alla manipolazione delle teorie evolutive darwiniane adattate al concetto hobbesiano di “homo homini lupus”. La sinistra al contrario è ugualitaria, crede nell’uomo come animale sociale in grado di evolversi solo all’interno di processi sociali fondati sulla cooperazione.

L’incompatibilità di questi concetti caratterizza anche il movimento del dissenso attuale. Motivo per cui trovare il modo di costruire una proposta politica unitaria rischia di diventare una “missione impossibile”. D’altra parte presentarsi separati allo scontro contro un regime strutturato come quello post-democratico significa perdere ogni possibilità di sopravvivenza. Un dissenso eterogeneo, deideologizzato, incapace di generare una proposta politica solida e antagonista al regime è destinato ad avere vita breve a meno che non riesca a strutturare la lotta contro il comune nemico su tre fronti diversi, ognuno dei quali prevede un proprio livello di organizzazione.

Il primo fronte è quello difensivo: fare rete tutti insieme per opporre quanta più resistenza possibile nei confronti della coercizione fascista operata dalle diverse forme assunte dal regime postdemocratico del PUM. Le armi di questo livello sono la “piazza”, la “disobbedienza civile”, la “controinformazione”, la “solidarietà” con le altre vittime del regime. Più si è meglio è, non ci sono limiti alle alleanze anche se combattere il fascismo con i fascisti assomiglia un po’ troppo al voler combattere i danni collaterali del liberismo economico con la “crescita infinita” che li ha generati.

Il secondo fronte è la strutturazione di un movimento di base coeso intorno a un’ideologia, anche se ancora da strutturare, radicato sul territorio grazie ad una organizzazione in “sezioni” distribuite su tutto il paese, e possibilmente anche oltre. A questo movimento spetta il compito di costruire quella rete sociale solidale di base che supporti tutta la cittadinanza. Il movimento deve avere un’organizzazione egualitaria priva di qualsiasi forma verticistica che alimenti nuove forme di interesse particolare, al fine di promuovere esclusivamente l’interesse comune. Ogni sezione dovrebbe operare per mezzo di assemblee partecipate, in grado di coordinarsi con le altre sezioni mediante rappresentanti (non coordinatori) sotto stretto vincolo di mandato, con revoca immediata dello stesso al minimo accenno di mancato rispetto delle indicazioni fornite dalla base assembleare. Esperimenti in tal senso sono già stati realizzati con successo nei Social Forum e nel movimento Occupy. Al secondo livello spetta il compito di strutturare l’ideologia antagonista e la conseguente proposta politica. Fatto questo che limita l’accesso al movimento a coloro che concordano sui principi ispiratori essenziali.

Il terzo fronte è quello rappresentato dall’infiltrazione nelle istituzioni postdemocratiche al fine di ottenere maggiore spazio di intervento ai fini della difesa delle vittime del regime, a quelli di allargamento della coscienza della cittadinanza e a quelli di costruzione della proposta politica antagonista. Il terzo livello è fondamentalmente costituito dai vari rappresentanti che il movimento deve riuscire a piazzare nelle diverse assemblee e consigli amministrativi e parlamentari. Tra questo genere di rappresentanze non vanno dimenticate quelle sindacali. Onde evitare lo spiacevole inconveniente della compravendita dei rappresentanti antagonisti che scatta non appena una forza politica acquisisce piccoli, come nel caso di Sinistra Italiana, o grandi numeri, come nel caso del M5S, è fondamentale “contrattualizzare” i candidati rendendoli il più possibile vincolati al mandato del movimento di base.

Se il primo livello di lotta non prevede limiti ideologici di sorta, appare chiaro che il secondo e terzo debbano essere sostanzialmente espressione di una scuola di pensiero quanto meno ugualitaria e, quindi, di sinistra. Fatto questo che risulta evidente per due fattori fondamentali: il primo è costituito dalla necessità di trovare un’affinità tra l’ideologia nascente e i valori intorno ai quali si è formato il dissenso nei confronti del regime post-democratico; il secondo scaturisce dal bisogno di rendere efficace la proposta politica alternativa, condizione questa subordinata al superamento di quegli antagonismi che, insiti nel mercatismo o neoliberismo che dir si voglia, hanno generato il dissenso.

L’appartenenza dei valori espressi dal movimento del dissenso, creato da guerra e pandemia, al pensiero di sinistra risulta palese già dalle affermazioni dei professori Andrea Zhok e Ugo Mattei, precedentemente riportate. Pur essendo due tra i principali sostenitori dell’unione di tutte le espressioni del dissenso attuale e del superamento della dicotomia destra/sinistra inscenata nella commedia parlamentare, i due intellettuali hanno codificato una serie di valori intorno a quali unirsi che sono quelli classici della scuola socialista. Una scuola di pensiero autentica, che non può essere considerata “superata” solo perché una corrente minoritaria del PUM (Partito Unico Mercartista) tende a definirsi tale senza averne le caratteristiche. La “sinistra” reale e antagonista, infatti, vanta quelle origini socialiste che, nell’arco di tre secoli, hanno assunto forme diverse, sono state oggetto di manipolazioni sostanziali, hanno spesso fallito gli obiettivi prefissati, ma hanno sempre mantenuto a livello ideale l’aderenza a quei valori che costituiscono, ancora oggi, le fondamenta del pensiero di “sinistra”. Valori che sono, non a caso, gli stessi citati da Zhok e Mattei:

    1. l’uguaglianza

    2. la libertà

    3. l’autonomia

    4. la solidarietà della comunità

    5. la pace

    6. i valori costituzionali come il lavoro, l’istruzione, la cultura, l’integrazione (no l’assimilazione)

    7. il pluralismo culturale e la difesa delle minoranze

Questi sono valori antitetici al pensiero politico di destra, che resta storicamente vincolato a principi conservatori, fondati sulla sicurezza, su valori sovranisti di patria e famiglia, sulla giustizia imposta e garantita da una guida forte, teoricamente al servizio del proprio popolo, etc. Immaginare di costruire un proposta politica antagonista all’attuale regime post democratico sulla base degli stessi valori costituenti che sospingono l’interesse particolare, che lo sostengono, è semplicemente puerile. Il sovranismo, ad esempio, tende a differenziare e quindi isolare le vittime del regime nazionale dai propri omologhi appartenenti alla comunità internazionale. La sinistra è storicamente internazionalista perché difende gli interessi delle classi meno abbienti sin dai tempi del primo capitalismo, dove le vittime erano costituite dalla classe operaia, e continua a farlo oggi tutelando dal mercatismo la “moltitudine”, creata dai nuovi mezzi di produzione digitali e finanziari. Il sovranismo, al contrario, imposta sulla “guerra tra poveri” la propria politica, escludendo ad esempio i migranti dall’egualitarismo, l’unica arma ideologica atta a combattere la costituzione di un interesse particolare.

Poco importa se i migranti vengono affogati nel Mediterraneo e suicidati nei centri di accoglienza (giustamente ribattezzati Cie, Centri di identificazione ed espulsione) come vuole la destra sovranista, o trucidati in Libia come vuole la sedicente sinistra di destra. I valori alla base di una proposta politica antagonista devono prendere in considerazione il fatto che non esiste un problema di immigrazione, ma solo uno di emigrazione. Chi emigra lo fa per fuggire da una condizione disperata creata dalle politiche neoliberiste e dalle guerre che ne derivano. Quindi il primo passo è la rinuncia completa a tutte le politiche neocolonialiste, rinforzata da processi di integrazione che, nel rispetto dei diritti culturali delle minoranze, escludano fenomeni di assimilazione palesemente contrari a qualsiasi forma di pluralismo culturale. Il sovranismo con le sue discriminazioni favorisce la costituzione di un nuovo interesse particolare, che lungi dall’abbattere le barriere dell’attuale regime, finisce per generarne altre diversamente “uguali”.

In alcun modo due concetti diametralmente opposti quali “sovranismo” e “sovranità” vanno confusi tra loro. Il primo concetto prevede la riconquista “statale” della sovranità, cioè delega l’esercizio del potere a una rappresentanza che, anche se diversa da quella vigente, non farà altro che perseverare nella gestione oligarchica del potere, sostituendo l’interesse particolare corrente con il proprio. La sovranità, invece, è la qualità giuridica dell’esercizio del potere e, pertanto, ha valore solo se seguita dal soggetto avente diritto ad esercitarlo. La Costituzione Italiana prevede che la sovranità debba essere popolare, ma esercitata nei limiti della Costituzione stessa, il che rende vana la premessa. Per essere realmente popolare la sovranità deve essere decentrata alle comunità locali, solo quando il popolo esercita direttamente la qualità giuridica della sovranità la democrazia diventa effettiva.

Nelle varie forme di “sovranismo”, dalla post-democrazia al totalitarismo, il valore di uguaglianza degenera e, con esso, anche quello di libertà acquisisce una forma distorta. In presenza di un interesse particolare di qualsiasi forma, si creano delle disuguaglianze che rendono la libertà un concetto variabile, una sorta di merce quotata e acquistabile sui mercati, un prodotto costruito secondo gli usi e i costumi dei diversi consumatori, che non ha nulla a che spartire con il pensiero di “sinistra”. La libertà per essere tale deve necessariamente sviluppare un rapporto di interdipendenza con l’uguaglianza: “non c'è libertà senza eguaglianza e non c’è eguaglianza senza libertà”. In caso contrario la libertà diventa coercizione dell’oppresso esercitata da un “libero”. Se sostituiamo l’obbligo vaccinale con quello di non vaccinarsi, se all’imposizione dell’uso delle mascherine viene stabilito il divieto di usarle, se la discriminazione del Novax viene sostituita con quella del vaccinato, cambia solo il soggetto libero e quello oppresso ma la libertà continua a latitare. Se il sostegno all’Ucraina si trasforma in appoggio a Putin, invece di essere opposizione alle guerre di ogni genere e forma, semplicemente si trasforma l’adesione al colonialismo statunitense, e al suo interesse particolare, in partecipazione all’imperialismo russo, che non ha alcuna intenzione di promuovere l’interesse comune.

L’autonomia, sia individuale sia comunitaria, è impensabile in un contesto che richiede un’organizzazione gerarchica del lavoro e la sudditanza di intere comunità, spesso oppresse al fine di essere defraudate delle proprie risorse. La solidarietà è antitetica al principio della “libera concorrenza”, su cui il sistema mercatista fonda l’ossimoro della “competizione”. Questa infatti cela, dietro il velo di una maggiore efficienza, l’appropriazione indebita dei beni comuni e l’ineluttabile conseguenza di ogni competizione, quella di creare un vinto e un vincitore. Qualsiasi sia il campo di gioco, mondiale, continentale, nazionale o locale, la “competizione” tende a definire una scala di valori che pone su piani diversi e iniqui i partecipanti alla stessa. L’esito della sfida, con i pochi vincitori da un lato e i tanti sconfitti dall’altro, determina una serie di disuguaglianze che innescano, a loro volta, una sequenza di processi atti a sottolineare le distinzioni della scala di valori predeterminata. Secondo il campo di gioco scelto, i vincitori tendono a imporre ulteriori vessazioni ai perdenti mediante le guerre, la gestione dei flussi migratori, la divisione in classi, le discriminazioni, la sospensione dei diritti umani, civili e sociali per i vinti, la concessione di privilegi per i vincitori. La cultura destrorsa e sovranista tende, con i suoi recinti, a replicare le forme distorte di autonomia e solidarietà stimolando il mantenimento in vita del sistema, peraltro fittizio, della libera concorrenza e della competizione per la selezione del migliore. La sostituzione di un interesse particolare con un altro non risolve, però, in alcun modo gli antagonismi creati.

La pace così come il lavoro, l’istruzione, la cultura e l’integrazione, infine, sono valori direttamente connessi con il principio di uguaglianza, negato il quale decadono miseramente le possibilità degli altri parametri di raggiungere un qualsiasi livello di equità. I provvedimenti adottati durante la pandemia sono un esempio eclatante di come il diritto al lavoro e all’istruzione siano stati disattesi sulla base di una discriminante imposta dall’alto.

In sostanza la proposta politica destrorsa, così come quella post-ideologica, finirebbero per decretare la scomparsa dei valori salienti della “sinistra” e del dissenso stesso. L’uguaglianza, la libertà, l’autonomia, la solidarietà della comunità, la pace, il pluralismo culturale e la difesa delle minoranze, si

estinguerebbero nel momento stesso in cui avvenisse il cambio al vertice del potere. Anche in questo caso il M5S è stato un esempio eclatante di come, in assenza di un’ideologia solida e della relativa proposta politica, anche le migliori intenzioni “post-ideologiche” vengano rapidamente assimilate dall’interesse vigente e utilizzate per mantenere lo status quo.

Se il fattore “valori” già evidenzia una palese incongruenza tra la proposta politica di “destra”, anche se anti-regime, è il secondo elemento, cioè il superamento degli antagonismi creati dal regime postdemocratico, a rendere incompatibile tale proposta con la costruzione di un “mondo migliore”. Soprattutto la proposta politica di “destra” non può risultare alternativa a quella creata dal mercatismo perché tende a ricalcarne il percorso, mantenendo quelle contraddizioni che a lungo andare ricreerebbero gli stessi antagonismi. Fatto questo che rende inevitabile una separazione delle forze antagoniste al secondo e al terzo livello di organizzazione della lotta.

Il primo antagonismo evidenziato dalle politiche pandemiche come si è visto è stata la soppressione dei diritti umani, civili e sociali esercitata per mezzo di un sempre più efficiente sistema di controllo del popolo. Questo antagonismo nasce dall’esigenza del sistema mercatista di centralizzare il più possibile il potere politico e quello economico per rendere più efficiente la favola della crescita infinita. Per superare questa necessità è necessario un radicale cambiamento del sistema economico e del sistema politico, che devono trovare forme distribuite di organizzazione sociale e di produzione dei beni. Una proposta politica di destra, conservatrice, sovranista e sostanzialmente liberista risulterebbe inevitabilmente inefficace, in quanto tenderebbe solo a sostituire l’interesse particolare vigente con uno alternativo che non cambierebbe la sostanza degli antagonismi.

Una rappresentazione esaustiva di questo impasse è il “trumpismo” che dilaga nell’anima destrorsa del movimento del dissenso. Per il semplice fatto di essersi schierato con veemenza contro il lobbismo della “sinistra di destra” americana, Trump è riuscito a riscuotere un grande successo nelle aree di dissenso dei paesi occidentali. La trappola trumpiana ha funzionato ancor meglio della falsa dicotomia destra/sinistra allestita in Italia. In nome di una libertà individuale direttamente connessa al reddito, l’ex presidente americano è riuscito a sdoganare una serie infinita di nefandezze politiche che sono riuscite ad alimentare tutti i contrasti, senza risolvere alcuna criticità. Come si è visto tutti gli antagonismi sono direttamente collegati tra loro, non solo perché trovano comune origine nel mercatismo o neoliberismo, ma anche per il rapporto di interdipendenza che li lega uno con l’altro.

L’esigenza di controllare potere politico ed economico, ad esempio, porta alla soppressione dei diritti umani, civili e sociali di qualcuno. Poco importa se Trump promuove un atteggiamento anti pandemico, negazionista e solo apparentemente contrario al vaccino, diventando paladino dei diritti dei Novax, un po’ come la Meloni in Italia, se poi erige muri al confine col Messico, sterminando migranti e afroamericani in nome del suprematismo bianco, e armando tutto il popolo americano nell’illusione che più armi possano frenare il fenomeno delle stragi invece di alimentarlo. Se la comunità dissidente oppressa aspira solo a prendere il potere per sostituire il proprio interesse con quello vigente, nulla cambierà mai nella sostanza. Semplicemente si otterrà un’inversione dei ruoli, mantenendo le stesse norme coercitive del dissenso e utilizzandole a ruoli invertiti. Se si vuole essere liberi e avere accesso ai diritti bisogna innanzitutto riconoscere quelli degli altri, a cominciare dai diritti culturali di ogni tipo di minoranza. Fare delle graduatorie di priorità sui diritti da ripristinare (prima i novax poi la comunità Lgbtq+, prima gli italiani poi i profughi, prima i feti poi quelli delle donne, peraltro ancora oggetto di prevaricazioni a dir poco medievali), cosa che sta acquisendo sempre più spazio nel movimento di dissenso pandemico e anti-guerra, significa solo costruire un ulteriore muro a difesa delle discriminazioni che caratterizzano le, solo in apparenza, diverse forme di potere.

Se si sopprimono i diritti, anche solo di una piccola e insignificante minoranza, si cancella anche la libertà. Se si tiene in vita, anche solo teoricamente, la minore delle discriminazioni, questa si trasformerà in coercizione del dissenso del discriminato in quanto tale. Il mancato accesso ai diritti e le discriminazioni generano inevitabilmente le disuguaglianze, come dimostrano i rapporti Oxfam da decenni a questa parte. Trump non ha minimamente intaccato il sistema economico neoliberista, ha semplicemente favorito le lobby che lo sostenevano, in particolare quelle delle armi e quella estrattivista. Per favorire quest’ultima ha promosso quel negazionismo della questione ambientale che imperversa anche nel movimento italiano di dissenso. Negazionismo che assume connotazioni demenziali per due motivi fondamentali.

Il primo è di carattere tecnico e si fonda su una serie di studi “scientifici” commissionati dalle stesse aziende che gestiscono i combustibili fossili. Aziende che finanziano sedicenti associazioni ecologiste per dare fondamento alle favole negazioniste raccontate dal Partito Repubblicano statunitense (Naomi Klein – “Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile” – Rizzoli 2015 e “A planet to win. Perché ci serve un Green New Deal” di Kate Aronoff - Alyssa Battistoni - Daniel Aldana Cohen - Momo Edizioni 2021). La battaglia delle due facce della “scienza dogmatica” possono così far finta di combattersi a suon di studi di inoppugnabile attendibilità, che finiscono per rendere plausibile qualsiasi verità per quanto distorta essa possa apparire. La comunità scientifica sembra così divisa tra chi attribuisce tutte le colpe alla CO2 e chi la utilizza per farsi le inalazioni. I più furbi se la godono nello Champagne. Molti attribuiscono la responsabilità dei cambiamenti climatici in via esclusiva all’uomo, mentre dalla parte opposta si fa notare che queste variazioni ci sono sempre state, causate da fattori atmosferici, planetari e a volte anche astrologici. Ora al di là del dibattito scientifico, che può essere lasciato tranquillamente a chi pretende di averne le competenze, quello che risulta demenziale è il tentativo di ridurre esclusivamente alla problematica dei cambiamenti climatici il fenomeno dell’Antropocene (l’attuale epoca geologica in cui l’ambiente terrestre viene condizionato dal comportamento dell’uomo), fatto questo che caratterizza entrambi i fronti del puerile confronto.

Il negazionismo trumpiano e la “transizione ecologica”, peraltro alquanto statica, dei post-democratici, concentrano il proprio confronto esclusivamente sui cambiamenti climatici incitando, da una parte, il popolo a continuare nella sua adesione alla felicità indotta dal consumismo più sfrenato anche se possibilmente di prodotti nazionali. Dall’altra la catastrofe imminente causata dai cambiamenti climatici impone di consumare solo ciò e nelle modalità che vengono indicate dalla solita pletora di “esperti” competenti e in palese conflitto di interesse. Così smarrito tra una progressiva desertificazione, un antitetico scioglimento di ghiacciai, eventi estremi che si sono registrati anche in passato ma ora sono più frequenti, il popolo continua imperterrito ad accettare assurdità come l’esenzione dalla valutazione del rischio per il rigassificatore di Piombino o la riapertura delle centrali a carbone in nome della transizione ecologica.

In questo modo le due facce della stessa medaglia, la destra “negazionista” e la sinistra “ecologista” possono continuare a promuovere quel liberismo economico che è alla base dell’ingresso del pianeta nell’Antropocene. Infatti, il condizionamento dell’uomo sulle trasformazioni morfologiche del pianeta è dimostrato, non tanto dai cambiamenti climatici, quanto dall’assenza nel passato di una serie di fenomeni tipici che caratterizzano il presente. In tutte le ere geologiche precedenti nessun abitante del pianeta, dinosauri inclusi, è mai riuscito a “deforestare” il pianeta con la caparbia professionalità dei sapiens. Nessuno è mai riuscito ad inacidire le acque dell’oceano e riempirle di isole di plastica grandi come la Spagna. Nessuno ha disseminato rifiuti più o meno tossici che hanno avvelenato le falde acquifere e non solo. Nessuno ha infettato l’atmosfera con diossina, polveri sottili ed altre amene sostanze (inclusa o esclusa secondo credenze varie la CO2) che, oltre a procurare l’indesiderato effetto serra, stanno annientando la salute dei poco sapiens. Nessuno ha mai diffuso radiazioni come avvenuto a Three Mile Island (Stati Uniti 1979), a Chernobyl (Russia-Ucraina 1986) e Fukushima (Giappone 2011). Nessun abitante della terra ha gettato bombe nucleari sui propri simili accettando poi di vivere sotto la costante minaccia radioattiva. Nessun abitante del pianeta, inclusi sempre i dinosauri, ha mai abusato delle risorse del pianeta fino a consumarne molte di più di quelle che la Terra è in grado di rigenerare. Nel 2022 l’Earth Overshoot Day è stato il 28 luglio, nel 1972, primo anno in cui si è superata la capacità del pianeta di rigenerare le risorse estratte nello stesso lasso tempo, è stato il 10 dicembre (fonte www.overshootday.org dove potete trovare anche altri interessanti dati sull’impronta ecologica). Dai 21 giorni di “overshoot” siamo passati ai 156 attuali, con la previsione di arrivare a un consumo di risorse doppio rispetto a quelle prodotte dal pianeta entro il 2050. Nessun abitante del pianeta è mai stato così idiota da rendere arido il proprio territorio, con pesticidi e fertilizanti, per procurarsi più cibo e finendo così per averne meno.

Per nascondere la semplice verità dell’impossibilità di realizzare una crescita infinita in un pianeta finito, il mercatismo ha inventato, oltre al mito negazionista, altre due favole, che in realtà rappresentano la stessa allegoria: lo “Sviluppo Sostenibile” e il “Great Reset”. Queste “buone novelle” servono per occultare la triste realtà rappresentata dall’incompatibilità che il sistema economico neoliberista, o mercatista, sviluppa nei confronti della possibilità di trasmettere alle generazioni future un mondo vivibile. La terza guerra mondiale, promossa a più livelli dagli Stati Uniti, sarebbe, da sola, sufficiente a realizzare la minaccia. Il sistema della crescita infinita, con il suo sempre maggiore bisogno di risorse, di energia di maggiore produzione, finisce per generare sempre più “entropia” risultando così “antagonista” alla sopravvivenza e al “ben vivir” del genere umano. Per nascondere questo semplice assioma i diversi regimi hanno avuto l’esigenza di concentrare sempre di più potere politico ed economico. Per farlo hanno trasformato i sistemi distribuiti, come potevano essere internet e l’approvvigionamento di energia da fonti rinnovabili, in ulteriori strutture di controllo.

La rete è ormai controllata da cinque mega aziende in grado di gestire e manipolare dati come nessun servizio segreto si sia mai neanche sognato di poter fare. Le fonti rinnovabili sono state attaccate in tutti i modi per poter essere privatizzate. L’acqua è prossima ad esserlo in tutto il mondo, mentre più complesso è il cammino che sta conducendo all’appropriazione del sole e del vento. Energia solare ed eolica sfuggono facilmente alla centralizzazione per la loro naturale propensione ad essere distribuite localmente. Motivo questo che ha indotto al sostanziale boicottaggio di queste fonti, come ampiamente dimostrato dalle assurde misure intraprese dall’Europa, prima con l’inserimento nella tassonomia green di nucleare e gas e poi, una volta entrati in guerra con la Russia, con il recupero del carbone e del GNL (Gas Naturale Liquefatto) con i suoi pericolosi e costosi rigassificatori.

Rispetto ad una così palese contraddizione, appare demenziale l’atteggiamento di quella parte del dissenso politico che, per paura di un utilizzo distorto dell’emergenza ambientale, si schiera con il folle negazionismo trumpiano, alimentando così quella concentrazione di potere e di controllo da cui vorrebbe sfuggire. Negare l’emergenza ambientale per paura che questa possa essere usata per ulteriori restrizioni alla libertà individuale è paradossale, è la solita metafora dell’uomo che si taglia il pene per far dispetto alla moglie. Perdere un’occasione così ghiotta di poter combattere il nemico mercatista, rendendo manifesta la sostanziale convergenza tra Sviluppo Sostenibile, Great Reset e Negazionismo, svela, ancor meglio degli altri antagonismi, come il dissenso destrorso, sovranista, discriminatorio e verticista, sia totalmente inadatto a produrre una proposta politica realmente alternativa all’attuale regime.

Infine, la guerra, l’ultimo degli antagonismi presi in esame, risulta lo strumento preferito dal capitalismo, dal liberismo e dal mercatismo per risolvere i conflitti, esterni e interni, e le crisi economiche. La guerra viene creata per compattare il fronte interno contro un unico nemico esterno in modo da tacitare ogni forma di dissenso per far fronte alla più grande delle emergenze. La Novax-fobia e la Russo-fobia, entrambe frutto di guerre (contro il virus e contro Putin) fortemente cercate, sono state gestite in questo senso, cercando di sopire l’opposizione e imporre il pensiero unico. Inoltre, la guerra tende a concentrare le risorse economiche sulla “difesa”, distraendole da quei settori (istruzione e sanità su tutte) che producono servizi per la cittadinanza ma scarsi profitti per le aziende.

La guerra va combattuta pertanto in ogni sua forma, fare dei distinguo, tra Stati Uniti, Russia di Putin, Arabia Saudita o Israele, significa solo prendere le parti di un imperialismo invece di un altro. In questo modo si finisce per riconoscere come ammissibile l’utilizzo di uno strumento, totalitario o post- democratico che sia, di oppressione delle fasce più povere della popolazione, le uniche a pagare realmente le conseguenze della guerra. Una proposta politica di sinistra non può essere altro che pacifista.

Quindi, se l’alleanza generalizzata al primo livello di lotta, quello difensivo, può portare frutti è ormai chiaro che, al secondo e al terzo livello, bisogna procedere secondo logiche politiche differenti per poter strutturare un’organizzazione e una proposta politica in grado di trasformare il dissenso in una forza costruttiva duratura.

 

Se non riusciamo ad uscire dal tunnel almeno arrediamolo

Una volta stabilito che la strada che conduce fuori dal tunnel svolta verso sinistra, occorre trovare quei punti di riferimento che disegnino un percorso comune intorno al quale unire il dissenso maturato e strutturare una proposta politica alternativa. In sostanza bisogna scegliere l’arredamento che consenta di sopravvivere nel tunnel in cui il popolo italiano è stato rinchiuso con il pretesto della “fine della storia”. Alla luce del “golpe bianco” di luglio vanno fatte due considerazioni preliminari. Le elezioni del 25 settembre prossimo non possono essere considerate un banco di prova attendibile, in quanto sono venuti a mancare i tempi necessari a compattare le forze antisistema in una coalizione che potesse agire, se non altro, al primo livello di lotta.

La base popolare che ha alimentato il dissenso non ha avuto neanche il tempo di conoscersi e di rivendicare la propria sovranità sulle formazioni politiche nascenti. Figuriamoci se questo breve periodo poteva risultare idoneo a strutturare il secondo livello e la sua proposta politica. Tenendo presente che la XIX legislatura, quella determinata dalle elezioni del 25 settembre, durerà, tra un governo del Presidente, uno della Nato e magari anche uno della maggioranza di Centrodestra, almeno fino al 2026, i tempi per articolare movimento di base e proposta politica in vista della prossima opportunità elettorale sono più che sufficienti. Inoltre, la partecipazione alle elezioni costituisce solo uno stadio del terzo livello, quello dell’infiltrazione nel parlamento, insieme alle altre istituzioni, che rimane secondario rispetto alla strutturazione del movimento e al suo radicamento nel territorio.

Inoltre, occorre prendere atto che cambiare il sistema neoliberista o mercatista dall’interno è oggettivamente impossibile. L’esempio del M5S è esaustivo in merito, partito lancia in resta con democrazia diretta e nessun compromesso o alleanza, è finito per farsi assimilare dalla Lega, dal PD e infine dall’Agenda Draghi in un escalation di compromessi, utilizzo di opachi mezzi digitali e relativa perdita di consensi. Il regime post-democratico è un sistema collaudato ed efficiente e riesce a digerire qualsiasi forma di opposizione rappresentativa. Opposizione che ha speranza di resistere solo nel caso sia strettamente vincolata al movimento di base radicato sul territorio.

Solo in questo modo la piattaforma popolare può esercitare un controllo sui propri rappresentanti che, al primo accenno di compravendita dello scranno o di abbandono delle direttive della base, verrebbero immediatamente disconosciuti. In sostanza la logica del terzo livello di lotta si può definire in pochi punti cardine: nessuna alleanza e nessun compromesso al fine di governare il paese con l’attuale assetto istituzionale, sistema che non consente alcuna riforma sostanziale; svolgere i classici compiti di opposizione atti a limitare i danni dei provvedimenti governativi in materia di soppressione dei diritti, soprattutto quello del lavoro, appropriazione dei beni comuni, limitazione della libertà, discriminazioni, etc.; realizzare una rete di controinformazione atta ad accrescere la coscienza popolare in merito alle contraddizioni e quindi agli antagonismi insanabili del regime vigente.

La seconda premessa riguarda l’analisi dei risultati. In ogni circostanza è sempre l’esito finale a decretare il buono o cattivo funzionamento della strategia adottata. La gestione italiana della pandemia, ad esempio, è stata fallimentare alla luce dei risultati ottenuti: uno dei tassi di mortalità più alti al mondo a fronte delle maggiori restrizioni e di una delle più capillari campagne vaccinali. Stesso dicasi per la guerra in cui crimini di guerra e morti sono saliti in maniera direttamente proporzionale all’invio di armi in Ucraina. I tempi si sono allungati a dismisura e le sanzioni hanno causato inflazione incalzante, stagnazione economica, chiusura di aziende, etc.

In politica il discorso non cambia: se una strategia di lotta fallisce miseramente bisogna attuarne un’altra. Il M5S risulta, come al solito, una esperienza illuminante. Nel momento stesso in cui i consensi sono cominciati a crescere il vertice del Movimento ha imposto la “svolta a destra” prima con l’apparentamento con Farange al Parlamento europeo, poi con la caccia al migrante “rubalavoro” e appartenente alla classe media. La democrazia diretta è stata rinchiusa in una poco trasparente piattaforma digitale che sanciva sempre le scelte preconfezionate del vertice. Questa politica ha condotto il movimento nelle braccia di Lega e PD e al tracollo dei consensi.

Quindi quando una proposta politica inizia a mostrare i suoi lati deboli, va immediatamente corretta per ristabilire gli intenti iniziali. Se la proposta è realmente antagonista al mercatismo non è certo stringendo alleanze con la Lega e con il PD che si possono ottenere risultati accettabili. Una volta compresa l’impossibilità di cambiare alcunché operando all’interno del sistema istituzionale, il M5S ne sarebbe dovuto uscire rapidamente riprendendo la sua attività di opposizione, senza rimanere intrappolato nel tedioso quanto inutile tentativo di mettere le “toppe” per coprire le voragini create dai propri errori.

In tal senso sorprende un po’ la tenacia con cui le forze politiche antisistema, molti giuristi e filosofi di alto profilo, tra i quali emerge sicuramente il prof. Ugo Mattei, sostengono che la costituzione italiana contiene già tutti i principi necessari a condurci fuori dal tunnel. Secondo questa tesi è lo scempio della Costituzione perpetrato dal Governo Draghi ad aver consentito la sospensione dei diritti umani, civili e sociali, diritti questi la cui tutela è già espressa dalla Carta. Di contro la solita pletora di giuristi al servizio, molto ben retribuito, del regime certifica il buon operato del governo Draghi, in merito ai provvedimenti adottati, e della Corte Costituzionale presieduta dal Dottor Sottile per la mancata sospensione dei più discutibili e per la cancellazione di fatto dello strumento referendario. Secondo gli esperti la correttezza di quello che a prima vista sembra una totale cancellazione dei diritti fondanti della Costituzione, sarebbe dovuta all’esercizio di “bilanciamenti” previsti dalla stessa Costituzione (i famosi “pesi e contrappesi” che i regimi post-democratici utilizzano per giustificare gli abusi di potere).

Ora, alla luce dei risultati delle politiche draghiane, questa diatriba giuridica, appare alquanto sterile. Infatti, risulta evidente che la nostra Carta non sia riuscita in alcun modo a salvaguardare i diritti della cittadinanza, a cominciare da quello al Lavoro, su cui la Repubblica pretende di essere fondata. I diritti sono stati sospesi e, la struttura che lo ha permesso è rimasta in piedi, pronta a rientrare in funzione, anche dopo il loro progressivo ripristino. Nonostante il “ripudio” della guerra la nostra Costituzione è stato lo strumento che ha consentito l’invio delle armi in Ucraina, l’adozione di autolesionistiche sanzioni e la fidelizzazione a quell’Organizzazione guerrafondaia e imperialista che è la Nato.

Quindi, più che unire il dissenso sotto la bandiera vilipesa della nostra Costituzione, sarebbe meglio utilizzare allo scopo i valori da essa espressi, procedendo a una totale riscrittura della Carta Costituzionale che sia fondata sui punti cardine di una nuova proposta politica. La definizione di questi punti dovrebbe scaturire da una nuova Costituente formata dalle sezioni locali del Movimento operante al secondo livello di lotta. Solo attraverso una definizione partecipata di base, mediante un processo oggi chiamato a “piramide inversa” o “a inversione di potere”, chiaramente ispirato al municipalismo di Murray Bookchin, si può arrivare alla formulazione delle linee guida di un programma politico a breve, medio e lungo termine in grado di sanare gli antagonismi creati dal mercatismo e di compattare il dissenso di “sinistra”.

Quella che segue è una lista di massima di questi punti, una sorta di interazione tra i valori storici della sinistra, l’attuale contesto sociale e l’intento di superare gli antagonismi generati dal mercatismo.

  1. La democrazia rappresentativa ha ormai palesato la sua incapacità di generare un processo realmente democratico nonché la sua naturale predisposizione a costituire un interesse particolare che si struttura in oligarchia. Tale processo è stato definito post-democrazia e rappresenta la miglior espressione politica che il mercatismo sia mai riuscito a produrre per perseguire i propri scopi. È irreversibile, si autoalimenta concentrando sempre più nelle mani di pochi il potere politico e quello economico. Promuove le disuguaglianze, le discriminazioni, le coercizioni, i conflitti anche bellici, l’inquinamento e il depauperamento delle risorse. Visti i risultati raggiunti l’unica soluzione alternativa è costituito dall’eliminazione della rappresentanza in favore di una democrazia diretta e partecipata. In Italia ad esempio si potrebbero costituire mille municipalità da circa sessantamila individui l’una. Sul numero la discussione è ampia, la maggior parte dei sostenitori della democrazia diretta tendono ad abbassare quanto più possibile il numero, ma la sostanza cambia poco. La gestione amministrativa è interamente demandata all’assemblea partecipata della municipalità.

    Alle accuse di utopia, di sovraccarico di responsabilità della popolazione, di inefficienza operativa del sistema rispondono in maniera esaustiva gli esperimenti di bilancio partecipato realizzati a Porto Alegre nel primo decennio del nuovo millennio. Esperienze, queste, che hanno portato oltre 250mila persone alle assemblee partecipate. Ogni assemblea elegge uno o due rappresentanti per i consigli superiori: città metropolitana, regionale, nazionale, continentale, mondiale. I rappresentanti operano sotto stretto vincolo di mandato e possono essere rimossi in ogni momento per volere dell’assemblea municipale. Il modello è ispirato a quello di democrazia diretta di Murray Bookchin, realizzato dal popolo curdo con il Confederalismo Democratico.

    Solo con un sistema democratico che consenta di recuperare la sovranità delle comunità locali è possibile superare gli antagonismi creati dal perseguimento di un interesse particolare. Quella della comunità locale è l’unica sovranità realmente popolare e l’unica in grado di tutelare l’interesse comune, in quanto è la sola a non poter mantenere caratteristiche nazionali e razziali. Disuguaglianze, discriminazioni, coercizioni, conflitti, ed emergenza ambientale sono tutti figli dello sconvolgimento dell’interesse comune, che può essere recuperato solo con la partecipazione diretta del popolo alle scelte politiche.

  2. Radicale trasformazione del sistema economico, fondata sulla riduzione della produzione materiale in favore di quella immateriale. Eliminazione del profitto (plus valore per i veteromarxisti) come strumento di creazione di ricchezza. Riappropriazione dei beni comuni e affidamento della loro gestione alle municipalità. Trasformazione della proprietà privata. In tal senso l’economista Thomas Picketty ha ideato un sistema fiscale realmente progressivo in grado di trasformare la proprietà privata in proprietà temporanea.

    Tale sistema non è però sufficiente a determinare il conferimento dei beni comuni alle comunità locali. Piketty infatti non vuole rinunciare alla “crescita”, motivo che lo induce a tassare i grandi patrimoni personali lasciando sostanzialmente indenni le aziende. Fattore questo che finisce per favorire ulteriormente le grandi imprese a discapito degli artigiani. In Italia la quasi totalità dell’evasione fiscale e della concentrazione di capitali passa per i colossi societari, ivi incluse le vecchie Cooperative Rosse, trasformate in SpA. Il nuovo sistema fiscale proposto deve quindi attenzionare, oltre ai grandi patrimoni personali, anche le grandi aziende, in modo da rendere poco conveniente per loro, ai fini dell’accumulazione infinita di capitali, l’accaparramento dei beni comuni e dei servizi pubblici. Il sistema fiscale deve anche incentivare la produzione e la distribuzione locale, l’artigianato, scoraggiando i trasporti e tutte le attività inquinanti, in modo da arginare il più possibile l’antagonismo relativo alla questione ambientale.

    In sostanza il nuovo sistema economico, coadiuvato da un adeguato sistema fiscale, deve interagire con quello politico per promuovere l’uguaglianza, la libertà reale di tutta la comunità, il lavoro, smantellando l’organizzazione verticistica della produzione vigente che limita le possibilità di espressione della creatività in favore della accumulazione della ricchezza.

  3. In merito alle relazioni internazionali e alla “politica estera” è fondamentale seguire la tradizione internazionalista e antimilitarista che contraddistingue la sinistra radicale. Questo comporta necessariamente l’adozione di alcuni concetti che hanno conseguenze e ripercussioni su tematiche diverse e vanno a incidere su quasi tutti gli antagonismi mercatisti. Primo tra tutti i provvedimenti da adottare nel più breve tempo possibile, risulta essere l’uscita dalla Nato e la proclamazione dello stato di neutralità che promuova l’uscita da quello di colonia statunitense. Diverso il discorso in merito alla Comunità Europea. Chi, infatti, cerca di promuovere la sovranità popolare delle comunità locali, ha poco interesse al riconoscimento di una sovranità nazionale, portatrice di interessi particolari simili o diversi che siano da quelli dell’istituzione continentale. Nel periodo, presumibilmente lungo, di transizione dal regime attuale a uno di democrazia diretta e partecipata risulta inutile spingere per l’uscita dall’Europa e dall’Euro perché e in questa sede che si possono trovare alleati per portare a livello internazionale la lotta. Meglio quindi attivare il terzo livello di lotta con l’infiltrazione nell’istituzione europea.

    Nel programma a medio e lungo termine è facile prevedere un incompatibilità tra il nuovo sistema politico ed economico e un’Europa governata da Nato, BCE, FMI e Banca Mondiale su mandato delle grandi concentrazioni di capitale. Il tempo a disposizione, però, consentirà alleanze internazionali intorno al municipalismo sulla cui base costituire una Comunità Europea alternativa.

    La prima delle conseguenze inevitabili dell’uscita dalla Nato sarebbe quella del disarmo totale e unilaterale. Proclamarsi pacifisti e mantenere in vita una forza e un arsenale militare non ha senso, così come ne è privo il grande dispendio di energie e risorse che ne consegue. La dismissione dell’apparato militare ha effetti estremamente benefici su attività di interesse comune. La conversione del personale, dei mezzi e delle attrezzature a scopi di protezione civile consentirebbe il miglioramento del monitoraggio, della manutenzione, della prevenzione e del pronto intervento sul territorio. Il decentramento a livello municipale di queste attività e la confederazione delle unità locali in caso di gravi calamità naturali, consentirebbero di salvare vite umane e risparmiare risorse naturali ed economiche. Il surplus finanziario derivante dalla conversione potrebbe essere restituito ai servizi maggiormente penalizzati dal mercatismo, come la sanità e l’istruzione.

    Infine, a livello internazionale vanno, già a breve tempo, sostenute tutte quelle iniziative atte a frenare il fenomeno emigratorio, abbandonando le politiche neocolonialiste e sostenendo i processi di integrazione (non di assimilazione) di tutti coloro che nel frattempo continueranno ad avere l’esigenza di fuggire dalla propria comunità.

    Neutralità, disarmo, rete capillare di protezione civile e politiche migratorie sono presupposti fondamentali per il superamento degli antagonismi mercatisti in materia di discriminazioni, disuguaglianze, emergenza ambientale e conflitti bellici.

  4. Nel suo perseguire l’interesse particolare per mezzo della crescita e dell’accumulazione infinita di capitali, il mercatismo ha lavorato alacremente per sopire la coscienza popolare e condizionare l’opinione pubblica. Per rendere quanto più efficiente possibile tale processo ha operato su due fronti diversi: ha impoverito tutte le fonti pluraliste del sapere, lasciando spazio solo allo sviluppo di mezzi e contenuti atti a produrre una cultura altra, quella del Grande Nulla, fondata sull’apparire, sull’immagine e sulla creazione di falsi miti da inseguire nell’illusoria aspettativa di poterli raggiungere. Approfittando dell’impoverimento culturale popolare, il mercatismo ha instaurato la tecnocrazia dell’«esperto», l’unico fantoccio autorizzato ad esprimere un parere in merito alla specifica materia in cui è stato “titolato”. L’intero popolo deve adeguarsi alla Verità imposta dal pensiero unico espresso per mezzo di burattini “esperti”. In caso contrario, anche in presenza di precedenti titoli acquisiti, chiunque pretenda di avere un pensiero critico verrà immediatamente tacciato di ignoranza, complottismo e terrapiattismo.

    Ovviamente il diploma da esperto può essere rilasciato solo dall’establishment previo attento esame del grado di fedeltà al sistema garantito dal candidato. Una volta acquisito l’attestato, l’esperto ottiene l’accesso a benefit quali la popolarità, lauti compensi, agiatezza assicurata a vita e accesso al sistema delle “porte girevoli” che consente facilmente il passaggio da incarichi politici a quelli istituzionali e amministrativi di alto livello. Anche se il conflitto di interesse è manifesto, il sistema dell’esperto ha permesso al Mercatismo la creazione di quel pensiero unico che, tra complici e vittime, ha chiuso sotto una cortina di nebbia lo spirito critico di una larga fetta della popolazione.

    Anche la scienza, come si è potuto vedere durante la pandemia, è stata fatta oggetto della stessa manipolazione. Fondata sul confronto continuo di tesi, esperimenti e risultati diversi, sulla verifica e la correzione degli errori commessi, la ricerca scientifica è stata ridotta a dogma religioso. Una Verità assoluta prestabilita politicamente è stata assunta come postulato e certificata da uno stuolo di “esperti” in palese conflitto di interesse. Tutti gli scienziati, i medici, i ricercatori e gli operatori che, nel processo scientifico di verifica della Verità precostituita, hanno osato sollevare quei dubbi che costituiscono la differenza tra scienza e dogma, sono stati mandati al rogo dalla Santa Inquisizione mediatica, sospesi dai loro incarichi, radiati dai loro albi e lasciati senza stipendio.

    Quindi è indispensabile, sin dal brevissimo termine, attrezzare per il ripristino del pluralismo culturale la rete di primo, così come quella di secondo e terzo livello di lotta. Le due reti devono collaborare strettamente per la diffusione di una cultura alternativa; per fornire una controinformazione capillare e radicata sul territorio; organizzarsi localmente per sopperire alle carenze sempre più gravi dell’istruzione scolastica con corsi di formazione alternativa; per sostenere la ricerca scientifica alternativa e la diffusione dei dati.

    A lungo termine le linee guide sono piuttosto semplici: A) pluralismo culturale con incentivazione di ogni forma di produzione immateriale, artistica e culturale, con la sola limitazione dei mezzi digitali in favore di una comunicazione partecipata. B) Gli strumenti informatici si prestano invece al ripristino del pluralismo dell’informazione, svincolando quest’ultima dal conflitto di interesse implicito nella proprietà editoriale, nella gestione politica, e nel ricatto pubblicitario. C) Radicale riforma dell’istruzione con una gestione locale autonoma, tendente al ripristino di una formazione umanistica generale ampia in grado di sviluppare coscienza e spirito critico. La preparazione tecnica specializzata sarà procrastinata all’ingresso nel mondo del lavoro con opportuni corsi di formazione. La scuola non può essere trasformata in un bacino di risorse umane lobotomizzate ad uso e consumo delle aziende. La scuola, in quanto bene comune, deve produrre una cittadinanza culturalmente indipendente, dotata di spirito critico e di un metodo di apprendimento che le consenta di formarsi e informarsi autonomamente. D) I livelli superiori di istruzione e di ricerca culturale e scientifica dovranno essere strutturati a livello confederale mediante l’adesione di tutte le municipalità che intendono partecipare. E) Al fine di mantenere le caratteristiche distribuite, l’istruzione e la ricerca, culturale e scientifica, vanno considerate bene comune inalienabile, motivo per cui dovranno essere di pertinenza delle assemblee municipali, trasparenti ed esenti da qualsiasi forma di brevetto.

    Cultura, informazione, istruzione e ricerca sono tematiche fondamentali per lo sviluppo della coscienza, senza un loro radicale cambiamento il risanamento degli antagonismi mercatisti resterà sempre un miraggio irraggiungibile.

  5. La sanità appare in questa lista di punti esclusivamente come naturale conseguenza della delirante gestione pandemica. La sanità non ha alcuna possibilità di sanare o di intervenire in materia di antagonismo mercatista, è solo il settore che più di ogni altro ne subisce le conseguenze. La pandemia ha ben evidenziato questa criticità portando tutti i paesi in cui la cura dei malati è stata privatizzata ai vertici della diffusione del virus e del numero dei decessi; complice anche la dipendenza farmacologica dalle grandi aziende che ha innescato la vaccinazione compulsiva con un farmaco sperimentale dimostratosi poi completamente inefficace. In Italia la sanità è in corso di privatizzazione, è già stata “aziendalizzata”, il che rende praticamente impossibile accedere alla diagnostica pubblica. La regione che maggiormente ha subito le conseguenze della pandemia, non a caso, è stata quella che ha raggiunto il livello di privatizzazione più alto, la Lombardia. Il settore sanitario interagisce poi anche con gli altri antagonismi. Più alto è il reddito più elevate sono le possibilità di guarire, e questo vale a tutti i livelli da quello personale a quello internazionale. Per mezzo della scienza dogmatica, con i suoi brevetti e l’esclusione di qualsiasi forma alternativa di cura, l’Occidente sta imponendo al mondo intero anche le modalità della malattia (rileggere Nemesi Medica di Ivan Illich edito da Red!, nonostante sia stato scritto nel 1974 aiuta la comprensione di questo complesso processo). In questo modo disuguaglianze, coercizione del dissenso e discriminazioni interagiscono anche con l’imposizione di un sistema sanitario ormai privatizzato a livello globale, soprattutto dal punto di vista farmacologico. Quindi, a corto, medio e lungo termine l’obiettivo rimane sempre lo stesso, riappropriarsi del settore sanitario in quanto bene comune.

    Ai fini del risanamento degli antagonismi mercatisti va rilevata la stretta relazione che intercorre tra la salute della comunità e la questione ambientale. La Commissione Europea sulla salute rilevava, ancora nel rapporto 2021, come le principali cause di morte fossero da attribuire al consumo di alcol (15%) e al consumo di tabacco (14%). Secondo la Commissione, infatti, a questi due fattori possono essere addebitate buona parte delle origini delle malattie cardiovascolari e dei tumori, che costituiscono la prima e la seconda causa di morte. Peccato, però, che il consumo di alcol è in calo progressivo dalla prima metà degli anni ’70 e quello di tabacco dal decennio seguente. I tumori sono in crescita esponenziale e quindi, se il legame fosse così stretto, si dovrebbe assistere invece a un proporzionale calo. Va tenuto presente, infatti, che il tumore con il periodo più lungo di incubazione, massimo quarant’anni, è il mesotelioma pleurico, la cui origine, però, è dovuta esclusivamente al contatto con l’amianto.

    La Commissione non menziona tra le cause di morte l’inquinamento, che invece determina, secondo la Commissione Europea Ambiente, circa 800mila decessi l’anno. Ora si sa che la scienza dogmatica è soggetta a queste incongruenze dovute ai diversi interessi particolari che condizionano gli studi delle varie Commissioni. La logica vuole, però, che l’aumento esponenziale dei tumori abbia un rapporto proporzionale con l’unico altro fattore che registra uno sviluppo simile, l’inquinamento. Questione ambientale e sanità camminano quindi insieme, riducendo la prima si ottengono ottimi risultati anche nell’esercizio della seconda. Decentrando alle comunità locali la gestione di entrambe la loro efficienza migliorerebbe e la loro interazione potrebbe essere svincolata da quell’interesse particolare che ne rende impossibile il risanamento.

  6. Il più impellente e il più grave degli antagonismi mercatisti è sicuramente quello che determina l’emergenza ambientale. Dietro la truffa dello Sviluppo Sostenibile e del Great Reset si nasconde il bisogno impellente di cambiare realmente direzione. La realizzazione del nuovo sistema politico e di quello economico, che implicitamente costituiscono una soluzione all’antagonismo, richiede tempi lunghi. Tempi che, molto probabilmente, non sono compatibili con la sopravvivenza del genere umano e di Gaia, almeno come la conosciamo noi. Sarebbe sufficiente la III guerra mondiale, ardentemente cercata dall’Occidente, per condurre a una rapida quanto definitiva soluzione dell’antagonismo. In assenza di avvenimenti catastrofici la situazione non è comunque rassicurante, con i ritmi attuali è già impossibile rigenerare le risorse utilizzate dall’uomo negli ultimi ottant’anni anche interrompendo immediatamente la loro estrazione e il loro consumo.

    Diventa, quindi, necessario sin da subito e su tutti e tre i livelli di lotta intraprendere quelle iniziative necessarie a frenare le conseguenze nefande della doppia azione propagandistica del negazionismo e dello Sviluppo sostenibile. Entrambi i modelli fanno ormai affidamento su una pletora di associazioni, organizzazioni, gruppi di ricerca scientifica che, combattendosi tra loro, finiscono per rendere plausibile qualsiasi Verità Unica, atta a promuovere l’interesse particolare vigente. “Nonostante dagli anni ‘80 in poi lo sviluppo sostenibile sia entrato nei testi e nelle dichiarazioni di principio di governi, imprese e organismi internazionali, la situazione è addirittura peggiorata rispetto al passato. Lo sviluppo sostenibile appare esclusivamente terreno di cattura cognitiva del modello liberista. La governance utilizza la potenziale minaccia della catastrofe ambientale come acceleratore della funzione di accumulazione attraverso una gigantesca operazione di green washing costruita soprattutto grazie al controllo della maggior parte dei media e all’incapacità dell’attuale classe dirigente politica. Il mercato e la sua duttilità saranno in grado di salvarci dalla crisi ecologica: questo il messaggio mandato dalla governance a un’opinione pubblica spaventata dalla morsa della crisi ambientale ed economica. Non possono esistere politiche di sostenibilità che vadano contro i dogmi e le libertà dei mercati. … Lo studio di Agyeman [JSI – Just Sustainability Index] ha dato risultati interessanti e a volte inaspettati, capovolgendo l’immagine di grandi organizzazioni ambientaliste. Nella tabella stilata nel 2004 su un campione di 30 realtà, quasi un terzo ha riscontrato un indice di giusta sostenibilità pari a 0. Tra le organizzazioni che hanno mostrato un punteggio tra lo 0 e 1, ignorando l’obiettivo dell’equità sociale e della giustizia ambientale. Vi sono realtà importanti dell’ambientalismo come il WWF e Greenpeace. Al contrario, organizzazioni come il World Watch Institute, la fondazione Heinrich Böll, il Tellus Institute di Stoccolma e l’Earth Council hanno un indice pari a 3, avendo soddisfatto coerentemente i principi della giusta sostenibilità”. (Giuseppe De Marzo - Per amore della Terra – Castelvecchi – 2018).

    Certo il successo ottenuto dal negazionismo all’interno del movimento di dissenso non aiuta sicuramente a trovare soluzioni per una strategia a breve termine contro il degrado ambientale. Non agevola neanche il trattare la questione ambientale come secondaria rispetto ad altre emergenze. Infine, l’esasperazione critica delle quotidiane azioni di green washing, non supportate da un altrettanto veemente esame della tragica realtà che vi si nasconde dietro, sicuramente non stimola la formulazione di una proposta politica adeguata al pericolo.

    Eppure la soluzione sarebbe semplice, o meglio le linee guida sarebbero semplici da seguire e, soprattutto sono già tracciate. Quello che diventa difficile è il dover combattere su due fronti, il primo costituito da quello interno, rappresentato dal disconoscimento dell’emergenza ambientale da parte di quei dissidenti che hanno paura di subire ulteriori limitazioni in nome dei cambiamenti climatici. L’altro fronte è rappresentato dall’establishment mercatista che, destreggiandosi tra Sviluppo sostenibile e negazionismo, riesce a eludere tutte le soluzione reali alle molteplici emergenze ambientali. Queste linee sono molto ben descritte nel libro sopracitato di Giuseppe De Marzo che ha fatto, per usare le parole di Marco Revelli nella postfazione, un “lavoro necessario ... che viene a riempire un vuoto nell’affollatissimo dibattito sulla crisi che stiamo attraversando e sul «che fare» per affrontarla e tentare di uscirne.” Per ovvi motivi di spazio è impossibile riportare nel dettaglio le soluzioni presentate da De Marzo, che si rifanno ai principi della Giustizia Ambientale formulati nel 1991 in occasione del Primo Summit Nazionale della Popolazione di Colore per il controllo dell’Ambiente. Concetti questi successivamente sviluppati con i 27 Principi della Giustizia Climatica di Bali adottati nel 2002 dalle associazioni presenti al meeting. In sostanza si parla della necessità di riconoscere la Natura, in quanto ambiente, come figura giuridica e come tale ammetterne i diritti. L’inserimento dei diritti della natura nel Carte costituzionali nazionali e in quelle internazionali da sola non basta, infatti, come si è visto tra pandemia e guerra, l’interesse particolare centralizzato è perfettamente in grado di manipolare a proprio favore qualsiasi norma. Pertanto la tutela di tali diritti deve essere necessariamente legata ad un sistema politico ed economico distribuito e focalizzato sulle comunità locali, le uniche in grado di definire “un nuovo paradigma”, quello della “giusta sostenibilità”. Sostenibilità, questa, che nulla ha a che fare con quella economica delle aziende e degli Stati e soprattutto con la mercificazione di quella ambientale, pratica che lo Sviluppo sostenibile e le sue propaggini somministrano come placebo per curare la crisi ambientale da loro creata.

  7. Molti altri temi andrebbero sviluppati, a cominciare dall’amministrazione della giustizia, strumento di coercizione che il potere utilizza contro il dissenso, mascherandolo dietro un’inconsistente separazione dei poteri. Quelli illustrati sono solo gli argomenti più urgenti e soprattutto sono quelli che fanno emergere in modo palese le contraddizioni e gli antagonismi che il mercatismo ha reso manifesti con la gestione della pandemia e il “ripudio” della pace. Su questi è, quindi, più facile lavorare per lo sviluppo di una coscienza collettiva.

 

Lasciamo accesa la luce alla fine del tunnel

L’organizzazione della lotta su tre livelli diversi è fondamentale per coltivare la speranza di vedere, prima o poi, la fine del tunnel. Eliminando anche solo uno dei fronti di lotta, l’azione verrebbe indebolita e i tempi si allungherebbero a dismisura. Dire No, senza innescare contemporaneamente un processo costruttivo, come accaduto in occasione della pandemia e della guerra, significa puntare ad ottenere solo un riconoscimento parziale, un “contentino” momentaneo, atto a sedare i bollenti spiriti, sino alla prossima occasione.

Il secondo livello, quello della strutturazione di una forza politica radicata nel territorio con le proprie sezioni, le proprie associazioni sindacali, amministrata dalle assemblee municipali e promotrice di tutte quelle iniziative (assistenza alla cittadinanza, controinformazione, gestione e promozione dell’interesse comune anche con servizi pubblici autogestiti e la riappropriazione dei beni comuni, etc.) idonee a sviluppare la coscienza comune, risulta sicuramente il più importante per tentare di uscire dal tunnel. Intraprendere questo progetto senza promuovere anche il primo livello di lotta, finirebbe per penalizzare gravemente l’«arredo del tunnel»: il radicamento del dissenso sul territorio o lo sviluppo della coscienza sociale. Infine senza il terzo livello, cioè l’infiltrazione nelle istituzioni, la struttura politica, anche se solidamente ideologizzata, perderebbe moltissimo in termini di visibilità e di controllo sulla rappresentanza, che continuerebbe a legiferare a favore dell’interesse particolare senza neanche il disturbo di un’opposizione reale interna al sistema. Il risultato sarebbe un allungamento dei tempi di permanenza nel tunnel.

Per far si che la luce alla fine del tunnel non si spenga, togliendo quel punto di riferimento che indica l’uscita, la lotta si deve concentrare su due elementi principali: 1) l’individuazione del nemico reale da combattere; 2) la formulazione di quella proposta politica alternativa e ideologizzata, sopra illustrata, in grado di compattare una larga fetta della cittadinanza (migranti inclusi) intorno a valori condivisi. Solo così il dissenso può assumere quelle caratteristiche che gli consentano di durare il tempo necessario a trovare l’uscita dal tunnel. Il primo fattore è semplice, il nemico è il mercatismo o neoliberismo che dir si voglia, il che rende facile aggregare gente intorno al primo livello di lotta. Il secondo è sicuramente più complesso e soprattutto risente dell’assenza operativa del terzo livello, l’infiltrazione nelle istituzioni, sia a livello sindacale sia a livello parlamentare. La maggior parte dei “dissidenti”, infatti, non partecipa alla farsa elettorale e tende a non iscriversi ad alcun sindacato. Trovare motivazioni e stimoli all’inversione di rotta è un’impresa estremamente ardua, prova ne è il fatto che la partecipazione è in costante calo sia alle elezioni politiche sia a quelle amministrative, con la conseguenza che il “Partito dell’Astensione” risulta il vincitore assoluto di qualsiasi tornata elettorale. In realtà proprio questa condizione potrebbe “indurre in tentazione” per due ottime ragioni. La prima è la possibilità di incidere pesantemente sul risultato elettorale se una larga fetta del dissenso astensionista si indirizzasse su un’unica forza politica. La seconda è un processo per detrazione: non votare non serve a nulla, anche qualora si arrivasse a percentuali irrisorie del 20% la rappresentanza eletta sarebbe legittimata a governare l’intero popolo italiano.

L’obiezione più comune addotta dalla sinistra radicale all’utilità di partecipare alle tornate elettorale è l’impossibilità di cambiare il sistema dall’interno. Puntualmente, ogni qual volta, un partito antagonista entra in parlamento viene assorbito dai giochi della “realpolitik”, i suoi parlamentari si vendono al miglior offerente e la base viene puntualmente tradita. Il M5S è solo l’ultimo, anche se forse il più eclatante, esempio in merito. Il problema in questo caso è però dovuto al fatto che il partito in questione rappresenta solo una copia sbiadita delle forze post-democratiche, non è radicato sul territorio ed è completamente deideologizzato. La base degli iscritti è sempre stata piuttosto esigua, ha operato, come è giusto che sia, con modalità di volontariato, ma non ha avuto alcun potere decisionale reale. Potere che è sempre rimasto centralizzato mediante una gestione digitale a dir poco discutibile e facilmente manipolabile. In circostanze come queste, una volta assimilato il vertice della piramide disgregarne la base è un compito elementare. Nel caso del M5S la scissione tra Luigi Di Maio, acquistato da un non ben definito “Centro”, e Giuseppe Conte ha costituito la definitiva morte di un movimento di dissenso post-ideologico “né di destra né di sinistra”, la cui base non è più in grado neanche di divergere dalle scelte governative più dissennate, dal green pass all’invio di armi.

La struttura politica ipotizzata per il secondo livello, non andrebbe incontro a questo tipo di problematica. La solidità ideologica, il radicamento sul territorio e i processi decisionali assembleari decentrati e partecipati nelle sezioni, permettono, infatti, di stabilire dei rapporti di dipendenza tra la rappresentanza, da infiltrare nei diversi consigli e giunte, e la base assembleare che la ha eletta. Il disconoscimento dell’attività parlamentare da parte delle sezioni di riferimento comporterebbe l’immediata espulsione dal partito. In caso di tradimento dell’intera rappresentanza nazionale, come nel caso del M5S, verrebbe ritirato il nome dato al partito che si presenterebbe alla tornata elettorale successiva con una rappresentanza completamente diversa.

Chiaramente allo stato attuale la situazione non è così semplice. I tempi imposti dal “golpe bianco” di luglio non hanno permesso alcuna strutturazione valida di secondo livello, mentre quelle di primo si sono già scontrate contro il classico “divisionismo” che caratterizza la politica radicale italiana. Il “puntinismo”, che caratterizzò il movimento artistico di fine ‘800 risulta essere una perfetta metafora della tela politica tessuta dalla sinistra radicale italiana. La partecipazione alla tornata elettorale rappresenta quindi grossi rischi di vedere la rappresentanza antisistema eletta assimilata dal PUM (Partito Unico Mercatista). Pericolo questo che, però, richiederebbe per divenire reale un forte impegno da parte dell’establishment, che si tradurrebbe almeno in un contenimento della soppressione dei diritti umani, civili e sociali, perpetrata durante la pandemia, e della partecipazione alla guerra.

Vale comunque la pena tentare, tenendo presente che Italia Sovrana e Popolare, Italexit, Vita e Unione Popolare sono riuscite nella non facile impresa di raccogliere le firme. Ci sono, così, quattro espressioni del dissenso anche molto diverse tra loro, che offrono ampia possibilità di scelta nell’ambito della mai sopita dicotomia destra/sinistra. Esprimere quindi la propria posizione antagonista all’Agenda Draghi e alle sue imitazioni, lungi dal risolvere gli antagonismi e i problemi connessi, serve comunque a rallentarne il percorso, rimarcando l’ampiezza del dissenso nei confronti della guerra e della gestione pandemica. Non votare, così come votare qualsiasi espressione del PUM, significa solo avvallare le scelte passate, pandemiche, belliche ed economiche, e istigare quelle del tutto simili che verranno adottate in futuro.

Nell’attesa della successiva tornata elettorale e nella speranza che il movimento di base sia meglio strutturato, va comunque ricordato che solo la partecipazione alla farsa della democrazia rappresentativa consente di svolgere una serie di attività indispensabili all’allargamento dell’area di dissenso nei confronti del mercatismo. La prima è sicuramente la raccolta di informazioni dirette sull’operato delle forze politiche di regime, che contribuirebbero non poco a rafforzare la rete di controinformazione. In secondo luogo la partecipazione alla pagliacciata parlamentare potrebbe consentire piccole conquiste che faciliterebbero il compito di cambiare sistema, come il ritorno al proporzionale senza sbarramenti e l’imposizione del vincolo di mandato proprio della democrazia indiretta.

L’idea di partecipare alla vita politica nei regimi democratici non è nuova e trova la sua base ideologica nell’organizzazione su due livelli della struttura politica anarchica teorizzata da Errico Malatesta e utilizzata come compromesso per consolidare l’alleanza con l’anarco-sindacalismo. Nel dopoguerra la stessa idea fu ripresa dallo “specifismo” sudamericano, allo scopo di meglio radicarsi nel territorio. In tutti questi casi il fine rimase sempre lo stesso e resta anche attualmente l’unica via per “uscire dal tunnel”. Per dirla con John Holloway, sociologo e filosofo marxista legato al movimento zapatista, si tratta di “cambiare il mondo senza prendere il potere”.


*Geppi Cucciari

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